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    Gaultheria, i colori che vestono il giardino d’inverno

    Con il nome di gaultheria ci riferiamo ad un genere di piante arbustive, composto da numerose specie, che appartiene alla famiglia delle ericacee. La gaultheria si trova tipicamente in America Settentrionale, in alcuni paesi dell’Asia – in particolare il Nepal e l’area del sud-est, nonché in Australia. Il suo habitat ideale è la foresta. La pianta raggiunge solitamente un’altezza di poche decine di centimetri (circa 20-30), mentre in larghezza può arrivare ad occupare tra gli 80-100 centimetri. La gaultheria è caratterizzata da un fogliame di colore verde intenso e coriaceo, con un profumo che ricorda quello della canfora. Tra le specie più note di gaultheria possiamo citare la mucronata (talvolta con le bacche bianche), la procumbens (nota anche come “tè del Canada”) e l’erecta (contraddistinta dal fogliame di una tonalità più chiara di verde). La pianta deve il suo nome al botanico di origini francesi Jean-François Gaulthier.

    L’esposizione suggerita per la pianta
    La gaultheria è una pianta che predilige gli ambienti luminosi, tuttavia, non dev’essere esposta al soleggiamento diretto. Alle nostre latitudini, anche a causa del clima particolarmente mite, l’esposizione ideale per la gaultheria è in un luogo ombreggiato o, comunque, in penombra. La pianta è particolarmente rustica e, grazie alla capacità di sopportare temperature minime di -10 gradi, può essere coltivata all’aperto in tante aree del nostro paese.

    Il terreno più indicato per la sua coltivazione
    Per coltivare con successo la gaultheria dobbiamo scegliere un terreno acido e caratterizzato da un buon drenaggio, poiché la pianta non sopporta in alcun modo il ristagno di acqua, che è causa dell’insorgenza del marciume radicale. Per coltivare la gaultheria possiamo quindi scegliere una miscela di torba e sabbia, in modo tale da assicurare un buon compromesso tra l’umidità e il drenaggio. Se coltiviamo la gaultheria in vaso, ricordiamoci di aggiungere un po’ di concime organico al terriccio. Per quanto riguarda il rinvaso della pianta, dobbiamo preferire il periodo invernale, tenendo conto che è necessario rinvasare la gaultheria solo quando le radici non hanno più lo spazio per svilupparsi. Accertiamoci di non danneggiare l’apparato radicale durante l’operazione: lasciamo intatto il pane di terra e scegliamo un contenitore di un paio di centimetri più ampio di quello che andremo a sostituire.

    Come curare la pianta: l’innaffiatura, la concimazione e la potatura
    La gaultheria va annaffiata in modo regolare durante il periodo estivo, avendo però l’accortezza di attendere sempre che il terreno sia asciutto tra un’innaffiatura e l’altra. Se la pianta è coltivata in vaso ed è presente un sottovaso, ricordiamoci di svuotarlo: il ristagno di acqua potrebbe favorire il marciume radicale. Durante le altre stagioni, bisogna annaffiare solo quando la terra è asciutta. La gaultheria può essere concimata con un po’ di concime organico tra la fine di febbraio e i primi di marzo. Quale alternativa, possiamo ricorrere al classico concime in granuli a rilascio lento, che possiamo aggiungere una volta ogni 3-4 mesi. Non sono necessarie particolari potature: ricordiamoci però di rimuovere i rami che sono danneggiati o secchi.

    Quando fiorisce
    La gaultheria regala una bella fioritura nel corso del tardo periodo primaverile ed estivo. I fiori hanno la classica forma a campanula e un bel colore bianco, che talvolta assume anche delle leggere sfumature rosate. Nel corso del periodo autunnale, la gaultheria produce delle bacche che ricordano delle piccole mele, che sono solitamente di colore bianco (esistono però anche delle varietà con bacche rosa o bianche). Le bacche restano sulla pianta per tutto l’inverno.

    Come si moltiplica la pianta
    Per ottenere un nuovo esemplare di Gaultheria possiamo sfruttare i semi oppure una talea. Nel primo caso, il momento più indicato è all’inizio dell’autunno: sistemiamo i semi in un vasetto con torba e terriccio universale. I primi germogli spunteranno dopo circa un mese e potranno essere messi a dimora l’anno seguente. Le talee si possono ottenere invece nel periodo estivo, utilizzando una miscela di terriccio con torba e sabbia, indicato per la germinazione. Le talee germogliano solitamente nel corso della primavera seguente, mentre la messa dimora dovrebbe avvenire in linea di massima durante l’inverno.

    Le malattie e i parassiti più comuni
    La gaultheria è una pianta piuttosto rustica, che non è particolarmente colpita da cocciniglie o dagli afidi. Può capitare però che sia attaccata dall’oidio, il cosiddetto “mal bianco”. In questo caso, per contrastare la malattia dobbiamo eseguire un trattamento con un fungicida ad hoc. Se notiamo che la nostra gaultheria ha le foglie secche, soprattutto nei periodi più aridi, dobbiamo assicurare un’annaffiatura più costante e sufficiente. Se necessario, possiamo anche prevedere di nebulizzare le foglie in modo da assicurare un buon livello di umidità, soprattutto nei periodi siccitosi e secchi. LEGGI TUTTO

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    A Natale puoi anche vivere una vacanza slow

    Passeggiare sulla neve, seguire lezioni di cucina in un agriturismo, visitare siti archeologici, chiese e musei di notte, intraprendere antichi itinerari da percorrere a piedi oppure accompagnare i bambini a seguire favole animate nei parchi e nei piccoli centri. Tra il 24 dicembre e il 6 gennaio, oltre 18 milioni di italiani sposteranno per le festività natalizie e di fine anno. Di questi, 7 milioni e 600 mila partiranno per le vacanze di Natale, quasi 5 milioni per Capodanno. Quale momento migliore per cambiare prospettiva di viaggio e provare l’esperienza di turismo slow? Meno impattante e sicuramente più unico. Andare fuori rotta, lasciandosi alle spalle l’overtourism, andando alla ricerca di luoghi poco conosciuti. Rallentando. Magari per vivere la natura in modo consapevole e sostenibile, prendendosi più tempo. Si può fare. Anche se si tratta di un piccolo spostamento appena fuori città o addirittura restando nel luogo dove si abita. La buona notizia è che esistono ancora “oasi” un po’ segrete dove godere della natura, della buona cucina, della lentezza e del silenzio. Alcune volte sono anche vicine e bisogna solo scoprirle.
    Ecco qualche consiglio.

    Una passeggiata con le ciaspole (ansa) LEGGI TUTTO

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    Trovate tracce di Fentanyl anche nei delfini

    Il Fentanyl, un oppioide sintetico circa 100 volte più potente della morfina (e anche circa 100 volte più tossico), è stato trovato all’interno di 18 campioni di tessuto adiposo prelevati da un totale di 89 delfini appartenenti alla specie Tursiops truncatus che vivono o hanno vissuto nelle acque del Golfo del Messico. Non solo, alcuni degli 89 campioni analizzati sono risultati positivi al carisoprodol, un farmaco miorilassante, o al meprobamato, un ansiolitico. È quanto emerge dai risultati di una ricerca pubblicata su iScience.

    “I farmaci sono diventati microinquinanti emergenti e costituiscono una preoccupazione crescente a livello globale, in quanto la loro presenza è stata segnalata negli ecosistemi di acqua dolce, nei fiumi e negli oceani di tutto il mondo”, racconta Dara Orbach, che ha coordinato lo studio ed è docente di biologia marina presso la Texas A&M University-Corpus Christi (Stati Uniti). Da un ampio lavoro di campionamento e analisi, i cui risultati erano stati pubblicati nel 2022 su PNAS, per esempio, era emerso che circa un quarto dei 258 fiumi presi in esame e sparsi per tutto il mondo contiene almeno un farmaco in concentrazioni superiori a quelle ritenute sicure per gli organismi acquatici. E il passaggio dai fiumi agli ecosistemi marini è breve.

    Biodiversità

    Uno studio rivela: i delfini respirano microplastiche

    di  Pasquale Raicaldo

    17 Ottobre 2024

    Ma perché testare la possibile presenza di questi contaminanti proprio nel tessuto adiposo dei delfini? Questi animali, spiega Orbach, sono spesso utilizzati come bioindicatori della salute degli ecosistemi nei quali vivono, poiché il loro tessuto adiposo tende ad immagazzinare gli eventuali contaminanti presenti in acqua o nei pesci di cui si nutrono e può essere campionato in modo relativamente poco invasivo anche negli esemplari vivi. Degli 89 animali presi in considerazione nel corso della ricerca, infatti, 83 campioni sono stati prelevati da delfini vivi e sei da esemplari deceduti. Si tratta di animali che vivono o hanno vissuto in tre diversi siti del Golfo del Messico, di cui 12 sono stati campionati nel 2013 dal Mississippi Sound, la porzione di oceano che bagna appunto le coste del Mississippi. 30 campioni sono risultati positivi ad almeno uno dei tre farmaci, di cui 18 al Fentanyl. Da qualche anno a questa parte, quest’ultimo è diventato tristemente famoso per la sua diffusione come droga d’abuso. Si tratta di una sostanza estremamente pericolosa, considerata dagli esperti dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) come una delle principali responsabili dei casi di overdose negli Stati Uniti. In ambito sanitario viene utilizzato come anestetico generale nelle operazioni di chirurgia maggiore o come potente antidolorifico nei malati oncologici che presentano uno stadio avanzato della malattia.

    “Abbiamo trovato un delfino morto nella Baia di Baffin, nel Texas meridionale, un anno dopo la più grande retata di fentanyl liquido nella storia degli Stati Uniti nella contea adiacente”, prosegue Orbach. E aggiunge: “I delfini del Mississippi (quelli campionati nel 2013, nda) hanno rappresentato il 40% dei nostri rilevamenti farmaceutici totali, il che ci fa pensare che si tratti di un problema di lunga data nell’ambiente marino”. Al momento, spiegano gli autori nello studio, non è stato possibile quantificare esattamente la concentrazione dei tre farmaci nel tessuto degli animali, poiché si tratta di quantitativi relativamente bassi. I risultati mettono comunque in luce la necessità di effettuare ulteriori studi, soprattutto per chiarire quali possano essere gli effetti dell’esposizione cronica degli animali a queste sostanze: “Il nostro team di ricerca sottolinea la necessità di un monitoraggio proattivo dei contaminanti emergenti – conclude Orbach -, soprattutto nelle regioni con grandi popolazioni umane e importanti industrie della pesca o dell’acquacoltura”. LEGGI TUTTO

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    L’aviaria mette in allarme gli zoo, si teme per gli animali in via di estinzione

    L’influenza aviaria ora, dopo gli allevamenti, mette in allarme anche gli zoo di tutto il mondo: gli scienziati temono che gli uccelli selvatici infetti, che atterrano nei recinti, possano diffondere la malattia tra gli animali in cattività. E in effetti, un numero crescente di zoo segnala la morte di animali. Negli Stati Uniti, un ghepardo, un leone di montagna, un’oca indiana e un kookaburra sono tra gli animali morti nel Wildlife World Zoo vicino a Phoenix, in Arizona, secondo quanto riportato dai media locali la scorsa settimana. Lo zoo di San Francisco ha temporaneamente chiuso le sue voliere, dopo che una poiana selvatica è stata trovata morta nel suo terreno, e in seguito è risultata positiva all’influenza aviaria altamente patogena (HPAIV). Una rara oca pettorosso è morta allo zoo Woodland Park di Seattle, causando la chiusura delle voliere e la sospensione dell’alimentazione dei pinguini per i visitatori a novembre.

    Questi casi americani seguono la morte di 47 tigri, tre leoni e una pantera negli zoo del Vietnam meridionale durante l’estate. Una serie di decessi che fanno temere per la nuova ondata di aviaria: secondo i ricercatori potrebbe avere “gravi implicazioni” per le specie in via di estinzione. L’ipotesi è che i casi siano emersi negli zoo perché si tratta di aree con un’alta concentrazioni di animali, i cui recinti possono essere raggiunti facilmente da uccelli portatori del virus. Questo tende a verificarsi di più durante la stagione delle migrazioni. Negli Stati Uniti c’è una recrudescenza della malattia. Diversi Stati, tra cui Louisiana, Missouri e Kansas, hanno segnalato un aumento dei casi di influenza aviaria, in particolare tra oche e uccelli acquatici. E c’è stata un’impennata di casi in Iowa, dopo quasi un anno senza rilevamenti del virus. Nelle ultime ore le autorità sanitarie della California hanno dichiarato lo stato di emergenza per la diffusione dell’influenza aviaria, che sta devastando gli allevamenti di mucche da latte in quello Stato e causando sporadiche malattie nelle persone negli Stati Uniti. Il virus, noto anche come Tipo A H5N1, è stato rilevato per la prima volta nel bestiame da latte degli Stati Uniti a marzo.

    Da allora, l’influenza aviaria è stata confermata in almeno 866 mandrie in 16 stati. Ora la preoccupazione comincia a “contagiare” anche la fauna selvatica preservata negli zoo. Come difenderla? “E’ un bel problema”, ammette Vittorio Guberti, ora professore a contratto di Epidemiologia delle malattie trasmissibili all’Università di Bologna, ma che in passato ha lavorato alla Fao come project manager per l’influenza aviaria e la peste suina africana in Europa e Centro Asia “E’ dal 2005 che stiamo rincorrendo H5N1. E’ un virus ad alta patogenicità, cioè ha una grande capacità di causare danni all’organismo infettato. E’ uno di quelli che può provocare polmoniti virali molto pesanti. E potrebbe essere all’origine della prossima pandemia tra gli esseri umani”, spiega Guberti. “Sull’H5N1 siamo completamente scoperti, non abbiamo alcuna forma di anticorpo per combatterlo. E come è successo per il Covid, potremmo metterci 2 o 3 anni ad avere una copertura: chi perché si è contagiato, chi perché ha fatto il vaccino. La buona notizia è che è molto più facile fare un vaccino per H5N1 che per il Covid”.

    Allerta aviaria, come avviene il contagio. I sintomi

    di  Donatella Zorzetto

    19 Dicembre 2024

    Ma perché c’è tanto allarme per la diffusione tra gli animali? “Il virus dell’aviaria ha la tendenza a entrare in altre specie: ha cominciato con il pollame, poi si è diffuso con gli uccelli selvatici, soprattutto anatre, e poi sempre più specie con una diffusione via via maggiore: dall’Asia all’Europa alla California. Lo hanno trovato perfino nei pinguini in Antartide. Gli uccelli lo trasmettono anche ai mammiferi, ma finora i mammiferi non lo hanno mai trasmesso. La probabilità che accada è bassissima: ma se ci sono milioni di eventi con bassa probabilità la probabilità complessiva cresce”. Insomma il timore è che il virus, colonizzando sempre più specie e soprattutto specie vicine agli umani, come il bestiame, possa in tempi non lontanissimi diventare una emergenza anche per noi.

    Come mettere al sicuro i mammiferi domestici, le mucche per esempio? “E’ complicato tenere separati gli uccelli selvatici da quelli domestici e dai mammiferi”, risponde Guberti. “Più che concentrarsi su questo tipo di prevenzione, difficile da mettere in pratica, si dovrebbero predisporre piani pandemici per fermare immediatamente il contagio tra gli umani. Insomma preparare la risposta alla pandemia, magari con un piano di vaccinazione di massa, perché la prevenzione è complicata quando si ha a che fare con la fauna selvatica”. LEGGI TUTTO

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    Ultima Generazione cambia: meno blocchi stradali più azioni contro le multinazionali dell’oil & gas

    Meno blocchi stradali e azioni che impattano direttamente sulla quotidianità dei cittadini, stesso nome e più campagne mirate contro i veri responsabili della crisi climatica e sociale. Il gruppo italiano di Ultima Generazione, il movimento per il clima e per i diritti che da ormai tre anni si batte con azioni eclatanti – dai ragazzi che si sdraiano sulle strade sino alle vernici gettate su statue, palazzi o quadri – nel tentativo di far riflettere e far aprire gli occhi agli italiani sull’urgenza di agire contro il cambiamento climatico, dal 2025 cambierà in parte la sua strategia.

    Negli ultimi mesi, tra l’attenzione mediatica incentrata sulle guerre, sulle elezioni americane e sulle tensioni geopolitiche mondiali, in un contesto dove si continuano ad allargare i divari sociali e si inaspriscono le pene tramite il Ddl Sicurezza, per gli attivisti dell’onda verde è stato sempre più complesso far sentire la propria voce. Sono lontani i tempi dei giganteschi scioperi per il clima di Fridays For Future, delle manifestazioni europee con centinaia di migliaia di persone di Extinction Rebellion e perfino delle proteste alle Cop, le Conferenze mondiali sul clima, come quella di Baku che a novembre è andata in scena “silenziata” dalla presidenza azera. Per tutti i movimenti, consapevoli dell’urgenza di agire contro una crisi climatica sempre più impattante, è dunque tempo di revisione: in Germania, Last Generation probabilmente presto cambierà nome e “i blocchi davanti alle auto, agli aeroporti e alle strade non saranno più il nostro obiettivo”, ma continueranno con la disobbedienza civile “in altre forme, più creative e mirate” fanno sapere i giovani tedeschi, che guardano alla politica di partito.

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    E in Italia? Anche da noi è arrivato il momento di un “nuovo ragionamento”, ma sempre “mantenendo la nostra radicalità” fa sapere Tommaso Juhasz, portavoce di Ultima Generazione Italia, a Green&Blue. “Bisogna fare una premessa – spiega Juhasz – i tedeschi hanno un quadro politico differente dal nostro, anche a livello di meccanismi democratici, dove è più possibile avere forze che – anche per i nostri temi -possano giocare un ruolo attivo nella politica del Paese. Per cui i tedeschi di Last Generation avranno fatto i loro conti sulla strategia da adottare e pensano a un cambiamento che probabilmente a loro conviene. Ogni Paese, in base alle condizioni in cui si trova, dato che facciamo di fatto politica, deve ragionare su come comportarsi”. In Italia “noi abbiamo cambiato campagne, parte dell’identità – dato che non siamo più solo ecologisti ma anche un movimento che si occupa di crisi sociale, quella che verrà aggravata dalla crisi climatica – e possiamo e dobbiamo cambiare ancora per batterci nel tentativo di non lasciare indietro gli ultimi, ma non è semplice nel nostro contesto”.

    Il movimento

    Chi sono e cosa vogliono gli attivisti di Ultima Generazione

    di Giacomo Mazzariol

    22 Aprile 2024

    Un contesto dove tra inasprimento delle pene, perquisizioni, denunce, fogli di via e mano dura nei confronti di chi usa metodi radicali di protesta, come quelli di Ultima Generazione, l’unica strada percorribile per avere più voce sarebbe quella di trasformarsi in partito. “Ma da noi, fare un partito, tra firme, fondi necessari e meccanismi, è una questione complessa, e di conseguenza lo è anche avere voce a livello politico. C’è una difficoltà di ingresso enorme. Anche per questo, nei prossimi mesi, stiamo pensando a dei cambiamenti nella nostra strategia”. Uno è sull'”ambito immediato del nostro agire” dice il portavoce di Ultima Generazione. Il riferimento è per esempio ai blocchi del traffico, spesso criticati anche dalla cittadinanza? “Sì, è una possibilità, potremmo farne meno. Il significato di fondo delle nostre azioni però non cambia: ci impegniamo a tutelare il futuro di 60 milioni di persone e lo faremo rimanendo nella radicalità, tanto più ora che è stato fatto un Decreto sicurezza così repressivo, dove il governo dimostra di avere paura perché cerca di impedire alla gente di manifestare sulle tante cose che non funzionano nel Paese. Oggi ormai siamo arrivati al terrorismo della parola e davanti a ciò noi non possiamo tirarci indietro: per cui le azioni non violente e di disobbedienza civile, continueranno, ma cambieremo alcuni aspetti”.

    Quali? “Non cambieremo nome come i tedeschi, ma vogliamo portare un cambiamento che sia grande, radicale e che rimanga nel tempo, che porti a conseguenze positive. E per fare questo nel 2025 vogliamo ripartire con più energia e nuove idee. Dopo un periodo di riflessione, in cui ci siamo interrogati su come lasciare dopo di noi alle prossime generazioni la bellezza di questo mondo che alcuni stanno distruggendo, pensiamo sia tempo di aiutare a cambiare la narrativa, per esempio”. In che modo? “Smettendola – come spesso ci vogliono far credere – di dare colpe ai cittadini per la crisi del clima. Un discorso sono le colpe, un altro le responsabilità. A livello di responsabilità, le singole persone hanno la potenzialità di farsi sentire, di reagire contro chi inquina, emette, contro chi alimenta la crisi, chi impone un solo modo di consumare o non agisce per fermare le emissioni. Ma se parliamo di colpe, sappiamo di chi sono: delle grandi multinazionali, delle aziende dell’oil and gas, di una politica che non fornisce risposte o si tira indietro. Ecco, in questo cambieremo: prenderemo di mira soprattutto chi ha le colpe”. Il portavoce di Ultima Generazione spiega che il movimento “continuerà a stare in mezzo alla gente, a parlare con le persone, ma cercheremo di fare azioni più mirate contro i veri responsabili del problema e della crisi del clima”.

    E poi, obiettivo del prossimo anno, sarà anche “puntare ad azioni che possano restituire quella ‘chiarezza’ che troppe volte manca. Spesso gli italiani sono consapevoli degli impatti del surriscaldamento globale e delle crisi sociali che alimenta, ma non sanno da chi – per esempio con le emissioni – viene davvero alimentato, così come in generale manca una connessione emotiva sulla crisi climatica. Il nostro compito sarà dunque anche quello: alla nostra maniera, radicale, ricordargli chi ha davvero le colpe”. LEGGI TUTTO

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    Chiara Pavan, giudice di Masterchef: “Vince chi riesce a rispettare il cibo”

    Nota per la dedizione nell’evitare sprechi in cucina. Ambasciatrice del progetto europeo Life Climate Smart Chefs, finanziato dal Programma Life dell’Unione Europea, che mira a sostenere la Politica Climatica Europea e la Strategia Farm to Fork, e che coinvolge gli chef europei come promotori di diete a basse emissioni. Chiara Pavan, 39 anni, veronese di origine, è la nuova chef giudice dell’edizione di Masterchef Italia 2024, conosciuta per il suo approccio sostenibile e la lotta contro gli sprechi in cucina, nel suo ristorante da quattro anni propone una “cucina ambientale” che fa a meno della carne e punta sulla stagionalità dei prodotti.

    Non solo, la chef ha deciso di segnare una svolta in cucina applicando una filosofia plastic free, eliminando la pellicola e sostituendola con contenitori ermetici e sacchetti sottovuoto, lavorando con metodi alternativi come la cera d’api o la fermentazione per le verdure. Pavan ha ricevuto numerosi riconoscimenti per il suo impegno a tutela dell’ambiente.

    La filosofia antispreco di Chiara Pavan
    Nata a Verona il 1 gennaio del 1985, dopo gli studi in Filosofia, si è avvicinata alla cucina e ora è la “cheffa”, come ama definirsi sui social, del ristorante Venissa, sull’isoletta di Mazzorbo, a Venezia. Non solo, da quest’anno Chiara Pavan è la quarta giudice di Masterchef Italia, insieme a Luca Barbieri, Giorgio Locatelli e Antonino Cannavacciuolo. Al suo esordio nel programma ha detto ai concorrenti: “Da voi mi aspetto ordine, pulizia e organizzazione e soprattutto sarò molto attenta agli sprechi. Se riuscite a rispettare il cibo vedrete che in qualche modo avrete già vinto”.

    Nota per la dedizione nell’evitare sprechi in cucina, detentrice di una stella e di una stella verde Michelin, Pavan esige ordine, pulizia, organizzazione e controllo degli sprechi. La chef ha ricevuto numerosi riconoscimenti per l’impegno nei confronti dell’ambiente.

    Chiara Pavan fa parte del progetto europeo Life Climate Smart Chefs, finanziato dal Programma Life dell’Unione Europea, che intende contribuire allo sviluppo e all’attuazione della Politica Climatica Europea e alla Strategia Farm to Fork coinvolgendo attivamente gli chef europei come promotori di diete a basse emissioni, nutrienti e convenienti, e promuovere un dibattito ampio sul cibo come strumento chiave per la mitigazione dei cambiamenti climatici. LEGGI TUTTO

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    Gli scoiattoli diventati carnivori? Gli esperti: “Una dieta opportunista per adattarsi”

    A un certo punto gli studenti che attraversavano il Briones Regional Park in California hanno cominciato a notare qualcosa di strano: alcuni scoiattoli correvano con in bocca quello che sembrava un topolino morto. Poteva essere che questo iconico animale – nell’immaginario collettivo identificato con gli occhi dolci mentre sgranocchia una nocciola – fosse improvvisamente diventato carnivoro? Gli studenti sono andati a dirlo alla loro professoressa, Sonja Wild, ricercatrice post-dottorato presso l’Università della California, e insieme a Jennifer E. Smith, docente di biologia presso l’Università del Wisconsin-Eau Claire, le due esperte hanno deciso di indagare.

    Le biologhe sapevano che in alcuni casi erano state osservate specie di scoiattoli che, saltuariamente, consumano pezzi di carne in modo opportunistico per esempio di pesci e uccelli, ma i casi di reale predazione, di caccia e ricerca di cibo, erano estremamente rari o poco documentati. Così hanno deciso di approfondire ulteriormente ponendosi la domanda se, determinati scoiattoli, avessero sviluppato una predilezione per la carne.

    Biodiversità

    Le specie aliene “emigrano” per evitare l’estinzione

    di  Pasquale Raicaldo

    12 Dicembre 2024

    Lo studio sul comportamento carnivoro degli scoiattoli
    La scoperta è stata sorprendente anche per gli stessi ricercatori: i teneri scoiattolini non solo predavano i topi campagnoli, ma avevano anche imparato a sbranarli, decapitando le prede e staccando la testa dal corpo. Per riuscire ad ottenere abbastanza dettagli poi riportati in uno studio pubblicato sul Journal of Ethology – una prima analisi mondiale a documentare un comportamento carnivoro diffuso e attivo in queste creature apparentemente innocenti – professoresse e studenti sono tornati nel parco. Tra giugno e luglio i ricercatori hanno registrato in totale 74 interazioni tra scoiattoli di terra e arvicole della California: nel 42% di queste iterazioni gli scoiattoli, che sono roditori, finivano per mangiare altri roditori, i piccoli topolini di campagna. Dati, questi, che fanno parte di uno studio lungo quasi dodici anni sui comportamenti degli scoiattoli della California.

    Gli animali selvativi e la caccia attiva
    Anche per la professoressa Smith l’osservazione è risultata sorprendente: “C’è sempre qualcosa di nuovo da imparare e gli animali selvatici continuano a sorprenderci. In un mondo in continua evoluzione e con molti progressi tecnologici, non c’è niente che possa sostituire l’osservazione diretta della storia naturale, come l’osservazione degli scoiattoli e degli uccelli che spesso visitano i nostri cortili. Quello che abbiamo osservato è incredibilmente emozionante, perché è la prima volta che documentiamo la caccia attiva di questa specie dall’inizio alla fine”.

    Le prime conferme: scoiattoli “onnivori opportunisti”
    La coautrice del paper, Sonja Wild, ha spiegato di “non credere ai miei occhi: una volta che abbiamo iniziato a guardare cosa stava accadendo vedevamo ovunque scoiattoli con topi”. Lo studio è il primo a confermare che la caccia da parte degli scoiattoli nei confronti di altri roditori è un comportamento comune. Dalle osservazioni è risultato che gli scoiattoli tendono vere e proprie imboscate a terra alle prede: quando i topolini riescono a fuggire li inseguono e poi, con un morso sul collo seguito da un movimento secco, li uccidono o li decapitano. Questi comportamenti, aggiungono le ricercatrici, si sono verificati soprattutto durante le osservazioni di luglio, quando c’è stato un aumento delle popolazioni di arvicole, segnalato anche da diversi citizen scientist attraverso la app iNaturalist. Soprattutto in quel periodo i biologi stimano che gli scoiattoli – solitamente erbivori che si nutrono di semi, noci e ghiande – siano diventati “opportunisti”, sviluppando ulteriormente la caccia. Non è chiaro però se imparino questo comportamento sociale gli uni dagli altri: sono state visti cacciare esemplari di ogni età e sesso, dimostrando di prediligere una dieta più flessibile di quanto si pensasse in precedenza e con caratteristiche tali da definirli appunto “onnivori opportunisti”.

    Una dieta flessibile per sopravvivere
    Potrebbe anche essere, sostengono le ricercatrici, che gli scoiattoli della California si siano adattati per sopravvivere a modifiche dei loro habitat o davanti alle sfide della crisi del clima e della presenza umana. Ora, una ulteriore sfida, sarà comprendere le caratteristiche di questo comportamento venatorio tra le varie specie di scoiattoli e come questa dieta possa influire sugli equilibri degli ecosistemi. Nel frattempo, concludono le esperte, “il nostro studio offre un interessante risvolto positivo, dimostrando l’incredibile flessibilità di cui sono dotati alcuni animali”. LEGGI TUTTO

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    Piantare alberi per rinfrescare le città: arrivano le “linee guida”

    Le città non sono tutte uguali. Densità abitative, sviluppo urbanistico e clima le rendono ecosistemi molto diversi tra loro. Ragion per cui, anche soluzioni a problemi di portata globale, apparentemente universali – come piantare alberi contro il gran caldo – devono essere personalizzate. Per trovare la soluzione più adatta per ciascuna città serve una dettagliata conoscenza della materia. E questo si è proposto di fare il team di ricercatori che, a conclusione di un simile sforzo, ha pubblicato quelle che essi stessi chiamano delle “linee guida” per combattere il caldo cittadino piantando alberi.

    Le discussioni in materia di piantumazione come strategie di raffreddamento nelle città negli ultimi anni sono state accesa materia di discussione tra gli esperti e non. E negli ultimi tempi, da più parti, si sono rafforzati gli appelli per una strategie più ragionata in materia di piantumazione urbana. “Gli alberi hanno un ruolo cruciale nel raffreddare le città, ma dobbiamo piantarli in modo molto più strategico per massimizzare i benefici che possono fornire”, riassume in proposito dalla University of Cambridge Ronita Bardhan, a capo dello studio. Un buon punto di partenza per capire come fare è quello di analizzare cosa succede quando si piantano alberi col preciso intento di raffreddare le città in diverse parti del mondo, in condizioni climatiche e urbanistiche molto diverse, e questo è esattamente quanto fatto dai ricercatori. Gli esperti hanno realizzato una metanalisi che ha coperto più di cento città con 17 climi diversi, tenendo in considerazione anche la tipologia di alberi piantati sulla mitigazione di aria e temperatura di superficie, considerando che tutti questi aspetti contribuiscono al potenziale di raffreddamento, raccontano dalle pagine di Communications Earth & Environment.

    Riscaldamento globale

    Nelle città più verdi il caldo miete meno vittime

    di Sara Carmignani

    26 Ottobre 2024

    E in effetti i risultati delle loro analisi lo confermano: il bilancio totale dipende dal clima e dagli alberi usati nelle attività di piantumazione urbana. Qualche esempio? Piantare un mix di alberi decidui e sempreverdi ha un effetto maggiore sulla capacità di raffreddamento in climi temperati, tropicali e continentali mentre nei climi aridi il raffreddamento maggiore si ottiene con gli alberi sempreverde. Riguardo all’entità del raffreddamento prodotto dagli alberi, secondo quanto riferiscono i ricercatori, il massimo osservato è per i climi tropicali, con punte di meno 12°C durante il giorno (ma solo meno 2° nelle aree con foreste pluviali), mentre può arrivare a circa meno 9°C per le zone aride e a meno 6°C nei climi temperati.

    Ma per una pianificazione ottimale è necessario tenere in considerazione che, come osservato, gli alberi possono anche produrre un leggero riscaldamento, specialmente notturno, che può sfiorare il grado per i climi tropicali e 1,5°C per le zone temperate. Questo perché, continuano gli esperti, avvengono una serie di fattori che ostacolano la rimozione del calore, come la chiusura degli stomi (le strutture sulle foglie attraverso cui avvengono gli scambi gassosi) e l’effetto trappola delle radiazioni sotto il fogliame. Anche lo sviluppo urbanistico delle diverse città deve essere preso in considerazione: così, per esempio, nelle aree più compatte meglio scegliere un piantumazione più diffusa.

    Il sondaggio

    Un italiano su tre non sa che gli alberi assorbono CO2 e non solo

    di redazione Green&Blue

    19 Novembre 2024

    “I nostri risultati sottolineano che chi si occupa di urbanistica non solo deve dare alle città più spazi verdi, ma deve anche piantare il giusto mix di alberi in posizioni ottimali per massimizzare i benefici del raffreddamento – ha concluso Bardhan – con il nostro studio forniamo delle linee guida di inverdimento specifiche per il contesto, affinché gli urbanisti possano sfruttare nel modo più efficace il raffreddamento prodotto dagli alberi di fronte al riscaldamento globale”. LEGGI TUTTO