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    Pesticidi e cambiamenti climatici: oltre 500 sostanze usate in agricoltura danneggiano gli insetti

    Cosa c’entrano i pesticidi con i cambiamenti climatici? Esiste un circolo vizioso tra le sostanze chimiche usate in agricoltura e l’aumento delle temperature: con il riscaldamento globale, causato anche dai pesticidi, aumentano i parassiti che a loro volta indeboliscono le colture. A quel punto, si richiede un maggiore uso dei pesticidi che però, si è scoperto, uccidono anche quegli insetti che invece sono importanti per la salute degli ecosistemi.

    La conferma arriva da un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science e guidato dal Laboratorio Europeo di Biologia Molecolare (Embl), la cui sede principale è ad Heidelberg, in Germania. I ricercatori hanno scoperto che oltre 500 sostanze comunemente utilizzate in agricoltura e ritenute fino adesso non dannose, tra le quali pesticidi, erbicidi ed altri agro chimici, risultano avere conseguenze sugli insetti. Anche se utilizzate in piccolissime quantità. E non c’è dubbio che gli effetti nocivi vengono esacerbati in caso di temperature più elevate, preannunciando quindi un futuro sempre più a rischio per questi animali così importanti per la salute degli ecosistemi.

    Viaggio a Terra Madre, in cerca di una nuova “bio-logica” per salvare la nostra agricoltura

    di  Giacomo Talignani

    30 Settembre 2024

    L’Istituto europeo di bioinformatica
    Le popolazioni di insetti sono in declino da diversi anni, con una diminuzione che si attesta in media sul 2-3% l’anno. Per cercare di capire le possibili cause di questo calo, i ricercatori guidati da Lautaro Gandara, docente e autore dello studio, hanno passato in rassegna oltre mille molecole di varietà di prodotti agro chimici contenute nella biblioteca chimica dell’Embl, l’istituto europeo di bioinformatica esponendo sistematicamente in laboratorio le larve di moscerino della frutta, provenienti da varie parti del mondo, ad ognuna di queste sostanze. I ricercatori ne hanno seguito il periodo di sviluppo, il comportamento e la sopravvivenza a lungo termine per tutta la durata del loro ciclo di vita, scoprendo che il 57% delle sostanze chimiche ritenute fino adesso non dannose, alterava significativamente il comportamento delle larve di moscerini della frutta, anche in piccolissime dosi. Non solo. Spiega ancora il professor Gandara: “I cambiamenti sono risultati ingigantiti quando abbiamo aumentato la temperatura di 4 gradi, un’idea nata dal fatto che le temperature globali sono in aumento e potrebbero influenzare il modo in cui i pesticidi influenzano le larve”.

    Biodiversità

    Clima, con un po’ di aiuto le farfalle tornano a prosperare

    di Simone Valesini

    13 Settembre 2024

    I test alzando le temperature
    Gli scienziati hanno iniziato alzato la temperatura prima di due gradi (da 25 C a 27 C). Quando non hanno visto molta differenza, hanno aumentato ulteriormente fino a 29 C, che è considerata rappresentativa del clima in cui si vive durante la stagione estiva in gran parte del mondo. A quel punto, l’impatto sulle piante è stato evidente. “Inoltre, abbiamo mescolato alcune delle sostanze chimiche più comunemente rilevate nell’aria, a dosi ecologicamente rilevanti, esponendo nuovamente i moscerini della frutta fin dalla loro prima schiusa. Abbiamo quindi visto un effetto molto più forte – ha affermato Justin Crocker, Embl Group Leader e autore senior del recente articolo scientifico – abbiamo osservato un calo del 60 per cento nei tassi di deposizione delle uova, prefigurando il declino della popolazione ma anche altri comportamenti alterati, come il piegamento più frequente, un comportamento raramente osservato nei gruppi non trattati”.

    Con il Green Deal l’Unione europea ha fissato l’obiettivo di dimezzare i pesticidi che per la verità sarebbero già diminuiti del 6%. Ma è stata chiesta una revisione, soprattutto dopo che sono stati resi noti i risultati delle nuove ricerche scientifiche condotte con test che tengono presente l’aumento delle temperature. LEGGI TUTTO

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    La classifica shock sull’impatto dei fornelli a gas: l’Italia è il Paese d’Europa dove ci sono più vittime

    L’Italia è il Paese dove le cucine a gas uccidono più persone in tutta Europa. Una affermazione forte, che l’European Public Health Alliance (EPHA) sostiene grazie alle cifre dettagliate di un nuovo studio sulle morti premature legate all’uso del gas ai fornelli: sono oltre 40mila in Europa le persone che muoiono in media ogni anno a causa dell’inquinamento da gas domestico e di queste 12.706 sono italiane.

    Si muore per malattie, soprattutto per sostanze inquinanti e gas nocivi collegati a malattie cardiache e polmonari e si muore, in percentuale, quasi il doppio rispetto agli incidenti automobilistici. In media una cucina a gas riduce di quasi due anni la vita di una persona e ovviamente questa riduzione avviene nei Paesi dove prevale ancora, fra i sistemi di cottura, quello a gas anziché l’elettrico a induzione: in Italia, così come in Polonia o Romania, la percentuale di famiglie che usano ancora i “vecchi” sistemi per cucinare è pari al 60%.

    Dati e cifre che dovrebbero farci riflettere, ma su cui c’è ancora pochissima consapevolezza dei pericoli. “La portata del problema è molto peggiore di quanto pensassimo” ha spiegato l’autrice principale dello studio, Juana María Delgado-Saborit, che dirige il laboratorio di ricerca sulla salute ambientale presso l’Università Jaume I in Spagna e che ha realizzato l’analisi, poi rilanciata da l’European Public Health Alliance, insieme a colleghi da tutto il mondo.

    La guida

    La cucina a induzione: come funziona e quali sono i vantaggi

    13 Novembre 2020

    Finora, le cifre delle vittime di malattie collegabili all’uso di fornelli a gas, secondo gli esperti sono state sottostimate: si considerava infatti solo l’effetto sulla salute del biossido di azoto e non di altri inquinanti estremamente pericolosi per la salute, come il monossido di carbonio e il benzene.

    Più in generale secondo i ricercatori le linee guida dell’OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) vengono regolarmente violate nelle case di almeno 14 Paesi europei “quando l’inquinamento di fondo si combina con i fumi delle cucine a gas durante l’uso normale”.

    Gli Stati più colpiti, si legge nello studio, sono Italia, Polonia, Romania, Francia e Regno Unito, dove appunto si cucina di più con il gas, ma da noi la percentuale di morti premature è quasi il doppio rispetto a quella per esempio dalla Polonia, secondo stato in classifica per vittime. “Le vite in Italia si accorciano, in media, di poco meno di un anno”.

    Inoltre, gli esperti sottolineano come l’inquinamento sia più grave laddove c’è scarsa ventilazione e nelle “sessioni di cottura prolungate”. La dottoressa Delgado-Saborit ricorda che “già nel 1978 scoperto che l’inquinamento da NO2 è numerose volte più alto nelle cucine che utilizzano fornelli a gas rispetto a quelle elettriche. Ma solo ora siamo in grado di quantificare il numero di morti prematuri. L’entità del problema è molto peggiore di quanto pensassimo, con i nostri modelli che suggeriscono che la casa media in metà Europa supera i limiti dell’OMS. L’inquinamento esterno crea la base per questi superamenti, ma sono i fornelli a gas a spingere le abitazioni nella zona di pericolo”.

    Non solo, se si considera l’impatto generale di gas, benzene, formaldeide e particolato, si stima che le cucine a gas probabilmente potrebbero causare “367.000 casi di asma infantile e 726.000 casi in tutte le fasce d’età in Europa ogni anno”. La stessa Nasa ha affermato che negli ultimi decenni “c’è stata una significativa diminuzione dell’inquinamento da NO2 nelle città europee grazie alle normative sulle emissioni dei veicoli e ai progressi tecnologici dei veicoli stessi. Tuttavia, l’inquinamento persistente continua a rappresentare uno dei maggiori contributori ai pericolosi livelli rilevati dallo studio”.

    Salute

    Con il fornello a gas si respirano da 10 a 100 volte più particelle rispetto a stare nel traffico

    di Paola Arosio

    24 Maggio 2024

    Per tentare di prevenire le morti, oltre che una necessaria spinta dell’elettrificazione e all’induzione, l’EPHA ricorda che servirebbero standard precisi per la qualità dell’aria indoor, standard che l’Ue oggi non ha. La stessa Ue però proporrà nuove norme per i fornelli a gas entro la fine dell’anno e sta valutando restrizioni per l’inquinamento, compreso quello da NO2. A tal proposito l’European Public Health Alliance sta sollecitando le Istituzioni europee” a eliminare gradualmente i fornelli a gas attraverso limiti alle emissioni abbinati a incentivi finanziari per passare a fornelli più puliti” e chiede anche etichette obbligatorie sui fornelli per segnalare i rischi di inquinamento e campagne di sensibilizzazione sui pericoli della combustione di carburanti in ambienti chiusi. Come ha spiegato Sara Bertucci, responsabile delle politiche globali di salute pubblica per l’EPHA, “per troppo tempo è stato facile ignorare i pericoli dei fornelli a gas. Come per le sigarette, la gente non pensava molto agli impatti sulla salute e, come le sigarette, i fornelli a gas sono un piccolo fuoco che riempie la nostra casa di inquinamento. I veri impatti sono probabilmente maggiori di quelli previsti in questo studio. Sapendo questo, i Governi dovrebbero prendere l’iniziativa per aiutarci a smettere di usare il gas, proprio come ci hanno aiutato a smettere di fumare”. LEGGI TUTTO

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    Come smaltire i tubetti di dentifricio (in attesa che diventino riciclabili)

    Quanti di noi sanno smaltire in modo corretto uno degli oggetti più usati per l’igiene personale? Il tubetto del dentifricio. Una delle più importanti aziende mondiali che produce il dentifricio ha iniziato nel 2019 una fase di transizione per rendere il tubetto completamente riciclabile in tutti i paesi del mondo dove distribuisce il suo prodotto, con l’obiettivo di raggiungere un risultato ottimale entro il 2025. Fino ad allora non in tutti i Paesi, una volta consumato il dentifricio e buttato nella plastica il tubetto, questa sarà riciclato. Per sapere se quello che state usando è riciclabile, basta cercare uno dei due simboli che reca la scritta HDPE2 o Recycle Tube. Infatti il tubetto HDPE sta per polietilene ad alta densità, una plastica ampiamente riciclata. Insieme al tubetto, anche il tappo (fatto di plastica PP polipropilene) va comunque buttato nell’apposito cassonetto per la plastica, perché tecnicamente sono riciclabili, ed il modo migliore per farlo è riavvitarli ai tubetti vuoti prima di gettarli; un gesto semplice che aiuta a ridurre la dispersione dei tappi.

    Ad Hong Kong per sensibilizzare questa buona pratica, l’azienda leader nella produzione di dentifrici ha lanciato una nuova iniziativa di riciclo chiamata “Small Act, Big Smiles”, che incoraggia i consumatori a ridurre i rifiuti di plastica. In che modo? Gli abitanti della metropoli asiatica possono depositare i tubetti usati, indipendentemente dalla marca, presso 180 negozi di una nota catena di Hong Kong che ha aderito a queste pregevole iniziativa. E non è ancora tutto, perché per spingere al cambiamento, a volte, c’è bisogno anche di un incentivo in più, meglio quando è anche di carattere economico. Infatti, chi acquista un tubetto di dentifricio riciclabile della marca che ha lanciato l’iniziativa, riceverà dei punti di accumulo presso il negozio, e chi restituisce il tubetto di dentifricio di qualsiasi brand per il riciclo, avrà anche un buono di 10 dollari di Hong Kong da spendere in prodotti per l’igiene personale.

    E’ evidente che dietro l’intento lodevole di incentivo al riciclo ci sia anche una pratica commerciale e di marketing, ma tanto chi non usa ogni giorno e più volte al giorno, il dentifricio per lavare i denti e mantenerli in salute? Ma il programma non si conclude con il riciclaggio, perché successivamente i tubetti raccolti saranno suddivisi in categorie riciclabili e non riciclabili: i primi saranno trasformati in nuovi prodotti, utilizzando la tecnologia di stampaggio a iniezione, mentre i non riciclabili verranno riutilizzati per creare materiali da costruzione, riducendo al minimo gli sprechi. E gli articoli da cancellare realizzati con i tubetti riciclati saranno poi donati a bambini svantaggiati, tramite la Hong Kong Young Dentist Federation.

    Insomma, un bell’esempio, ma tornando alle modalità con cui gettare correttamente il tubetto dopo averlo usato, possiamo dire che non è necessario tagliarlo per rimuovere eventuali residui di dentifricio, perché durante il processo di riciclaggio il tubetto viene triturato e sottoposto a un procedimento specifico di lavaggio per eliminare ciò che è rimasto all’interno. Altra informazione da conoscere è che il tubetto – come la plastica in generale – non è progettato per essere biodegradabile, quindi non si degrada nell’ambiente, se non dopo decenni e decenni. C’è da considerare, infatti, che in Italia ogni anno sono circa 44 milioni i tubetti di dentifricio che finiscono in discarica, un motivo in più per fare grande attenzione quando si butta via, anche perché alcuni tubetti potrebbero contenere anche parti in alluminio, per cui è buona regola conoscere anche le varie modalità di riciclo adottate da ogni singolo Comune per differenziare correttamente questi materiali. LEGGI TUTTO

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    “Come se non ci fosse un domani”, la verità sugli attivisti di Ultima Generazione in un docufilm

    Sono amati o odiati. Difficilmente, in tutti i casi, possono restare indifferenti. Gli attivisti di Ultima Generazione e le loro azioni, come i blocchi stradali, gli imbrattamenti dei palazzi istituzionali e di opere d’arte (ma sono anche presenti ad aiutare ovunque avvenga una catastrofe ambientale, dall’Emilia Romagna alla Toscana) stanno dividendo il Paese tra chi li condanna e chi comprende, e a volte condivide, il senso e le motivazioni delle loro proteste. Di certo stanno guadagnando sempre più l’attenzione mediatica che hanno cercato sin dalla loro nascita, circa due anni fa, come strumento per rilanciare una proposta di disobbedienza civile, pacifica e non violenta, contro una società “fossile”, colpevole di uccidere l’uomo e di compromettere gli ecosistemi naturali.

    Il movimento

    Chi sono e cosa vogliono gli attivisti di Ultima Generazione

    di Giacomo Mazzariol

    22 Aprile 2024

    Con lo sguardo “ad altezza d’uomo (e donna)” i due registi Riccardo Cremona e Matteo Keffer hanno realizzato il documentario “Come se non ci fosse un domani”, prodotto da Ottavia Virzì, e presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Il film racconta la storia del movimento impegnandosi a mantenere un approccio puramente di osservazione come il buon cinema del vero sa fare.

    “Ci siamo avvicinati a loro realizzando dei servizi giornalistici e consideravamo – spiega Riccardo Cremona – la loro azione molto interessante sotto il profilo mediatico, le loro proteste “bucavano lo schermo”. Ci interessava la maniera molto radicale con cui mettevano in atto le azioni di disobbedienza e abbiamo iniziato a seguirli con continuità a partire dall’inverno del ‘22 con la protesta a Bologna, per le vittime di Ischia, e poi con il blocco stradale al traforo del Monte Bianco. All’inizio i ragazzi ci guardavano con molta diffidenza. Eravamo dei giornalisti come tutti gli altri. Poi, nel corso dei mesi, hanno capito che il nostro era un approccio equilibrato e di lungo periodo.”

    D – Che idee vi eravate fatti dei ragazzi del movimento?
    “Non avevamo – continua Matteo Keffer – un’idea preconcetta di partenza. Certamente avevamo presente la tendenza a screditare le loro proteste con l’accusa di infantilismo. Abbiamo incontrato, invece, un movimento di ragazzi, tra i venti e i trent’anni, laureati o universitari, provenienti da tutto il Paese e di condizione sociale sostanzialmente non benestante, che sono profondamente impauriti dalla situazione climatica e ambientale ma al contempo animati da un forte coraggio che li sta portando a compromettere, forse per sempre, il loro futuro nella società e nel mondo del lavoro. Stanno accumulando denunce e provvedimenti ma, questi ragazzi, hanno preso la decisione di anteporre un ideale alla loro singolarità di esseri umani”.

    Per Ottavia Virzì l’incontro con il gruppo dei ragazzi di UG è stato ancora più spiazzante: “Forse per il fatto che ho un passato da attivista ambientale, avendo militato sin dal 2015 in diversi movimenti, sono rimasta sorpresa per l’unicità della loro azione e per la loro preparazione sui temi ecologici. È questo mix che mi ha emozionato”. LEGGI TUTTO

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    Nelle città più verdi il caldo miete meno vittime

    Il caldo eccessivo è un importante fattore di rischio sia per la salute ambientale che per la salute umana. Le ondate di calore estremo possono infatti contribuire ad aggravare le malattie cardiovascolari, il diabete, l’asma e possono anche avere un impatto deleterio sulla salute mentale. E in città tutti questi effetti sono amplificati dal fenomeno delle isole di calore. Ma c’è qualcosa che possiamo fare per mitigare le conseguenze negative che il caldo, specialmente quello cittadino, può avere sulla salute: rendere le città più verdi. Molti studi indicano infatti che nelle città caratterizzate da una maggiore presenza di verde urbano si vive meglio, e una review appena pubblicata su BMJ Open lo conferma. Le autrici dello studio hanno analizzato i risultati di 12 ricerche pubblicate fra il 2000 e il 2022, riguardanti appunto gli effetti che gli spazi verdi urbani hanno sulla salute umana. Tre di questi 12 studi sono stati effettuati negli stati Uniti, quattro in Australia, uno a Hong Kong, uno in Vietnam, uno in Corea del Sud, uno in Giappone e uno in Portogallo. Si tratta sia di studi computazionali, per i quali sono stati utilizzati modelli e simulazioni, che di studi epidemiologici e ricerche sperimentali.

    Longform

    Cosa sono le isole di calore e come cambia la vita in città

    di Dario D’Elia, Matteo Marini, Cristina Nadotti

    03 Luglio 2023

    Globalmente, dal lavoro di revisione è emerso che gli spazi verdi urbani, come per esempio i parchi, possono contribuire a compensare gli effetti negativi delle alte temperature sulla salute. Le aree urbane più verdi, infatti, sono risultate essere caratterizzate da tassi più bassi di malattie e decessi legati al caldo, in particolare tra i gruppi vulnerabili, come gli anziani e le persone con patologie cardiovascolari o altri problemi di salute. Inoltre, il verde urbano è risultato essere associato a una migliore salute mentale.

    In generale, è noto che le aree verdi e soprattutto gli alberi sono in grado di contrastare il calore urbano grazie alle zone di ombra che creano e anche grazie al processo di traspirazione. Attraverso le foglie, infatti, le piante tendono a reimmettere nell’ambiente, sotto forma di vapore, l’acqua assorbita dalle radici. In questo modo contribuiscono a mitigare le temperature circostanti. Inoltre, alberi e piante sono fondamentali per tenere a bada i livelli di anidride carbonica presente nell’atmosfera, che, essendo un gas serra, contribuisce al riscaldamento globale. Ma non solo. Da uno studio pubblicato nel 2023 su Nature Climate Change era anche emerso che le aree verdi urbane possono contribuire persino a ridurre a monte le emissioni di CO2, per esempio favorendo gli spostamenti a piedi o in bicicletta e riducendo di conseguenza il numero di auto in circolazione.

    “È importante notare che sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere appieno la portata dell’impatto del verde urbano sulla morbilità e la mortalità legate al caldo, e come questo interagisca con fattori come l’inquinamento atmosferico, lo stato socioeconomico e altri ancora”, si legge nelle ultime righe della review appena pubblicata. In ogni caso, concludono le autrici, “gli spazi verdi urbani svolgono un ruolo fondamentale nel mitigare i rischi per la salute legati al caldo, offrendo una potenziale strategia di pianificazione urbana per affrontare i cambiamenti climatici e migliorare la salute pubblica”. LEGGI TUTTO

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    Cosa piantare nell’orto a ottobre

    Che cosa offre la natura nel mese di ottobre? Entrati nel pieno della stagione autunnale, anche l’orto ha bisogno di essere organizzato ad hoc. In questo mese, infatti, bisognerebbe consumare frutta e verdura tipiche dell’autunno, evitando dunque tutto ciò che è cresciuto in serra o proveniente letteralmente dall’altra parte del mondo. L’acquisto di prodotti di stagione, così come la semina in sé, è una scelta etica e completamente sostenibile.

    Ottobre è un mese molto interessante dal punto di vista di semine e raccolte: l’orto si arricchisce di verdure a ciclo breve da raccogliere prima dei grandi freddi, ma fa il pieno anche di trapianti, tra cui spiccano il cavolo cappuccio, il cavolo broccolo, finocchi e lattughini.

    Orto a ottobre: cosa seminare e dove
    Ottobre è uno dei primi mesi in cui le temperature cominciano ad abbassarsi; questo comporta una leggera modifica all’orto, che a seconda della regione in cui ci si trova, adatterà la semina nei giusti spazi. Di solito, infatti, nel mese di ottobre la semina in pieno campo tende a diminuire, questo perché la maggior parte delle piantine non sopporta il freddo e le basse temperature. Tuttavia, se il clima di certe zone è ancora mite, questa semina, aggiunta a quella in aiuole, è fattibile, ma l’attenzione deve essere molta. In tutti gli altri casi, la soluzione migliore è seminare in semenzaio: attraverso questo metodo il calore riesce a fare germinare prima le piantine e le protegge dalle basse temperature notturne. Le piante da seminare nell’orto a ottobre sono di due tipi: le coltivazioni veloci a crescere e gli ortaggi che resistono al freddo.

    La prima categoria raccoglie la maggior parte delle insalate (lattuga, lattughino), spinaci e rapanelli, mentre la seconda chiama a sé cipolle, aglio, piselli e fave. Oltre a questi, tipici della semina di ottobre, si può puntare anche a: rucola, radicchio, scalogno, cime di rapa, cavolo verza e carote.

    Orto di ottobre: che cosa trapiantare
    A differenza della semina, il trapianto permette di mettere in pieno campo piante già formate. A ottobre, ad esempio, è possibile trapiantare i vari cavoli (cappuccio, broccolo, cavolfiore), le biete da coste, le cime di rapa, i finocchi e i porri invernali. Per svolgere i trapianti al meglio (ma anche le semine), è sempre molto importante seguire la rotazione colturale, assicurarsi che le temperature siano adatte e utilizzare sementi specifici.

    Cosa raccogliere nell’orto a ottobre: verdura e frutta
    Il mese di ottobre offre la possibilità di raccogliere ancora gli ultimi pomodori e il basilico, tanto amato nei mesi estivi e pronto in questo periodo alla fine del suo ciclo vegetativo. Inoltre, a ottobre comincia anche la raccolta delle olive, delle castagne, dei funghi, delle mandorle e delle nocciole che, anche se non c’entrano con l’orto e la semina, fanno parte a tutto tondo di questo ricco periodo annuale. Impossibile poi non citare la zucca, ortaggio fondamentale a ottobre.

    Anche la frutta è importante e ogni stagione ha la sua. Nel mese di ottobre la raccolta prevede: mele, pere e uva soprattutto (da ottobre, infatti, inizia anche la vendemmia). Durante questo periodo comincia la raccolta anche di cachi e di kiwi, perfetti per l’autunno.

    Orto a ottobre: consigli utili per la semina e la coltivazione
    La buona riuscita di un orto dipende anche e soprattutto dalla cura che gli si dona. Per questo, quindi, prima di conoscere ogni singolo dettaglio sulle verdure da piantare e su quale ortaggio sia meglio per ottobre e quale per settembre o dicembre, è importante conoscere gli step da seguire per un orto perfetto e in salute. Intanto, l’orto necessita del sole per almeno sette ore al giorno, quindi si cerchi il più possibile di evitare zone d’ombra sotto grandi alberi. La disposizione è importante anche per le piante che si semineranno: quelle con una crescita verticale non andrebbero poste vicino a una fonte luminosa, poiché, crescendo, andrebbero a fare ombra a quelle più basse. Anche l’idratazione è fondamentale: un orto per essere sano deve essere irrigato, specie in estate. Poi viene la concimazione, utile a favorire il lavoro dei microrganismi presenti naturalmente nel terreno. Per un risultato naturale, si consigliano sempre sostanze organiche piuttosto che diserbanti chimici, non proprio ottimi per la salute dell’orto.

    Come posizionare le piante nell’orto
    Naturalmente ogni pianta ha bisogno del proprio spazio vitale per crescere nell’orto senza difficoltà. Nel caso dell’orto di ottobre, è bene ricordare che i pomodori (prossimi alla raccolta) vanno posizionati a 40 cm, mentre lattuga, bietola, finocchi a 25 cm. Per le cipolle, i porri, gli agli e la rucola i cm diventano 10 e infine per le carote e i ravanelli i cm scendono a 3.

    Altri lavori nell’orto d’autunno
    Dopo avere visto che cosa piantare a ottobre nell’orto, come posizionare le piantine e quali sono i principali accorgimenti da seguire per avere un orto perfetto, è il turno di scoprire più nel dettaglio tutti gli altri lavori utili da fare proprio in quest’ultimo. Intanto, è necessario ripulire tutto gli appezzamenti dagli ortaggi estivi e preparare il terreno a una nuova stagione. Obbligatorio anche preparare il semenzaio in vista delle semine e dei trapianti primaverili.

    Non solo, anche la realizzazione del compost è importante e il mese di ottobre è ottimo. In questo periodo dell’anno, infatti, il compost interrato (o humus, o letame) nella parte superficiale durante l’inverno avrà modo di maturare e di sprigionare tutti le sostanze nutritive utili per la nascita delle nuove piante. LEGGI TUTTO

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    Tessa Gelisio e le ricette salvapianeta: “Il cambiamento comincia nel piatto”

    Tessa Gelisio, 47 anni, conduttrice, blogger e imprenditrice vitivinicola, ama la natura in tutte le sue forme e nel suo ultimo libro “le mie ricette salvapianeta”, edito da Rizzoli, accompagna il lettore verso un percorso di consapevolezza a tavola.

    “Da piccolina – racconta Gelisio – il mio cane è stato il trait d’union tra me e la natura: insieme facevamo lunghe passeggiate nei boschi. I miei genitori sono ambientalisti. Durante le scuole medie andavo alle riunioni del WWF di zona e alle manifestazioni ambientaliste. Dai 14 anni ho svolto volontariato in un centro di conservazione della fauna selvatica: lì ho respirato un ambientalismo scientifico che ho portato avanti per tutta la vita”.

    La passione per la cucina sostenibile arriva dopo il liceo. «Quando mi sono trasferita a Milano – continua Gelisio – ho letto tanta saggistica e numerosi report sull’inquinamento dell’ambiente. Era chiaro ed evidente quanto la produzione agricola impattasse il nostro ecosistema. Da quando ho iniziato a fare la spesa da sola, a 20 anni, acquisto prodotti biologici e di stagione: i benefici coinvolgono sia l’ambiente sia la nostra salute».
    Il 5 novembre uscirà il suo nuovo libro, “le mie ricette salvapianeta”.

    “L’idea è nata – racconta Gelisio – da una mia amica. Ricevo sempre molte domande e, tra blog e social, do dei consigli per ridurre l’impatto ambientale nel nostro quotidiano. Ritengo che l’alimentazione sia la chiave del cambiamento: ho iniziato dall’alimentazione, poi sono passata alla cura della casa, all’arredamento, all’abbigliamento e così via”

    La sostenibilità si sceglie ogni giorno, non si finisce mai di imparare ma bisogna iniziare. Ognuno con le proprie contraddizioni e limiti ma va fatto, per il bene del nostro pianeta.

    Ricetta dopo ricetta, l’autrice guida il lettore nella scelta degli ingredienti, con un’attenzione speciale alla provenienza e alla stagionalità dei prodotti. “Le mie ricette – spiega – sono pratiche, facili, veloci e alla portata di tutti. Il 90% delle volte consumo i miei pasti a casa ma non tutti possono fare lo stesso. Il segreto sta nell’organizzazione. Congelare le porzioni è davvero molto utile: meglio farlo piuttosto che mangiare prodotti fast e poco salutari. Ad esempio la domenica possiamo cucinare per tutta la settimana”. LEGGI TUTTO

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    Il sistema moda lancia l’allarme: “Sulla sostenibilità siamo in ritardo di 8 anni”

    La moda europea potrebbe raggiungere i suoi obiettivi climatici con 8 anni di ritardo. Nonostante negli ultimi 6 anni l’industria europea della moda sia riuscita a disaccoppiare la crescita economica dalle emissioni di CO2, sembra che ai ritmi attuali sarà in grado di raggiungere gli obiettivi climatici previsti dal Fit for 55 solo entro il 2038. Per recuperare il ritardo rispetto al percorso di decarbonizzazione previsto, saranno necessari investimenti addizionali pari a 24,7 miliardi di euro entro il 2030. In alternativa, ridurre i volumi di produzione per rimanere entro i limiti di emissione previsti rischia di comportare perdite di ricavi 8 volte superiori. E’ uno dei risultati principali emersi dal Just Fashion Transition 2024, l’osservatorio strategico annuale di TEHA Group sulla transizione sostenibile nei principali comparti della moda: tessile, abbigliamento, maglieria, calzature, pelletteria, conceria.

    Lo studio, condotto da The European House Ambrosetti, è stato presentato a Venezia nell’ambito del Venice Sustainable Fashion Forum, la principale tappa annuale incentrata sulla sostenibilità nella catena del valore della moda, nato dalla collaborazione di Sistema Moda Italia, TEHA Group e Confindustria Veneto Est. Una traiettoria in deciso rallentamento quindi, quella del sistema moda nella sua corsa verso la sostenibilità. Lo dimostra anche un altro dato: non più di un terzo delle 100 più grandi aziende europee del settore è al passo con la velocità di decarbonizzazione necessaria. Da un lato, le 34 grandi aziende europee del settore che stanno riducendo le proprie emissioni a velocità doppia rispetto a quella richiesta dalla Fit for 55 dimostrano che la decarbonizzazione è possibile. Dall’altro, però, il resto del settore evidenzia un ritardo significativo. Inoltre, come dimostrano anche le recenti vicende (Giorgio Armani Operations per fare un solo nome), mentre sul clima si stanno facendo progressi, tra le 100 più grandi aziende EU solo 7 aziende sono trasparenti sul salario minimo e 28 non pubblicano ancora un Bilancio di sostenibilità. Tra i problemi chiave alla base della frenata, il fatto che l’Europa continua a promuovere la transizione sostenibile principalmente attraverso leggi e norme. Tuttavia, la mancanza di linee guida operative e di quadri normativi ben definiti rappresenta una fonte di incertezza per le imprese, e quindi un freno alla competitività rispetto al resto del mondo. Inoltre, nonostante la crescente attenzione dell’UE in materia di gestione del fine vita dei prodotti fashion, le infrastrutture disponibili non sembrano ancora adeguate. Senza contare che il settore finanziario europeo non ha ancora tutte le leve per essere il motore della Just Fashion Transition europea.

    Senza un adeguato sostegno finanziario e un quadro normativo che faciliti l’accesso ai fondi sostenibili sui mercati dei capitali, la transizione rischia di essere sottofinanziata, esacerbando le disuguaglianze soprattutto tra le PMI, che oggi rappresentano quasi il 98% dell’intero settore. Ad oggi, infatti, solo il 35% degli investimenti dedicati alla transizione delle PMI europee è stato sostenuto da finanziamenti esterni, e solo il 16% di questi si qualifica effettivamente come “sostenibile”. Concentrando il focus sull’Italia, il report sottolinea come il presidio sui temi ESG tra le aziende della filiera tricolore sia diminuito di circa il 3%, in particolare tra le PMI con ricavi minori di 30 milioni euro. I fattori principali di questo rallentamento sono tre: la mancanza di competenze interne è il principale ostacolo del mancato presidio ESG, mentre la bassa redditività, in costante calo (tra il 7 e l’11%), così come gli alti indici di indebitamento, rendono gli investimenti nella decarbonizzazione difficilmente sostenibili per circa il 92% delle aziende, soprattutto nel settore conciario e dell’abbigliamento.

    Inquinamento

    Anche il fast fashion comincia a pensare all’ambiente

    di Anna Dichiarante

    21 Settembre 2021

    Interessante notare il cambiamento avvenuto in questi ultimi anni nell’opinione pubblica: ora i fari sono puntati più decisamente sulla politica. Secondo i consumatori globali, infatti, le imprese e i cittadini stanno già facendo abbastanza, ora spetta ai governi la responsabilità del cambiamento. In Europa, in particolare tra i giovani, c’è una crescente consapevolezza che la sostenibilità comporta costi e sacrifici. Tuttavia, questo non sembra tradursi in un’azione adeguata. In conclusione, dal Venice Sustainable Fashion Forum sono uscite alcune raccomandazioni per “raddrizzare la curva”. In particolare, alle istituzioni si chiede di chiudere in fretta il gap regolatorio, al fine di creare le condizioni per le aziende per prendere decisioni di medio-lungo period, e di semplificare gli strumenti finanziari per le PMI, mettendole nelle condizioni di investire in sostenibilità fornendo loro un accesso facilitato al credito e offrendo delle condivisioni favorevoli.

    Quanto agli attori del settore in Italia, la ricetta per una competitività sostenibile passa dalla costruzione e diffusione a livello nazionale di know how e centri di competenza, coinvolgendo università e ricerca per testare soluzioni scalabili, sviluppando iniziative per diffondere tra le PMI la “cassetta degli attrezzi” necessaria per la transizione e per creare una forza lavoro a prova di futuro. Serve inoltre lo sviluppo di un piano strategico nazionale per identificare modalità per integrare i costi della sostenibilità nelle strutture di prezzo – facilitando l’eradicazione del caporalato, così come la condivisione di tempi, metodi e strumenti per combinare finanziamenti pubblici e privati. Infine, andrà alimentato il processo di concentrazione del mercato, specialmente tra le PMI, per aumentare la produttività e la capacità di investimento, attraverso agevolazioni fiscali e nell’accesso al credito, ma anche finanziamenti pubblici. LEGGI TUTTO