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    Artico sempre più caldo: ormai emette più gas serra di quanti ne assorbe

    I segnali erano già evidenti, ma adesso è arrivata la conferma: le regioni artiche si stanno rapidamente riscaldando, rilasciando in atmosfera più carbonio di quanto ne riescano ad assorbire. La fusione accelerata del permafrost dovuto all’innalzamento delle temperature sta infatti trasformando vaste zone in “fonti” invece che in “serbatoi” di gas serra. Fenomeno che potrebbero […] LEGGI TUTTO

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    L’anguilla europea sull’orlo dell’estinzione

    L’anguilla europea è sull’orlo dell’estinzione a causa della drastica riduzione della sua popolazione negli ultimi anni, secondo uno studio scientifico del Parc Natural del Delta de l’Ebre e della Stazione Biologica di Donana (EBD-CSIC). Secondo lo studio, questa “drastica riduzione” della popolazione di anguilla europea è stata aggravata dall’impatto di un granchio invasivo e da […] LEGGI TUTTO

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    Nonostante i treni gratis, i potenti di Davos continuano a usare i jet privati e ad emettere CO2

    C’era perfino il treno gratis. Eppure niente, anche quest’anno tantissimi potenti della Terra riuniti a Davos hanno preferito il jet privato, a volte per coprire appena 240 chilometri, quel mezzo che a livello di emissioni inquina almeno 50 volte più degli spostamenti su rotaia. Diciamocela tutta, l’anno non è iniziato un granché bene per le questioni climatiche: prima i giganteschi incendi californiani, poi i dati che certificano sia il 2024 come anno più caldo di sempre sia il record di emissioni a livello globale e infine le politiche anti-clima annunciate da Donald Trump, con tanto di bye bye dall’Accordo di Parigi. Larga parte delle emissioni e delle responsabilità antropiche sull’ambiente sono legate soprattutto alle persone più ricche della Terra, quell’1% di multimiliardari che da solo inquina più di miliardi di persone.

    A inizio anno, precisamente il 10 gennaio 2025, secondo le analisi di Oxfam quell’1% ha già emesso infatti una quantità di CO2 tale che, seguendo la media di una persona comune, avrebbero dovuto invece produrre in un anno. Fa strano dunque sapere che in Svizzera, a Davos, dove si riuniscono leader, economisti, potenti, amministratori delegati e magnati e dove da anni viene denunciato il problema del massiccio utilizzo dei jet privati per raggiungere il World Economic Forum, poco o nulla sia cambiato: a Zurigo, il più grande aeroporto vicino alla sede del vertice, all’inizio di questa settimana sono atterrati 54 jet privati , con un incremento del 170% alla media della settimana precedente. Eppure gli organizzatori di Davos avevano tentato in tutti i modi, su spinta di diverse Ong, di avvertire i partecipanti sulla necessità di un minore impatto ambientale, soprattutto a livello di trasporti che, riconoscono dal WEF, sono la fonte principale di inquinamento nella settimana del forum economico.

    “Il World Economic Forum riunisce le parti interessate per contribuire ad affrontare la più grande crisi ecologica dei nostri tempi” si legge nella presentazione delle iniziative di sostenibilità di Davos di quest’anno. No plastica monouso, compensazione delle emissioni, perfino riciclo dei tessuti usati nelle passate edizioni come arredi. E poi, appunto, la parte sui trasporti dove viene offerto ai partecipanti sia uno “sconto del 100% per chi arriva all’Annual meeting in treno”, sia addirittura ciaspole o scarpe invernali antiscivolo per chi punta a camminare. Nonostante la buona volontà, mossa anche dalla spinta di diverse Ong che da anni chiedono ai potenti un cambiamento nelle pratiche e nell’impatto ecologico legato a Davos, i jet privati continuano però ad essere uno dei mezzi preferiti dei delegati presenti.

    Così i jet vanno e vengono e, come fanno notare alcuni giornalisti presenti all’aeroporto, talvolta ospitano soltanto tre persone. Alcuni degli aerei monitorati da Flightradar24 hanno compiuto tratte di appena 240 chilometri (per esempio da Milano) per raggiungere Davos. Almeno tre quelli dalla Lombardia, poi jet da Genova e ovviamente diversi mezzi privati arrivati dagli Stati Uniti, anche se da Transport & Environment ricordano per esempio come un delegato che arriva da New York potrebbe ridurre le sue emissioni dell’87% se solo viaggiasse su un volo commerciale anziché un jet, o uno da Berlino di quasi il 99% se prendesse il treno. Un portavoce dell’aeroporto di Zurigo ha spiegato che in media prima e dopo la settimana del WEF ci sono quasi 1000 movimenti di voli aggiuntivi rispetto al solito, con mezzi che possono essere jet aziendali, aerei di stato o elicotteri. Anche gli aeroporti più piccoli rispetto a Zurigo, come Saint Moritz, Friedrichshafen e St. Gallen-Alternheim vedono atterrare e ripartire jet privati: a Friedrichshafen per esempio lunedì scorso c’è stato il 33% di jet in più rispetto alla media. Mezzi, dei super ricchi, che arrivano persino dalle Hawaii (come quello giunto lunedì da Kailua-Kona nelle Hawaii operato dalla compagnia charter NetJets dopo quasi 15 ore di volo). Dalle tracce dei movimenti risulta inoltre che diversi aerei abbiano coperto una distanza inferiore ai 500 chilometri, come quelli atterrati a Zurigo da Parigi.

    Emissioni

    Negli ultimi cinque anni i jet privati hanno inquinato il 46% in più

    di  Sandro Iannaccone

    19 Novembre 2024

    Un bel controsenso in un Forum dove i potenti sono anche chiamati a discutere dei problemi globali – come la crisi del clima – più urgenti. Un controsenso che va avanti da anni: nel 2023 per esempio erano 660 i jet privati utilizzati per arrivare a Davos. Nel tentativo di diminuire l’impatto degli aerei privati e sensibilizzare i super ricchi sul problema quest’anno la campagna “Travel Smart” chiedeva di viaggiare il più possibile con aerei commerciali o treni, ma sono pochissime le multinazionali che hanno aderito, appena 2 ( Saint-Gobain e KPMG) su 100. “Ancora un altro mese di gennaio in cui stiamo assistendo all’eccessivo afflusso di jet privati che volano verso il World Economic Forum (WEF) a Davos, in Svizzera. E ancora un altro anno in cui ci si chiede se questi leader, che affermano di modellare il futuro delle nostre società verso la sostenibilità climatica, saranno mai autocritici e valuteranno se stanno davvero dando l’esempio” si legge nel sito di Travel Smart. “Evitando l’uso di un jet privato, le aziende che viaggiano da diverse località europee, come KPMG, risparmieranno circa sette tonnellate di CO2. Ciò significa che risparmierebbero più emissioni di un viaggio in auto intorno al mondo!” aggiunge l’associazione. Una ricerca della Linnaeus University stima come i jet privati siano il mezzo di trasporto più inquinante per passeggero al chilometro e tra il 2019 (proprio l’anno in cui Greta Thunberg fece il suo famoso discorso sulla “nostra casa che brucia” a Davos) al 2023, secondo le loro analisi le emissioni dei jet privati sono aumentate addirittura del 46%.

    Anche per questo – senza però avere ottenuto finora risposte – associazioni come Greenpeace e altre, con tanto di blitz al WEF, da anni chiedono riforme per tassare i super ricchi per finanziare un futuro equo e verde. Però finora a viaggiare tutti in treno o su aerei commerciali proprio non se ne parla. Eppure, visto che si parla di ricchi e di World Economic Forum, se guardassero solo al risparmio passare a mezzi meno inquinanti sarebbe decisamente più conveniente anche per il portafoglio: noleggiare un jet privato da New York a Davos costa 130mila euro, da Berlino al Forum circa 13mila, ma lo stesso viaggio persino in “business” su un volo commerciale costerebbe rispettivamente 15 o 10 volte di meno. LEGGI TUTTO

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    Moda sostenibile: fibre riciclate o rigenerate, qual è la differenza?

    In Europa stoffe e tessuti sono al quarto posto per impatto sull’ambiente e sui cambiamenti climatici (dopo cibo, edilizia, mobilità). Sono, inoltre, al terzo posto per quanto riguarda i consumi di acqua e suolo e al quinto per uso di materie prime. Ogni anno vengono buttati via circa 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili, cioè circa 11 chili a persona, mentre nel mondo ogni secondo l’equivalente di un camion carico di questi materiali viene inviato in discarica e incenerito.

    Rifiuti

    Multe salate per chi non smaltisce i vestiti usati nei cassonetti gialli

    di  Paolo Travisi

    14 Gennaio 2025

    Di qui l’importanza di riciclare e rigenerare. Due termini che non sono esattamente sinonimi, come spiega Altroconsumo, che sul tema ha interpellato Daniele Spinelli, chimico e project manager al Next Technology Tecnotessile, ente di ricerca con sede a Prato. “Il riciclo comporta la distruzione dell’oggetto di partenza e un cambio di stato della materia, mentre la rigenerazione implica che la fibra recuperata da vecchio capo diventi filato per produrne uno nuovo”, chiarisce l’esperto.

    Moda sostenibile

    Infinna, la fibra tessile circolare che piace a Zara, Uniqlo e H&M

    di  Dario D’Elia

    07 Gennaio 2025

    Dalle bottiglie di plastica ai tessuti
    Un tipico esempio di riciclo è quello delle bottiglie in PET trasformate in tessuto. È ciò che fa Sinterama, un’azienda di Biella che, tramite una procedura meccanica a basso impatto ambientale, produce un filo di poliestere chiamato Newlife, disponibile in otto varianti.

    C’è poi Aquafil, azienda con sede nei pressi di Trento, che ha trovato il modo di ripolimerizzare il nylon di vecchie reti da pesca e tappeti per creare un filo nuovo, Econyl, usato soprattutto per realizzare capi sportivi o costumi da bagno. “Utilizzando il nostro filato, gli stilisti hanno infinite possibilità di creare nuovi prodotti senza impiegare nuove risorse. Ogni 10mila tonnellate di materia prima usata per produrre il filo, vengono risparmiati 70mila barili di petrolio greggio”, si legge sul sito aziendale.

    Il caso

    “Buy now”, altro che Black Friday: il docufilm svela i danni del consumismo sull’ambiente

    di  Paolo Travisi

    28 Novembre 2024

    Di nylon, però, sono fatti anche i collant: l’azienda svedese Swedish Stockings, fondata nel 2013, attualmente propone una collezione composta per oltre l’80% da materiali riciclati. Inoltre, dal 2016, grazie al progetto Recycling Club, l’impresa raccoglie vecchie calze in nylon per farle diventare tavoli di design.
    La morbidezza di lana e cachemire
    Il processo di rigenerazione dei tessuti riguarda soprattutto la lana e il cachemire, che vengono raccolti, divisi per colore e poi trasformati in un nuovo filato attraverso un procedimento meccanico, che non prevede l’uso di sostanze chimiche né di tinture. “Per quanto riguarda le materie prime, il cachemire rigenerato consente di risparmiare circa il 90% di acqua, l’80% di energia, il 90% di anidride carbonica”, quantifica Spinelli.

    Economia circolare

    Il denim diventa compostabile. “I nostri jeans stretch biodegradabili in 6 mesi”

    di  Serena Gasparoni

    16 Novembre 2024

    “Tuttavia, lana e cachemire non possono essere rigenerati all’infinito, perché ogni volta che la fibra viene sottoposta a processi di sfilacciatura ne esce accorciata. In ogni modo, la qualità è garantita: per evitare che il filato subisca un calo di performance, la fibra, quando necessario, viene allungata aggiungendo una percentuale di lana o di cachemire vergini”.
    Anche seta, denim, cotone
    In alcuni casi, oltre alla lana e al cachemire, è possibile rigenerare anche altri tessuti, sebbene sia più complicato. Per esempio, Rifò, azienda fondata nel 2017 a Prato con l’obiettivo di contrastare la sovrapproduzione nell’industria dell’abbigliamento, rigenera anche cotone, seta, denim, affidando la realizzazione dei nuovi capi ad artigiani locali. Una filiera corta che permette agli addetti di monitorare tutte le fasi di lavorazione del prodotto e di ridurre gli impatti di anidride carbonica. LEGGI TUTTO

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    Animali autostoppisti all’interno delle piante ornamentali. Così aumentano i rischi di “invasione”

    Amiamo tutti accudire piante, abbellire la casa con fiori recisi, oppure posizionare in giardino nuove specie esotiche colorate, ma dietro alle nostre passioni da pollice verde si nasconde un insidia: animali e parassiti autostoppisti. Il mercato dell’export di piante ornamentali e fiori recisi vale oltre 10 miliardi di dollari e l’Italia, dopo i Paesi Bassi, è uno dei principali player con esportazioni per circa 1 miliardo. Negli ulivi che dalle nostre terre arrivano all’estero, ad esempio gli Stati Uniti, sempre più spesso però si nascondono in vasi e anfratti gechi, serpenti o lucertole che viaggiano dal sud del Mediterraneo sino al Nord Europa o a terre lontane, piccoli intrusi che rischiano di “trasformarsi in parassiti invasivi che causano gravi danni all’ambiente naturale” racconta una nuova ricerca, in fase di peer-review, pubblicata su Bioscience da un team internazionale di ricercatori di Oxford, Cambridge e università dei Paesi Bassi.

    Biodiversità

    C’è una formula per capire se la specie invasiva avrà successo

    di redazione Green&Blue

    07 Gennaio 2025

    Gli esperti ricordano che il mercato globale multimiliardario delle piante ornamentali è in rapida crescita e si sta espandendo geograficamente, tanto che sarebbero necessari “urgentemente standard più elevati” nei controlli sulla sicurezza di ciò che viene esportato. “Nonostante le normative e i controlli alle frontiere, i fiori recisi e le piante in vaso importati rappresentano un rischio crescente perché il volume enorme del commercio rende difficile il monitoraggio e il controllo. Insetti, funghi, rettili, ragni e vari parassiti agricoli vengono trasportati vivi in tutto il mondo su piante ornamentali destinate a rallegrare le nostre case e i nostri giardini” spiegano i ricercatori. In un mondo dove la crisi climatica innescata dall’uomo porta a temperature sempre più elevate, ci sono però più chance per animali e parassiti di sopravvivere: basta pensare per esempio alle zanzare, portatrici di malattie, che fino a pochi decenni fa se arrivate in Europa settentrionale all’interno di vasi e piante sarebbero morte per il freddo, mentre ora riuscirebbero in parte a sopravvivere. Una delle piante in cui gli organismi amano viaggiare è l’ulivo. Secondo il professor William Sutherland del Dipartimento di zoologia dell’Università di Cambridge per esempio “gli ulivi ornamentali in vendita nel Regno Unito possono avere più di 100 anni, con molti nascondigli tra la loro corteccia nodosa e il terreno in cui vengono trasportati. Ciò è incredibilmente rischioso in termini di importazione di parassiti”. Ulivi che spesso partono dall’Italia con un ospite a bordo: la lucertola muraiola.

    Le prove raccolte dai ricercatori “indicano fortemente che il commercio di piante vive a scopo ornamentale è una delle principali forme di introduzione di rettili al di fuori del loro areale. In particolare, il commercio di ulivi in vaso dall’Italia e dalla Spagna sembra responsabile delle diffuse introduzioni della lucertola muraiola italiana Podarcis siculus , del geco moresco Tarentola mauritanica e di diverse specie di serpenti dell’Europa continentale. Tuttavia, tali rilevamenti di autostop spesso avvengono al momento della vendita o dopo l’acquisto e pertanto non vengono registrati a meno che non vengano contattati centri di riabilitazione della fauna selvatica per raccogliere gli animali” si legge nello studio. In generale “i serpenti e le lucertole adulti sono solo la punta dell’iceberg. Se riescono a passare loro, qual è la possibilità per i piccoli insetti e i funghi, quelli che causano davvero grandi problemi? È inconcepibile che i funzionari possano controllare a fondo un’importazione di un milione di rose dal Kenya, per esempio” aggiunge Sutherland. Come sottolinea anche Silviu Petrovan, ricercatore presso il dipartimento di zoologia dell’Università di Cambridge, “l’enorme volume di fiori recisi e piante ornamentali che vengono scambiati a gran velocità in tutto il mondo rende estremamente difficile intercettare tutti i parassiti e le malattie che trasportano. Anche con le migliori intenzioni, gli autostoppisti indesiderati riescono sempre a superare i controlli doganali all’importazione”. Lo stesso Petrovan ha raccontato per esempio come in un negozio di fiori a Sheffield, in Inghilterra, sia stata trovata una raganella arrivata fra le rose recise dalla Colombia, passando per l’Ecuador. Esaminando dati sulle segnalazioni di specie ritrovate nelle piante ornamentali alla dogana dei Paesi Bassi e in quella del Regno Unito degli ultimi anni, nell’80% dei casi i parassiti intercettati erano insetti. Ma sono stati trovati appunto anche serpenti, lucertole, tante forme di microplastiche e prodotti agrochimici dannosi, oltre a residui di pesticidi e tanto altro.

    Biodiversità

    Le specie aliene “emigrano” per evitare l’estinzione

    di  Pasquale Raicaldo

    12 Dicembre 2024

    Gli esperti sottolineano che “il commercio di piante ornamentali è importante per le economie di tutto il mondo e sostiene molte persone e le loro famiglie nelle aree rurali” dunque “non vogliamo assolutamente incoraggiare reazioni impulsive con questo studio”, ma sottolineare che “dobbiamo impegnarci per rendere il settore più sostenibile attraverso strumenti come certificazioni e una migliore regolamentazione, e collaborare con chi è coinvolto nel settore per comprendere meglio i rischi e come mitigarli”. Come riassume Alice Hughes, ricercatrice dell’Università di Hong Kong coinvolta nello studio, “dobbiamo essere consumatori responsabili. Mentre vengono sviluppati standard di certificazione, acquistare piante anziché fiori recisi intanto può ridurre molti dei rischi derivanti dall’importazione di fiori recisi. Durano molto più a lungo e riducono anche i costi delle emissioni”. Quello che i ricercatori chiedono, infine, è soprattutto un “database per la raccolta dati globale” , un set di dati più preciso sugli ospiti indesiderati con cui “informare la politica sui rischi legati al commercio delle piante ornamentali”. LEGGI TUTTO

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    Le piante antartiche che crescerebbero anche sulla Luna

    Potrebbero crescere sul suolo lunare ma su quello di Marte non avrebbero possibilità. Due specie vegetali presenti in Antartide hanno dimostrato di poter sopravvivere e svilupparsi anche sul nostro satellite naturale. La prima è un muschio, ovvero una pianta non vascolare, e si chiama Sanionia uncinata. La seconda è Colobanthus quitensis, uno dei rari fiori, sono solo due quelli autoctoni, che popolano i terreni risparmiati dal ghiaccio del continente bianco. Entrambe hanno il pedigree adatto agli ambienti inospitali perché sono estremofile, così come si chiamano gli organismi in grado di resistere a condizioni limite di siccità, vento, gelo e radiazioni solari. Campioni dell’evoluzione che non perdono smalto, in termini di capacità di fotosintesi, nemmeno se coltivati sulla regolite lunare, un substrato di sedimenti e polveri che ha la stessa composizione minerale dello strato di roccia più superficiale della Luna (e che si può acquistare comodamente online).L’esperimento è stato condotto in condizioni di atmosfera terrestre nei laboratori della stazione antartica Comandate Ferraz sull’isola di San Giorgio e i risultati sono stati pubblicati in inglese sull’ultima edizione degli annali dell’Accademia brasiliana delle scienze. Per ogni specie sono stati selezionati sessanta campioni poi coltivati sia in laboratorio, sulla regolite lunare e marziana, sia nel loro ambiente ai margini del ghiacciaio Wanda, sempre sull’isola di re Giorgio. Dopo due settimane, le piante su suolo marziano non hanno dato segni di vita mentre sul substrato lunare sono cresciute più o meno come quelle in natura.

    Agricoltura

    Crisi climatica, una primavera senza broccoli nel Regno Unito. E in Italia le arance più piccole

    di  Pasquale Raicaldo

    14 Gennaio 2025

    “Potrebbero essere le prime due specie candidate a colonizzare il suolo extraterrestre, la loro presenza arricchisce anche il suolo di azoto e può favorire la coltivazione di varietà agricole utili all’alimentazione umana. – spiega Cesar Amaral, astrobiologo della Rio de Janeiro State University che ha coordinato la ricerca – Queste piante sono come habitat in miniatura e quando crescono assicurano importanti servizi ecologici: possono ospitare batteri, funghi e insetti che migliorano la qualità dell’ambiente”.

    Sanionia uncinata e Colobanthus quitensis sono le prime due piante antartiche a superare questo test di sopravvivenza che in passato, ma in condizioni extraterrestri (a gravità ridotta) è toccato a Grimma pulvionata, un muschio molto comune, e la fienarola dei prati (Poa pratensis), un’erbacea che cresce nell’emisfero boreale. In generale, le specie dei climi più freddi e aridi risultano più adatte alla coltivazione extraterrestre rispetto a quelle tropicali. Nel 2014 una simulazione dell’Università di Wageningen aveva dimostrato come, sul lungo periodo, il suolo di Marte sarebbe addirittura più idoneo sia per la coltivazione di varietà agricole, come il pomodoro e la carota, che di specie selvatiche come l’arnica e la vicia.

    Ambiente e Salute

    Inquinamento da farmaci: una ricerca svela l’impatto dell’ibuprofene sugli ecosistemi marini

    di redazione Green&Blue

    13 Gennaio 2025

    Nel 2015 l’astronauta americano Scott Kelly ha coltivato un giardino galattico di zinnie a bordo della stazione spaziale internazionale mentre nel 2020 è stato lanciato in orbita a bordo di un satellite un micro-orto di trenta centimetri in grado ospitare piantine di verdura.

    “Lo studio delle interazioni tra piante e suolo in un ambiente alieno è una delle più importanti sfide per la conquista dello spazio. – conclude il ricercatore brasiliano – I deserti freddi dell’Antartide sono probabilmente ciò che più si avvicina a un pianeta extraterrestre e sono un laboratorio naturale per la ricerca in astrobiologia”. LEGGI TUTTO

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    Con il conto termico finanziamenti per sostituire caldaie, boiler e pannelli solari

    Ecobonus ridotto ma Conto Termico 2.0 ancora pienamente operativo con la possibilità di ottenere il rimborso immediato del 65% della spesa per sostituire il vecchio impianto di riscaldamento con uno a pompa di calore oppure con una caldaia ibrida o a biomasse. Per la misura gestita dal GSE sono infatti ancora disponibili circa 10 milioni […] LEGGI TUTTO

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    A differenza di Trump i Paesi dei petrodollari hanno capito che l’oil&gas avrà vita breve

    Chissà cosa pensava ieri la premier italiana Giorgia Meloni ascoltando l’elogio del petrolio di Donald Trump, nel discorso di insediamento come 47esimo presidente degli Stati Uniti. Meno di una settimana prima la presidente del Consiglio si era ritrovata in un consesso completamente opposto: il World Future Energy Summit di Abu Dhabi. Pur andando in scena in un Paese che basa la sua ricchezza sull’oro nero, gli Emirati Arabi Uniti, quel vertice internazionale ha sancito che non sarà il petrolio l’energia del futuro, nemmeno di quello prossimo. E’ in quella occasione che Meloni ha annunciato l’accordo con Emirati e Albania per importare energia pulita dal Paese delle aquile, prodotta con soldi e tecnologie emiratine.

    Un progetto che prevedete la realizzazioni di impianti eolici e fotovoltaici (l’Albania è già ricca di idroelettrico) e di un elettrodotto che colleghi le due sponde dell’Adriatico. Secondo il premier di Tirana Edi Rama l’intesa con Roma e Abu Dhabi vale un miliardo di euro. “L’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili guarda con grande apprezzamento a questa intesa”, dice Francesco La Camera, direttore di Irena, “anche perché conferma i nostri studi che individuano l’Italia come ponte verso l’Africa e il Medioriente per quanto riguarda le infrastrutture di energie rinnovabili”. Viene però da chiedersi quale sia la reale strategia energetica del nostro governo, che ha lungamente rivendicato per l’Italia il ruolo di “hub europeo del gas” (poi declinato in un più generico “hub energetico”), che si accoda, ma forse solo per omaggiare il potentissimo alleato, alla retorica trumpiana del “drill, baby drill”, che con Eni continua comunque ad esplorare il mondo in cerca di nuovi giacimenti fossili e stringe accordi con grandi esportatori di gas come Algeria e Azerbaigian. E poi fa alleanze con Paesi che, in modo certamente più lungimirante degli Usa di Trump, hanno capito come l’era dell’oil&gas abbia vita breve e occorra attrezzarsi per il futuro.

    L’intervento

    Il discorso di Giorgia Meloni a Baku: “Non c’è un’unica alternativa ai combustibili fossili”

    di  Giacomo Talignani

    13 Novembre 2024

    Pochi giorni prima del summit di Abu Dhabi, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin era volato a Riad, dove ha incontrato il potentissimo ministro dell’energia saudita Abdulaziz Bin Salman Al Saud. “I principali focus del Memorandum d’Intesa”, si legge nella nota ufficiale, “riguardano le energie rinnovabili, la riduzione delle emissioni di metano, le interconnessioni elettriche, l’idrogeno rinnovabile e a basse emissioni, i suoi derivati di natura rinnovabile e low-carbon come l’ammoniaca, i sistemi di cattura, stoccaggio e utilizzo della CO2”. Anche i sauditi, come gli emiratini, sono impegnati a investire le montagne di petrodollari, guadagnati estraendo ed esportando greggio, in innovazione ed energie green. Il loro progetto di punta è Neom, città sostenibile alimentata da energia pulita che sta sorgendo nel deserto. A novembre la nostra Sace, agenzia di assicurazione del credito controllata dal ministero dell’Economia, ha fornito a Riad garanzie su prestiti da 3 miliardi di dollari per lo sviluppo del progetto che ha un costo stimato di 1500 miliardi di dollari. Poi la sortita di Meloni e Pichetto Fratin ad Abu Dhabi. Se la strategia energetica italiana appare poco chiara e ispirata a una generica “diversificazione” (gas naturale finché serve e comprato dal miglior offerente, rinnovabili sì ma senza fretta, ritorno al nucleare entro il prossimo decennio e poi chissà in futuro idrogeno e fusione nucleare…), le recenti intese rendono invece trasparenti i piani dei petrostati mediorientali.

    L’Italia

    Cop29, Pichetto Fratin: “Rinnovabili e nucleare per l’indipendenza energetica”

    di  Luca Fraioli

    09 Novembre 2024

    Chi li guida sa che loro e forse i loro figli faranno ancora tanti soldi con il petrolio, ma certamente non succederà ai nipoti. E così stanno riorientando i loro business, cercando di conquistare i futuri mercati di “elettroni e molecole”, come dicono gli analisti del settore. Da qui, una serie di accordi per trovarsi in posizione di vantaggio competitivo quando ci sarà da costruire elettrodotti (per portare in Europa l’elettricità prodotta in Nordafrica e Medioriente con sole e vento) e gasdotti specifici per l’idrogeno (è ancora oggetto si controversia se quelli attuali progettati per il gas naturale siano adattabili alla molecola H2). Si spiega così l’intesa di Abu Dhabi con Italia e Albania. Che va inscritta in un quadro più ampio. Nel settembre del 2023 la Grecia ha firmato un accordo con l’Arabia Saudita per un elettrodotto (il Saudi Greek Interconnection) che porti fino in Germania l’elettricità saudita, passando per Atene. Un altro progetto analogo (il Great Sea Interconnector) vede coinvolte, oltre alla Grecia, Cipro e Israele. E dall’altra parte del Mediterraneo, almeno sulla carta, si pianificano opere analogo: l’Algeria punta a stendere un cavo sottomarino che porti elettricità green in Italia passando per la Sardegna. Infine il Morocco-UK Power Project, il cui obiettivo è fornire a milioni di case britanniche energia rinnovabile generata in Nord Africa e trasportata tramite 4.000 km di cavi sottomarini. Ci vorrà tempo perché gli elettrodotti sostituiscano gasdotti e oleodotti, navi gasiere e petroliere. Ma i petrostati, come la lontana Cina d’altra parte, non hanno cicli elettorali di 4 o 5 anni: possono pianificare le loro politiche energetiche da qui ai prossimi decenni, senza temere il giudizio delle urne.

    Se però i colossi mediorientali hanno risorse economiche e stabilità politica, non altrettanto si può dire di Paesi come l’Algeria. “In questo caso il nostro ruolo può essere proprio di stabilizzazione”, spiega Silvia Francescon, che si occupa di politica estera per Ecco, il think tank italiano per il clima. “Se il mercato del petrolio e del gas dovessero crollare nei prossimi anni, come lasciano intendere le previsioni, quei Paesi la cui economia poggia tutta sull’esportazione di combustibili fossili, rischieranno il collasso. Aiutarli a riconvertirsi in tempo alle rinnovabili è un modo per sostenere la loro stabilità futura”. Anche se questo può voler dire, per Paesi come l’Italia, rinunciare alla propria autonomia energetica. Per decenni abbiamo importato dall’estero petrolio e gas (senza contare l’elettricità prodotta in Francia con il nucleare), il che ci ha reso spesso dipendenti da sceicchi e dittatori. Ci era stato detto che con le rinnovabili, con il sole e il vento di cui disponiamo, avremmo potuto produrre in casa l’energia che ci occorre. E invece ora la prospettiva è di importare anche elettroni e idrogeno verde dall’Albania, dall’Algeria, in futuro dagli Emirati.

    Resta poi l’incognita Trump: vuole davvero riportare indietro le lancette della storia, rivitalizzando un’industria, quella del petrolio, che altri grandi player stanno, lentissimamente, dismettendo? Ci riuscirà? E la fedeltà all’alleato americano interferirà con gli accordi green appena sottoscritti dal’Italia di Giorgia Meloni? LEGGI TUTTO