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    Questa ghiandaia è un ibrido. “L’accoppiamento tra specie a causa della crisi climatica”

    Dopo milioni di anni di evoluzione, due specie distinte di uccelli oggi si sono di nuovo riunite. A dircelo è un rarissimo uccello, frutto appunto dell’accoppiamento tra una ghiandaia verde femmina e una ghiandaia azzurra maschio. L’ibrido naturale, appena descritto dai ricercatori dell’Università del Texas, ad Austin, è la testimonianza di come due specie, separate da ben 7 milioni di anni di evoluzione e da areali distinti, si siano riunite con l’espansione dei loro territori causata dai cambiamenti climatici. I dettagli sono raccolti in uno studio pubblicato sulla rivista Ecology and Evolution.

    Le due specie di ghiandaie
    La ghiandaia azzurra (Cyanocitta cristata), un uccello temperato diffuso in tutta la parte orientale degli Stati Uniti, e la ghiandaia verde (Cyanocorax yncas), un uccello tropicale diffuso in tutta l’America Centrale, sono due specie che hanno il primo antenato comune vissuto almeno 7 milioni di anni di fa. I loro areali, inoltre, non si sono sovrapposti fino a pochi decenni fa. In particolare, negli anni ’50 l’areale delle ghiandaie verdi si estendeva dal Messico fino al Texas meridionale, mentre l’areale delle ghiandaie azzurre si estendeva solo fino a Houston. Non sono, quindi, quasi mai entrate in contatto tra loro, fino a quando, con la migrazione delle ghiandaie verdi verso nord e delle ghiandaie azzurre verso ovest, i loro areali si sono avvicinati, appunto, a San Antonio, in Texas.

    I cambiamenti climatici
    Il raro uccello, identificato proprio in un giardino a San Antonio, potrebbe essere tra i primi esempi di un animale ibrido esistente risultato dei recenti cambiamenti climatici, che hanno sostanzialmente stimolato l’espansione di entrambe le specie progenitrici. “Riteniamo che sia il primo vertebrato osservato che si è ibridato a seguito dell’ampliamento del proprio areale da parte di due specie, a causa, almeno in parte, del cambiamento climatico”, ha spiegato Brian Stokes, primo autore dello studio.

    L’uccello ibrido
    Per capirlo, i ricercatori hanno per prima cosa catturato lo splendido uccello, dal colore blu con una mascherina nera e il petto bianco, che inizialmente assomigliava a una ghiandaia azzurra, ma era chiaramente diverso. Da qui, hanno prelevato dei campioni di sangue, le cui successive analisi genetiche hanno rivelato che si trattava di un ibrido maschio, figlio di una ghiandaia verde e di un ghiandaia azzurra.

    “L’ibridazione è probabilmente molto più comune nel mondo naturale di quanto i ricercatori pensino”, ha commentato Stokes. “Ed è probabilmente possibile in molte specie che semplicemente non vediamo perché sono fisicamente separate l’una dall’altra e quindi non hanno la possibilità di provare ad accoppiarsi”.

    Gli altri ibridi
    Sebbene in questo caso i ricercatori non abbiano scelto un nome all’ibrido, ricordiamo che altri ibridi naturali, che sono principalmente il risultato dell’attività umana (come per esempio l’introduzione di specie invasive), hanno avuto soprannomi come “orso grolar” per l’ibrido tra orso polare e grizzly, “coywolf” per una creatura in parte coyote e in parte lupo e “narluga” per un animale con genitori sia narvali che beluga. LEGGI TUTTO

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    Perché ancora sprechiamo più di 130 kg di cibo all’anno

    Se vogliamo ridurre gli sprechi di cibo non basta comprare meno, comprare meglio, programmare i pasti e riutilizzare gli avanzi. Servono sforzi a più livelli, che non riguardano solo i consumatori. E questi sforzi dovrebbero essere diversi a seconda dei contesti sociali ed economici: perché lo spreco di cibo è un riflesso di queste condizioni, e ogni paese potrebbe ridurlo agendo, con priorità diverse, su fattori diversi. A discutere di tutto questo, sottolineando come il problema dello spreco di cibo stia diventando sempre più pressante nei paesi a reddito medio-basso, è un commento apparso sulle pagine di Cell Reports Sustainability, che anticipa di pochi giorni la Giornata internazionale della consapevolezza delle perdite e degli sprechi alimentari del 29 settembre.

    Il rapporto

    Nel mondo un miliardo di tonnellate di cibo va discarica ma in Italia lo spreco diminuisce

    di Fiammetta Cupellaro

    25 Settembre 2025

    Il nodo delle discussioni di Emiliano Lopez Barrera e di Dominic Vieira della Texas A&M University è l’assottigliamento dello spreco alimentare tra i paesi ad alto reddito e quelli a basso e medio reddito. I dati sullo spreco alimentare riportati dagli autori arrivano da un rapporto delle Nazioni Unite e dicono questo: mediamente sprechiamo 132 kg di cibo ogni anno a testa, di cui la gran parte (circa il 60%) avviene a livello casalingo (e in misura minore nella ristorazione, 28%, e tra i rivenditori, 12%). E proprio a livello casalingo, in base ai dati disponibili, non si osservano grandi differenze a livello di sprechi tra paesi a reddito alto, medio-alto e medio-basso. E questo perché negli ultimi anni abbiamo assistito a una crescente urbanizzazione nei paesi a medio reddito – come India, Cina e Brasile – e “lo spreco alimentare è un problema cittadino”, stressa il report.

    I motivi sono diversi. Il processo di urbanizzazione, legato alla crescita economica, cambia il rapporto con il cibo, scrivono gli autori, a partire dal suo approvvigionamento: si compra più spesso, di più, in confezioni più grandi, anche grazie alla diffusione dei supermercati. Inoltre, la vita cittadina a differenza di quella rurale, incoraggia il consumo di cibi processati e confezionati, e scoraggia il riutilizzo di avanzi. Anche la maggiore diffusione delle catene del freddo, laddove avvenuta a livello di distribuzione, rischia di diventare un boomerang per gli sprechi, spiegano Lopez Barrera e Vieira. Lo diventa nel momento in cui l’accesso a cibi deperibili a livello del consumatore non è accompagnato da pratiche adeguate di conservazione ed educazione.

    Ecco allora che combattere gli sprechi significa sia incentivare la diffusione di sistemi adeguati di conservazione e confezionamento, laddove questi ancora manchino, che incentivare acquisti adeguati alle esigenze e riutilizzo degli avanzi, scrivono gli autori. Ma anche altre soluzioni che non coinvolgano direttamente i consumatori, come programmi di donazione di cibo o riutilizzo in modi diversi – per esempio in strategie di bioenergia – potrebbero contribuire a ridurre gli sprechi e valorizzare le risorse alimentari, si legge ancora nel commento. L’essenziale, concludono gli autori, è agire, in maniera mirata, a più livelli, e coinvolgendo tutti: non solo i consumatori, ma anche le istituzioni, i produttori e i distributori. LEGGI TUTTO

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    Gli alberi giganti dell’Amazzonia resistono al clima e diventano più grandi

    Gli alberi monumentali dell’Amazzonia, cuore verde del Pianeta, sono ancora una barriera contro la crisi climatica. Un segnale di speranza, anche se non una garanzia senza una politica efficace contro la deforestazione, il disboscamento industriale e gli incendi. È quanto emerge da una ricerca pubblicata su Nature Plantes da un team internazionale di scienziati specializzati in foreste tropicali. Nonostante le pressioni ambientali infatti queste grandi piante continuano sorprendentemente a crescere al punto che la loro dimensione è aumentata del 3,3% ogni decennio, la stessa percentuale di crescita delle emissioni. Una capacità che secondo i ricercatori sta svolgendo un ruolo chiave come regolatore del clima globale.

    Ma se questa resilienza vale per le foreste rimaste intatte, la stessa cosa non si può dire per quelle compromesse dagli incendi. Lo studio è il risultato di una partnership internazionale di oltre 60 università in Sud America, nel Regno Unito e oltre, tra cui le università di Birmingham, Bristol e Leeds. Il primo a misurare come l’aumento di CO2 abbia modificato la struttura degli alberi nelle foreste amazzoniche.

    La doppia sfida: clima e incendi

    Il team di quasi cento ricercatori ha monitorato le dimensioni degli alberi in 188 aree delle foresta amazzonica per oltre 30 anni. Hanno così scoperto che soprattutto le piante con i tronchi di grosso diametro sono cresciuti più del previsto. Motivo? L’aumento della CO2 atmosferica ha stimolato la fotosintesi e favorito lo sviluppo della biomassa.

    La professoressa Beatriz Marimon, coautrice dello studio e coordinatrice di gran parte della raccolta dati brasiliana nell’Amazzonia meridionale, ha commentato: “Questa è una buona notizia. Sentiamo regolarmente parlare di come il cambiamento climatico e la frammentazione stiano minacciando la foresta amazzonica. Ma nel frattempo gli alberi nelle foreste intatte sono cresciuti; persino gli alberi più grandi hanno continuato a prosperare nonostante queste minacce”. Lo studio ha scoperto che sia gli alberi grandi sia quelli più piccoli sono aumentati di dimensioni, il che è coerente con il fatto che traggono beneficio dalla fertilizzazione dovuta all’aumento di anidride carbonica atmosferica.

    Il caso

    Amazzonia in crisi: tra deforestazione e una COP30 piena di guai

    05 Settembre 2025

    I grandi alberi restano fondamentali. Adriane Esquivel-Muelbert, dell’Università di Cambridge, che ha guidato la ricerca ha commentato: “In vista della COP30 in Brasile, prevista per la fine di quest’anno, questi risultati sottolineano quanto siano importanti le foreste pluviali tropicali nei nostri sforzi continui per mitigare i cambiamenti climatici causati dall’uomo. Gli alberi di grandi dimensioni sono estremamente utili per assorbire la CO2 dall’atmosfera e questo studio lo conferma. Nonostante le preoccupazioni che il cambiamento climatico possa avere un impatto negativo sugli alberi in Amazzonia e indebolire l’effetto di assorbimento del carbonio, l’effetto della CO2 nello stimolare la crescita è ancora presente. Ciò dimostra la straordinaria resilienza di queste foreste, almeno per ora.”

    Deforestazione

    Cop30 in Brasile: abbattuti ettari di foresta amazzonica per costruire l’autostrada

    12 Marzo 2025

    Il dramma della deforestazione
    Lo studio evidenzia i danni che derivano dalla deforestazione dell’Amazzonia e che le foreste possano diventare da pozzi di carbonio – ogni albero monumentale può immagazzinare tonnellate di carbonio – a fonti di emissioni importanti. Soprattutto a causa degli incendi e la deforestazione. Non solo. Creano microclimi e sostengono la biodiversità offrendo habitat a migliaia di specie. Sostituirli non sarà la soluzione. I grandi alberi tropicali, spiegano gli scienziati, hanno centinaia di anni e la stessa funzione non può arrivare dai nuovi alberi e pensare che conferiscano benefici simili in termini di carbonio o biodiversità rispetto alla vecchia foresta naturale. Anche la resilienza della natura ha un limite. LEGGI TUTTO

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    Una pelle vegana dagli scarti del caffè, che si ricicla

    Biosyness è una pelle vegana totalmente Made in Italy a base di scarti della lavorazione del caffè che si distingue nell’intero settore per le sue qualità di durevolezza, oltre che di sostenibilità. “Ecco perché siamo convinti che sia una soluzione ideale per l’arredamento tessile e imbottiti. Si pensi ad esempio ai divani. Ovviamente in base alle formule si può usare per accessori moda, abbigliamento e persino merchandising”, spiega il fondatore dell’azienda produttrice Biosiness, Alireza Mansouri, esperto di biotecnologie e bioeconomia.

    Il dato eclatante di partenza è che ogni anno la lavorazione del caffè a livello globale produce circa 40 milioni di tonnellate di scarti (The Center for Circular Economy in Coffee) e sottoprodotti, generati in tutte le fasi della filiera dal raccolto alla torrefazione. Uno di questi scarti si chiama silverskin: una pellicola sottilissima e argentea che aderisce al chicco di caffè e si stacca durante la tostatura. Costituisce circa l’1-2% del peso del chicco, ma è molto abbondante a livello industriale. In alcuni casi viene impiegato per farne compostaggio, componente per pannelli isolanti, biogas, cosmetici, colorante naturale, addensante. In altri viene smaltito come rifiuto speciale. Biosiness lo acquista tendenzialmente dalle torrefazioni italiane, lo polverizza e lo mixa – secondo un procedimento e una formula proprietaria – con granuli termoplastici di origine biologica. E ovviamente non impiega solventi, plastificanti e coloranti chimici.

    La storia

    Le sorelle Mashouf: “Così trasformiamo l’anidride carbonica in tessuti”

    20 Settembre 2025

    Una pelle vegana che profuma di caffè
    Il prologo della storia di questo progetto inizia in Iran quando Mansouri non ha ancora trovato la risorsa ideale per creare un nuovo materiale sostenibile. Quando decide però nel 2019 di lasciare il suo paese e studiare bioeconomia a Milano, proprio nella caffetteria dell’Università ha un’epifania. E così inizia a studiare il caffè, gli scarti, le lavorazioni e l’anno dopo mette in piedi i primi metodi e prototipi. Nel 2021 nasce la prima versione della sua pelle vegana, nel 2022 affina il processo di industrializzazione con un’impresa del nord Italia e nel 2023 avvia la produzione in scala con più partner industriali situati tra il Piemonte e il Veneto. LEGGI TUTTO

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    Ogni anno 1,5 tonnellate di cibo passano dalla tavola alla discarica

    Ogni anno nel mondo 1,5 miliardi di tonnellate di cibo passano direttamente dalla tavola alla discarica: circa un terzo della produzione alimentare globale non verrà mangiato ma gettato. E mentre così tanto cibo viene sprecato, 673 milioni di persone soffrono la fame, l’8,2% della popolazione mondiale, di cui il 20,2% in Africa e il 6,7% in Asia. Non solo. 2,3 miliardi di persone vivono in condizioni di insicurezza alimentare, senza accesso garantito a un’alimentazione sufficiente. Ma lo spreco e le perdite alimentari non sono solo un problema etico e sociale, hanno un impatto devastante sull’ambiente: sono responsabili di quasi il 10% delle emissioni globali di gas serra, 5 volte di più di quelle generate dall’aviazione.
    Miliardi di ettari coltivati per cibo che verrà buttato
    Basta pensare che il 28% dei terreni agricoli – 1,4 miliardi di ettari – viene utilizzato per produrre cibo che non verrà mai mangiato. È una superficie pari a 4 volte l’intera Unione Europea. E un quarto dell’acqua dolce utilizzata in agricoltura viene sprecato nella produzione di alimenti che finiranno nella spazzatura: si tratta di circa 250 km³ di acqua, l’equivalente del fabbisogno idrico annuo dell’intera popolazione mondiale. Dati che non lasciano spazio a dubbi quelli presentati oggi del nuovo report dell’Osservatorio Waste Watcher International in vista del 29 settembre 2025, Giornata Internazionale della Consapevolezza delle Perdite e degli Sprechi Alimentari istituita dalle Nazioni Unite giunta alla sesta edizione.

    Consumi

    La crisi del clima fa impennare i prezzi del cibo: verdure, olio e riso fino al 70% in più

    a cura della redazione di Green&Blue

    22 Luglio 2025

    Italiani spreconi
    Monitorato anche il comportamento degli italiani nel mese di agosto 2025, attraverso l’indagine promossa dalla campagna pubblica Spreco Zero con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroalimentari dell’università di Bologna. Nel nostro Paese si stima che ogni anno circa 6,7 tonnellate di cibo venga buttato. Una montagna di alimenti che finisce in discarica e che provoca 5,5 milioni di tonnellate di emissioni di Co2. Nel dettaglio comunque guardando il report di Waste Watcher International, l’Italia segna comunque un miglioramento anche se ancora adeguato ad arrivare al traguardo dei 369,7 grammi di cibo sprecato settimanalmente previsto entro il 2030.

    Consumo sostenibile

    Spreco alimentare: le strategie di 21 scienziati per salvare un’area più grande dell’Africa

    di Pasquale Raicaldo

    20 Agosto 2025

    Conservazione sbagliata del cibo, spesa senza una pianificazione, poca attenzione alla data di scadenza, gli italiani sembrano ancora tenere in poca considerazione la possibilità di evitare eccedenze oppure conservale, condividerle o donale. Così secondo il rapporto che ha monitorato il comportamento di migliaia di italiani ad agosto ogni settimana sono finiti tra i rifiuti 555,8 grammi. Meglio, rispetto a quanto accaduto nell’agosto 2024 dove la quantità di cibo buttato era di 683 grammi. Ci sono comunque delle differenze: la percentuale scende in modo significativo nell’area centrale del Paese, diventata la più virtuosa con “soli” 490,6 grammi, mentre a nord si sprecano mediamente 515,2 grammi di cibo ogni 7 giorni, e al sud il dato si impenna con 628,6 grammi a settimana.

    Sostenibilità

    Lotta allo spreco alimentare: le associazioni che aiutano a recuperare il cibo

    04 Febbraio 2024

    La hit dei prodotti che diventano rifiuti
    Più virtuose le famiglie con figli, che abbassano la soglia di spreco del 17% rispetto alle famiglie senza figli (+ 14 %) e più virtuosi i grandi comuni (-9%) di quelli medi (+ 16%). Nella hit dei cibi sprecati la frutta fresca (22,9 g), la verdura fresca (21,5 g) e il pane (19,5 g), segue l’insalata (18,4 g) e cipolle/tuberi (16,9 g). Spiega il direttore scientifico di Waste Watcher, l’agroeconomista Andrea Segrè, fondatore della campagna Spreco Zero: “Le pressioni economiche, in particolare l’inflazione che questa estate ha colpito fortemente i generi alimentari (+ 3,7%) possono aver suggerito alle famiglie acquisti più ponderati e una maggiore attenzione alla prevenzione degli sprechi.

    Agricoltura

    La crisi climatica rende i raccolti imprevedibili

    a cura della redazione di Green&Blue

    04 Settembre 2025

    Le app per orientarci
    L’utilizzo di strumenti semplici e mirati, come la app Sprecometro, permette di attivare trasformazioni comportamentali durature, contribuendo a consolidare comportamenti virtuosi: quindi un percorso concreto verso la riduzione del 50% dello spreco alimentare entro il 2030. Trasformazione “strutturale” è anche l’atteggiamento dei cittadini nei confronti dello spreco. La sfida dei prossimi anni sarà rafforzare questa tendenza, affinché il traguardo del 2030 non resti un auspicio, ma diventi un risultato condiviso”.
    Spreco e cambiamento climatico
    Più di 1 cittadino su 3 (il 37%) ritiene utile puntare sui prodotti made in Italy nell’attuale contesto di guerre e tensioni internazionali, ma anche di crisi dei dazi. Una tendenza particolarmente marcata tra le persone di età compresa tra i 35 e i 44 anni e tra gli over 64, con una concentrazione significativa nel Centro Italia. E ancora: 1 su 10 privilegia semplicemente i prodotti più economici, a prescindere dalla loro sostenibilità, mentre il 5% ha direttamente ridotto la spesa alimentare per ragioni economiche, percentuale che raddoppia negli under 25.
    Un italiano su 5, ovvero il 22%, afferma di preferire prodotti locali e a chilometro zero, soprattutto nel Mezzogiorno. Il dato interessante è che una parte consistente della popolazione (20%) non ha modificato le proprie abitudini d’acquisto, dichiarando che le scelte alimentari restano indipendenti dal contesto internazionale. Due italiani su 3 (66%) hanno aumentato o conservato molto alta l’attenzione all’ambiente e ai comportamenti sostenibili. E 1 italiano su 2 dichiara di prestare maggiore attenzione all’impatto ambientale dei prodotti alimentari che acquista nel tempo della crisi climatica: il 17% degli italiani, però, dichiara di non aver modificato i suoi comportamenti perché “non ritengo che ci sia alcun legame tra la crisi climatica e temperature anomale”.

    Tutorial

    Dall’acquisto alla cottura: i consigli antispreco per i surgelati

    di Paola Arosio

    06 Marzo 2025

    Si deve migliorare
    Le temperature elevate dell’estate 2025 hanno avuto un impatto diretto e concreto sui comportamenti alimentari degli italiani: per fronteggiare la crisi climatica in rapporto allo spreco del cibo, 1 italiano su 2 (45%) cerca di consumare prima gli alimenti più deperibili e 1 su 5 (21%) prova ad aumentare la frequenza di acquisto degli alimenti deperibili oppure di privilegiare l’acquisto di prodotti non deperibili o a lunga conservazione (19%). Solo il 14% dichiara di non aver modificato i propri comportamenti e appena il 6% afferma di non aver percepito alcun impatto delle temperature anomale sulla deperibilità degli alimenti. LEGGI TUTTO

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    Meno emissioni più energia pulita: gli impegni (insufficienti) della Cina

    Un annuncio importante, ma non abbastanza. E’ questa la possibile sintesi dell’intervento (nella serata italiana di ieri) di Xi Jinping all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Dopo lo show del presidente statunitense Donald Trump che poche ore prima aveva, tra le altre bordate, affondato le politiche climatiche definendole “una truffa”, tutti gli occhi erano puntati sul […] LEGGI TUTTO

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    Ecco gli alberi che raffreddano di più le città

    Da Madrid a Milano, da Roma a Lisbona, nelle grandi città la colonnina di mercurio sta aumentando sempre di più. Alcuni materiali edili, come asfalto, cemento, mattoni, assorbono il calore durante il giorno, lo trattengono e lo rilasciano lentamente di notte. Pertanto, anche dopo il tramonto, le temperature rimangono elevate, con una differenza sempre più marcata rispetto alle aree rurali, che può raggiungere gli 8 gradi. Una delle soluzioni più efficaci a questo problema sono gli alberi, che non solo forniscono ombra, ma raffreddano anche l’aria attraverso il trasferimento di umidità nell’atmosfera, un processo che gli esperti chiamano evapotraspirazione. Non tutte le piante hanno, però, lo stesso effetto: alcune sono più efficaci di altre nel rinfrescare le aree metropolitane.

    Biodiversità

    Dall’intelligenza artificiale le risposte sulla salute degli alberi di Milano

    di Pasquale Raicaldo

    18 Settembre 2025

    La ricerca spagnola
    Ed è proprio ciò che risulta da un recente studio pubblicato su Building and Environment e condotto dai ricercatori dell’Università di Valencia, in Spagna, che hanno usato sofisticati algoritmi di intelligenza artificiale per analizzare la temperatura della superficie terrestre. Con le Support vector machines, un tipo di machine learning, hanno ottenuto previsioni molto accurate, con un’affidabilità superiore all’80%. Questo metodo ha consentito di andare oltre il dato generale sul calore e di identificare le specie arboree più idonee a mitigare l’afa. Grazie alle analisi, sono emerse tre varietà in particolare: il cinnamomo cinese (Melia azedarach), che cresce rapidamente e ha foglie grandi e fitte; il fiore d’arancio giapponese (Pittosporum tobira), che è resistente alla siccità e ha una chioma bassa e compatta, ideale per le strade strette; l’olmo (Ulmus minor), che vanta fronde ampie, sebbene il suo impiego sia diminuito a causa della vulnerabilità a malattie come la grafiosi, causata da un fungo.

    L’importanza delle specie autoctone
    “Questi esemplari si adattano bene al clima mediterraneo”, spiega Daniel Jato-Espino, professore di Ingegneria e gestione ambientale dell’ateneo valenziano, oltre che autore del lavoro. “Tuttavia, i primi due provengono dall’Asia, rispettivamente meridionale e orientale, mentre il terzo è autoctono europeo. Ed è importante dare priorità alla piantumazione di specie native, che si adattano meglio all’ambiente locale e presentano minori rischi ecologici negli ecosistemi urbani”.

    Tecnologia

    Dalla Corea del Sud arrivano gli alberi solari, per tutelare le foreste

    di Gabriella Rocco

    16 Settembre 2025

    Anche la posizione conta
    Non si tratta, però, solo di piantare più alberi. Bisogna anche scegliere attentamente il luogo in cui posizionarli. Un albero mal adattato o mal collocato avrà, infatti, un effetto limitato, al contrario metterlo a dimora nel posto giusto può ridurre in modo significativo le temperature nelle aree critiche. Nello specifico, per ottenere impatti su larga scala, gli esemplari devono essere integrati nelle reti verdi del territorio, collegandosi a parchi e giardini. Misure, queste, che migliorano pure la qualità dell’aria, aumentano la biodiversità, riducono il consumo energetico richiedendo meno aria condizionata e possono perfino incrementare il valore delle abitazioni nella zona.

    Salute

    Il 5% in più di alberi nelle città aiuta a prevenire 5mila morti premature all’anno

    a cura della redazione di Green&Blue

    11 Settembre 2025

    Città più vivibili grazie alle piante
    Inoltre, secondo la ricerca spagnola, è utile coinvolgere i cittadini nei progetti di riforestazione, incoraggiando così la cura degli spazi pubblici.

    “Gli alberi sono molto più di un semplice ornamento urbano”, sostiene Jato-Espino. “Sono infrastrutture naturali, in grado di fare la differenza tra una città soffocante e una vivibile. In un contesto di cambiamento climatico, investire negli alberi significa investire nel benessere, nella salute e nella resilienza delle nostre città”. LEGGI TUTTO

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    La minaccia più grande per i pascoli è il riscaldamento globale

    Il sovrapascolo è da tempo considerato un fattore chiave nel degrado dei pascoli, ed è la ragione delle restrizioni sulle dimensioni delle mandrie o delle tasse sul bestiame che in alcuni luoghi possono limitare la capacità dei pastori di guadagnarsi da vivere. Ma un nuovo studio pubblicato su Science della Cornell University indica un’altra variabile: il cambiamento climatico.

    Tecnologia

    Dalla Corea del Sud arrivano gli alberi solari, per tutelare le foreste

    di Gabriella Rocco

    16 Settembre 2025

    Utilizzando quattro decenni di dati dettagliati provenienti dalla Mongolia, dove il 70% del territorio è costituito da pascoli, i ricercatori del Cornell SC Johnson College of Business hanno scoperto che, mentre mandrie più numerose possono ridurre leggermente la produttività dei pascoli di anno in anno, il meteo e il clima hanno un effetto molto maggiore. I risultati hanno implicazioni globali: oltre la metà della superficie terrestre è costituita da pascoli, che nutrono il 50% del bestiame mondiale e sostengono il sostentamento di oltre 2 miliardi di persone.

    “Quando analizziamo attentamente l’equivalente della scala di contea sull’intero Paese, nell’arco di 41 anni, scopriamo che i cambiamenti a lungo termine nelle condizioni dei pascoli sono interamente attribuibili ai cambiamenti climatici”, ha affermato Chris Barrett, professore di economia applicata e gestione e autore principale dell’articolo. Il team di Barrett ha scoperto che i pascoli mongoli sono maggiormente influenzati dai comportamenti collettivi che emettono gas serra in tutto il mondo piuttosto che dai pastori locali. Esortano i responsabili politici a concentrarsi maggiormente sulla mitigazione globale, nonché sul risarcimento internazionale per i danni climatici, e meno sulla tassazione dei pastori in una nazione che contribuisce poco alle emissioni globali di gas serra.

    Lo studio

    Entro il 2100 carenze idriche gravi nelle aree siccitose

    a cura della redazione di Green&Blue

    23 Settembre 2025

    Il governo mongolo effettua un censimento annuale di fine anno di tutto il bestiame del Paese, quindi a giugno effettua indagini e campionamenti sulla vegetazione dei pascoli per determinarne le condizioni. Sulla base di questa ricca raccolta di dati, nel 2021 il governo ha reintrodotto un’imposta nazionale sul bestiame, volta a indurre una riduzione dei tassi di capienza per far fronte agli impatti negativi percepiti sui pascoli. Il team di Barrett ha utilizzato questi dati insieme a un metodo di analisi statistica in due fasi, utilizzando i dati del censimento delle mandrie a livello di soum (un soum è simile a una contea) insieme agli eventi dzud (tempeste invernali estreme che causano un’enorme mortalità del bestiame) sui pascoli invernali, per prevedere la variazione nelle dimensioni delle mandrie a giugno. Nella seconda fase dello studio, i ricercatori hanno utilizzato le dimensioni previste della mandria per giugno per generare stime causali degli effetti delle dimensioni della mandria e del clima sulla produttività dei pascoli estivi.

    Per distinguere tra clima e variazioni meteorologiche a breve termine, il team ha costruito medie pluriennali di ciascuna variabile e le ha confrontate su periodi di 10 e 20 anni. Analizzando i dati, il gruppo ha scoperto che le dimensioni più grandi delle mandrie hanno un modesto effetto negativo sulla produttività dei pascoli nel breve termine, ma nessun effetto significativo nel lungo periodo. Il clima, e persino le variazioni meteorologiche annuali, hanno avuto un impatto molto maggiore. “Sono rimasto sorpreso dall’entità dell’effetto climatico rispetto agli effetti delle dimensioni delle mandrie, anche nel breve periodo”, ha ammesso: “Anche solo i cambiamenti climatici annuali hanno avuto un effetto circa 20 volte superiore alle dimensioni delle mandrie”. LEGGI TUTTO