Ci sono isole, come Carteret islands in Papua Nuova Guinea, dove gli abitanti si stanno già trasferendo in zone più sicure portando a bordo delle canoe – usate come un’arca di Noè – persino piante e semi. Altre, come le Maldive, dove si stanno costruendo arcipelaghi artificiali resilienti dove sopravvivere e altre ancora, come Vanuatu, dove l’innalzamento dei livelli del mare è talmente evidente da far progettare traslochi di massa. Le isole del mondo, soprattutto quelle del Pacifico, sono in estrema sofferenza per la crisi del clima: sono minacciate dai livelli del mare, dall’acidificazione degli oceani, dagli eventi meteo estremi e persino da terreni che diventano “salati” e incoltivabili. Per questo, attraverso un grido d’allarme globale, da anni tentano di avere risposte per il futuro. Una prima fondamentale risposta ai loro problemi potrebbe finalmente arrivare da quello che è definito come “il caso più importante” che dovrà esaminare la Corte internazionale di Giustizia su spinta della Corte suprema delle Nazioni Unite che porta il caso all’Aia dopo la pressione esercitata dalle isole. Oggi infatti all’Aia si aprirà la prima udienza, di un caso destinato a durare per settimane, che avrà come questione centrale la definizione su ciò che i Paesi di tutto il mondo, e in particolare quelli ricchi, sono tenuti a fare per combattere il cambiamento climatico.
Il tribunale dell’Aia ascolterà 99 Paesi e più di una dozzina di organizzazioni intergovernative e alla fine nel corso del 2025 emetterà una sentenza non vincolante ma in grado di dettare la linea politica per molti Stati, una sentenza che potrebbe aiutare in particolare le nazioni vulnerabili e soprattutto le piccole isole a combattere l’impatto devastante del riscaldamento globale.
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Proprio le nazioni insulari, che rischiano di scomparire a causa dell’innalzamento del mare, lo scorso anno avevano portato l’Assemblea generale dell’Onu a chiedere alla Corte di giustizia un parere sugli “obblighi degli Stati in materia di cambiamenti climatici”. Con il livello del mare che si è innalzato fino a una media di circa 4,3 centimetri le isole del Pacifico sostenevano che non c’è più tempo da perdere: servono azioni immediate e risposte concrete e condivise, affermano stati come Vanuatu che fa parte di un gruppo di piccole isole che spingono per un intervento legale internazionale sulla crisi climatica. Quella in cui sperano, non essendo vincolante, è soprattutto una vittoria simbolica, una sentenza che possa ribadire la necessità – da parte soprattutto delle nazioni più ricche – di agire per aiutare i Paesi in difficoltà, un verdetto che servirebbe anche a rafforzare le richieste – di trilioni di dollari – da parte dei Paesi meno sviluppati durante le Cop, le conferenze delle parti sul clima.
Mai finora all’Aia il tribunale ha affrontato una causa di tale portata, con quasi cento stati coinvolti: si tratta della più grande partecipazione nei quasi 80 anni di storia dell’istituzione. “Per la nostra generazione e per le isole del Pacifico, la crisi climatica è una minaccia esistenziale. È una questione di sopravvivenza e le maggiori economie mondiali non stanno prendendo sul serio questa crisi. Abbiamo bisogno della Corte internazionale di giustizia per proteggere i diritti delle persone in prima linea” ha spiegato Vishal Prasad, rappresentate degli Studenti delle Isole del Pacifico, una delle associazioni coinvolte nel caso. Le domande centrali a cui i giudici dell’Aia dovranno dare una risposta sono due: cosa sono obbligati a fare i Paesi secondo il diritto internazionale per proteggere clima e ambiente dalle emissioni di gas serra di origine antropica? E ancora: quali sono le conseguenze legali per i governi quando le loro azioni oppure la loro inazione danneggia in modo significativo la salute del Pianeta, soprattutto nei piccoli stati insulari in via di sviluppo? “Vogliamo che la Corte confermi che la condotta globale che finora ha rovinato il clima è illegale” ha affermato Margaretha Wewerinke-Singh del team legale che rappresenta Vanuatu.
Una udienza, quella in corso all’Aia, che inizia poche settimane dopo la conclusione della Cop29 di Baku, in concomitanza con la Cop16 sulla lotta desertificazione di Riad e poche ore dopo la fine (purtroppo negativa) del vertice sul Trattato globale della Plastica. Anche per via di queste tempistiche, dopo negoziati globali che hanno portato a risultati insoddisfacenti, i rappresentanti delle nazioni insulari sperano che la Corte possa dare una vera “scossa” alle battaglie sul clima.
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Alla Cop29 proprio i membri delle nazioni insulari del Pacifico erano rimaste fortemente insoddisfatte per gli accordi finali, quelli in cui si prevede che i paesi più sviluppati forniscano 300 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti per il clima entro il 2035 per aiutare le nazioni più povere, una cifra lontana dalle migliaia di trilioni richieste. Vanuatu, Papua Nuova Guinea e altri, si appellano dunque a una risposta forte da parte della Corte internazionale di giustizia perché sarebbe significativa “dal punto di vista politico” e indicherebbe finalmente una volta per tutte un modello su come i Paesi ricchi dovrebbero proteggere l’ambiente dai gas serra dannosi e quali sono le conseguenze se non lo fanno.