A Busan, mentre i rappresentanti di tutto il mondo discutono su un problema enorme che non possiamo più ignorare, l’elefante nella stanza è talmente grande che si teme per l’effettiva riuscita del vertice. Esattamente come alla Cop29, conferenza delle parti sul clima appena conclusa a Baku e presidiata da migliaia di lobbisti dei combustibili fossili, anche in Corea del Sud il paradosso è lampante: mentre fino al 1° dicembre si negozierà per ottenere un Trattato globale sulla plastica, in modo da limitare l’inquinamento di questo materiale che potrebbe raddoppiare al 2050, nei corridoi del summit è pieno di lobbisti dell’industria della plastica.
Il report
Più lobbisti dei combustibili fossili che delegati dei paesi vulnerabili alla Cop del clima
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C’è di tutto: dai rappresentanti del petrolio a quelli della chimica, da quelli degli imballaggi alla cosmetica sino ai lobbisti della componentistica auto. Il numero è da record: circa 220 manager e uomini di aziende che hanno come intenzione primaria quella di garantire che la plastica vergine possa ancora essere prodotta e che l’industria della plastica non incappi in battute d’arresto. Mai, ai negoziati sul Trattato – che vede attualmente opposte le posizioni di Paesi produttori di combustibili fossili come Arabia Saudita, Russia e Iran a un gruppo di circa 60 nazioni che invece chiedono passi indietro sulla produzione di plastica – c’erano stati così tanti lobbisti, impegnati a frenare tentativi di porre limiti alla quantità di plastica che in futuro potrà essere prodotta.
Inquinamento
Trattato mondiale della plastica: ultima chance per liberarci dall’inquinamento
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Non è una novità che ai vertici mondiali ci sia una tale ingerenza: è accaduto alla Cop16 sulla Biodiversità, dove erano presenti per esempio lobbisti del mondo della pesca e della caccia, è accaduto nuovamente anche alla Cop29 sul clima, con 1773 rappresentati dell’oil&gas presenti laddove bisognava discutere di uscita graduale dai combustibili fossili. Ora, l’analisi del Center for International Environmental Law (CIEL), mostra come anche ai colloqui sulla plastica guidati dalle Nazioni Unite a Busan a primeggiare siano i lobbisti: se presi come gruppo, sarebbero addirittura la delegazione più numerosa ai colloqui dato che si parla di 220 persone, mentre la delegazione del Paese ospitante, la Corea del Sud, è di “appena” 140 persone.
Numeri che sono più del doppio persino degli 89 delegati dei piccoli stati insulari in via di sviluppo del Pacifico (PSID), quelli che oggi sono più sommersi dalla plastica. I lobbisti superano, per numero, perfino i delegati della Coalizione degli scienziati che punta ad ottenere un trattato efficace sulla plastica, preoccupati dal fatto che ormai ogni anno vengano prodotte 460 milioni di tonnellate di plastica, materiale di cui riusciamo a riciclare pochissimo (intorno al 10%). Proprio 900 scienziati indipendenti di recente hanno firmato una dichiarazione per chiedere ai negoziatori di accelerare e trovare un accordo per un Trattato globale che limiti la produzione di plastica, cosa che invece i rappresentati delle aziende presenti non auspicano affatto. I produttori infatti non vogliono “limiti” e, sulla spinta di Arabia Saudita, Russia, Iran e anche Cina continuano a insistere sulla necessità di evitare tagli alla produzione e migliorare invece la gestione dei rifiuti, aspetto che finora però non è mai funzionato.
“I limiti alla produzione e la riduzione della quantità di materiale nel sistema avrebbero un impatto maggiore su coloro che meno se lo possono permettere” sostiene per esempio Stewart Harris, portavoce dell’International Council of Chemical Associations (ICCA). Questa retorica è però quella che preoccupa attivisti e scienziati perché ci porta verso qualcosa, il recupero e riciclo, che finora non ha dato alcun frutto concreto. Per Delphine Levi Alvares del CIEL “abbiamo visto i lobbisti del settore circondare i negoziati con tattiche tristemente note di ostruzione, distrazione, intimidazione e disinformazione, una strategia progettata per preservare gli interessi finanziari dei Paesi e delle aziende che antepongono i loro profitti derivanti dai combustibili fossili davanti alla salute umana, ai diritti umani e al futuro del Pianeta”.
La sola presenza dei lobbisti fra i corridoi Onu fa temere dunque per una riuscita reale degli accordi: ci si chiede per esempio cosa ci facciano a Busan i rappresentati di aziende come Dow o Exxon Mobil, grandi produttori di plastica, gli stessi che insieme ad altre ditte avevano firmato una alleanza volontaria per “porre fine ai rifiuti di plastica” nonostante si sia poi scoperto che proprio quelle aziende avevano prodotto fino a 1000 volte più plastica nuova rispetto ai rifiuti che hanno smaltito in cinque anni. Anche per questa ingerenza ci sono forti dubbi sulla possibilità di raggiungere un accordo per un trattato “giuridicamente vincolante” entro la fine della settimana quando, come sostiene Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, “gli Stati membri dovranno definire un trattato globale sulla plastica che dia priorità a un ambiente vivibile per noi e per le future generazioni, piuttosto che ai compensi di un manipolo di amministratori delegati. E per farlo serve un accordo ambizioso e legalmente vincolante che riduca la produzione della plastica e ponga fine al monouso“. Un accordo che però senza pressioni da parte della società civile, anche vista l’ingerenza dei lobbisti, rischia di non trovare terreno fertile: eppure, avvertono scienziati e associazioni guidate dalla Plastic Health Council, ignorare l’impatto della plastica sulla salute non solo degli ecosistemi ma anche umana, è ormai “delirante”.