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    Vegan-washing: cos’è e come non cadere nella trappola

    In principio era il greenwashing, un fenomeno che nel tempo è stato declinato in varie categorie. Una delle principali è il vegan washing, strategia aziendale mirata a mostrare, attraverso prodotti e processi, il rispetto del veganismo, continuando in realtà a far prevalere le consuete pratiche di sfruttamento animale. Insomma, la strumentalizzazione di importanti principi etici, l’artificiosa dissonanza tra ciò che si dice e ciò che si fa.

    Gli obiettivi di business
    Attuare un piano che vada incontro, almeno all’apparenza, alle esigenze di vegetariani e vegani consente alle imprese di raggiungere vari obiettivi. Anzitutto migliorare la propria immagine tra i consumatori più attenti ai diritti degli animali e alla sostenibilità ambientale.
    Poi divulgare le proprie pratiche attraverso i report sulla responsabilità sociale di impresa, come fossero una sorta di autoregolamentazione mirata a evitare l’approvazione di norme più severe.

    Infine, appropriarsi di una nuova quota di mercato per ricavarne profitti. Tanto più che tale segmento ha registrato una crescita significativa negli ultimi anni: in Italia, per esempio, le vendite di alimenti vegetali nei supermercati e discount hanno raggiunto i 641 milioni di euro nel 2023, con un incremento del 16% rispetto al 2021.

    Dal Philadelphia alla Nutella
    Numerose le aziende che hanno abbracciato il veganismo. Le grandi catene di fast food hanno ampliato i loro menù introducendo alternative vegane ai loro panini più popolari. Burger King ha, per esempio, lanciato il Whopper plant-based, anche se non sono mancate le polemiche visto che questi burger risultano cotti sulla stessa griglia di quelli di carne e conditi con maionese tradizionale, a base di uova.

    Nel comparto dei dolci e dei gelati, nel 2024 Ferrero ha lanciato la Nutella plant-based con il caratteristico coperchio verde, nella quale il latte è stato sostituito con ceci e sciroppo di riso. In precedenza Unilever aveva proposto il Magnum vegan in due varianti, classico e mandorle, mentre Nestlé aveva introdotto il KitKat V, versione vegana del famoso snack al cioccolato, ritirata dal mercato nel febbraio 2025. E, ancora, nel 2023 è approdato sugli scaffali Philadelphia vegan, a base di mandorle e avena. Nello stesso anno è stato lanciato il ragù Mutti 100% vegetale, con piselli gialli.

    “Molti dei nuovi prodotti, per conquistare il maggior numero di consumatori, fanno appello anche alla sostenibilità, vantando imballaggi riciclati, riutilizzazione di materiali, ingredienti naturali, e alla salute, dichiarando di essere privi di glutine, lattosio, colesterolo, grassi saturi”, commenta Tiago Sigahi, professore all’Università di San Paolo, in Brasile.

    Benessere degli animali
    Nel 2020 lui e i suoi colleghi hanno pubblicato uno studio significativo su questi temi, nel quale sottolineano l’incoerenza di alcune aziende internazionali, che formalmente si dichiarano attente al benessere degli animali. Tra queste Coca-Cola, che ha sponsorizzato il rodeo in Nord America e la gara di cani in Alaska. Ma anche Kellogg’s e Kraft Heinz che esternalizzano i test sugli animali quando la pratica è richiesta da organismi governativi. E ancora Starbucks, il cui titolare a Hong Kong è stato accusato di vendere piatti con pinne di squalo, anche se nel mondo un quarto di questi predatori è a rischio di estinzione. Stando a ciò che dimostra il docente, irregolarità sono state commesse anche da Nestlè, McDonald’s, Unilever.

    Un dibattito tra vegani
    La questione del vegan-washing sta generando un ampio dibattito sia tra i ricercatori sia all’interno della comunità vegana, che vede contrapporsi due fazioni: i radicali e i moderati. I primi sostengono la totale liberazione degli animali e ritengono che il boicottaggio delle aziende sia un’arma importante per segnalare che non saranno disposti a tollerare tentativi di manipolazione e manifestazioni di ipocrisia. I secondi sono, invece, più disponibili ad accogliere alcuni compromessi.

    Per esempio, secondo Jérémy Dubois, co-fondatore dell’associazione Mission Sentience, ogni offerta vegana è da accettare, dato che il consumo di cibo è limitato dalla sazietà. “Ogni bistecca vegetale acquistata è una bistecca animale in meno, perché le persone non ne mangiano due contemporaneamente”, sottolinea.

    Laurent, attivista alsaziano impegnato in azioni sul campo, punta sul pragmatismo e osserva: “Naturalmente dietro a questi prodotti c’è il capitalismo, ma penso che dobbiamo usare il sistema così com’è, a nostro vantaggio. Tutto ciò che i grandi gruppi vogliono è realizzare profitti e gli impianti per la produzione vegana occuperanno quote di mercato. Di conseguenza, la quota di prodotti di origine animale sarà ridotta e moriranno meno animali”. LEGGI TUTTO

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    Allarme degli scienziati Usa: i combustibili fossili ci stanno uccidendo

    Due lunghe liste: da un parte quella dei danni causati dai combustibili fossili, dall’altra quella dei benefici che potremmo trarre abbandonandoli definitivamente. Per un bilancio decisamente a favore dei secondi. A compilare queste liste, sulla base dell’enorme mole di evidenze scientifiche ormai accumulata nel campo, è un gruppo di scienziati, esperti a vario titolo di ambiente e giustizia ambientale, autori di un appello per la definitiva messa al bando dei combustibili, ospitato sulle pagine di Oxford Open Climate Change.

    Il documento infatti non presenta “novità” in termini scientifici. Non ce n’è ormai più bisogno, ammettono gli scienziati: la crisi climatica è sotto gli occhi di tutti e non è opinabile attribuirne gran parte delle cause all’uso dei combustibili fossili. Lo stesso dicasi per gli impatti sulla salute degli stravolgimenti ambientali correlati alle emissioni e dell’inquinamento generati dai combustibili: malattie respiratorie, tumori, nascite premature e morti da disastri ambientali sono solo la punta dell’iceberg. Tutto questo, scrivono Shaye Wolf del Center for Biological Diversity di Oakland e colleghi, è ben documentato e i danni quantificati. Quello cui indirizzano lo sguardo gli esperti stavolta, prendendo spunto proprio da questi dati, ormai impossibili da ignorare, è piuttosto la possibilità di andare oltre.

    Così, accanto a ogni aspetto problematico relativo alla crisi climatica in atto, i ricercatori propongono una serie di “soluzioni” per superarle e avvicinarsi il più rapidamente possibile al superamento di un’economia e di uno sviluppo basati sui combustibili fossili.

    Biodiversità

    Quali rischi dalle “miniere” nell’oceano profondo? Per la scienza “impatti anche dopo decadi”

    di Giacomo Talignani

    28 Marzo 2025

    Qualche esempio. Posto che la soluzione passepartout sarebbe, ovviamente, l’abbandono dei combustibili fossili, ne esistono altre specifiche e più alla portata per ognuna delle problematiche elencate dai ricercatori. Relativamente alle minacce per la salute presentate da impianti di estrazione di combustibili fossili, i ricercatori annoverano tra gli interventi più efficaci la creazione di zone cuscinetto a protezione di case, scuole o qualsiasi altro luogo assiduamente frequentato da persone. A questo, continuano, andrebbero abbinate intense attività di monitoraggio ambientale, anche per gli impianti ormai in disuso. Contro gli effetti della crisi climatica sulla perdita di habitat e specie, i ricercatori si appellano all’adozione di una serie di provvedimenti – il riferimento normativo è soprattutto agli Usa – per la conservazione e protezione di ambienti marini e terrestri.

    Contro l’inquinamento da plastica invece la soluzione più efficace, non c’è dubbio per gli esperti, è evitare di immetterne di nuova nel mercato, e quindi nell’ambiente. Evitare di produrla, investendo nello sviluppo e nell’adozione di alternative più sostenibili deve essere una priorità, auspicabilmente regolamentata da un trattato globale, libero da conflitti di interessi. La valutazione delle alternative alla plastica deve essere però scrupolosa: il riferimento è all’impiego della bioplastica, troppo spesso non così biodegradabile e non così pulita e sostenibile come creduto, se si analizzano a fondo gli impatti ambientali della sua produzione, ricordano gli autori.

    Riscaldamento globale

    Eventi estremi e bolle di calore, così la crisi del clima sconvolge la vita di milioni di persone

    di Giacomo Talignani

    19 Marzo 2025

    Infine, l’appello dei ricercatori è a un’informazione corretta e libera dalla disinformazione perpetrata dall’industria fossile. E ancora: la stessa industria, anche grazie alle evidenze che arrivano dalla ricerca scientifica, deve essere richiamata, sempre di più, a contribuire ai danni prodotti su ambiente e salute dal proprio mercato, scrivono gli esperti.

    “La scienza non potrebbe essere più chiara nel mostrare come i combustibili fossili ci stanno uccidendo – ha commentato Wolf – Petrolio, gas e carbone continueranno a condannarci a più morti, estinzioni di animali selvatici ed disastri meteorologici estremi, a meno che non rendiamo gli sporchi combustibili fossili un ricordo del passato”. LEGGI TUTTO

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    Nasce allo stadio dell’Udinese la prima Comunità energetica rinnovabile nel calcio italiano

    La nascita di “Energia in Campo” rappresenta l’evoluzione naturale del progetto del parco solare installato sulla copertura del Bluenergy Stadium. L’impianto fotovoltaico, composto da 2.409 pannelli solari di ultima generazione, produce annualmente 1,1 MWh di energia pulita (ed evita l’emissione di 450 tonnellate di CO2 l’anno). Circa il 70% di questa energia viene utilizzata per soddisfare il fabbisogno energetico dello stadio, mentre il restante 30% viene messo a disposizione della comunità energetica.

    Alberta Gervasio, Amministratore Delegato di Bluenergy Group, ha sottolineato come questa iniziativa rappresenti “una naturale evoluzione del fotovoltaico, per usare l’energia che non sarebbe stata consumata dall’impianto”, evidenziando “l’attenzione al territorio e la responsabilità di restituire qualcosa”. LEGGI TUTTO

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    Il trasporto via nave responsabile del 3% delle emissioni globali di CO2

    Per il settore marittimo bisogna disporre una roadmap realistica che minimizzi i rischi per gli investitori e fornisca soluzioni economicamente efficienti per l’intera industria. E’ quanto sostengono Eni, Fincantieri e Rina, che hanno illustrato uno studio per accelerare il percorso di decarbonizzazione del settore del trasporto marittimo in linea con il target al 2050 di Net Zero. Alla luce dell’analisi, il settore marittimo è responsabile di circa il 3% delle emissioni globali di CO2 e punta a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Lo studio, presentato alla presenza del ministro per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, si inserisce nel contesto dell’accordo siglato nel marzo del 2024 da Eni, Fincantieri e Rina per sviluppare un Osservatorio globale sulle prospettive di evoluzione delle soluzioni di decarbonizzazione sostenibili nel medio-lungo periodo.

    Dal rapporto è emerso che attualmente, il settore marittimo dipende prevalentemente dai combustibili tradizionali che costituiscono il 93% del consumo complessivo. L’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050 sta generando un cambiamento significativo nell’industria, con una crescente adozione di diverse fonti di propulsione. Già nel 2023, circa il 50% degli ordini di nuove navi è stato indirizzato verso combustibili alternativi, con una tendenza verso una maggiore sostenibilità. I porti stanno iniziando a rispondere a queste nuove esigenze, sviluppando infrastrutture per supportare diverse opzioni tecnologiche e di combustibili.

    L’analisi offre per la prima volta una panoramica globale delle opzioni percorribili per ciascun segmento di naviglio nelle diverse regioni del mondo e combina una valutazione dei volumi con un’analisi integrata dei costi per gli armatori e degli investimenti che il comparto logistico e portuale richiede. I vettori energetici in grado di ridurre, nel breve termine, le emissioni di CO2 sono principalmente il gas naturale liquefatto e i biofuel come HVO e FAME. Nel lungo termine poi, anche grazie all’ingresso di BioGNL e Biometanolo, i biocarburanti continueranno ad essere la soluzione prevalente del segmento mercantile.

    Sul tema, il ministro Pichetto è chiaro: ”Per il trasporto marittimo non ci sono soluzioni facili o automatiche. Non possiamo elettrificare, quindi dobbiamo affrontare la questione con una base scientifica certa e solida. Abbiamo la necessità di ridurre le emissioni e decarbonizzare, certamente i biocarburanti sono importanti per arrivare in futuro all’idrogeno, che si sta sviluppando velocemente”. Un valido supporto può arrivare dal nucleare, ” che può essere un percorso rilevante per il trasporto marittimo”, sottolinea il ministro che assicura pieno appoggio del governo. Per quanto riguarda i porti ci sarà poi da rivedere il sistema degli Ets, su cui Pichetto ha già fatto pressioni in Ue alla vicepresidente Teresa Ribera: “Il Mediterraneo è un unico mare – sintetizza il ministro – se una nave si ferma a Gioia Tauro non può pagare il 50% in più, mentre se va a Tangeri non lo paga”. Su questo punto, assicura Pichetto, “la vicepresidente Ribera ha dato disponibilità per fare un approfondimento”.

    Da parte loro, Eni, Fincantieri e Rina proseguono l’azione congiunta, con una sinergia ritenuta fondamentale per trasformare l’innovazione in soluzioni concrete. “Come sostenuto anche a livello comunitario – sottolinea Giuseppe Ricci, direttore operativo Trasformazione Industriale di Eni – è ormai condiviso che i biocarburanti, in particolare quelli già disponibili e utilizzabili in purezza come l’HVO, sono attualmente tra le migliori soluzioni adottabili per ridurre le emissioni GHG anche del comparto marittimo”. Secondo Pierroberto Folgiero, amministratore delegato e direttore generale di Fincantieri, la decarbonizzazione del trasporto marittimo “è una sfida che richiede visione industriale e capacità di trasformare l’innovazione in soluzioni concrete. Questo studio rappresenta un passo strategico in questa direzione”.

    Fincantieri, inoltre, con l’obiettivo Nave Net Zero al 2035, punta ad anticipare il futuro, guidando il cambiamento e integrando tecnologia e sostenibilità per garantire competitività. Secondo Carlo Luzzatto, amministratore delegato e direttore generale di Rina, “il trasferimento di competenze è un fattore chiave per accelerare la transizione energetica. La nostra capacità di mettere a fattor comune know-how ed esperienze maturate in settori diversi – come l’energia e il navale, che presidiamo da tempo – ci permette di sviluppare soluzioni efficaci per la decarbonizzazione”. LEGGI TUTTO

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    Coltiviamo l’olivo da 3mila 700 anni

    Il primo olio in Italia è stato prodotto quasi quattromila anni fa in Sicilia a partire da piante selvatiche. Testimonianze ancestrali di quella che oggi chiamiamo coltivazione dell’albero dell’olivo risalgono a 3.700 anni fa, nel pieno dell’età del Bronzo. Poi, verso il 1200 a.C. l’albero svanisce per quasi nove secoli per essere recuperato solo nel […] LEGGI TUTTO

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    Bonus per i Gruppi di autoconsumo e le Comunità energetiche rinnovabili: costi e benefici

    C’è ancora tempo per presentare al GSE la domanda per gli incentivi per i Gruppi di autoconsumo e per le Comunità energetiche. È stato infatti spostato dal 31 marzo al 30 novembre il termine ultimo per richiedere il contributo del 40% per l’installazione degli impianti a servizio dei Gruppi o delle CER nei comuni con meno di 5.000 abitanti. Gli impianti dovranno comunque essere in attività entro il 30 giugno 2026.
    Nuovi impianti e potenziamenti
    Il bando, finanziato con i fondi del PNRR, mette a disposizione 2,2 miliardi di euro per la concessione di contributi a fondo perduto pari al 40% dei costi per impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili e inseriti in configurazioni di Comunità energetiche rinnovabili (CER) o di Gruppo di autoconsumatori che si trovino in Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti. L’incentivo punta a sostenere la realizzazione di una potenza complessiva pari almeno a 2 GW, ed una produzione indicativa di almeno 2.500 Gwh/anno. Prima dell’invio della richiesta di accesso al contributo PNRR, le CER e i Gruppi di autoconsumatori dovranno essere già stati costituiti. È possibile chiedere un anticipo del contributo per avviare i lavori.

    Come creare un Gruppo di autoconsumo
    Per costituire una CER occorre seguire un iter burocratico complesso. Per i Gruppi di autoconsumo, invece, è tutto molto più semplice: è sufficiente, infatti che ci sia un unico impianto al servizio di più utenze che si trovano all’interno dello stesso edificio. Si può costituire un Gruppo a livello condominiale o anche semplicemente in una villetta bifamiliare. Gli impianti fotovoltaici ammessi al contributo possono essere installati sull’edificio, presso altri siti nella disponibilità di uno o più clienti finali del Gruppo di autoconsumo, oppure si può utilizzare l’impianto di un produttore esterno. Il contributo a fondo perduto si può ottenere sia per gli impianti di nuova costruzione che in caso di potenziamento di impianto esistente. Dovrà avere comunque una potenza non superiore a 1 MW. È anche possibile installare sistemi di accumulo, in quanto l’incentivo finanzia l’energia condivisa e consumata da parte di chi si associa alla configurazione.

    La tariffa incentivante erogata dal GSE
    Una volta entrato in funzione l’impianto, infatti, il GSE pagherà una tariffa incentivante per ogni MWh prodotto e condiviso. Si tratta di un importo che varia in funzione della grandezza dell’impianto, e vai dai 60 euro per gli impianti più grandi agli 80 euro per quelli più piccoli, ossia fino ai 200kw. È prevista inoltre una maggiorazione di 4 euro nelle regioni del centro (Lazio, Marche, Toscana, Umbria, Abruzzo) e di 10 euro nelle regioni del nord (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta e Veneto). La tariffa incentivante verrà riconosciuta per 20 anni. All’importo va aggiunto l’ulteriore corrispettivo ARERA di valorizzazione per l’energia autoconsumata, il cui importo viene definito annualmente.

    L’incentivo è riconosciuto per intero in assenza del contributo PNNR, mentre per chi ha ottenuto le somme a fondo perduto per realizzare l’impianto l’importo è ridotto in proporzione.

    Come verificare costi e benefici
    Per verificare l’effettiva convenienza alla creazione del Gruppo di autoconsumo il GSE ha messo a disposizione un simulatore che consente la pianificazione degli interventi e l’analisi della loro convenienza economica sulla base delle caratteristiche dell’impianto, facendo riferimento a soluzioni che il GSE ha già incentivato. È sufficiente individuare l’indirizzo dell’edificio o del sito dove realizzare l’impianto o uno degli impianti e inserire i dati di consumo e la superficie degli immobili dei clienti finali che intendono associarsi. LEGGI TUTTO

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    Addio fossili, l’energia per le industrie si accumula con la sabbia

    Produrre calore sfruttando il potere di accumulo della sabbia, una materia prima facilmente reperibile. E’ ciò che fanno le batterie di sabbia brevettate dal gruppo Magaldi, azienda campana, che a breve si apprestano a poter essere sfruttate per uso industriale, fornendo una soluzione concreta per decarbonizzare i processi industriali termici. “In particolare le nostre batterie sono adatte per le imprese che utilizzano energia termica tra i 150 e i 400 gradi, come l’industria alimentare, quella della carta e del legno”, ci spiega Letizia Magaldi, vicepresidente sviluppo corporate e business dell’impresa guidata dal padre Mario in cui lavorano anche i suoi due fratelli, Raffaello e Paolo Magaldi. Ma facciamo un passo indietro. “Per spiegare il concetto partiamo dai castelli di sabbia che si fanno in spiaggia: se riempi il secchiello con la sabbia bagnata, quando lo rovesci la torre resta in piedi. Se invece la sabbia è asciutta scorre via come fosse acqua, ma è dotata di una sorprendente proprietà: quella di conservare il calore anche ad altissime temperature”. In questa fluidificazione della sabbia si trova l’innovazione della tecnologia messa a punto da Magaldi, azienda nata a Buccino (in provincia di Salerno) nel 1901, oggi con 250 dipendenti, metà dei quali ingegneri, con sedi negli Usa, in Messico, a Dubai e in India. Semplificato in ‘Batterie di sabbia’, il sistema di accumulo si chiama col nome tecnico MGTES, Magaldi Green Thermal Energy Storage, che dopo un periodo di test e una serie di prototipi, nel mese di maggio entrerà nella fase operativa presso lo stabilimento IGI che produce grassi e oli alimentari per la Ferrero, sempre a Buccino. “Siamo gli unici a utilizzare la sabbia silicea. Si tratta di uno dei materiali più comuni sulla Terra”.

    Prodotte da Magaldi Green Energy, startup del gruppo Magaldi (con 55 brevetti) nata nel 2021, le batterie innovative si basano sulla tecnologia del letto di sabbia fluidizzato che accumula e restituisce energia termica. Nella pratica, si tratta di una batteria di acciaio che contiene la sabbia riscaldata che permette di conservarne l’energia per giorni e per settimane. La scelta della sabbia non è stata casuale, ma punta a usare una materia prima disponibile in tutta Italia e non soggetta ai rischi legati alle catene di fornitura e alla scarsità di materiali.

    Magaldi, ci spiega il concetto della batteria di sabbia in parole semplici?
    “MGTES è un sistema per l’accumulo di energia termica ad alta temperatura basato su un letto di sabbia fluidizzata all’interno di un grande contenitore di acciaio. È un sistema power to heat: viene caricato con energia elettrica rinnovabile e rilascia energia termica ad alta temperatura su richiesta. È pertanto definibile come un accumulo di lunga durata. Può fornire energia termica tra 120-400°C a diversi tipi di industrie, come: food & beverage, carta, tessile, plastica, farmaceutica e prodotti chimici. Sostituisce completamente l’utilizzo di gas e combustibili fossili. E, allo stesso tempo, consente di affrontare l’intermittenza delle rinnovabili rappresentando, di fatto, uno strumento di stabilizzazione e bilanciamento per la rete elettrica”.

    Come funziona?
    “La sabbia, grazie al fotovoltaico, arriva a scaldarsi fino a 1000 gradi e funge da serbatoio di calore. Il minerale viene frantumato fino a rendere i granelli inferiori a 150 micron per fluidificare il sistema. La sabbia viene poi versata in un grande modulo metallico isolato, dove viene scaldata fino a 600. Il prototipo può contenere circa 40 tonnellate di sabbia, quello che entrerà in funzione a maggio ne contiene, invece, 70 che consentono una capacità di accumulo fino a 7,5 MWh termici. Quando serve l’energia, il calore accumulato viene rilasciato per alimentare processi industriali o per generare vapore. Il tutto a basso impatto ambientale, tanto che viene chiamato vapore verde, footprint zero. La temperatura prodotta varia, naturalmente, in relazione alla materia: la pasta della carta si raffina a 160-170 gradi, mentre il petrolchimico ha bisogno di vapore continuo a 350 gradi”.

    Quali sono i benefici?
    “Riduzione dei consumi di gas naturale di circa il 15%, con un risparmio di 550 tonnellate di anidride carbonica all’anno. Vogliamo affrontare così due grandi sfide: l’intermittenza delle fonti rinnovabili, sia solare che eolica, e l’ottimizzazione dell’uso dell’energia nei processi industriali”.

    Quando sarà operativo l’impianto di accumulo, e dove?
    “Dopo una serie di prototipi, a maggio entrerà in funzione l’impianto di accumulo su scala industriale, realizzato in collaborazione con Enel X e cofinanziato dall’Unione Europea, per lo stabilimento IGI che produce grassi e oli alimentari per la Ferrero, sempre a Buccino, in Campania”.

    L’idea nasce da un’intuizione di suo padre. Ci racconta com’è andata?
    “Mio padre – Mario Magaldi – prese spunto da un sistema per accumulare energia utilizzando blocchi di grafite, quella delle matite, che può raggiungere i 2500 gradi di temperatura. Tornato dall’Australia, decise di sperimentare la frammentazione della grafite e, nel 2015, la società vinse un primo bando utilizzando un sistema di specchi per mantenere il calore. Dopo anni di ricerca si è giunti alla batteria attuale, con sabbia silicea al posto della grafite e il fotovoltaico al posto degli specchi”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, l’educatore ambientale: “Dalla scuola si crea un mondo più sano e equo”

    Un po’ insegnante, un po’ naturalista. Pedagogo, esperto di scienze naturali e di ecologia, guida escursionistica e pure divulgatore. Niente è più attuale della figura dell’educatore ambientale. Nuova perché la materia Sviluppo Sostenibile è da poco entrata nei pro grammi scolastici di ogni ordine e grado, innovativa perché finalmente anche durante le ore di Educazione civica, da settembre 2024 si parla anche di rispetto della natura con la stessa dignità con cui viene spiegata ai ragazzi la Costituzione. Temi che prima erano lasciati alla discrezionalità e sensibilità dei singoli docenti oggi sono diventati obbligatori e termini come “sostenibilità”, “biodiversità”, “raccolta differenziata” e “spreco alimentare” anche per gli alunni più piccoli, sono oggi familiari. Perché, si sa, quando si parla di educare i bambini le parole contano quanto il buon esempio.

    “Il linguaggio è importante per spiegare qua li sono i comportamenti che fanno bene all’ambiente”, spiega Martina Alemanno, responsabile dell’Ufficio Educazione e Formazione per il Wwf Italia. In pratica, definisce la strategia educativa dell’organizzazione e ne coordina l’attuazione a livello nazionale. Un ruolo complesso, visto che si tratta di preparare studenti e insegnanti ad affrontare sfide future come il cambiamento climatico e la sostenibilità ambientale. Tanto per citarne un paio.
    “Educare è come piantare un seme”
    Tenendo anche in conto che ciò che bambini e ragazzi vedranno fare a scuola sarà riportato in famiglia. ”Per questo sono convinta che l’educazione ambientale è come piantare un piccolo seme. All’inizio, può sembrare una cosa da poco, ma con il tempo e le giuste cure può crescere e diventare forte” spiega ancora Alemanno. Bello, ma quanta responsabilità? ”Per fortuna, insegnanti e alunni hanno accolto questa novità con entusiasmo. Certo, ci sono ancora delle sfide da affrontare, come la mancanza di risorse e di supporto, ma la passione e l’impegno non mancano, e i risultati si vedono”, racconta la manager del Wwf che per far capire la professione dell’educatore ambientale porta l’esempio di quanto hanno realizzato i ragazzi di un liceo di Ceccano, in provincia di Frosinone.
    L’esempio dei ragazzi di Ceccano
    Un progetto nato e condotto a scuola durante le ore di Educazione ambientale e che poi ha vinto anche il Contest Urban Nature Wwf 2023-2024. Tema del lavoro dei ragazzi, l’importanza degli insetti impollinatori per l’ambiente. Prima, hanno chiesto al dirigente scolastico di evitare lo sfalcio delle erbe selvatiche in un angolo del cortile, per incrementare la presenza degli impollinatori, poi hanno avviato il loro studio. ”Questi ragazzi non solo hanno presentato un progetto ben strutturato, con interviste, azioni concrete intraprese, ma hanno anche continuato proponendo al Comune dove è ubicata la scuola di praticare lo sfalcio selettivo anche negli spazi verdi del territorio, richiesta tra l’altro accolta. Per noi è stato un grande successo, vedere ragazzi che diventano interlocutori attenti e propositivi con gli enti e U che praticano la cittadinanza attiva e consapevole”.
    “Mostrare le azioni positive”
    Insegnare dunque non basta, bisogna saper coinvolgere i ragazzi e i bambini. Perché niente come questa materia ha bisogno di una parte pratica: mostrare piccole azioni, come ad esempio evitare di sprecare l’acqua, non usare la plastica, fare la raccolta differenziata sono importanti. Ma c’è anche un altro aspetto: riuscire a trasmettere ai cittadini di domani valori come il rispetto per la natura, la solidarietà e la consapevolezza di quanto le proprie azioni sia impor tanti anche per la comunità. ”Ecco perché gli educatori ambientali devono possedere una solida preparazione sia scientifica che pedagogica – sottolinea Martina Alemanno – e non basta ancora, perché è fondamentale avere una profonda passione per l’ambiente e la sostenibilità, oltre la capacità di coinvolgere gli studenti. Per questo al Wwf orientiamo i nostri sistemi educativi su tre momenti interconnessi: insegnare la natura; l’educazione in natura e l’educazione attraverso la natura. L’obiettivo? Fornire a ognuno gli strumenti in grado di prende re decisioni consapevoli”.
    Come diventare educatore ambientale
    Per diventare educatore ambientale ci sono diverse strade: ci si può iscrivere alla facoltà di Scienze Ambientali o Agraria, oppure frequentare un master post laurea di Scienze ambientali. ”’importante, però, è non smettere mai di imparare. Soprattutto dai più giovani”. LEGGI TUTTO