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    M91 e la conservazione delle specie selvatiche attraverso l’invisibilità

    Questa volta è toccata a M91. Lo chiamerò semplicemente “Orso”. Sulla vicenda si sono espressi animalisti, WWF, Lega Ambiente, Provincia autonoma di Trento e altre voci, sia contrarie che favorevoli alla decisione di “rimuovere” Orso; tra le favorevoli anche quella di uno zoologo dell’Università di Sassari, esperto di grandi carnivori. Trovate tutto in rete, articoli e interviste. Non troverete però nessun accenno al problema che sta a monte di storie come questa; ovvero, l’equivoco sulla convivenza tra uomo e animali selvatici, che poi è parte dell’equivoco ancora più grande riguardante l’idea che l’uomo ha di sé stesso rispetto al resto della natura.

    L’uccisione di Orso rientra tra le azioni necessarie “per assicurare la tutela della sicurezza e dell’incolumità pubblica”; così recita la legge provinciale numero 9 dell’11 luglio 2018 della Provincia autonoma di Trento. Un’asserzione, quella virgolettata, che mi è sembrata ridondante: non sarebbe bastato dire “assicurare l’incolumità pubblica”? Ma poi ho capito. Non c’è nessuna ridondanza. “Assicurare la tutela” autorizza a intervenire con misure drastiche prima ancora che si debba “assicurare l’incolumità”.

    Pur non aggredendo o minacciando nessuno, Orso ha fatto qualcosa che ha reso più difficile tutelare l’incolumità pubblica, al punto da far scattare la misura preventiva più severa, l’abbattimento. Che cosa, dunque, avrà mai combinato questo cucciolone di due anni?

    Il 27 aprile Orso ha seguito un escursionista per circa un quarto d’ora, prima da lontano e poi avvicinandosi fino a un paio di metri. Non ha però mostrato alcun tipo di aggressività, nemmeno quando lo strano bipede gli ha lanciato dei sassi; evidentemente la sua era solo curiosità. Questa è una nota a favore di Orso, direte voi. Nemmeno per idea.

    Il documento che disciplina la “conservazione” dell’orso bruno nelle aree alpine è il Piano d’Azione Interregionale per la Conservazione dell’Orso Bruno nelle Alpi Centro-Orientali (PACOBACE; consultabile in rete). Stando alla Tabella 3.1 (“grado di pericolosità dei possibili comportamenti di un orso”) del documento, con la sua curiosità Orso si è meritato il grado di pericolosità “T”, ovvero “Orso segue persone”; si tratta del diciottesimo grado di pericolosità sui venti in ordine crescente da “A” a “V” della Tabella 3.1.

    Va detto che la possibilità di abbattere un orso scatta già a partire dal grado di pericolosità “Q” (quindicesimo), che recita: “Orso è ripetutamente segnalato in centro residenziale”. In effetti, dopo l’incontro con il bipede, Orso si è avvicinato più volte ai centri abitati, probabilmente in cerca di cibo nei cassonetti. Ma la Tabella 3.1 parla chiaro e non ammette scusanti: Orso è divenuto troppo pericoloso. Mi chiedo, allora: cosa ci si aspetta che faccia o non faccia un orso per meritare di essere “conservato” anziché “rimosso”?

    In base alla logica della Tabella 3.1 la risposta può essere una sola: deve diventare invisibile. Anche secondo l’esperto di grandi carnivori, gli orsi, per non essere “problematici”, dovrebbero condurre “una vita schiva e riservata nei boschi”, perché così non li vedremo mai”. Lo stesso esperto ha poi espresso parere favorevole sia riguardo alle linee guida del PACOBACE, sia riguardo alla decisione di abbatterlo. Da quello che ho potuto leggere, nemmeno WWF e Lega Ambiente hanno avuto da ridire sui criteri di pericolosità del PACOBACE, salvo lamentarsi del fatto che, nel caso specifico, sarebbe stato possibile prendere misure meno drastiche.

    Al contrario, trovo difficile condividere tali criteri, perché considero assurdo il concetto di “comportamento” su cui si fondano. Senza scomodare Konrad Lorenz, è chiaro che non viene fatto il minimo tentativo di considerare il comportamento degli orsi in quanto tali. La pericolosità che emerge dalla Tabella 3.1 sembra dipendere invece da quanto l’area che l’orso considera il suo territorio si sovrappone alle aree occupate dall’uomo.

    Come fa però un orso a non sconfinare dal lato nostro se ovunque ormai è territorio dell’uomo? Dove non ci sono case, coltivazioni, allevamenti, agriturismi, piste da trekking e da sci ci sarà una baita o un traliccio dell’elettricità. Il grado di pericolosità “F”, per esempio, recita “Orso frequenta le vicinanze di case da monte e baite isolate”. E se fosse la baita “isolata” all’interno dell’areale di una popolazione di orsi a trovarsi nel posto sbagliato e a determinare una situazione di pericolo?

    Se il PACOBACE, come si legge nel titolo, è un piano che mira alla “conservazione” dell’orso bruno, dovrebbe includere anche un elenco di cose da non fare riferito all’uomo e in rispetto alle abitudini e alle esigenze dell’orso. E non mi riferisco a cose tipo “non lasciare cibo nei cassonetti” o “non correre se si avvista un orso”. Intendo delle vere e proprie limitazioni, come il divieto di entrare in un certo perimetro di bosco, o di costruirci una baita o un capanno per la caccia; magari persino prevedere l’abbattimento (se preferite, “la rimozione”) di quelli già esistenti e la definizione di aree de-antropizzate dove è vietato entrare, così da poter “assicurare la tutela della sicurezza e dell’incolumità pubblica”.

    Questo tipo di idee e di soluzioni non piacciono per niente, lo so. Scontentano amministratori locali e cittadini per via dell’impossibilità di utilizzare una parte di territorio e le infrastrutture presenti o realizzabili al suo interno. Già, perché il territorio è una risorsa, ed è nostra. Il pianeta, in fondo, è nostro. È questo il grande equivoco. Vogliamo la baita isolata nel bosco, e siccome vogliamo tutelare-proteggere-conservare-preservare l’ambiente e la biodiversità vogliamo anche l’orso, purché sia invisibile.

    Il grande equivoco, per quanto grande, rimane elusivo ai nostri occhi proprio come vorremmo lo fossero gli orsi. Pensiamo inconsciamente l’ambiente come una dispensa, al punto che nel contesto del Green Deal e della “Strategia UE Biodiversità per il 2030”, che contengono le direttive per la Transizione Verde, l’ambiente viene quantificato in “servizi ecosistemici”; ovvero, in base a quanto vale un pezzo di ecosistema in funzione dei benefici forniti direttamente o indirettamente al genere umano e a sostegno del suo benessere.

    L’idea di quantificare l’utilità economica di pezzi di ecosistema è considerata illuminante oltre che utile dal punto di vista pratico, perché ci dice quant’è importante l’ambiente nell’unico linguaggio che conosciamo, quello del valore monetario. Ma se abbiamo bisogno di questo per tener conto della natura intorno a noi, e se è così che educheremo le future generazioni a dare un valore all’ambiente e alla biodiversità, non credo verranno mai scritte delle regole di convivenza tra uomo e animali selvatici migliori di quelle nella Tabella 3.1.

    Domenico Ridente, geologo e paleontologo del CNR-IGAG, Referente per il Progetto PNRR Biodiversity National Future Center (MUR e Unione Europea) LEGGI TUTTO

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    Notre Dame ricostruita anche grazie alle ghiandaie

    Durante la riapertura della cattedrale di Notre Dame a Parigi, celebrata con la presenza dei leader di tutto il mondo, sono stati fatti decine di ringraziamenti a chi ha reso possibile una ricostruzione così veloce. Eppure, nel delicato equilibrio uomo-natura, ci si è dimenticati chi ha realmente reso possibile tutto ciò: un uccello chiamato Garrulus glandarius, meglio conosciuto come la ghiandaia. La ghiandaia è un uccello dai colori magnifici, con striature azzurre sulle ali, e in Europa, è presente in tantissimi luoghi: non è facile avvistarlo, si muove spesso in coppia, ed è famoso per essere un incredibile magazziniere. Proprio questa sua caratteristica è, di fatto, quella che ha permesso la base per la ricostruzione di Notre Dame, la chiesa il cui il tetto e parte della guglia andarono distrutte cinque anni fa per un incendio.

    Senza farsi notare da altri esemplari, ogni ghiandaia è incredibilmente attiva nello stipare cibo in eccesso, soprattutto le ghiande che fanno parte di almeno metà della sua dieta, da qualche parte sotto il suolo o nei pressi della corteccia degli alberi, a volte anche 20 chilometri lontano da dove ha raccolto i semi. Accumula provviste tutto l’anno e soprattutto a fine estate: il suo obiettivo è avere abbastanza da mangiare per l’inverno. Ogni anno un singolo uccello può mettere da parte anche oltre mille ghiande. Per ricostruire Notre Dame nel modo più fedele possibile alla struttura gotica del XII secolo i francesi hanno deciso di utilizzare come materiale principale il legno. Un legno che però, nella maggior parte dei casi, doveva provenire da determinati alberi, come le querce secolari. Queste piante che possono vivere oltre cent’anni sono fondamentali: all’interno degli ecosistemi forestali permettono la vita di 1.500 specie animali e vegetali e nei boschi francesi sono considerati dei pozzi di carbonio unici per la funzione di cattura della CO2. Toccare le querce, pensare di tagliare, è quindi una questione complessa, legata anche a protezione e vincoli. Tant’è che quando la Francia ha annunciato che sarebbero state abbattute quasi 2000 querce secolari francesi per il progetto di Notre Dame ci sono state forti polemiche nel Paese, tanto che è dovuta intervenire l’International Oak Society spiegando che il costo in termini di emissioni di carbonio sarebbe stato molto più basso usando il legno di questi alberi rispetto all’utilizzo di acciaio e cemento.

    Se però è stato possibile utilizzare quelle querce per ricostruire tetto e guglia, di fatto lo si deve proprio alle ghiandaie: sono loro che nelle foreste francesi piantano ogni anno quasi due miliardi di ghiande. Metà delle ghiande che stoccano per fare scorta di cibo, non vengono poi mangiate: da quei semi nasceranno dunque le future querce. L’associazione francese Quercus et Garrulus ha raccontato che la maggior parte delle querce usate per la ricostruzione infatti non era stata piantata dall’uomo, ma proprio dalle ghiandaie. Si stima che quasi il 60% delle giovani querce francesi sia frutto del lavoro di questi animali: la stessa cosa vale anche per altri Paesi dove, come in Inghilterra, più della metà degli alberi nei nuovi boschi sono proprio nati grazie al lavoro delle ghiandaie e non grazie ai semi piantati dai proprietari dei terreni.

    Ecco perchè, nella ricostruzione di Notre Dame, alle ghiandaie andrebbe un ringraziamento speciale: sono loro che hanno permesso l’espansione del “re della foresta” e garantito, insieme alle stesse querce, quella biodiversità che oggi stiamo perdendo ma che è stata fondamentale anche nel ricostruire un pezzo di storia come Notre Dame. Proprio per questa capacità unica delle ghiandaie, tale da permettere l’adattamento delle querce in nuove aree, Quercus et Garrulus ha anche creato il sistema chiamato SAGE “Jay-Assisted Seeding”: contenitori per le ghiande, piazzati in punti chiave, che possono incentivare ulteriormente la semina. Dai primi esperimenti le ghiandaie che hanno avuto accesso a SAGE hanno già piantato querce addirittura a “centinaia di chilometri di distanza” rispetto ai loro habitat attuali. E non vale solo per le querce: anche per castagne, faggi e altre specie. LEGGI TUTTO

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    Bonus caldaia 2025, possibile anche senza sostituire l’impianto

    Ripensare ad una casa più calda riducendo il gas e scaldandosi con la legna. Una prospettiva non impossibile e che non comporta una riduzione, ma anzi un aumento del confort. E per chi decide di fare questa scelta c’è la possibilità di utilizzare il bonus del 50% per risparmio energetico, senza dover sostituire la caldaia, a patto che l’impianto scelto, stufa termo camino o caminetto che sia, abbia un alto rendimento e a basse emissioni di fumi. Lo stesso per chi sceglie una caldaia a pellet. Dal prossimo anno, però, l’agevolazione con l’aliquota più elevata spetterà solo per la prima casa.

    Fisco Verde

    Risparmio energetico e smart home: ancora pochi giorni per l’ecobonus al 65%

    di  Antonella Donati

    03 Dicembre 2024

    Legna e pellet tra le fonti di energia rinnovabile
    Le biomasse, comprese quelle di origine vegetale, rientrano a tutti gli effetti tra le fonti di energia rinnovabile in quanto consentono di riutilizzare prodotti organici di scarto. Per questo motivo anche lega e pellet godono degli incentivi per risparmio energetico, un’agevolazione che spetta non solo se si sostituisce una caldaia a gas con una a pellett, ma anche se si intende acquistare una stufa a legna o un caminetto per migliorare il confort domestico. Si tratta infatti, anche in questo caso, di un tipo di impianto che consente di limitare l’uso del gas ritardando l’accensione della caldaia o limitando le ore di utilizzo, e per questo gode della detrazione del 50%. Dal prossimo anno, però, questa percentuale sarà riservata solo all’abitazione principale, mentre per le seconde case, se non saranno novità nella manovra, la percentuale scenderà al 36%.

    Fisco Verde

    Bonus verde 2024 per terrazze e giardini: i tempi stringono

    di  Antonella Donati

    06 Novembre 2024

    Pagamenti tracciabili e asseverazione
    La detrazione spetta non solo per l’acquisto di stufa, ma anche per la realizzazione di un caminetto e per tutte le opere correlate, a partire dall’installazione della canna fumaria. L’installazione della stufa, della caldaia o del caminetto deve essere effettuata da un tecnico qualificato, tenuto per legge a emettere regolare certificato di conformità (Dm 37/2008). È inoltre necessario farsi rilasciare la certificazione tecnica del produttore della stufa che ne indichi le capacità termiche, in quanto è richiesto un rendimento del bruciatore di almeno l’85% e la limitazione dei fumi di emissione. Il pagamento deve essere effettuato con il bonifico dedicato ai bonus casa.

    Fisco verde

    Ecobonus, dalla riqualificazione alla caldaia nuova: come cambiano le detrazioni fiscali

    di  Antonella Donati

    30 Ottobre 2024

    Rimborso sprint con il Conto termico
    Per chi invece deve sostituire un vecchio impianto a biomasse più inquinante, quindi con meno di quattro stelle, oppure uno olio combustibile o a gasolio c’è invece la possibilità di usufruire del Conto termico del Gse, che consente di ottenere un rimborso fino al 65% della spesa. Per il Conto termico al momento non è prevista una scadenza per la presentazione delle domande per cui sarà possibile ottenere l’incentivo con l’aliquota del 65% anche nel 2025, ma sempre, come detto, esclusivamente per la sostituzione di vecchi impianti esclusi quelli a gas. La richiesta di incentivo va presentata direttamente sul sito del Gse una volta installata la stufa o la caldaia. Prevista una procedura semplificata per chi sceglie uno dei generatori a biomassa inclusi nel Catalogo degli apparecchi domestici presente sulle stesse pagine del Gse.er poter ottenere l’incentivo occorre la fattura e il pagamento deve avvenire in modo tracciabile. Il contributo è erogato entro due mesi in un’unica soluzione quando l’importo è inferiore ai 5.000 euro. Per chi usufruisce del Conto termico c’è anche la possibilità di ottenere, in aggiunta a questo, il contributo regionale o comunale per la rottamazione dei vecchi impianti nell’ottica della riduzione dei fumi. Con le somme erogate a livello locale è possibile ottenere il rimborso del 100% della spesa sostenuta. LEGGI TUTTO

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    Migliora la “salute” del buco nell’ozono

    Negli ultimi quattro anni, il buco annuale dell’ozono antartico si è protratto più a lungo del solito, chiudendosi nella seconda metà di dicembre, quest’anno, invece, come mostra il monitoraggio in tempo quasi reale del Servizio di monitoraggio dell’Atmosfera di Copernicus (Copernicus Atmosphere Monitoring Service – Cams) il buco dell’ozono antartico ha interrotto la striscia seguendo […] LEGGI TUTTO

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    Destinazione Sardegna, per una vacanza outdoor 12 mesi all’anno

    Posata la bicicletta, tolte le scarpe da trekking o l’imbragatura da arrampicata inizia la seconda parte della vacanza in Sardegna, quella dedicata al relax, alle visite culturali e, ovviamente, alla scoperta delle prelibatezze della cucina. Caratterizzata da sapori decisi e genuini, la gastronomia sarda oscilla tra terra e mare, abbracciando sia la ricchezza della sua tradizione pastorale che l’abbondanza delle coste. Nell’entroterra dominano i piatti a base di carne, simbolo di una cultura fondata sull’allevamento, come dimostra l’attenzione nella lavorazione del maialino da latte e dell’agnello. Lungo le coste, invece, il mare diventa protagonista, regalando una straordinaria varietà di pesci, crostacei e molluschi. Le ricette che ne derivano sono spesso semplici, concepite per esaltare la freschezza del prodotto. Prima di sedersi a tavola è però d’obbligo una visita ai siti culturali – la Sardegna è stata nei millenni uno dei più importanti crocevia del Mediterraneo – e ai vivaci centri cittadini, dove negozi “alla moda” convivono vicino a botteghe tradizionali, che mantengono viva la ricca tradizione artigianale dell’isola. LEGGI TUTTO

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    Crisi climatica, perché abbiamo bisogno di azioni urgenti per la montagna

    In montagna il cambiamento climatico produce effetti sempre più gravi. Lo scioglimento dei ghiacciai, alterando la disponibilità idrica e intensificando fenomeni estremi quali alluvioni e frane, ha effetti devastanti non solo sulle comunità che abitano le terre alte ma anche su quelle che vivono a valle. Proteggere le montagne non è quindi solo una questione ambientale, ma una questione di sopravvivenza per miliardi di persone.

    Le montagne infatti forniscono acqua ed energia, proteggono la biodiversità che ci nutre, e assorbono anidride carbonica dall’atmosfera a beneficio di miliardi di persone. È scientificamente accertato che l’aumento delle temperature globali di 1,5 °C al di sopra dei livelli preindustriali sarà comunque troppo elevato per gli ecosistemi montani, che subiranno cambiamenti profondi.

    Se da un lato i governi devono impegnarsi a ridurre le emissioni – unica misura efficace per limitare le alterazioni negli ecosistemi montani – dall’altro è urgente che le comunità montane possano beneficiare di politiche e investimenti che favoriscano l’adattamento ai cambiamenti in corso e futuri, nell’ottica di raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile come l’SDG 1 (No alla Povertà), l’SDG 2 (Fame Zero), e l’SDG 15 (Vita sulla Terra).

    Oggi celebriamo Giornata Internazionale della Montagna, dedicata quest’anno al tema “Soluzioni per un futuro sostenibile della montagna – innovazione, adattamento e giovani”. In questa occasione, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) e la Mountain Partnership hanno pubblicato un importante documento {link https://doi.org/10.4060/cd3668en publicato mercoledì 11 Dicembre] che sottolinea la necessità di coniugare innovazione e tradizione nelle strategie di adattamento per le regioni montane, riconoscendo anche il ruolo chiave delle comunità montane nell’affrontare la crisi climatica.

    Come punto di partenza, spiega il rapporto FAO, dobbiamo assicurarci di sapere cosa sta accadendo nelle nostre montagne, il che include l’adozione di metodi innovativi per monitorare lo scioglimento dei ghiacciai.

    Nelle Ande, ad esempio, un recente progetto ha riunito dieci istituti di ricerca al fine di armonizzare i dati sull’equilibrio della massa glaciale di dieci ghiacciai andini. Questi dati forniranno informazioni cruciali per una gestione più sostenibile delle risorse idriche e per l’adattamento ai cambiamenti climatici. Allo stesso tempo, anche le conoscenze tradizionali delle comunità locali possono fornire importanti spunti per identificare soluzioni efficaci.

    Nell’Himalaya, ad esempio, le comunità del freddo deserto del Ladakh tramandano da generazioni la pratica di scavare dei piccoli stagni, chiamati “zing”, in prossimità dei villaggi per raccogliere l’acqua proveniente dalla neve sciolta e dai torrenti glaciali, essenziale per l’irrigazione delle coltivazioni durante la breve stagione agricola.
    L’adozione di questo metodo, semplice ma efficace, ha contribuito ad incrementare i raccolti del 30-40% e a ridurre la vulnerabilità degli agricoltori del Ladakh di fronte alla scarsità d’acqua causata dai cambiamenti climatici.

    Le comunità montane hanno anche un’altra risorsa di grande valore: l’energia, la passione e la creatività dei loro giovani. Con 1,8 miliardi di giovani nel mondo che rappresentano la forza trainante dell’azione climatica, anche le montagne possono beneficiare di questo potenziale.

    In Kenya, giovani studenti e studentesse hanno dato vita a un progetto di gestione del territorio che li ha visti costruire gabbioni e solide barriere di reti metalliche riempite di rocce per proteggere le loro terre dall’erosione. In Perù, attraverso workshop incentrati sulla preservazione, i giovani stanno imparando a proteggere una specie locale di api senza pungiglione, impollinatori essenziali per l’agricoltura nella loro regione.

    A livello globale, la Mountain Partnership, alleanza delle Nazioni Unite che lavora per preservare le montagne e sostenere le comunità montane, sta attivamente sostenendo il Mountain Youth Hub. Questo collettivo di giovani professionisti, profondamente radicati nelle realtà montane di tutto il mondo, è impegnato in prima linea nel promuovere iniziative innovative che favoriscano l’adattamento ai cambiamenti climatici. La Mountain Partnership sostiene anche le comunità montane nello sviluppo di imprenditorialità sociale, grazie al suo programma di incubazione e accelerazione per le imprese.

    In Mongolia lavora con la Mongolian Wool and Cashmere Association per promuovere la produzione ecologica di cashmere, garantendo prezzi equi per i pastori attraverso pratiche di produzione e lavorazione sostenibili.
    Questi esempi dimostrano che con adeguati investimenti, assistenza tecnica e politiche mirate al sostegno dei più vulnerabili, le comunità montane siano in grado di attuare le trasformazioni necessarie per affrontare le sfide ambientali, migliorando al contempo le condizioni economiche di queste aree.
    Zhimin Wu, Direttore della Divisione delle Foreste, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, FAO LEGGI TUTTO

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    Camelia sasanqua, fiori d’inverno: la guida

    La camelia sasanqua è una specie appartenente al genere camellia, facente parte a sua volta della famiglia delle teacee. Si tratta di una pianta acidofila che è originaria dell’Asia e, in particolare, di alcune aree meridionali del Giappone e della Cina. La camelia sasanqua è caratterizzata dalle foglie ellittiche sempreverdi di una bella tonalità verde scura, sul lato superiore, e un po’ più chiara su quello inferiore. La pianta può raggiungere circa 5 metri di altezza, con un ritmo di crescita che non è molto veloce.

    L’esposizione ideale per questa pianta
    La camelia sasanqua è una pianta rustica, che può essere messa a dimora in penombra o, addirittura, in zone in piena ombra. Ricordiamoci però di mantenerla al riparo dalle correnti d’aria. La pianta non ama in particolare i luoghi caratterizzati da un clima eccessivamente caldo e secco, oppure, dove la siccità è accompagnata da frequenti venti caldi. Nelle aree più miti del nostro paese, può accadere che anche una ridotta esposizione ai raggi solari causi delle bruciature alle foglie. Ricordiamoci infine che la camelia sasanqua può sopportare temperature minime che oscillano attorno ai -10 gradi.

    Il terreno consigliato per la sua coltivazione
    La camelia sasanqua è una pianta acidofila: per la sua coltivazione dobbiamo preferire quindi una miscela di terriccio acido o subacido, che dobbiamo però rendere più drenante grazie all’aggiunta, in parti uguali, di torba e sabbia grossolana. Se decidiamo di tenere la camelia sasanqua in vaso, ricordiamoci che il rinvaso va effettuato appena conclusa la fioritura, cioè in piena primavera. Scegliamo sempre un contenitore che abbia un diametro poco più grande, circa un paio di centimetri, di quello che andiamo a sostituire. In questo modo, creeremo un compromesso ideale per favorire lo sviluppo delle radici e, allo stesso tempo, per evitare che si creino le condizioni ideali per il ristagno idrico a causa dell’eccessiva quantità di nuova terra. Per una coltivazione ideale, il vaso dovrebbe essere tra i 40-50 centimetri di altezza e larghezza.

    La cura: innaffiatura, concimazione e potatura
    La camelia sasanqua necessita di un buon livello di umidità ambientale e di un terreno che non sia mai arido. Dobbiamo però evitare che a causa degli eccessi di irrigazione e della scarsa capacità di drenaggio si verifichino dei ristagni di acqua a livello radicale, perché la pianta va in sofferenza. Tra la primavera e l’estate, l’innaffiatura dev’essere abbondante. Nel corso dei mesi del periodo compreso tra l’autunno e l’inverno possiamo invece ridurre la quantità di acqua. In ogni caso, teniamo sempre conto della frequenza delle piogge per evitare di eccedere con l’acqua. Durante i periodi più asciutti e caldi, possiamo nebulizzare le foglie della pianta con dell’acqua. Per la concimazione della camelia sasanqua possiamo fare ricorso al concime granulare per piante acidofile a rilascio lento, ricordandoci di somministrarlo alla pianta solo tra l’inizio della primavera e la fine dell’estate. Anche a causa del suo ritmo di crescita, la camelia sasanqua non ha particolari esigenze di potatura. Preoccupiamoci però di eliminare le parti danneggiate della pianta per evitare che si trasformino in un veicolo di attacco parassitario. Anche al termine del periodo di fioritura, possiamo potare parzialmente la camelia sasanqua per ridarle una silhouette armoniosa.

    La camelia sasanqua e la particolarità della fioritura invernale
    Se tante altre specie del genere camellia sono solite preannunciare l’arrivo della primavera con i loro delicati fiori, nel caso della camelia sasanqua la fioritura è invernale. Per la precisione, la pianta comincia a fiorire durante l’autunno e la sua fioritura prosegue fino alla conclusione dell’inverno. La pianta si ricopre letteralmente di tanti piccoli fiori, che possono essere semplici o doppi, con colori che spaziano dal bianco al rosa, passando per il rosso e il fucsia della splendida camelia sasanqua kanjiro.

    I parassiti che minacciano comunemente la pianta
    La camelia sasanqua può essere attaccata in modo particolare dalla cocciniglia e dagli afidi. Nel primo caso, sulle foglie della pianta si manifestano delle macchie di colore marrone (cocciniglia bruna) o biancastro (cotonosa). Possiamo eliminare questa avversità utilizzando un batuffolo di ovatta con l’alcool. Nel caso degli afidi, invece, il rimedio più appropriato è l’uso di un prodotto specifico per questi insetti. LEGGI TUTTO

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    Michele Sasso e la montagna. “C’è chi la vorrebbe come un parco giochi senza regole”

    Michele Sasso, giornalista e scrittore, classe 1976, nel suo ultimo libro Montagne Immaginarie (Edizioni Ambiente, 2024) racconta le alture in tutte le sue sfaccettature, positive e negative: dalle Olimpiadi di Milano Cortina 2026 alla crisi della “snow economy” fino allo sfruttamento delle risorse, l’autore mostra le criticità e gli esempi virtuosi di sviluppo sostenibile.

    “In montagna – spiega Sasso – andavo con mio padre, dai miei quattro anni in poi. È stata la mia fortuna. Se vai in montagna da bambino, in genere, ci vai anche da adulto per cercare un respiro più grande. Sono cresciuto a Varese e vivo a Milano. In estate andavamo in vacanza tra gli appennini lucani. Erano gli anni Ottanta, un periodo in cui andare in montagna non era così di moda come oggi. Ho scelto di scrivere questo libro perché continuando a frequentarla non mi tornavano più tanti aspetti della montagna e il suo sfruttamento da parte di noi cittadini. Frequentandola mi sono accorto che c’erano delle storture. Purtroppo tanta tipicità è stata distrutta, posti bellissimi si alternano con costruzioni abbandonate e vallate tristi”.
    Michele Sasso insegna comunicazione giornalistica e storytelling alla scuola Mohole di Milano e attualmente lavora per La Stampa.

    La montagna è sospesa tra l’oggi e il domani, tra chi l’ha idealizzata e usata e chi invece crede nel suo sviluppo sostenibile e armonico di fronte, soprattutto, alle sfide ineluttabili dei cambiamenti climatici. La montagna è sospesa tra visioni distorte di un futuro che la vorrebbe come un parco giochi senza regole, da sfruttare per costruire comprensori e impianti sciistici fuori tempo massimo e il presente fatto di narrazioni e migrazioni per cercare nuove forme per riabitare questi luoghi.

    “Montagne Immaginarie” mette in evidenza le contraddizioni di una snow economy insostenibile, alimentata da una visione che persiste nel rendere artificiali i comprensori sciistici a dispetto delle sfide ambientali. L’autore analizza infatti l’impatto dei grandi eventi, sottolineando i costi ambientali di infrastrutture massicce e superflue, come per esempio la controversa pista da bob di Cortina. “Sono stato di recente – racconta Sasso – a Cortina, località sciistica che nel 2026 ospiterà le Olimpiadi. È un posto bellissimo ma ha un tessuto fragile. Vi abitano 5500 persone e i prezzi delle case sono simili a quelli di Milano. La cementificazione sale anche verso l’alta quota. Sono le stesse dinamiche che vediamo nelle grandi città. Continuano a ballare sul ponte del Titanic: il 90% delle piste da sci sulle montagne italiane sono innevate artificialmente, con costi altissimi. Porteranno i turisti in elicottero e la strada che porta alla località sciistica è intasatissima. Centinaia di camion attraversano il territorio, la popolazione si lamenta, è altamente impattante dal punto di vista ambientale”.

    Michele Sasso  LEGGI TUTTO