M91 e la conservazione delle specie selvatiche attraverso l’invisibilità
Questa volta è toccata a M91. Lo chiamerò semplicemente “Orso”. Sulla vicenda si sono espressi animalisti, WWF, Lega Ambiente, Provincia autonoma di Trento e altre voci, sia contrarie che favorevoli alla decisione di “rimuovere” Orso; tra le favorevoli anche quella di uno zoologo dell’Università di Sassari, esperto di grandi carnivori. Trovate tutto in rete, articoli e interviste. Non troverete però nessun accenno al problema che sta a monte di storie come questa; ovvero, l’equivoco sulla convivenza tra uomo e animali selvatici, che poi è parte dell’equivoco ancora più grande riguardante l’idea che l’uomo ha di sé stesso rispetto al resto della natura.
L’uccisione di Orso rientra tra le azioni necessarie “per assicurare la tutela della sicurezza e dell’incolumità pubblica”; così recita la legge provinciale numero 9 dell’11 luglio 2018 della Provincia autonoma di Trento. Un’asserzione, quella virgolettata, che mi è sembrata ridondante: non sarebbe bastato dire “assicurare l’incolumità pubblica”? Ma poi ho capito. Non c’è nessuna ridondanza. “Assicurare la tutela” autorizza a intervenire con misure drastiche prima ancora che si debba “assicurare l’incolumità”.
Pur non aggredendo o minacciando nessuno, Orso ha fatto qualcosa che ha reso più difficile tutelare l’incolumità pubblica, al punto da far scattare la misura preventiva più severa, l’abbattimento. Che cosa, dunque, avrà mai combinato questo cucciolone di due anni?
Il 27 aprile Orso ha seguito un escursionista per circa un quarto d’ora, prima da lontano e poi avvicinandosi fino a un paio di metri. Non ha però mostrato alcun tipo di aggressività, nemmeno quando lo strano bipede gli ha lanciato dei sassi; evidentemente la sua era solo curiosità. Questa è una nota a favore di Orso, direte voi. Nemmeno per idea.
Il documento che disciplina la “conservazione” dell’orso bruno nelle aree alpine è il Piano d’Azione Interregionale per la Conservazione dell’Orso Bruno nelle Alpi Centro-Orientali (PACOBACE; consultabile in rete). Stando alla Tabella 3.1 (“grado di pericolosità dei possibili comportamenti di un orso”) del documento, con la sua curiosità Orso si è meritato il grado di pericolosità “T”, ovvero “Orso segue persone”; si tratta del diciottesimo grado di pericolosità sui venti in ordine crescente da “A” a “V” della Tabella 3.1.
Va detto che la possibilità di abbattere un orso scatta già a partire dal grado di pericolosità “Q” (quindicesimo), che recita: “Orso è ripetutamente segnalato in centro residenziale”. In effetti, dopo l’incontro con il bipede, Orso si è avvicinato più volte ai centri abitati, probabilmente in cerca di cibo nei cassonetti. Ma la Tabella 3.1 parla chiaro e non ammette scusanti: Orso è divenuto troppo pericoloso. Mi chiedo, allora: cosa ci si aspetta che faccia o non faccia un orso per meritare di essere “conservato” anziché “rimosso”?
In base alla logica della Tabella 3.1 la risposta può essere una sola: deve diventare invisibile. Anche secondo l’esperto di grandi carnivori, gli orsi, per non essere “problematici”, dovrebbero condurre “una vita schiva e riservata nei boschi”, perché così non li vedremo mai”. Lo stesso esperto ha poi espresso parere favorevole sia riguardo alle linee guida del PACOBACE, sia riguardo alla decisione di abbatterlo. Da quello che ho potuto leggere, nemmeno WWF e Lega Ambiente hanno avuto da ridire sui criteri di pericolosità del PACOBACE, salvo lamentarsi del fatto che, nel caso specifico, sarebbe stato possibile prendere misure meno drastiche.
Al contrario, trovo difficile condividere tali criteri, perché considero assurdo il concetto di “comportamento” su cui si fondano. Senza scomodare Konrad Lorenz, è chiaro che non viene fatto il minimo tentativo di considerare il comportamento degli orsi in quanto tali. La pericolosità che emerge dalla Tabella 3.1 sembra dipendere invece da quanto l’area che l’orso considera il suo territorio si sovrappone alle aree occupate dall’uomo.
Come fa però un orso a non sconfinare dal lato nostro se ovunque ormai è territorio dell’uomo? Dove non ci sono case, coltivazioni, allevamenti, agriturismi, piste da trekking e da sci ci sarà una baita o un traliccio dell’elettricità. Il grado di pericolosità “F”, per esempio, recita “Orso frequenta le vicinanze di case da monte e baite isolate”. E se fosse la baita “isolata” all’interno dell’areale di una popolazione di orsi a trovarsi nel posto sbagliato e a determinare una situazione di pericolo?
Se il PACOBACE, come si legge nel titolo, è un piano che mira alla “conservazione” dell’orso bruno, dovrebbe includere anche un elenco di cose da non fare riferito all’uomo e in rispetto alle abitudini e alle esigenze dell’orso. E non mi riferisco a cose tipo “non lasciare cibo nei cassonetti” o “non correre se si avvista un orso”. Intendo delle vere e proprie limitazioni, come il divieto di entrare in un certo perimetro di bosco, o di costruirci una baita o un capanno per la caccia; magari persino prevedere l’abbattimento (se preferite, “la rimozione”) di quelli già esistenti e la definizione di aree de-antropizzate dove è vietato entrare, così da poter “assicurare la tutela della sicurezza e dell’incolumità pubblica”.
Questo tipo di idee e di soluzioni non piacciono per niente, lo so. Scontentano amministratori locali e cittadini per via dell’impossibilità di utilizzare una parte di territorio e le infrastrutture presenti o realizzabili al suo interno. Già, perché il territorio è una risorsa, ed è nostra. Il pianeta, in fondo, è nostro. È questo il grande equivoco. Vogliamo la baita isolata nel bosco, e siccome vogliamo tutelare-proteggere-conservare-preservare l’ambiente e la biodiversità vogliamo anche l’orso, purché sia invisibile.
Il grande equivoco, per quanto grande, rimane elusivo ai nostri occhi proprio come vorremmo lo fossero gli orsi. Pensiamo inconsciamente l’ambiente come una dispensa, al punto che nel contesto del Green Deal e della “Strategia UE Biodiversità per il 2030”, che contengono le direttive per la Transizione Verde, l’ambiente viene quantificato in “servizi ecosistemici”; ovvero, in base a quanto vale un pezzo di ecosistema in funzione dei benefici forniti direttamente o indirettamente al genere umano e a sostegno del suo benessere.
L’idea di quantificare l’utilità economica di pezzi di ecosistema è considerata illuminante oltre che utile dal punto di vista pratico, perché ci dice quant’è importante l’ambiente nell’unico linguaggio che conosciamo, quello del valore monetario. Ma se abbiamo bisogno di questo per tener conto della natura intorno a noi, e se è così che educheremo le future generazioni a dare un valore all’ambiente e alla biodiversità, non credo verranno mai scritte delle regole di convivenza tra uomo e animali selvatici migliori di quelle nella Tabella 3.1.
Domenico Ridente, geologo e paleontologo del CNR-IGAG, Referente per il Progetto PNRR Biodiversity National Future Center (MUR e Unione Europea) LEGGI TUTTO