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    Il gender gap dell’inquinamento

    Un’automobile in corsa, una bistecca al sangue, un volo prenotato senza pensarci due volte. La crisi climatica è anche una questione di genere, visto che gli uomini inquinano più delle donne. Lo dimostrano vari studi internazionali che collegano stili di vita, consumi, impatto ambientale, tracciando un gender gap che passa anche dalla tavola e dai trasporti.

    Il programma

    G&B Festival 2025, dal 5 al 7 giugno a Milano: il programma

    20 Maggio 2025

    Secondo una ricerca recentemente condotta dal Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment di Londra su circa 15mila persone, le abitudini maschili generano in media 5,3 tonnellate di emissioni e quelle femminili 3,9, cioè il 26% in meno. Un divario che dipenderebbe soprattutto da comportamenti socialmente e culturalmente consolidati, che incidono sull’equilibrio ambientale complessivo. Anche dopo aver considerato altri fattori che possono contribuire a generare tale scostamento, la differenza si riduce ma non scompare: resta un 18% di discrepanza, di cui il 6,5-9,5% attribuibile in modo specifico all’assunzione di proteine animali e all’impiego quotidiano dell’auto.

    “È sorprendente che il gap tra uomini e donne nelle emissioni sia paragonabile a quello osservato tra le persone agiate e quelle svantaggiate”, osserva Marion Leroutier, economista al Center for Research in Economics and Statistics dell’École nationale de la statistique et de l’administration économique di Parigi e coautrice del lavoro. Chi dispone di maggiori risorse economiche tende, infatti, a mangiare più spesso fuori casa, ad avere un’alimentazione più ricca di carne e pesce, a spostarsi più frequentemente con mezzi privati. Il confronto suggerisce che, al pari delle disuguaglianze di reddito, anche le differenze di genere possono influire sull’impatto individuale. “Politiche ambientali elaborate senza tener conto di queste diversità rischiano di ignorare le reali fonti di inquinamento e di risultare, quindi, meno efficaci”, osserva Ondine Berland, economista della London School of Economics and Political Science e coautrice del documento.

    I protagonisti

    G&B Festival 2025, Milano 5-7 giugno: ospiti e speaker

    23 Maggio 2025

    A risultati simili era giunto anche uno studio pubblicato nel 2021 sul Journal for Industrial Ecology e condotto da ricercatori svedesi che hanno analizzato l’impatto sul Pianeta dei consumi di uomini e donne. Ebbene, i primi emettono il 16% in più di gas serra rispetto alle seconde. Ciò è principalmente dovuto al fatto che, a parità di cifra sborsata, la popolazione femminile investe di più in prodotti e servizi a basse emissioni, come assistenza sanitaria, arredamento della casa, abbigliamento, mentre quella maschile spende maggiormente per beni ad alte emissioni, tra cui carburante, alcol, tabacco.

    Una prospettiva interessante è anche quella offerta da uno studio pubblicato nel 2024 su Scientific Reports. In questo caso, gli esperti hanno analizzato i dati di oltre 20mila persone in 23 Paesi distribuiti in quattro continenti, rilevando che gli uomini tendono a consumare carne più frequentemente rispetto alle donne, con il maggiore impatto che ne consegue in termini di cambiamento climatico, rischio di pandemia, carenza di acqua pulita, ingiustizia verso gli animali da allevamento. Significativo il fatto che, rispetto a questo trend, facciano eccezione Cina, Indonesia, India. “Nelle culture che offrono maggiore libertà alle donne, la popolazione femminile tende a consumare una quantità ridotta di proteine animali», commenta Christopher J. Hopwood, docente del dipartimento di Psicologia dell’Università di Zurigo, in Svizzera, e coautore della ricerca. “E questo perché nelle nazioni in cui lo sviluppo e l’uguaglianza di genere sono più elevati, potrebbero esserci più opzioni per soddisfare i bisogni nutrizionali senza mettere nel piatto la carne e minori aspettative che le donne si adeguino alle stesse preferenze alimentari degli uomini”.Va anche rilevato che, in generale, l’universo femminile mostra più attenzione alla sostenibilità rispetto a quello maschile. Non a caso, una ricerca?pubblicata sul Journal of corporate finance nel 2022?ha messo in luce che le imprese che hanno più donne ai vertici riducono l’inquinamento del 5% in più circa rispetto a quelle in cui prevalgono manager uomini. Inoltre, le banche con più donne nei consigli di amministrazione tendono a indirizzare una maggiore quantità di fondi verso investimenti sostenibili. E ancora, i Paesi con una rappresentanza femminile più consistente nei Parlamenti hanno più probabilità di ratificare trattati internazionali riguardanti questioni ambientali.

    Sono molte, insomma, le analisi che sottolineano che il genere può effettivamente avere un impatto significativo sugli equilibri ecologici. Nonostante ciò, non mancano figure pubbliche che tendono a minimizzare queste evidenze. È il caso di James D. Vance, vicepresidente degli Stati Uniti, o di alcuni influencer, come Andrew Tate, che arrivano perfino ad accusare gli uomini progressisti di essere deboli e poco mascolini.

    L’articolo è tratto dal numero di Green&Blue in edicola il 4 giugno, allegato a Repubblica e dedicato al Festival di Green& Blue (Milano, 5-7 giugno)
    La partecipazione al G&B Festival è gratuita previa registrazione. LEGGI TUTTO

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    Migranti climatici, quando partire è obbligo e non scelta

    Ci sono espressioni percepite come nuove, ma che raccontano storie antiche come il mondo. “Migranti climatici” è una di queste. È una definizione che si sta facendo spazio nel dibattito pubblico, ma che spesso arriva a noi in silenzio, senza immagini o titoli in prima pagina. Eppure, riguarda milioni di persone, e forse, tra non molto, anche intere comunità europee. Ma chi sono davvero i migranti climatici? Non è facile dare una risposta univoca. Non c’è – almeno per ora – una definizione ufficiale in ambito giuridico internazionale. I trattati che regolano lo status di rifugiato, come la Convenzione di Ginevra del 1951, parlano di chi fugge da persecuzioni per motivi politici, religiosi, etnici. Ma non dicono nulla – ancora – su chi fugge perché la terra su cui viveva è diventata arida, o la propria casa è stata distrutta da un ciclone. Così, in assenza di una cornice legale, usiamo un termine ampio: “migranti climatici”.

    Il programma

    G&B Festival 2025, dal 5 al 7 giugno a Milano: il programma

    20 Maggio 2025

    Secondo i dati dell’UNHCR, nel 2023 oltre 33 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro abitazioni a causa di disastri legati al clima. Frane, alluvioni, siccità prolungate, incendi. Tutti eventi naturali, certo, ma sempre meno “naturali” in un mondo in cui l’impronta umana sul clima è evidente e crescente. E questi sono solo gli sfollati interni, cioè coloro che si sono spostati all’interno del proprio Paese. Ma cosa succede quando questi fenomeni diventano ricorrenti? Quando si perde la casa, il lavoro, il futuro? Quando il clima diventa invivibile, spesso l’unica scelta possibile è partire. Ma dietro a ogni numero – per quanto utile a delineare la portata del fenomeno – ci sono storie, volti, famiglie. Motivo per cui, è importante soffermarsi anche sul linguaggio che usiamo. Chiamarli “migranti” può suggerire una decisione ponderata, una scelta volontaria. Ma la realtà è spesso diversa. Si tratta di spostamenti forzati, progressivi, che avvengono quando vivere, dove si è nati, non è più sostenibile. In molti casi, queste persone si avvicinano di più alla condizione di “rifugiati climatici”, sebbene questa categoria, per ora, non sia riconosciuta dal diritto internazionale. Una lacuna normativa che lascia milioni di individui in una zona grigia, senza lo status né la protezione che servirebbero a garantirne i diritti fondamentali.

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    Non solo scienza: musica e teatro per difendere l’ambiente

    29 Maggio 2025

    Eppure, il fenomeno esiste e cresce. La Banca Mondiale stima che, entro il 2050, potrebbero esserci fino a 216 milioni di sfollati climatici interni nei Paesi più vulnerabili. Ma la questione non riguarda solo aree lontane: il Mediterraneo, e quindi l’Italia, saranno sempre più coinvolti. Le crisi idriche, l’aumento del livello del mare, l’inaridimento dei suoli sono già oggi realtà nel nostro sud. Allora, cosa possiamo (e dobbiamo) fare? Anzitutto, bisogna partire da una nuova consapevolezza: il cambiamento climatico non è solo una questione ambientale, ma umana. Richiede politiche migratorie aggiornate, nuovi strumenti giuridici, ma anche uno sforzo culturale. Riconoscere che la persona che bussa oggi ai nostri confini potrebbe essere – domani – qualcuno che ci somiglia più di quanto pensiamo. Perché quando parliamo di migranti climatici, in fondo, parliamo di un’umanità che si muove. Non perché vuole, ma perché deve. E sta a noi, oggi, decidere se ignorare questa realtà o trasformarla in un’occasione di giustizia e coesione. Serve uno sguardo più lungo e più giusto, capace di leggere le migrazioni non solo come emergenze ma come processi strutturali legati a trasformazioni climatiche, economiche e sociali.

    Gli spostamenti di interi popoli al momento in corso (come nell’arcipelago delle Tuvalu o in Sudan) non sono mai improvvisi, ma sono migrazioni lente, spesso invisibili, che si sommano anno dopo anno e si trasformano in flussi più ampi. Il punto è che, se non impariamo a leggere il clima come moltiplicatore di minacce, capace di esasperare tensioni latenti e amplificare crisi già in atto, continueremo a interpretare le sue conseguenze come anomalie isolate. Oggi abbiamo tutti gli strumenti per riconoscere la correlazione tra degrado ambientale e instabilità sociale, tra siccità e conflitti, tra perdita di biodiversità e movimenti umani. Quello che manca, spesso, è il coraggio politico di dirlo con chiarezza.E forse anche il linguaggio. Perché dare un nome a qualcosa significa riconoscerla. E riconoscere i migranti climatici non vuol dire solo registrare un fenomeno: vuol dire assumerci la responsabilità di un cambiamento di rotta.

    L’articolo è tratto dal numero di Green&Blue in edicola il 4 giugno, allegato a Repubblica e dedicato al Festival di Green& Blue (Milano, 5-7 giugno)

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    Pfas nel vino 100 volte superiori rispetto all’acqua potabile

    Tra i filari che disegnano le colline toscane, sui terrazzamenti che accompagnano le anse della Mosella, nelle vigne ordinate distese nelle pianure del Tokaj, il vino racconta da secoli una storia fatta di terra, cultura, memoria. A gettare un’ombra sul comparto enologico è ora il report Message from the bottle del Pesticide action network (Pan) Europe, che ha analizzato 49 vini, di cui 10 antichi, cioè commercializzati prima del 1988, e 39 recenti, prodotti tra il 2021 e il 2024, dei quali cinque biologici. Le bottiglie esaminate provengono da dieci Paesi europei, ovvero Austria, Belgio, Croazia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Lussemburgo, Spagna e anche Italia.

    I vini austriaci sono i più contaminati

    Se nei vini più vecchi non sono stati rintracciati contaminanti, in quelli immessi sul mercato negli ultimi anni è stato rilevato acido trifluoroacetico (Tfa), un composto derivante dalla degradazione di pesticidi contenenti Pfas (Perfluorinated alkylated substances, sostanze perfluoroalchiliche) e di gas fluorurati, utilizzati nei refrigeranti industriali. La concentrazione media delle sostanze si è attestata a 122 microgrammi per litro, con un picco di 320 microgrammi, un valore circa cento volte superiore rispetto ai livelli medi, già elevati, presenti nelle acque potabili.

    I vini più contaminati sono risultati quelli austriaci, con una media di 156 microgrammi di Tfa per litro, seguiti nell’ordine da quelli francesi e belgi. Non sfuggono alle impurità alcuni vini della nostra penisola, tra cui il Chianti con 120 microgrammi di Tfa per litro, il Prosecco con 69 microgrammi e il Kalterersee, con 43 microgrammi. E non sono esenti da contaminazione neppure le bottiglie biologiche, visto che tutte contengono il composto.

    Sicurezza alimentare

    Un filtro per l’acqua potabile che rimuove anche i PFAS

    04 Maggio 2025

    La ricerca precedente

    Il nuovo report ha, di fatto, confermato e aggiornato uno studio condotto nel 2017 dai ricercatori del Laboratorio del Cvua (Chemisches und Veterinäruntersuchungsamt, Ufficio di ricerca chimica e veterinaria) di Stoccarda, in Germania, per conto della Commissione europea. All’epoca furono analizzati 27 vini, nei quali venne rilevata una concentrazione mediana di 50 microgrammi di Tfa per litro, con un picco di 120 microgrammi.

    Danni anche per la salute

    Sin dall’introduzione del Tfa in ambito industriale, le imprese hanno strenuamente sostenuto che fosse innocuo sia per l’ambiente sia per la salute. Un mito sopravvissuto per decenni, ma ora infranto da alcune analisi che evidenziano gli effetti negativi sul pH del suolo e sulle piante, soprattutto considerando la sua persistenza e l’accumulo a lungo termine. Inoltre, una ricerca pubblicata nel 2021 ha dimostrato che questo contaminante ha causato gravi malformazioni nei feti di coniglio, che hanno colpito sia lo scheletro sia gli occhi. Da allora, il sospetto è che possa rappresentare un rischio anche per la riproduzione umana.

    Pfas: che cosa sono e perché sono pericolosi per la salute

    di Valeria Pini

    21 Maggio 2025

    Nel 94% dei vini sono presenti pesticidi

    Nel documento sul Tfa compare anche un approfondimento sui pesticidi in generale. Ebbene, nel 94% dei vini prodotti tradizionalmente sono stati trovati fino a otto antiparassitari, mentre l’insieme delle analisi ha identificato 18 principi attivi distinti. Va meglio per i vini biologici: quattro su cinque erano, infatti, privi di agrofarmaci.

    Helmut Burtscher-Schaden, chimico ambientale dell’organizzazione Global 2000 e ideatore dello studio, definisce i risultati “allarmanti”, mentre Salome Roynel, responsabile delle politiche di Pan Europe, aggiunge: “I dati sono preoccupanti, perciò le sostanze che rilasciano Tfa devono essere ritirate dal mercato senza indugio”.

    Rincara la dose Cristina Guarda, eurodeputata di Europa Verde, che commenta: “La grande industria chimica sta avvelenando anche il vino, oltre al cibo che arriva sulle nostre tavole. E dato che il nostro Paese è il primo produttore di vino a livello globale, dovremmo considerarla un’emergenza nazionale. Chiediamo, inoltre all’Unione europea azioni urgenti per proteggere gli agricoltori, la nostra salute e quella dei consumatori di tutto il mondo”. LEGGI TUTTO

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    Unione europea tra dazi e nuovi equilibri politici: Green Deal a rischio

    Quale sarà l’impatto di Trump sulle politiche climatiche e ambientali dell’Unione europea? Anche i più ottimisti tra i sostenitori del Green Deal, lanciato da Bruxelles nel 2019, ammettono che la situazione da allora si è complicata. La guerra dei dazi dichiarata dal presidente statunitense Donald Trump potrebbe rallentare la transizione energetica del Vecchio Continente, con nuvole che si addensano sulla “rottamazione” dei motori endotermici a partire dal 2035. Mentre i nuovi equilibri politici all’interno dell’Europa potrebbero rimettere in discussione le norme agro-ambientali. “In estrema sintesi”, spiega Mauro Albrizio, che dirige l’ufficio europeo di Legambiente, “si può dire che la Ue sta cedendo sulla parte agricola, mentre tiene il punto sulle politiche energetiche e industriali. Anche se c’è l’incognita del gas naturale di Trump”.

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    Non solo scienza: musica e teatro per difendere l’ambiente

    29 Maggio 2025

    Le semplificazioni alla Politica agricola comune
    Ma vediamo più nel dettaglio. Lo scorso 14 maggio la Commissione europea ha proposto una serie di “semplificazioni” della Politica agricola comune (Pac). Secondo le associazioni ambientaliste, la proposta prevede un indebolimento delle misure di protezione per pascoli, torbiere e zone umide (fondamentali per lo stoccaggio della CO2): “La Commissione europea ha ancora una volta trascurato la protezione della natura e del clima nel bilancio più consistente d’Europa, la Politica agricola comune. Decisioni così miopi non solo ostacoleranno la resilienza delle aziende agricole, ma metteranno anche in discussione la legittimità della Politica agricola comune, allontanandosi ulteriormente dagli obiettivi ambientali e climatici che l’Unione si era data”.

    I protagonisti

    G&B Festival 2025, Milano 5-7 giugno: ospiti e speaker

    23 Maggio 2025

    A spingere per una maggiore flessibilità sono soprattutto Germania e Polonia, i cui governi in carica godono del sostegno delle organizzazioni che rappresentano gli imprenditori agricoli. Ma non si può non cogliere una contraddizione: da una parte si vogliono evitare nelle proprie imprese misure per la prevenzione della crisi climatica, dall’altra si chiede un sostegno pubblico sull’assicurazione contro i rischi da eventi meteo estremi.
    Nonostante il tanto discuterne, non dovrebbe essere stravolto il bando europeo alle auto endotermiche dal 2035. L’unica vera novità è che le multe (per i produttori che non rispettano i limiti di emissioni per le nuove auto vendute dal 2025) non saranno annuali, ma si farà una media triennale delle emissioni.

    I protagonisti

    Elizabeth Kolbert: “E se fosse già iniziata l’era di una nuova estinzione?”

    di Giacomo Talignani

    26 Maggio 2025

    La road map dell’energia.
    Ed è soprattutto sull’energia che può incidere il fattore Trump. Il 6 maggio la Commissione Ue ha presentato la road map per il phasing out dei combustibili fossili e dell’uranio provenienti dalla Russia. Il documento è stato criticato, perché non accelera sulle rinnovabili, l’efficienza energetica e l’elettrificazione. Indica piuttosto una diversificazione delle fonti di approvvigionamento: ci si libera della Russia ma ci si mette nelle mani di altri, principalmente degli Stati Uniti.

    D’altra parte il presidente Donald Trump ha chiesto portare a 350 miliardi di dollari le importazioni europee di gas naturale liquefatto statunitense, tre volte l’attuale valore del mercato mondiale del gnl. Tuttavia, pur di chiudere un accordo sui dazi, l’Unione europea sembra disposta a tagliare le importazioni dal Nordafrica e dai Paesi dell’Est per comprarne 50 miliardi in più dagli Usa. Rallentando la transizione e aumentando la dipendenza dal gas.

    L’articolo è tratto dal numero di Green&Blue in edicola il 4 giugno, allegato a Repubblica e dedicato al Festival di Green& Blue (Milano, 5-7 giugno) LEGGI TUTTO

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    Il ciclone negazionista di Trump si abbatte sull’ambiente

    Il 22 aprile, Giorno internazionale della Terra, il sito della Casa Bianca ha pubblicato un post in cui vantava la presenza di un “presidente che finalmente segue la scienza”. “Con il presidente Donald Trump – scrivevano – le politiche ambientali mettono radice nella realtà per promuovere la crescita economica, garantendo acqua e aria pulita per generazioni”. In realtà da quando Trump è tornato alla Casa Bianca sono state smontate tutte le politiche a difesa dell’ambiente, cancellate le agenzie che si occupavano di controlli sugli inquinamenti e affidato i ruoli chiave a manager negazionisti del cambiamento climatico. E tutto questo è avvenuto fin dal primo giorno quando, il 20 gennaio Trump ha firmato l’ordine esecutivo che ha ordinato l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sul clima. È la seconda volta. La prima risale a quando il tycoon è entrato alla Casa Bianca, nel 2017. Poi Joe Biden aveva fatto tornare gli Usa nell’accordo.

    I protagonisti

    G&B Festival 2025, Milano 5-7 giugno: ospiti e speaker

    23 Maggio 2025

    La fine della politica climatica di Biden

    L’amministrazione Trump è andata molto oltre, toccando tutti gli aspetti del settore green, ma non nel modo in cui sognavano gli ambientalisti: il presidente ha proposto un piano che prevede l’abrogazione dei crediti d’imposta per l’energia pulita, la riduzione dei fondi per veicoli elettrici ed energie rinnovabili, la rescissione di sussidi per programma di giustizia climatica e riduzione delle emissioni. Trump ha firmato inoltre un ordine esecutivo con cui ha abolito le misure previste dal suo predecessore, per favorire lo sviluppo dei veicoli elettrici. Tra queste, c’erano i fondi per la realizzazione di 500 mila stazioni di ricarica in tutto il Paese. Il tycoon ha annunciato fin dal primo giorno l’emergenza energetica nazionale, una formula scelta apposta per giustificare l’estrazione di combustibili fossili su terre federali e acque costiere. Era il famoso “drill, baby, drill”, “trivella, baby, trivella”, che aveva galvanizzato la base Maga durante la campagna elettorale, e che Trump ha declinato in molti altri modi, per rendere ancora più eccitante la sua crociata contro l’ambiente: così è nato il “log, baby, log”, legato alla deregulation nell’abbattimento di alberi per fare a meno dei prodotti arrivati dal Canada, e il “drip, baby, drip”, con cui il tycoon ha tolto il limite alla potenza del gettito d’acqua dalla docce. Ha poi licenziato 800 ricercatori della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA). Un colpo alla ricerca internazionale visto che i dati raccolti vengono utilizzati non solo dagli Stati Uniti, ma da tutta la comunità scientifica nel mondo.

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    Non solo scienza: musica e teatro per difendere l’ambiente

    29 Maggio 2025

    L’agenda anti-green
    L’amministrazione ha oscurato la pagina della National Oceanic and Atmospheric Administration, che mostrava il monitoraggio dei valori dell’anidride carbonica a livello globale e firmato quaranta ordini esecutivi per eliminare le agenzie scientifiche. Ma l’agenda anti-green di Trump non sembra avere limiti: con la firma di un altro ordine esecutivo, il presidente ha sospeso le concessioni federali per nuovi progetti di energia eolica offshore, mettendo fine allo sviluppo di parchi eolici marini e limitando le opportunità di espansione dell’energia rinnovabile. Nel frattempo, Lee Zeldin, il negazionista del clima messo a capo dell’agenzia per la protezione ambientale, ha annunciato l’eliminazione o lo svuotamento di trentuno regolamenti ambientali, tra cui i limiti alle emissioni di gas serra delle centrali elettriche. E se non bastasse, c’è anche lo spazio: Trump ha smantellato le ricerche federali sull’inquinamento nello spazio causato dall’affollamento di satelliti e razzi, dando una mano ai suoi amici e finanziatori Elon Musk e Jeff Bezos, che guidano l’assalto alle stelle e temevano di dover moltiplicare gli investimenti per rispettare le norme a protezione dello spazio, e contro l’affollamento di satelliti.

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    Marisa Parmigiani: “Le aziende hanno investito molto e andranno avanti”

    Marisa Parmigiani, presidente di Sustainability Makers, l’associazione italiana che riunisce i responsabili aziendali che si occupano di sostenibilità, ha uno sguardo privilegiato su quel che sta avvenendo nel settore. Al netto dei nuovi paradigmi che contraddistinguono l’assegnazione delle funzioni ESG all’interno delle organizzazioni e le costanti attività di formazione dovute anche alle complessità normative, è il costante dibattito nazionale e internazionale a tenere banco. Troppa regolamentazione green? Rischio competitività? E l’abbandono dell’Accordo di Parigi da parte di Trump avrà effetti collaterali? “Intanto distinguiamo il mondo europeo da quello statunitense. Oltreoceano c’è maggiore connessione tra politica e impresa. In Europa i venti politici influenzano meno l’approccio manageriale delle imprese. La deregulation portata dal pacchetto Omnibus della Commissione Ue è comunque all’interno di un contesto molto normato. Il mondo imprenditoriale si divide sostanzialmente in due. Quelli che in questi anni hanno colto il valore strategico della sostenibilità e ne hanno permeato la cultura aziendale, perché di fatto fa rima col concetto di innovazione e quindi poi di competitività. E quelli che hanno aderito solo per compliance e quindi stanno alla finestra nella speranza di cavarsela”.

    Associazioni di categoria e imprese a volte sembrano muoversi in modo differente sui temi della sostenibilità. Le risulta?
    “Le associazioni di categoria si ritrovano a rappresentare una moltitudine diversa di soggetti nelle aziende. Da una parte abbiamo dei leader che su competenze e conoscenze sono anni luce in avanti rispetto alle associazioni, dall’altra queste possono essere conservative per timore di contestazioni interne. Mi viene in mente il caso di dieci delle principali aziende italiane, a partire dai grandi soggetti della produzione alimentare, che hanno firmato un anno fa una lettera aperta alla Commissione chiedendo a gran voce una normativa uguale per tutti sulla due diligence. Come a dire ‘non fermatevi e andate avanti è fondamentale’. Confindustria invece ha avanzato alcune osservazioni alla proposta Ue. Per le aziende alimentari, che riconoscono nel presidio dei rischi ESG un valore per le relazioni con i fornitori, avere un fair play nel contesto di mercato è un tema importante”.

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    G&B Festival 2025, Milano 5-7 giugno: ospiti e speaker

    23 Maggio 2025

    Quali sono le filiere che si sono distinte di più nel cambiamento?
    “Innanzitutto l’energetica, perché per l’Europa il tema della transizione energetica è chiave non solo per la competitività ma anche per la sopravvivenza del sistema produttivo europeo. E poi di conseguenza le società multiservizi. Un altro blocco importante è quello dei produttori di macchinari per l’industria, poiché lì c’è la tutela delle risorse e quindi un risparmio per i clienti. La domanda è di operare in logica di efficienza, e questo richiede costante innovazione. E poi il real estate, che si è davvero trasformato. Oggi si parla di retrofit, si parla di riuso, è proprio un altro linguaggio. Non è solo una questione dei materiali degli immobili, le città vengono disegnate ponendo la sostenibilità al centro”.

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    20 Maggio 2025

    Molti osservatori sostengono che siamo entrati in una fase più matura dove sarebbe il caso di riformulare il linguaggio della sostenibilità. Concorda?

    “Sì, è un dibattito che c’è. E riconosco che dietro alle questioni terminologiche ci sono in realtà delle priorità differenti e sicuramente se da un certo punto di vista, fino a poco tempo fa, il concetto prioritario era quello della responsabilità abbinato a un attivismo civico sottostante, oggi invece è un elemento di competitività. E questo spiega anche il motivo per cui noi siamo il Paese in cui sono più diffusi processi di economia circolare: da noi la materia prima non è mai esistita. Insomma si tratta di un’intelligente reazione a un problema di fondo del sistema produttivo. Quindi abbiamo bisogno di parlare nuovi linguaggi, se parlare nuovi linguaggi ci aiuta a far comprendere concetti aderenti ai bisogni e le priorità di questa fase”.
    Un’indagine di InfluenceMap ha confermato che tra il 2019 e il 2025 il 23% delle 200 aziende Ue più grandi si sono allineate con strategie green, mentre le non-allineate sono scese dal 34 al 14%. Il trend è ancora positivo?
    “Assolutamente sì, gli anni ‘20 del nostro secolo sono stati anni di diffusione dei temi di sostenibilità nei processi di pianificazione aziendale. Basta guardare i piani industriali delle aziende quotate, che a prescindere dal dibattito politico, continuano ad andare per la loro strada. Perché come dimostrano anche i dati dell’ultimo rapporto Istat la sostenibilità è un investimento, che tra l’altro comporta anche non pochi risparmi. Quindi i risultati sono non solo reputazionali, ma anche di efficienza e di crescita economica”.

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    Cina, un nuovo leader della diplomazia del clima

    “Da quando ho annunciato gli obiettivi della Cina per il picco delle emissioni e la neutralità carbonica cinque anni fa, abbiamo costruito il sistema di energia rinnovabile più grande e in più rapida crescita al mondo, nonché la catena industriale di nuova energia più grande e completa», disse Xi Jinping durante una riunione virtuale convocata dall’Onu alla fine di aprile. Il leader cinese ha promesso inoltre di introdurre misure più severe per ridurre le emissioni di gas serra nel prossimo decennio, fissando nuovi obiettivi entro il 2035. La Cina non intende sottrarsi alla lotta, anzi. E il ritiro (di nuovo) degli Stati Uniti di Donald Trump dagli accordi di Parigi sul clima e i tagli ai finanziamenti statunitensi, danno a Pechino pure una ghiotta opportunità sulla scena internazionale.

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    23 Maggio 2025

    Maggiore produttore di gas serra, ma leader rinnovabili
    Nonostante rimanga il maggiore produttore mondiale di gas serra e le emissioni del suo settore energetico abbiano raggiunto un nuovo picco lo scorso anno, trainate dall’aumento del consumo di carbone, Pechino è ormai da tempo leader nella produzione di tecnologie verdi in particolare nel settore energetico. La Cina produce e utilizza più pannelli solari, turbine eoliche e veicoli elettrici rispetto al resto del mondo messo insieme. E li può produrre a costi inferiori rispetto ai suoi concorrenti. Diventando il fornitore principale per quei Paesi, specialmente quelli in via di sviluppo, che hanno bisogno di energie rinnovabili.
    Investiti 156 miliardi di dollari
    Secondo Climate Energy Finance, un gruppo di ricerca con sede a Sydney, dall’inizio del 2023 le aziende cinesi hanno stanziato 156 miliardi di dollari in investimenti diretti esteri in oltre 200 operazioni nel settore delle tecnologie pulite.
    Sono cinesi, per fare qualche esempio, le aziende che stanno fornendo attrezzature e know-how per una centrale idroelettrica in Tanzania che raddoppierà la capacità di generazione di energia elettrica del Paese. Pechino sta investendo in diversi progetti di energia rinnovabile in Asia centrale, come i parchi eolici in Uzbekistan. Così come sono cinesi le aziende che stanno assumendo un ruolo sempre più importante nello sviluppo dell’energia pulita nella regione del Golfo.
    “Nonostante l’Europa e gli Stati Uniti continuino a imporre dazi e restrizioni sulle importazioni cinesi e a preoccuparsi dell’eccesso di capacità produttiva, la Cina e la sua tecnologia verde a prezzi accessibili continueranno ad attrarre i mercati dei paesi in via di sviluppo”, sostiene Taylah Bland, responsabile senior del programma China Climate Hub presso l’Asia Society Policy Institute.

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    G&B Festival 2025, dal 5 al 7 giugno a Milano: il programma

    20 Maggio 2025

    La stampa statale metteva in luce alcune possibilità derivanti dal ritiro americano già nelle scorse settimane. Facendo l’occhiolino all’Europa. “Il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi non solo ha fatto precipitare gli sforzi globali per contrastare il cambiamento climatico in una situazione di maggiore incertezza, ma ha anche messo in evidenza l’urgente necessità per il resto del mondo, in particolare la Cina e l’Ue, di rafforzare la cooperazione in materia di sviluppo verde”.

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    Da food swamp a smart fashion, la sostenibilità prende voce nel nuovo glossario dedicato a cibo e moda

    Dalle paludi del cibo (food swamp) in cui si rischia di rimanere impantanati tra fast food e fornitori di cibo spazzatura, alla smart fashion che creerà un nuovo abbigliamento in grado di monitorare i parametri corporei e al tempo stesso attento alla sostenibilità dei materiali: sono due dei lemmi presenti nel nuovo glossario della sostenibilità, rigorosamente in inglese, con tutti i termini della sostenibilità, in particolare della moda, il primo glossario che si occupa di moda e food sostenibili, pensato per quelle che sono due industrie che hanno fortemente a che fare con la vita quotidiana delle persone; un glossario progetto per la moda e la ristorazione di domani. Il glossario è una vera meta-risorsa di tipo accademico, perché per ogni lemma c’è un’ampia indicazione bibliografica. È pensato non solo per gli studenti universitari, ma per tutta la comunità, in particolare per la cosiddetta “generazione green”, quei giovani che pur professando di vivere sostenibilmente, in realtà non sono veramente consapevoli e partecipi di quali possano essere le scelte sostenibili in fatto di alimentazione e moda.
    Si tratta di uno dei risultati di un progetto di educazione alla sostenibilità guidato da ModaCult-Centro per lo Studio della Moda e della produzione culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che ha portato, tra il 2023 e il 2024, a curare lo sviluppo e la sperimentazione di strumenti formativi per l’educazione alla sostenibilità nei due settori, oggi disponibili anche su EDUOPEN, piattaforma online che offre corsi universitari gratuiti e aperti a tutti in Italia, realizzata da un network di università e supportata dal Ministero dell’Istruzione. L’iniziativa si è svolta nell’ambito di un progetto europeo che ha coinvolto 8 partner in 6 Paesi dell’Unione Europea, tra università, imprese e realtà del terzo settore e dimostra, come riferito nel contributo curato dalla prof.ssa Silvia Mazzucotelli Salice pubblicato nel volume “Nuevos aprendizajes tecnologizados con aplicaciones culturales y didácticas”, che l’apprendimento collaborativo online oltre a favorire l’acquisizione di nuove competenze possa incidere positivamente sulle attitudini e, in alcuni casi, anche sui comportamenti degli studenti verso la sostenibilità, rafforzando l’apprendimento attivo e consapevole. Si tratta di un progetto COIL (Collaborative Online International Learning), risultato di grande utilità pratica ai fini dell’apprendimento dei temi della sostenibilità.

    Biodiversità

    Lavori green, l’educatore ambientale: “Dalla scuola si crea un mondo più sano e equo”

    di Fiammetta Cupellaro

    31 Marzo 2025

    “Il nostro obiettivo, condiviso con un ampio team internazionale di docenti, ricercatori e professionisti, non era solo trasmettere conoscenze, ma creare le condizioni perché gli studenti potessero confrontarsi con altri punti di vista, rivedere criticamente le proprie abitudini e iniziare a trasformarle. È in questa connessione tra consapevolezza, scelte quotidiane e responsabilità sociale che si gioca oggi l’educazione alla sostenibilità” – sottolinea Mazzucotelli Salice, a nome del gruppo di lavoro coordinato da ModaCult nell’ambito della rete europea del progetto Fashion & Food for Sustainability.

    Il progetto Fashion & Food 4 Sustainability – ha avuto un approccio formativo sistemico, volto a ripensare l’offerta formativa universitaria e rafforzare le competenze di diversi attori nei settori moda e food, spiega Mazzucotelli Salice. Il progetto comprende anche lo sviluppo di materiali didattici, moduli formativi e strumenti innovativi per la sensibilizzazione e la formazione sui temi della sostenibilità nei settori moda e agroalimentare. Finora ha portato a una serie articolata di risultati, tra cui sei moduli didattici interdisciplinari e multilingue sulla sostenibilità (oggi disponibili gratuitamente sulla piattaforma EDUOPEN), il glossario della sostenibilità, una guida metodologica per docenti interessati a integrare questi strumenti nei propri percorsi formativi, materiali formativi pensati anche per target extra-universitari (giovani imprenditori, funzionari pubblici, professionisti locali), spiega Mazzucotelli Salice.
    Nella sua fase iniziale pilota, il progetto ha coinvolto i primi 100 studenti di varie nazionalità da 4 università europee (Italia, Spagna, Paesi Bassi e Polonia) che per sei settimane hanno lavorato insieme su attività didattiche collaborative online e progetti interdisciplinari finalizzati alla riflessione critica sui temi della sostenibilità nei settori della moda e della produzione alimentare, attraverso lavori di gruppo interdisciplinari, forum di discussione, presentazioni finali, tutto tramite web. Gli studenti, attualmente quelli coinvolti sono quasi 400, hanno anche compilato dei questionari sia all’inizio, sia alla fine dello studio. “Ebbene, dai questionari e dai focus group è emerso che, al termine delle sei settimane, una parte significativa degli studenti ha dichiarato di aver maturato una maggiore consapevolezza riguardo all’impatto delle proprie scelte quotidiane in ambito alimentare e di consumo, e di aver compreso meglio come orientarsi verso pratiche più sostenibili. In particolare, il 33% ha affermato di aver cambiato il proprio modo di pensare alla sostenibilità, mentre il 23% ha dichiarato di aver modificato alcuni comportamenti concreti. Inoltre, l’82% degli studenti ha riscontrato un miglioramento delle proprie competenze comunicative in contesti internazionali, e il 79% ha riferito una maggiore flessibilità mentale, dimostrando come l’esperienza abbia favorito anche lo sviluppo di soft skill trasversali”, rileva l’esperta.
    “Molti studenti si riconoscono nella cosiddetta ‘generazione green’, ma il percorso formativo ha fatto emergere quanto questa identificazione sia spesso ancora superficiale. Solo confrontandosi con contenuti e pratiche della sostenibilità in modo strutturato, è stato possibile per loro iniziare a tradurre i valori in scelte quotidiane concrete. Questo ci ricorda che la sostenibilità, per diventare davvero parte della vita, deve essere sostenuta da strumenti culturali e formativi capaci di connettere riflessione critica e cambiamento degli stili di vita” – conclude Mazzucotelli Salice. LEGGI TUTTO