La moda europea potrebbe raggiungere i suoi obiettivi climatici con 8 anni di ritardo. Nonostante negli ultimi 6 anni l’industria europea della moda sia riuscita a disaccoppiare la crescita economica dalle emissioni di CO2, sembra che ai ritmi attuali sarà in grado di raggiungere gli obiettivi climatici previsti dal Fit for 55 solo entro il 2038. Per recuperare il ritardo rispetto al percorso di decarbonizzazione previsto, saranno necessari investimenti addizionali pari a 24,7 miliardi di euro entro il 2030. In alternativa, ridurre i volumi di produzione per rimanere entro i limiti di emissione previsti rischia di comportare perdite di ricavi 8 volte superiori. E’ uno dei risultati principali emersi dal Just Fashion Transition 2024, l’osservatorio strategico annuale di TEHA Group sulla transizione sostenibile nei principali comparti della moda: tessile, abbigliamento, maglieria, calzature, pelletteria, conceria.
Lo studio, condotto da The European House Ambrosetti, è stato presentato a Venezia nell’ambito del Venice Sustainable Fashion Forum, la principale tappa annuale incentrata sulla sostenibilità nella catena del valore della moda, nato dalla collaborazione di Sistema Moda Italia, TEHA Group e Confindustria Veneto Est. Una traiettoria in deciso rallentamento quindi, quella del sistema moda nella sua corsa verso la sostenibilità. Lo dimostra anche un altro dato: non più di un terzo delle 100 più grandi aziende europee del settore è al passo con la velocità di decarbonizzazione necessaria. Da un lato, le 34 grandi aziende europee del settore che stanno riducendo le proprie emissioni a velocità doppia rispetto a quella richiesta dalla Fit for 55 dimostrano che la decarbonizzazione è possibile. Dall’altro, però, il resto del settore evidenzia un ritardo significativo. Inoltre, come dimostrano anche le recenti vicende (Giorgio Armani Operations per fare un solo nome), mentre sul clima si stanno facendo progressi, tra le 100 più grandi aziende EU solo 7 aziende sono trasparenti sul salario minimo e 28 non pubblicano ancora un Bilancio di sostenibilità. Tra i problemi chiave alla base della frenata, il fatto che l’Europa continua a promuovere la transizione sostenibile principalmente attraverso leggi e norme. Tuttavia, la mancanza di linee guida operative e di quadri normativi ben definiti rappresenta una fonte di incertezza per le imprese, e quindi un freno alla competitività rispetto al resto del mondo. Inoltre, nonostante la crescente attenzione dell’UE in materia di gestione del fine vita dei prodotti fashion, le infrastrutture disponibili non sembrano ancora adeguate. Senza contare che il settore finanziario europeo non ha ancora tutte le leve per essere il motore della Just Fashion Transition europea.
Senza un adeguato sostegno finanziario e un quadro normativo che faciliti l’accesso ai fondi sostenibili sui mercati dei capitali, la transizione rischia di essere sottofinanziata, esacerbando le disuguaglianze soprattutto tra le PMI, che oggi rappresentano quasi il 98% dell’intero settore. Ad oggi, infatti, solo il 35% degli investimenti dedicati alla transizione delle PMI europee è stato sostenuto da finanziamenti esterni, e solo il 16% di questi si qualifica effettivamente come “sostenibile”. Concentrando il focus sull’Italia, il report sottolinea come il presidio sui temi ESG tra le aziende della filiera tricolore sia diminuito di circa il 3%, in particolare tra le PMI con ricavi minori di 30 milioni euro. I fattori principali di questo rallentamento sono tre: la mancanza di competenze interne è il principale ostacolo del mancato presidio ESG, mentre la bassa redditività, in costante calo (tra il 7 e l’11%), così come gli alti indici di indebitamento, rendono gli investimenti nella decarbonizzazione difficilmente sostenibili per circa il 92% delle aziende, soprattutto nel settore conciario e dell’abbigliamento.
Inquinamento
Anche il fast fashion comincia a pensare all’ambiente
21 Settembre 2021
Interessante notare il cambiamento avvenuto in questi ultimi anni nell’opinione pubblica: ora i fari sono puntati più decisamente sulla politica. Secondo i consumatori globali, infatti, le imprese e i cittadini stanno già facendo abbastanza, ora spetta ai governi la responsabilità del cambiamento. In Europa, in particolare tra i giovani, c’è una crescente consapevolezza che la sostenibilità comporta costi e sacrifici. Tuttavia, questo non sembra tradursi in un’azione adeguata. In conclusione, dal Venice Sustainable Fashion Forum sono uscite alcune raccomandazioni per “raddrizzare la curva”. In particolare, alle istituzioni si chiede di chiudere in fretta il gap regolatorio, al fine di creare le condizioni per le aziende per prendere decisioni di medio-lungo period, e di semplificare gli strumenti finanziari per le PMI, mettendole nelle condizioni di investire in sostenibilità fornendo loro un accesso facilitato al credito e offrendo delle condivisioni favorevoli.
Quanto agli attori del settore in Italia, la ricetta per una competitività sostenibile passa dalla costruzione e diffusione a livello nazionale di know how e centri di competenza, coinvolgendo università e ricerca per testare soluzioni scalabili, sviluppando iniziative per diffondere tra le PMI la “cassetta degli attrezzi” necessaria per la transizione e per creare una forza lavoro a prova di futuro. Serve inoltre lo sviluppo di un piano strategico nazionale per identificare modalità per integrare i costi della sostenibilità nelle strutture di prezzo – facilitando l’eradicazione del caporalato, così come la condivisione di tempi, metodi e strumenti per combinare finanziamenti pubblici e privati. Infine, andrà alimentato il processo di concentrazione del mercato, specialmente tra le PMI, per aumentare la produttività e la capacità di investimento, attraverso agevolazioni fiscali e nell’accesso al credito, ma anche finanziamenti pubblici.