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    Dalla doccia alla lavastoviglie, i 10 consigli per non sprecare acqua

    Rabboccare di continuo l’acquario, sciacquare frutta e verdura dimenticando il rubinetto aperto, lavare l’auto con un getto ininterrotto. È così che, goccia dopo goccia, si disperdono enormi volumi di acqua. In Italia ogni cittadino utilizza in media 215 litri al giorno, più del doppio rispetto alla quantità raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Basta un piccolo esperimento per rendersene conto: se una bacinella da 10 litri si riempie in meno di due minuti, significa che il flusso supera i sei litri al minuto, ben oltre la soglia ottimale. A ciò si somma una perdita strutturale: oltre il 42% del flusso immesso nella rete non arriva nelle nostre case. Ma c’è un dato ancora più sorprendente: solo l’1% dell’acqua potabile, resa tale grazie a trattamenti che comportano costi economici ed energetici, viene effettivamente bevuto, mentre il resto è destinato a usi quotidiani che non necessitano di un simile livello di purezza.

    In questo contesto, Altroconsumo propone, attraverso la piattaforma Impegnati a cambiare, dieci consigli per ridurre i consumi e contribuire a un uso più equo e sostenibile delle risorse.

    1. Usare la lavastoviglie
    La lavastoviglie è molto efficiente, a patto di adoperarla nel modo corretto. Con il programma eco, il consumo medio è di 9 litri per ciclo, che possono aumentare a 13 con l’impostazione automatica. A confronto, l’analogo lavaggio manuale richiede oltre 60 litri. Ciò significa che una famiglia può risparmiare circa 15mila litri d’acqua all’anno, usando questo elettrodomestico. In ogni caso, meglio farlo funzionare sempre a pieno carico e utilizzare le temperature più basse, che riducono l’energia elettrica necessaria.

    2. Tenere in ammollo i piatti da lavare a mano
    Quando non si è in condizioni di adoperare la lavastoviglie, occorre per forza fare il lavaggio a mano. Attenzione al metodo usato: risciacquare i piatti sotto un getto d’acqua continuo comporta un consumo di circa 60-70 litri, che si riduce drasticamente impiegando una bacinella con acqua calda e sapone.

    Anche la sequenza con cui si lavano le stoviglie è importante: iniziare dalle meno sporche e lasciare in ammollo le più incrostate consente di mantenere l’acqua pulita più a lungo. Perfino l’acqua di cottura della pasta, spesso gettata via, può essere utile: grazie all’amido, facilita il distacco dello sporco e riduce, quindi, la necessità di detersivi.

    3. Ottimizzare la lavatrice
    La lavatrice è un’altra fonte di consumi domestici. Un ciclo con il programma cotone tradizionale assorbe 80-90 litri, mentre con quello eco il fabbisogno si ferma a circa 55 litri.

    Anche i detergenti hanno un ruolo: dosi eccessive creano più schiuma, richiedono risciacqui aggiuntivi e aumentano così gli sprechi. Oggi, grazie a detersivi sempre più concentrati, basta poco prodotto per ottenere un buon risultato.

    4. Fare una doccia breve
    L’igiene personale rappresenta ben il 39% dei consumi. Il soffione standard della doccia eroga circa 12 litri al minuto, quindi dieci minuti equivalgono a 120 litri. Con i soffioni a risparmio idrico (che erogano 7-9 litri al minuto), il consumo cala in modo considerevole. Una doccia breve richiede circa 50 litri, mentre un bagno nella vasca supera facilmente i 150.

    5. Modificare lo scarico del wc
    Il wc è responsabile di circa il 20% dei consumi. I tradizionali scarichi a pulsante unico rilasciano circa 12 litri di acqua a ogni utilizzo. I sistemi a doppio pulsante consentono, invece, di scegliere tra 3 e 6 litri: una differenza che, moltiplicata per più scarichi al giorno, diventa consistente.

    6. Proteggere lo scaldabagno dal calcare
    Attenzione al calcare nello scaldabagno, perché ha un impatto sugli impianti. Quando l’acqua dura viene riscaldata, i minerali si depositano sulle resistenze e lungo le tubature, riducendo le prestazioni del sistema. Con dispositivi di addolcimento o con controlli periodici, l’apparecchio mantiene un buon rendimento e dura più a lungo.

    7. Controllare eventuali perdite
    Un rubinetto che gocciola disperde 1.500 litri in un anno, l’equivalente di dieci vasche da bagno. Se il problema riguarda il wc, lo spreco può raggiungere decine di metri cubi, incidendo anche sulla bolletta. Per controllare, è sufficiente guardare il contatore quando nessuno usa l’acqua: se continua a girare, è probabile che ci siano perdite occulte.

    8. Installare frangi-getto ai rubinetti
    Un frangi-getto è un piccolo dispositivo che mescola aria al getto del rubinetto, riducendo i consumi idrici del 30-50%. L’efficacia, però, dipende dalla manutenzione: se l’acqua è molto calcarea, i fori dell’apparecchio possono otturarsi vanificando il risparmio. Una pulizia periodica con acido citrico mantiene il sistema in condizioni ottimali.

    9. Chiudere l’acqua nelle pause
    Lasciare il rubinetto aperto mentre si spazzolano i denti è una pessima abitudine, che comporta uno spreco di acqua di circa 12 litri al giorno per persona, cioè oltre 4mila litri in un anno. Lo stesso vale quando ci si rade la barba, si lavano i capelli o ci si insapona le mani.

    10. Annaffiare le piante a inizio o fine giornata
    Meglio dare da bere alle piante al mattino o alla sera, quando il sole è meno intenso rispetto alle ore centrali della giornata: così l’evaporazione si riduce e serve meno acqua. Anche raccogliere l’acqua piovana, come facevano le nostre nonne, può essere una buona idea per irrigare risparmiando. LEGGI TUTTO

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    Risparmio energetico, cosa ci spinge a migliorare?

    Consumare responsabilmente. Dovrebbe essere un mantra di tutti, in tutte le case, in tutto il mondo. Noi italiani ed europei, poi, avremmo anche un motivo in più, da quando sono saltati gli accordi commerciali con la Russia, a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Eppure il risparmio energetico domestico non è sempre una priorità in molte abitazioni. Come fare perché lo diventi? Per trovare una risposta un team del Northern New Mexico College (Usa) ha condotto un’ampia metanalisi della letteratura scientifica esistente, pubblicata su Cell Reports Sustainability, al fine di identificare i fattori che guidano i comportamenti virtuosi: su quelli – dicono gli autori – dovremmo puntare.

    L’analisi

    Le emissioni di gas serra legate agli stili di vita sono 7 volte superiori gli obiettivi climatici

    di Luca Fraioli

    07 Ottobre 2025

    Psicologia o economia?
    I ricercatori statunitensi hanno analizzato 100 studi esistenti che, con diversi approcci (da quello psicologico a quello sociologico, da quello economico a quello ingegneristico), cercavano di capire cosa determini i comportamenti di risparmio energetico. In totale queste indagini includevano il punto di vista di oltre 430mila persone in 42 Paesi. Gli autori della metanalisi hanno preso in considerazione 26 tra fattori psicologici e sociodemografici per valutarne l’impatto sui comportamenti delle persone.

    Ne è emerso che sono proprio i fattori psicologici profondi a trainare le buone abitudini di risparmio, molto più della consapevolezza del problema energetico o persino dell’evidenza del risparmio in bolletta.

    Ambiente

    Come aiutare i genitori a compiere scelte low-carbon

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    03 Ottobre 2025

    Cosa guida i comportamenti virtuosi?
    Il fattore più rilevante, secondo gli autori della metanalisi, è l’autoefficacia (self-efficacy), intesa come riconoscere di essere capaci di fare la differenza, di fare la cosa giusta per l’ambiente. Ne consegue un atteggiamento positivo nei confronti del risparmio energetico.

    Anche le aspettative degli altri sulle proprie abitudini sembrano incidere. In altre parole, se diamo importanza al fatto che gli altri ci percepiscano come virtuosi in fatto di risparmio energetico, siamo più propensi a esserlo effettivamente.

    I comportamenti green, inoltre, sembrano potenziarsi a vicenda, ossia chi fa la raccolta differenziata e utilizza di più i mezzi pubblici per spostarsi tende anche a risparmiare energia in casa.

    Gli effetti più deboli
    A sorpresa, invece, la visione ecologista del mondo è un fattore meno significativo. La consapevolezza dell’impatto ambientale dei consumi energetici individuali, così come diversi altri indici socioeconomici, come il livello di istruzione e il reddito, non influiscono in modo particolare sull’adozione di buone abitudini.

    Puntare sui sentimenti
    “Sapere cosa fare spesso non è sufficiente per indurre qualcuno a cambiare effettivamente il proprio comportamento – ha commentato Steph Zawadzki, che ha condotto la metanalisi – Bisogna anche attingere ad atteggiamenti, preferenze e desideri più profondi per motivare davvero le persone a portare a termine le proprie azioni”.

    Secondo gli autori, dunque, una possibile chiave per coinvolgere il maggior numero possibile di persone nel risparmio energetico è sfruttare proprio questi fattori psicologici profondi. “La stragrande maggioranza delle persone, indipendentemente dal loro background, desidera generalmente fare la cosa giusta – ha aggiunto Zawadzki – Non stiamo cercando di cambiare i cuori e le menti, ma di attivare sentimenti che le persone già provano”. Di questo i governi e le campagne di sensibilizzazione dovrebbero tenere conto. LEGGI TUTTO

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    Canapa: la fibra green che unisce sport, tessuti sartoriali e bioedilizia

    La canapa sta diventando un materiale centrale in diversi settori grazie alle sue caratteristiche naturali, sostenibili e performanti. Dal mondo dell’abbigliamento tecnico per lo sport outdoor alle applicazioni tessili per l’hôtellerie di fascia medio-alta fino all’edilizia, questa fibra antica è oggi protagonista di una vera e propria rivoluzione green, capace di coniugare qualità, durabilità e rispetto per l’ambiente. Sfide tecniche, culturali e di mercato rimangono, ma l’impegno delle aziende che investono sulla canapa disegna un futuro sostenibile in diversi ambiti produttivi.

    La rivoluzione tessile di Steva Hemp
    Nel settore tessile alberghiero medio-alto, la canapa acquisisce nuovo valore grazie a Steva Hemp, azienda altoatesina che propone prodotti artigianali realizzati con filiera corta e metodi manuali. “Molti dei tessuti che utilizziamo e che indossiamo non sono sostenibili, vengono prodotti lontano dall’Europa e trattati con sostanze chimiche,” racconta Gordana Stevancevic, giovane imprenditrice alla guida del marchio. “Per questo abbiamo iniziato a concentrarci sulla canapa come alternativa ecologica, quando ancora la domanda di questa fibra era bassa”. La canapa impiegata per la biancheria e per i tessuti hôtellerie offre grande resistenza ai lavaggi industriali e morbidezza al tatto, rispondendo a una crescente domanda di qualità e sostenibilità.

    Contrariamente a molti dei tessuti presenti in commercio, legati a territori ristretti, la canapa cresce facilmente in molti Paesi; tuttavia, in Europa si stanno ancora recuperando competenze tecniche perse nel tempo che invece i leader asiatici conservano. Nonostante il costo iniziale superiore rispetto al cotone, il risparmio a lungo termine e la durabilità rendono questa fibra competitiva. Il materiale è coltivato senza pesticidi e lavorato senza agenti chimici, con una produzione che punta a ridurre l’impatto ambientale. “L’80% del lino mondiale proviene dalla Francia e poi viene filato in tutto il mondo, ma rimane comunque limitato a un territorio predefinito. – specifica Stevancevic – Noi vogliamo mantenere una filiera corta e lavorare il più possibile a livello regionale”. Steva Hemp sta ampliando la propria offerta anche ai privati attraverso un concept store a Merano e uno shop online. La sfida più grande resta superare i pregiudizi, come quelli legati alle ‘lenzuola alla cannabis’. “La canapa è ancora troppo spesso associata ad effetti psicotropi,” ammette Stevancevic, “ma noi ci impegniamo a educare i consumatori, evidenziando l’assenza di THC nei tessuti e promuovendo un approccio più consapevole.” Gli scarti di canapa trovano infatti impiego nella produzione di carta, alimentando così una filiera circolare. “È importante continuare a spiegare le origini di questa fibra naturale, perché si combatte solo parlando”.

    La sfida di Salewa
    Nel panorama delle aziende che fanno della sostenibilità una missione non si può non citare Salewa. Marchio leader nell’abbigliamento tecnico per sport di montagna, ha scelto di inserire la canapa nelle proprie collezioni con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale, mantenendo alta la funzionalità tecnica. Questa fibra naturale vanta prestazioni eccellenti: è più durevole e isolante, traspirante, resistente al calore e ai raggi UV, e ha proprietà antibatteriche. Inoltre, assorbe fino al 30% dell’umidità mantenendo una sensazione di asciutto, qualità fondamentali per chi pratica attività sportive intense. “Ci sono diversi modi di intendere la sostenibilità: si può ridurre l’uso di sostanze chimiche, impiegare materiali riciclati, utilizzare componenti naturali come lana o piuma certificate, che rispettano la natura e l’animale stesso,” spiega Roberta Lazzarotto, senior product manager di Salewa. “Oppure usare fibre naturali che non sono frutto di processi chimici dannosi per il nostro pianeta”.

    Per compensare il rallentamento dell’asciugatura dovuto alla natura della canapa, Salewa la miscela con fibre come il poliestere riciclato ‘Sorona’ derivato dal mais, migliorando traspirabilità e performance tecniche. Un ulteriore passo sostenibile riguarda la riciclabilità: essendo biodegradabile, si presta naturalmente a un ciclo di vita sostenibile, sebbene la combinazione con materiali sintetici imponga processi di separazione complessi, oggi affrontati con tecniche meccaniche e chimiche da aziende specializzate. La sfida di Salewa? Il suo aspetto, più grezzo rispetto ai tessuti convenzionali. Per questo la inserisce principalmente in linee specifiche come la collezione climbing ‘Lavaredo’, dove la community è più consapevole dell’impatto ambientale. L’azienda continua a investire in nuove collezioni, mirando ad ampliare l’uso anche nel segmento lifestyle, bilanciando sostenibilità, estetica e performance. “La nostra sfida – conclude Lazzarotto – è trovare la combinazione perfetta che risponda anche a esigenze estetiche e di performance, oggi prioritarie per chi acquista capi tecnici”.

    Il paradigma di Schönthaler
    In edilizia, Schönthaler ha scelto di puntare sulla canapa come materiale base per costruzioni durature e rispettose dell’ambiente. L’azienda produce blocchi in canapa, calce e minerali, pannelli fonoassorbenti e intonaci naturali, prodotti con forte valore ecologico e salutare. La svolta è arrivata circa quindici anni fa, quando il fondatore Werner Schönthaler, dopo un grave incidente in montagna, ha preso coscienza dell’importanza dei bisogni primari dell’uomo: alimentazione, abbigliamento e ambiente in cui si vive. “Ho iniziato a riflettere su quanto gli spazi influenzino il benessere e la salute, da lì è nata l’idea di adottare materiali naturali che siano una ‘terza pelle’ in grado di proteggere e migliorare la vita quotidiana” racconta l’imprenditore Werner Schönthaler.

    I blocchi in canapa e calce si distinguono per la durabilità, che può arrivare ai cento anni, e per l’efficace assorbimento di CO2, contribuendo a contenere l’impatto climatico degli edifici. Dal punto di vista tecnico, il materiale garantisce un ottimo controllo dell’umidità grazie alla sua porosità e capacità capillare, permettendo un ricambio naturale dell’aria. Inoltre, aumenta il pH delle pareti, rendendole sterili e migliorando così la qualità dell’aria interna. L’isolamento termico è efficiente in tutte le stagioni, riducendo di conseguenza i consumi energetici. “L’edilizia tradizionale produce il 50% dei rifiuti globali, mentre l’uso della canapa permette di ridurre drasticamente gli scarti. Questo prodotto elimina la necessità di isolanti sintetici, difficili da riciclare,” conclude. Il costo è circa il 20% in più rispetto a quello convenzionale, inferiore invece rispetto al legno. Attualmente il 90-95% della produzione di Schönthaler è destinata all’esportazione verso Svizzera, Austria e Germania, mercati più aperti alle tecnologie edili naturali. In Italia, invece, soprattutto nelle grandi città, la diffusione è più lenta, anche se stanno crescendo interesse e consapevolezza tra architetti e clienti, spinti da normative ecologiche più stringenti. LEGGI TUTTO

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    Il principe William parteciperà a COP30 sulle orme di re Carlo

    Una nuova vetrina regale. Quest’anno, per la prima volta nella storia delle Conferenza delle parti sul clima, il principe William parteciperà alla COP30 in Brasile a Belem. Il vertice, dieci anni dopo l’Accordo di Parigi, è una sorta di ultimo appello sia per le decisioni politiche da prendere di fronte alla crisi del clima che avanza sia per dimostrare che il multilateralismo dei grandi meeting dell’Onu, in cui ogni Paese teoricamente ha lo stesso peso, funziona ancora. Nonostante la delicatezza di questo incontro che si svolgerà nel cuore dell’Amazzonia (si inizia il 6 novembre con il summit dei leader e poi il 10 ci sarà l’avvio della Conferenza) le premesse per la riuscita e la valorizzazione della COP30 quest’anno sono decisamente scoraggianti.

    Anche se l’ex segretario Onu Ban Ki-moon ha ricordato più volte che “il mondo sta guardando e la storia ricorderà chi si è presentato” l’inizio della COP30 potrebbe infatti risultare in sordina: ovviamente non ci saranno gli Stati Uniti di Donald Trump che ha trascinato gli Usa fuori dall’Accordo di Parigi, così come sono probabili le assenze di molti leader mondiali, dal premier britannico Keir Starmer ancora indeciso sulla partecipazione sino a Giorgia Meloni che dovrebbe saltare la Conferenza. Anche Papa Leone XIV, nonostante le speranze di partecipazione, quasi sicuramente non sarà in Brasile. Per contro però un bel messaggio ha deciso di portarlo proprio il Principe di Galles che, come ha fatto a più riprese il padre Carlo (soprattutto alla COP26 di Glasgow) con la sua presenza aiuterà a tenere gli “occhi del mondo puntati sulla COP”, per dirla alla Ban Ki-moon.

    La conferenza

    Fra problemi logistici e assenze Cop30 rischia il fallimento

    di Luca Fraioli

    10 Ottobre 2025

    Il principe William sta da tempo portando avanti impegni e battaglie sul fronte dell’ambientalismo e della questione climatica ma è soprattutto con il premio Earthshot, un riconoscimento ambientale mondiale che viene conferito a chi si impegna in soluzioni e cambiamenti positivi per l’ambiente, che la casa reale sta appoggiando chi si sta battendo in prima linea nella lotta alla crisi climatica.I finalisti del premio Earthshot 2025 sono già stati annunciati – da chi ha progettato un innovativo filtro per le microplastiche a chi ha realizzato il primo grattacielo al mondo completamente riciclato o progetti di riforestazione e protezione degli oceani – ma i cinque vincitori si conosceranno e verranno premiati a Rio de Janeiro, alla presenza di William, il 5 novembre. Poi il Principe di Galles volerà a Belem per presenziare alla COP30 e dovrebbe prendere parte all’incontro dei leader mondiali di 190 governi che si terrà poco prima dell’inizio ufficiale della Conferenza. La sua partecipazione, per gli addetti ai lavori, è molto importante, anche banalmente per una questione di immagine, per tenere in sostanza i fari dei media puntati sui negoziati. Solitaire Townsend, co-fondatrice della società di consulenza Futerra crede per esempio che “Sua Altezza Reale sappia benissimo che, con la sua presenza, attirerà milioni di sguardi sull’evento. In un’epoca in cui gli impatti climatici sono in aumento, ma la copertura mediatica è in calo, qualsiasi cosa attiri l’attenzione dovrebbe essere celebrata”. Il punto è proprio questo: COP30 ha bisogno di più visibilità in questa fase drammatica.

    Nonostante le ondate di calore continuino ad uccidere migliaia di persone ogni anno e nonostante eventi estremi sempre più intensi stiamo modificando la vita di milioni di abitanti della Terra, la questione climatica negli ultimi anni sembra essere scivolata in secondo piano. Le politiche negazioniste di Donald Trump, che punta ad un ritorno dei combustibili fossili e sta affossando ogni fondo per le soluzioni rinnovabili e sostenibili, ha di fatto contribuito a far traballare pesantemente la transizione energetica ed ecologica necessaria per tentare di frenare le emissioni climalteranti. Con lui altri Paesi – come l’Argentina di Javier Milei – si sono smarcati dalla questione climatica e anche l’Europa, con l’Ue che continua a rivedere a ribasso il Green Deal ed è in ritardo nel presentare i suoi NDC (i piani per i contributi determinanti di taglio alle emissioni), mostra obiettivi climatici incerti nella loro realizzazione. Se a tutto ciò si uniscono guerre e tensioni geopolitiche, oltre a COP che negli ultimi anni si sono svolte nei petrol-stati o in territori di gas e combustibili fossili, è facile immaginarsi come le Conferenze delle Parti abbiano perso attenzione e, talvolta, anche credibilità.

    Per questo nell’ambiente dell’UNFCCC che organizza la Conferenza la presenza del principe, annunciata ufficialmente da Kensington Palace, è stata molto apprezzata. William dovrebbe inoltre partecipare da solo: Carlo – che alla COP28 di Dubai aveva tenuto il discorso di apertura ricordando a tutti che “la Terra non ci appartiene, noi apparteniamo alla Terra” – molto probabilmente non andrà in Brasile e il figlio avrà dunque il compito di raccogliere il suo testimone. Nel farlo, soprattutto quando è la politica a latitare, cercherà di svolgere un ruolo nuovo anche nella “diplomazia climatica” che ha bisogno di nuovi impulsi. Impulsi che per ora, al di là della presenza lodevole di William, sembrano non ottenere consensi: il presidente Luiz Inacio Lula ha mandato una lettera a Trump, Milei e anche il leader cinese Xi Jinping per invitarli ad esserci ma pare non abbia ottenuto risposta. LEGGI TUTTO

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    Trasmettitori satellitari e test sui movimenti, ecco il progetto Life Turtlenest per le tartarughe Caretta caretta

    Piccole tartarughe crescono. Soprattutto in termini numerici. E atletici. Le buone notizie arrivano da Legambiente all’indomani del prezioso lavoro svolto da Life Turtlenest in Italia, Francia e Spagna, il progetto, partito a inizio 2023, cofinanziato dal programma Life dell’Unione europea (coordinato da Legambiente), che mira a migliorare la conservazione delle tartarughe Caretta caretta andando a implementare la protezione dei siti di nidificazione sensibilizzando una rete di attori coinvolti. A cui si aggiunge la recente nuova sperimentazione sui cuccioli di tartaruga con trasmettitori satellitari ultra-leggeri e test sul nuoto per proteggerli e renderli più “atletici” anche da piccoli e seguirli nel loro primo viaggio verso i mari.

    Cominciamo con i dati (incoraggianti) delle nidificazioni in Italia pubblicati a inizio anno: sarebbero circa 700 i nidi individuati sulle coste italiane, +30% rispetto al 2024 con la Sicilia in testa con oltre 200 nidi, seguita da Calabria con circa 150, Campania 114 e quasi 90 in Calabria, record in Toscana passata da 5 nidi dello scorso anno a 37. Al nord la Liguria, da 5 nel 2024 a 12 quest’estate. L’altra “good news”, innovativa e funzionale, è quella che per la prima volta in Italia, piccoli esemplari di tartaruga marina Caretta caretta sono monitorati tramite trasmettitori satellitari miniaturizzati, grandi quanto una moneta e dal peso inferiore ai 3 grammi (meno dell’1% del peso di una baby tartaruga), per consentire di tracciare i loro spostamenti in mare, valutare la sopravvivenza e identificare le aree nursery del Mar Mediterraneo occidentale. LEGGI TUTTO

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    La maggior parte dei pesci negli acquari marini viene catturata in natura

    Quasi tutti i pesci venduti per allestire gli acquari marini vengono catturati in natura. A lanciare l’allarme è stato un nuovo studio dei ricercatori dell’Università di Sydney, secondo cui appunto il 90% circa dei pesci degli acquari d’acqua salata venduti dai rivenditori online negli Stati Uniti provengono direttamente dall’oceano Pacifico occidentale e dall’oceano Indiano. Un dato, quindi, che solleva non poche preoccupazioni sul commercio ittico non regolamentato che minaccia così la sostenibilità degli ecosistemi delle barriere coralline e aumenta ulteriormente il rischio di estinzione per le specie già in pericolo. Lo studio è stato pubblicato su Conservation Biology.

    I pesci catturati in natura
    Nel nuovo studio, i ricercatori hanno preso in esame i dati di 4 importanti rivenditori online di acquari con sede negli Stati Uniti. Dalle loro successive analisi sono emersi dati a dir poco sorprendenti: su 734 specie di pesci disponibili per la vendita, ben 655 specie provenivano esclusivamente da popolazioni selvatiche, mentre solo 21 specie erano disponibili solamente tramite acquacoltura. Ma non finisce qui: il team ha scoperto anche che 45 specie identificate nello studio sono definite di interesse conservazionistico, di cui 20 classificate come minacciate e 25 con una popolazione in declino, secondo l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iunc). Di queste 45 specie, secondo la nuova analisi, 38 provenivano esclusivamente dall’ambiente selvatico.

    La pesca sostenibile
    Molte specie comunemente commercializzate, tra cui i labridi (Labridae), i pesci pagliaccio e altri pesci damigella della famiglia Pomacentridae, e i ghiozzi (Gobiidae), vengono catturate nelle barriere coralline tropicali, spesso nell’Indo-Pacifico, e possono rappresentare un’importante fonte di reddito per le comunità da cui provengono, aree dove sono state documentate pratiche di pesca non sostenibili, tra cui l’utilizzo del cianuro. Allo stesso tempo, commentano gli autori, ospitano anche attività di pesca sostenibili che fungono da esempio per un commercio responsabile per gli acquari marini.

    “Abbiamo urgente bisogno di una maggiore tracciabilità e di una supervisione normativa più rigorosa per garantire che i pesci d’acquario provengano da fonti responsabili”, ha commentato l’autore Bing Lin, del Thriving Oceans Research Hub presso la School of Geosciences dell’Università di Sydney. “Gli acquirenti non hanno un modo affidabile per sapere se il pesce che acquistano è stato pescato in modo sostenibile”.

    Il costo, un ulteriore deterrente
    Un dato particolarmente interessante per il mercato emerso dal nuovo studio è che i pesci d’acquario allevati in acquacoltura costano in media il 28,1% in meno rispetto ai pesci catturati in natura. “Il fatto che i pesci d’acquacoltura siano spesso più economici di quelli pescati in natura suggerisce che le alternative sostenibili non solo sono possibili, ma anche redditizie”, ha evidenziato Lin. Tuttavia, la stragrande maggioranza dei pesci sul mercato statunitense proviene ancora oggi da popolazioni selvatiche, e ciò evidenzia la necessità di strategie sostenibili e di una migliore conservazione, oltre al fatto che la natura spesso non regolamentata delle catene di approvvigionamento del pesce catturato in natura rappresenta un rischio sostanziale per gli sforzi di conservazione.

    “Ci auguriamo che le nostre scoperte motivino i responsabili politici, gli stakeholder del settore e i consumatori a collaborare per salvaguardare le specie vulnerabili delle barriere coralline, promuovere pratiche commerciali sostenibili e sostenere le comunità costiere il cui sostentamento dipende da questo settore”, ha concluso Lin. LEGGI TUTTO

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    Joseph Aschbacher (Esa): “Esploriamo lo Spazio per proteggere il nostro pianeta”

    Cercare esopianeti lontani, provare a tornare sulla Luna, corteggiare Marte. Ma, soprattutto, prendersi cura della Terra: il primo pensiero dei programmi spaziali europei è per il nostro pianeta. Lo dice chiaramente la dichiarazione di intenti contenuta nella “Strategy 2040” dell’Agenzia spaziale europea (Esa), il documento programmatico che ridisegna le ambizioni spaziali comunitarie per i prossimi quindici anni, ponendo come obiettivo principale, per l’appunto, la tutela della Terra e del suo clima. Un cambio di paradigma che mette la sostenibilità, terrestre e orbitale, al centro di ogni futura missione dell’Agenzia. Sono tante le strategie già in atto per riuscirci, dalla raccolta dati di programmi come Copernicus e Osservazione della Terra alla creazione di “gemelli digitali” del nostro pianeta per simulare gli impatti del riscaldamento globale, fino alla “caccia” ai detriti spaziali. Eppure, per Joseph Aschbacher, dal 2021 alla guida dell’Agenzia spaziale europea, tutto questo è solo l’inizio.

    Editoriale

    Un satellite ci salverà

    di Federico Ferrazza

    07 Ottobre 2025

    Lo abbiamo incontrato a Vienna, a margine del “Living Planet Symposium”, la più importante conferenza mondiale sull’osservazione della Terra, e ci ha raccontato la prospettiva di un futuro in cui lo Spazio diventa lo strumento principale per comprendere e preservare il mondo.

    La protezione del Pianeta e la lotta alla crisi climatica sono gli obiettivi prioritari dell’Agenzia. Qual è lo scenario attuale?
    “L’Europa può essere molto orgogliosa di quello che ha raggiunto. Abbiamo il gold standard dei dati e delle infrastrutture di osservazione della Terra. Le immagini e i dati di Sentinel, per esempio, che abbiamo sviluppato attraverso il programma Copernicus, o quelli di satelliti come Biomass, da poco lanciato nell’ambito del programma di Osservazione della Terra, non hanno paragoni nel misurare il polso del nostro pianeta. Abbiamo satelliti meteorologici di altissimo livello, sia geostazionari che in orbita solare; abbiamo sviluppato satelliti più piccoli, le cosiddette Scout Missions, per testare nuove tecnologie come, per esempio, l’elaborazione delle immagini direttamente nello Spazio grazie a chip con intelligenza artificiale. Naturalmente, per avere un valore reale, questi dati e misurazioni devono trasformarsi in servizi ai cittadini: per questo motivo, negli ultimi trent’anni abbiamo costruito un sistema per monitorare parametri relativi all’atmosfera, agli oceani, alla superficie del Pianeta, alle regioni polari, per capire insomma come funziona il “sistema Terra” dal punto di vista geofisico. Contemporaneamente, abbiamo messo a punto un flusso robusto per la distribuzione dei dati: ne disseminiamo gratuitamente 350 terabyte ogni giorno, informazioni utilizzate per l’agricoltura, per la silvicoltura, per le risorse naturali, per la gestione dei disastri, per la pianificazione urbana, per il controllo del traffico aereo e navale e molto altro”.

    Cosa ci aspetta nei prossimi anni?
    “Il meglio deve ancora venire. Lanceremo sei nuove famiglie di satelliti Sentinel per misurare l’anidride carbonica, per il monitoraggio della massa di ghiaccio, per immagini iperspettrali, e molto altro. Ma non solo: l’Intelligenza artificiale ci assisterà sempre di più nell’elaborazione dei dati e nella costruzione dei cosiddetti “gemelli digitali”, delle “copie” del nostro pianeta con le quali potremo simulare scenari climatici e chiederci, per esempio, cosa accadrebbe se la temperatura aumentasse di 1,5, 2,5 o 4 gradi. Quali sarebbero le conseguenze per l’innalzamento del livello del mare, per la siccità, per le migrazioni? E quale sarebbe l’impatto sociale? Che effetto avrebbero le eventuali contromisure? Sono informazioni preziose per poter intervenire in modo efficace. C’è poi un secondo elemento, che riguarda la protezione da minacce come gli asteroidi: stiamo sviluppando missioni per monitorarli e capire come deviarli in caso di pericolo”.

    La ricerca spaziale può guidare concretamente la transizione ecologica in settori come l’agricoltura o la gestione idrica. In che modo?
    “C’è molto che possiamo fare. Abbiamo lanciato un progetto pilota in Austria chiamato “Green Transition Information Factory”: uno strumento basato su dati spaziali che fornisce informazioni su dove installare i pannelli fotovoltaici analizzando l’esposizione al Sole dei tetti, dove posizionare le pale eoliche, qual è l’impatto della transizione verso le auto elettriche o della decarbonizzazione dell’industria. È un esempio perfetto di come la combinazione di dati satellitari, modelli, IA e approccio simulativo possa aiutare un Paese a prendere le decisioni giuste”.

    La sostenibilità non riguarda solo la Terra, ma anche lo Spazio stesso. Come state lavorando per rendere le missioni più sostenibili e affrontare il problema dei detriti spaziali?
    “È un punto che naturalmente ci sta molto a cuore. Più satelliti lanciamo, più inquiniamo le orbite. Oggi abbiamo circa 11 mila satelliti attivi, e il rischio di collisione è enorme. Per questo la nostra agenzia ha elaborato la Zero Debris Charter, la Carta per i Zero Detriti, dove abbiamo chiesto agli stakeholder di sottoscrivere volontariamente alcuni principi fondamentali. Il primo, e più importante, è che alla fine della vita di un satellite ci impegniamo a portarlo fuori dall’orbita, perché non lasci detriti in orbita o sul nostro pianeta: vuol dire progettare fin dall’inizio le missioni con abbastanza carburante per la deorbitazione e in modo che brucino completamente al rientro nell’atmosfera, senza che nessun detrito arrivi a terra. La Carta, al momento, è un impegno volontario, ma il fatto che la abbiano già sottoscritta grandi industrie e Paesi, anche extra-europei, è un segnale molto buono. Ovviamente, nel prossimo futuro, tutto questo dovrà essere regolamentato in modo molto più rigoroso”.

    Per realizzare tutto questo bisogna anche guardare al portafogli: come pensate di rimanere competitivi con l’ingresso di attori privati e ben sovvenzionati, specie negli Stati Uniti?
    “Oggi, circa il 60% dei fondi pubblici globali per lo Spazio è negli Stati Uniti, mentre l’Europa ha solo il 10%. Eppure con così poco siamo riusciti a “catturare” il 22% del mercato commerciale globale, grazie a un programma di commercializzazione molto efficiente. Ma non basta: servono più fondi pubblici per creare le condizioni di sviluppo giuste, altrimenti rischiamo che le migliori aziende e i migliori talenti lascino l’Europa. Ricordo che SpaceX è diventata quello che è oggi soprattutto grazie ai fondi pubblici stanziati da Nasa e Space Force: l’Europa potrebbe fare lo stesso. Abbiamo già il talento, l’expertise e la conoscenza necessari”.

    L’ultimo obiettivo della vostra Strategia è “Ispirare l’Europa”. Qual è il messaggio di speranza che vuole lanciare l’Agenzia spaziale per il futuro?
    “Lo Spazio è, per definizione, fonte di ispirazione per tutti. Tutti sognano lo Spazio. Vorrei che questa ispirazione arrivasse anche ai bambini, fin dall’infanzia, attraverso il sistema educativo. A ispirare gli adulti sono la portata e le ambizioni dei nostri progetti: i razzi Ariane e Vega, i programmi faro Copernicus e Galileo, Ers, una nuova costellazione per la resilienza dallo spazio, e Iris, l’equivalente europeo di Starlink per le comunicazioni sicure. C’è però una debolezza che ancora dobbiamo superare: pur portando avanti una ricerca d’eccellenza e avendo a disposizione tecnologia dirompente e all’avanguardia, in Europa però produciamo ancora pochi satelliti. Dobbiamo fare un passo ulteriore, passare alla produzione di massa, costruendo costellazioni di centinaia, se non migliaia di satelliti, come fanno in Cina e negli Stati Uniti. È il percorso che stiamo cercando di seguire: nel momento in cui saremo davvero competitivi anche sotto questo aspetto, l’Europa potrà davvero essere leader nel mondo”. LEGGI TUTTO

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    30 beluga rischiano la morte ma il Canada vieta il trasferimento

    C’è Xavier, il “nerd” del gruppo, quello che non smette mai di apprendere nuove informazioni. E poi Odin, anche chiamato mister popolarità, amato da tutti. E ancora Acadia, la mamma di Yukon e Tank, oppure Cleopatra, una delle femmine più iconiche del gruppo descritta come anima dalla straordinaria personalità. Tutti loro e molti altri sono i beluga del parco acquatico di Marineland, trenta cetacei che rischiano di essere uccisi per un incredibile e assurdo ingorgo di leggi, crisi economiche e perfino divergenze scientifiche.

    Biodiversità

    La maggior parte dei pesci negli acquari marini viene catturata in natura

    di Marta Musso

    08 Ottobre 2025

    Impossibile sfamarli e nemmeno trasferirli
    La storia dei beluga del Marineland di Niagara Falls, in Ontario, Canada, è una storia di fallimenti. Dopo quasi sessant’anni di attività il centro sta attraversando una crisi economica profonda, tanto che è chiuso da un anno e sta smantellando. Vive un collasso totale, aumentato anche dopo aver ricevuto accuse di vario genere – soprattutto dal mondo animalista – per la morte di almeno una ventina fra beluga e delfini dal 2019 ad oggi. Con il centro che chiude ed è in profondo rosso la sorte dei trenta beluga tenuti in cattività rimane appesa a un filo: senza più fondi è impossibile perfino sfamarli. Così per prima cosa si è tentato di trasferirli altrove. C’erano due possibilità: portarli in un centro marino in Nuova Scozia o traslocare gli animali addirittura in Cina.

    Entrambe le opzioni sembrano però essere fallite: nel primo caso sarebbero state rilevate acque inquinate in Nuova Scozia, tanto da declinare questa possibilità; nella seconda ipotesi invece – ovvero il trasferimento nel Chimelong Ocean Kingdom, parco a tema che vorrebbe acquistare i cetacei – è direttamente il governo a voler impedire il trasloco perché violerebbe leggi nazionali che vietano il fatto che i beluga possano ancora essere usati per scopi di intrattenimento (si potrebbe solo a scopi scientifici).

    Sierra, uno dei trenta beluga a rischio eutanasia  LEGGI TUTTO