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Per la Sardegna le rinnovabili sono un buon affare o no? Le risposte della scienza ai dubbi

Nei giorni scorsi Green&Blue ha dato conto del dibattito sull’eolico e il fotovoltaico in Sardegna, con ampi strati della società che si oppongono a nuovi impianti per la produzione di energie rinnovabili, martellanti campagne di stampa contrarie e la nuova giunta regionale guidata dalla governatrice Alessandra Todde (5 Stelle) che ha deliberato in proposito una moratoria di 18 mesi. Ma quali sono i dubbi che stanno alimentando tanta diffidenza sull’isola? Lo abbiamo chiesto a un gruppo di ricercatori, tecnici, liberi professionisti, amministratori e rappresentanti di associazioni e comitati di cittadini che hanno stilato una lista di circa 20 punti. Li abbiamo quindi girati ad alcuni dei massimi esperti italiani. Ecco le loro risposte.

Energia

Sardegna, il governo impugna lo stop per 18 mesi sulle rinnovabili voluto da Alessandra Todde

09 Agosto 2024

Partiamo dal Burden Sharing, stabilito per la Sardegna in 6,2 GW. Il Burden Sharing (la condivisione degli oneri), ossia le ripartizioni regionali dell’obiettivo FER (fonti energetiche rinnovabili) nazionale al 2030, vede 19 Regioni e le due Province autonome di Trento e Bolzano che dovranno spartirsi gli 80 GW di nuova capacità rinnovabile attesa per la fine del decennio. Come sono state definite queste quote di produzione energetica da fonti rinnovabili su base regionale? Infatti salta subito all’occhio che alla Lombardia, che è la regione più popolosa d’Italia, sono stati assegnati “solo” 8,6 GW e all’altra isola, la Sicilia, nella ripartizione del target, “solo” 10,3 GW di rinnovabili. Se il criterio fosse quello demografico, la Lombardia avrebbe dovuto avere circa 6,6 volte il Burden Sharing della Sardegna, e la Sicilia circa 3,2 volte. Anche l’Emilia Romagna, che pure ha quasi il triplo degli abitanti della Sardegna, ha un Burden Sharing di 6,2 GW. E’ ragionevole che il criterio adottato non sia unicamente quello demografico. È altrettanto importante prendere in considerazione la capacità di generazione rinnovabile dei diversi siti geografici e i relativi costi di produzione che saranno ovviamente più bassi in regioni con maggiore potenziale solare ed eolico.

“La scelta di criteri geografici è in linea con l’interesse collettivo regionale, nazionale ed europeo, perché l’accesso a forme di energia a basso costo ed a basse emissioni è strutturalmente vantaggioso per lo sviluppo economico, la competitività e gli investimenti in attività produttive, sia in un’ottica di breve che di lungo termine. Costi dell’energia inferiori offrono opportunità strutturali per rendere l’industria europea capace di rispondere in maniera più efficace alla concorrenza globale. Questo è in linea con quanto è emerso sul rapporto Draghi per la Commissione Europea. Inoltre una maggiore capacità di produzione di energia rinnovabile da risorse domestiche è anche associata ad una riduzione strutturale della dipendenza energetica, con vantaggi dal punto di vista della sicurezza e del bilancio commerciale. Questo è rilevante, specie per un Paese – come l’Italia – che importa la vasta maggioranza dell’energia sotto forma di idrocarburi”.

Pierpaolo Cazzola, Direttore, European Transport and Energy Research Centre, University of California, Davis

Se la quota di Burden Sharing fosse stata assegnata sulla base delle produzioni ed emissioni attuali, il dato di partenza è la produzione energetica attuale della Sardegna, pari a 12,2 terawatt, dei quali il 76,3% da fonti non rinnovabili. Questo determina 14 milioni 760 mila tonnellate annue di CO2 emesse dal sistema energetico regionale, facendo della Sardegna la regione italiana con il massimo livello di emissioni annue pro capite (9 tonnellate/anno per abitante) contro una media nazionale di 4 tonnellate/anno per abitante. Questi numeri, se da un lato ci dicono quanto sia urgente chiudere al più presto le 3 principali centrali sarde alimentate da fonti non sostenibili (Sarlux, Porto Vesme e Fiume Santo), sembrano tuttavia non considerare il bilancio complessivo del carbonio a livello delle singole regioni. La Sardegna infatti ha bassissime emissioni industriali, da agricoltura e allevamenti intensivi, e ha una delle superfici forestali più estese tra le regioni italiane, che insieme agli altri ecosistemi regionali (praterie, pascoli, garighe, zone umide, habitat marini, etc.) garantiscono un importante assorbimento della CO2 emessa. Nella definizione del Burden Sharing di ciascuna regione italiana, si è considerato il livello di emissioni (totali e pro capite) delle produzioni energetiche da fonti non rinnovabili tout court, o si è considerato il bilancio del carbonio del sistema regionale nel suo complesso (cioè considerando tutte le emissioni e tutte le fonti di assorbimento)? Esistono bilanci del carbonio (misurati o almeno stimati) attendibili per l’Italia e per le varie regioni? Se si considerasse il bilancio complessivo del carbonio, siamo sicuri che il saldo (emissioni vs assorbimento) pro capite di un cittadino sardo medio sarebbe così negativo rispetto a quello nazionale medio?

“Le quote regionali di burden sharing riguardanti le fonti rinnovabili sono frazioni del totale nazionale di potenza rinnovabile da installare secondo gli obiettivi prefissati dal burden sharing europeo. Non c’è alcun riferimento alle emissioni. Se l’attuale assegnazione è stata eseguita seguendo le indicazioni del Decreto burden sharing (DM 15 marzo 2012), come è ragionevole supporre, le quote tengono conto “del potenziale economicamente sostenibile di fonti rinnovabili per la produzione elettrica”. Cioè chi ha più sole o vento, più contribuisce. E la Sardegna, come la Sicilia e la Puglia, è fra le regioni con più alto potenziale. Esistono i bilanci delle emissioni sia per l’Italia sia per le singole regioni, e la fonte è certamente attendibile, l’Istituto Superiore per la Protezione la Ricerca Ambientale (ISPRA). Da questi bilanci risulta che il carbonio assorbito complessivamente dalle foreste, pascoli, praterie, zone umide, ecc. in Sardegna nel 2019 è stato pari a 3,4 Mton CO2eq, cioè il 18,3% delle emissioni totali, che ammontavano a 18,5 Mton di CO2eq. La percentuale nazionale di carbonio assorbito è minore, pari al 9%. La Sardegna effettivamente è più virtuosa”.

Federico Butera, Professore Emerito del Politecnico di Milano

Per installare, nei siti idonei, le rinnovabili pari a 6,2 GW in Sardegna nel rispetto di cultura e ambiente, sarebbe sufficiente una minima porzione di territorio. Invece al momento risultano presentati circa 830 progetti pari a circa 60 GW: i cittadini Sardi si domandano dunque se i 6,2 GW definiti dal Burden Sharing siano una quota minima oltre la quale non c’è limite massimo, o un tetto massimo non superabile.

“I 6,2 GW di rinnovabili in Sardegna sono l’obiettivo per il 2030; tale capacità permetterebbe in definitiva di coprire quasi completamente il fabbisogno energetico attuale prodotto dall’uso delle fonti fossili. Ipotizzando una suddivisione tra fotovoltaico ed eolico coerente con lo sviluppo delle rinnovabili in Italia, il consumo di suolo risulterebbe inferiore a 50 km quadrati, cioè meno dello 0,2% della superficie regionale, perfettamente in linea con i valori percentuali nazionali necessari al raggiungimento degli obiettivi del PNIEC. Il contributo della Sardegna nella proiezione di completa decarbonizzazione al 2050 non raggiungerebbe mai i 60 GW, ma un valore molto più basso compreso tra 15 e 20. L’elevato numero di progetti presentati non devono allarmare poiché non rappresentano ciò che verrà effettivamente installato, risultato questo di un processo autorizzativo che tiene conto dei vincoli paesaggistici, delle aree idonee e delle valutazioni di impatto ambientale previste nell’iter della autorizzazione unica, che comporta spesso una loro riduzione al di sotto del 10%, selezionando solo i migliori”.

Livio De Santoli, Prorettore alla Sostenibilità, Sapienza Università di Roma, Presidente Consiglio d’Area di Ingegneria Energetica, Facoltà di Ingegneria

La produzione stimata di 6,2 GW da FER è effettivamente sufficiente per compiere la transizione energetica dell’intera Isola? C’è chi sostiene che tutta questa produzione energetica da fonti rinnovabili non porterà alla chiusura delle centrali a carbone in Sardegna (prevista, a differenza delle altre regioni italiane, per il 2028 e non per il 2025, come da decisione governativa), in quanto deve essere mantenuta una costanza e stabilità di produzione che l’energia eolica e fotovoltaica non possono garantire. Concretamente, come avviene la transizione energetica? Semplicemente si attivano gli impianti FER e si spengono le centrali da fonti non rinnovabili o ci sono altri meccanismi che bisogna spiegare bene ai cittadini?

“I 6,2 GW in Sardegna produrrebbero quanto o un po’ più del consumo attuale, secondo il mix eolico/solare. Ciò non significa che l’isola sarebbe energeticamente indipendente perché le fonti solare e eolica sono fortemente variabili, non sono programmabili. Bisogna quindi avere un sistema capace di assorbire energia quando la produzione supera la domanda e restituirla quando avviene il contrario. Questa funzione può essere svolta proprio dalla rete nazionale grazie all’attuale cavo di collegamento, rinforzato con il programmato Tyrrhenian link: si esporta l’eccesso e si importa quello che manca. Le centrali a combustibile fossile possono pure fornire l’energia in difetto, ma, oltre a produrre CO2, non possono assorbire la produzione rinnovabile in eccesso, che quindi andrebbe persa. Bisogna comunque che la Sardegna sia dotata anche di sistemi di accumulo regionali. Quelli più usati sono le batterie e gli accumuli idraulici mediante pompaggio: si pompa acqua da un bacino in basso a uno in alto con l’elettricità in eccesso e quando serve la si produce lasciando scorrere l’acqua in basso attraverso una turbina. Sono sistemi già ampiamente usati in Italia. Il bacino basso può essere il mare”.

Federico Butera

Transizione energetica

“Sulle rinnovabili in Sardegna c’è bisogno di una campagna di informazione”

23 Agosto 2024

Come mai gli adempimenti per le FER riguardano solo i mega impianti fotovoltaici ed eolici e non si parla mai di mini e micro eolico e di pannelli solari sui tetti delle case? I vantaggi per i cittadini sarebbero immediati e l’impatto paesaggistico sarebbe quasi nullo. Le ditte che producono e installano pannelli fotovoltaici domestici e micro eolico sono escluse dagli incentivi? Sarebbe concreto ipotizzare che i 6,2 GW di Burden Sharing per la Sardegna possano essere prodotti prevalentemente, se non esclusivamente, dal fotovoltaico sulle coperture degli edifici esistenti (inclusi capannoni industriali e agricoli, centri commerciali, edifici pubblici) integrato da micro eolico?

“Il fotovoltaico sui tetti è incentivato con la detrazione fiscale del 50%e con gli incentivi alle Comunità Energetiche Rinnovabili. Ma da solo non è in grado di soddisfare una crescente domanda di energia elettrica derivante dalla prevista progressiva elettrificazione di molti servizi (il riscaldamento degli ambienti e la produzione di acqua calda che dovranno essere ottenuti mediante pompe di calore, la mobilità elettrica e altro); è quindi necessario integrare mediante parchi eolici e fotovoltaici. Infatti, secondo ISPRA, sui tetti degli edifici italiani potrebbero installarsi fra i 66 egli 86 GW, cioè fra il 22 e il 28% di 300 GW, la potenza massima rinnovabile richiesta al 2050 secondo il Piano per la Transizione Ecologica redatto dal Ministero dell’Ambiente. Riguardo al micro-eolico, pure incentivato, la sua convenienza economica dipende fortemente dalle condizioni locali di vento, in città sempre peggiori che in terreno aperto; inoltre, contrariamente al fotovoltaico, richiede manutenzione, essendo un sistema meccanico che si usura. Il mini-eolico (20-200 kW) è adatto alle aziende agricole, ma il contributo complessivo potenziale è pure limitato”.

Federico Butera

Arriviamo alla fase di installazione dei mega impianti: fino a quando una Regione non ha legiferato sulle aree idonee e non idonee, ci sono aree escluse a priori dall’installazione di impianti fotovoltaici o eolici? Ad esempio: parchi nazionali, parchi regionali, aree Marine protette, monumenti naturali, aree incluse nella rete Natura 2000 (SIC, ZPS, ZSC), zone umide ricadenti nella Convenzione di Ramsar, oasi permanenti di protezione faunistica, important bird areas, important plant areas: quali di queste ed altre eventuali tipologie sono escluse a priori dall’installazione degli impianti? Ci sono limitazioni anche per delle fasce adiacenti a queste tipologie di aree protette?

“Esistono due tipi di idoneità, una dipende dalla caratteristica del sito rispetto alla possibilità che possa produrre efficacemente energie rinnovabili, ovvero ad esempio, per l’eolico, che ci sia vento sufficiente per far girare le pale. La seconda riguarda la compatibilità ambientale, ovvero la vulnerabilità degli ecosistemi naturali a uno specifico tipo di impianti. Le autorizzazioni si occupano solo di valutare questa seconda idoneità. Va precisato che non esistono esclusioni a priori, l’esclusione avviene sempre in sede di valutazione, ma raramente i proponenti rischiano di fare richieste per aree vincolate. Infatti, parchi naturali, aree marine protette le zone speciali di conservazione (ZSC) e le IBA sono tutte aree da cui viene esclusa (in sede di valutazione ministeriale) la possibilità di creazione di parchi eolici o di fotovoltaico. Ma l’area esclusa va oltre e si estende anche alle aree prossime a quelle perimetrate come parco AMP o di interesse per la direttiva europea sugli Habitat. Queste zone possono espandersi per un raggio di 2-5 km dall’area protetta, poiché la commissione di valutazione intende assicurare che esistano condizioni di sicurezza per le aree più vulnerabili prossime all’impianto. In altri termini un impianto eolico non può essere collocato sul bordo di un’area protetta ma deve essere una sufficiente distanza da questa per scongiurare ogni impatto. Tutto questo viene valutato in sede di commissione VIA-VAS che include al suo interno numerosi esperti di altissimo profilo scientifico con competenze anche nei vari settori ambientali quali la biologia, la geologia, la chimica, l’ecologia le scienze ambientali e l’ingegneria ambientale. La valutazione in sede nazionale (tramite il MASE) però vale solo per gli impianti di medie e di grandi dimensioni che sono soggette una valutazione di impatto fatta ai sensi della legge 152/2006, mentre i progetti che riguardano il micro-eolico e i piccoli impianti al di sotto di una data capacità produttiva sono assoggettati a una valutazione a livello regionale”. Roberto Danovaro, biologo marino, docente di Ecologia all’Università Politecnica delle Marche

Per quanto riguarda aree con particolari rischi ambientali, ci sono tipologie escluse a priori dall’installazione degli impianti fotovoltaici ed eolici? Ad esempio le aree individuate dal Piano di Assetto Idrogeologico (PAI) con rischio Idrogeologico alto o molto alto (Hi3 e Hi4) e le aree a rischio frana alto o molto alto (Hg3 e Hg4).

“Le aree a rischio geologico e idrogeologico sono valutate attentamente e gli impianti previste in queste aree sono sempre esclusi se non ci sono evidenze scientifiche e confermate che gli impianti non siano soggetti a tali rischi o non aumentino i rischi per la popolazione locale. Questo vale sia per le opere a terra sia a mare”.

Roberto Danovaro

Quali limiti a priori invece esistono per aree di rilevante interesse storico, archeologico e culturale? Come vengono definiti tali ambiti? In questo caso è molto rilevante considerare la visibilità degli impianti, soprattutto quelli eolici, posti anche a notevole distanza: esistono limiti o prescrizioni stringenti in tal senso? E sull’inquinamento acustico prodotto dagli impianti eolici, esistono prescrizioni?

“La valutazione degli impatti sui beni di interesse storico archeologico e culturale vengono fatti dal ministero della Cultura (MIC) in modo analogo e parallelo a quello che fa il ministero dell’Ambiente (MASE) per la parte ambientale. Anche in quel caso si tratta di analisi estremamente approfondite che vietano la costruzione di opere sopra o anche in prossimità di aree di particolare valore archeologico o culturale. La valutazione si estende anche all’impatto paesaggistico poiché le pale eoliche o gli impianti fotovoltaici non devono deturpare il paesaggio. Per quanto riguarda l’inquinamento acustico (riferito ovviamente al rumore generato dalle pale eoliche) negli ultimi anni ci sono stati numerosi progressi tecnologici che ne hanno ridotto significativamente l’intensità con il design di pale sempre più performanti. Tuttavia, è innegabile che il rumore generato dalle pale che girano sia di forte impatto sulle popolazioni locali ed è per quello che viene esclusa la possibilità di collocare un aerogeneratore a una distanza inferiore a 400 m da ogni abitazione. Le analisi si estendono anche all’effetto del Flickering, ovvero l’ombra intermittente generata dalla rotazione della pala sul suolo considerando la variazione della posizione e angolazione del sole. Quindi si tratta di valutazioni sempre molto accurate volte a evitare ogni effetto sui residenti”.

Roberto Danovaro

Arriviamo alle aree agricole: quali limiti esistono a priori? Pensiamo ad aree nelle quali ricadano produzioni di prodotti agroalimentari con denominazione di origine (DOP, DOC, Igt, DOCG, etc); pensiamo ai Paesaggi Rurali Storici riconosciuti dall’Osservatorio Nazionale del MIPAAF.

“Per quanto a mia conoscenza non esiste alcuna possibilità di collocazione nelle aree agricole e dove esistono produzioni agricole, in particolare quelle di pregio. L’unica eccezione può essere fatta è la richiesta di impianti fotovoltaici fatti dall’azienda agricola per rendere sostenibili le proprie produzioni e nel caso di impianti agrovoltaici, in particolare per quelli ‘avanzati’”.

Roberto Danovaro

Per quanto riguarda la pianificazione urbanistica e territoriale, ci sono norme in base alle quali alcune aree sarebbero a priori escluse dall’installazione di impianti eolici e fotovoltaici? Ad esempio le aree vincolate ai sensi del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.lgs. 42/2004) ed eventuali strumenti di piano regionali?

“A mia conoscenza le aree vincolate non possono ospitare alcun impianto, cavidotti o infrastrutture, tuttavia trattandosi di aspetti dei beni culturali ricadono nelle competenze del MIC”.

Roberto Danovaro

A prescindere dell’esclusione a priori di aree più o meno vaste, un passaggio molto importante è la definizione e perimetrazione di aree idonee e non idonee all’installazione di impianti fotovoltaici ed eolici: qual è l’iter per l’individuazione di queste aree? Qual è il bilanciamento tra poteri dello Stato, Regioni e Amministrazioni locali? Fino a che punto e con quali modalità devono essere coinvolte le comunità locali? Ci saranno iter diversi o uguali per fotovoltaico ed eolico? E tra impianti terrestri e off shore? Ci sono differenze tra aree pubbliche e private?

“L’iter per gli impianti di un dimensionamento industriale prevede una valutazione in sede di commissione VIA-VAS nella quale in diverse fasi e in diversi momenti di interlocuzione formale con il ministero possono essere chiesti supplementi istruttori e chiarimenti. Ma ogni volta che parte un’istruttoria viene fatto un avviso pubblico e tutti i documenti prodotti sono a disposizione di tutti e possono essere consultati per ogni valutazione in merito. Enti pubblici (ad esempio Regioni, Comuni), associazioni e singoli cittadini possono fornire elementi di chiarimento o informazioni utili in sede di valutazione da parte della commissione VIA-VAS del MASE. La commissione è sempre integrata sia in fase di istruttoria sia di decisione da un rappresentante regionale che collabora nelle fasi di studio del progetto e si esprime nella votazione plenaria finale. Tutte le posizioni fornite da enti pubblici o privati sono tenute sempre nella massima considerazione a tutela proprio della correttezza del lavoro della commissione. Nei pareri che si concludono con iter positivo molto spesso i controlli o la definizione degli elementi di attuazioni vengono affidati alla Regione e/o all’ARPA regionale”.

Roberto Danovaro

Possono essere approvati progetti su aree private contro la volontà dei proprietari? Se sì, si tratta di un’occupazione temporanea o di un vero e proprio esproprio? E possono essere approvati progetti su aree pubbliche contro la volontà delle comunità locali?

“Se i progetti approvati per la produzione energetica sono di pubblico interesse, sono possibili espropri ma solo in mancanza di accordo con i proprietari e solo per la parte di terreno su cui è sviluppata la base dell’aerogeneratore (di norma 20×20 m) e non per tutta la proprietà (salvo accordo con il proprietario). Di norma i proponenti si accordano con i proprietari prima di formulare la proposta per non avere rischi”.

Roberto Danovaro

“Le ultime politiche europee hanno chiaramente promosso la semplificazione dei processi necessari all’installazione di impianti che producono energia rinnovabile e di capacità industriale legata alla transizione energetica. Due strumenti chiave sono in REPowerEU plan (del 2022) e il Net Zero Industry Act (finalizzato nel 2024). Il primo presuppone che ‘la pianificazione, la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia rinnovabile, la connessione di tali impianti alla rete, la rete stessa e gli impianti di stoccaggio siano considerati di interesse pubblico prevalente e nell’interesse della salute e della sicurezza pubblica’. Il secondo prende atto della profonda trasformazione industriale associata alla transizione energetica, introduce la nozione di ‘Progetti strategici Net-Zero’, permette che questi siano considerati di primario interesse pubblico e che essi beneficino di un trattamento amministrativo rapido”.

Pierpaolo Cazzola

Varie direttive europee su VIA e VAS prevedono la valutazione degli impatti cumulativi del progetto con altre azioni passate, presenti e ragionevolmente prevedibili in futuro (es. altri progetti autorizzati o in fase istruttoria). Di quest’analisi non c’è traccia nei vari studi di impatto ambientale per l’installazione di impianti di produzione di energie rinnovabili e anche la VAS spesso non è prodotta. Come e da chi viene svolta la valutazione di impatto ambientale, da chi viene esaminata ed approvata o respinta? Quali le competenze degli organi di valutazione statali, regionali e locali? La valutazione ambientale strategica è prevista?

“La VIA e la VAS, per quanto di propria competenza, prendono sempre in considerazione gli impatti cumulativi che sono diventati uno dei maggiori elementi di bocciatura delle proposte presentate. Questo riguarda in particolare gli impianti eolici a terra che si concentrano in aree molto circoscritte che appaiono già sature. Va specificato che VIA e VAS hanno obiettivi e ambiti di applicazione diversi. La VAS esprime parere su un piano strategico (come la definizione delle aree idonee all’estrazione di idrocarburi, o lo sviluppo dei sistemi portuali o aeroportuali) non si esprime su singoli progetti salvo nel caso, di recentissima applicazione, di una VIA-VAS congiunta in cui si propone oltre al piano di sviluppo, ad esempio, di un porto, anche la creazione di un molo o una diga soggetti a valutazione VIA”.

Roberto Danovaro

Nelle valutazioni d’impatto si tiene conto di documenti d’indirizzo prodotti dalla comunità scientifica come ad esempio, per l’avifauna, il documento del CISO DAY del 16 marzo 2024?

“Tutte le valutazioni sono fatte esclusivamente sulla base di studi e dati scientifici e tengono conto in modo preciso e aggiornato della letteratura scientifica. Ne è un esempio l’adozione della pala nera negli impianti eolici che, secondo alcuni studi scientifici recenti, diminuirebbe per oltre il 70% le collisioni con l’avifauna. O la ricreazione del verde sulla base degli aerogeneratori per ridurre drasticamente o annullare la morte dei rapaci che vanno a caccia di prede che possono vedere sulle basi di cemento degli aerogeneratori. L’adozione di tutte queste misure deriva dall’applicazione dei più recenti studi e risultati della letteratura scientifica internazionale”.

Roberto Danovaro

Considerando che gli impianti eolici offshore sono spesso promossi come meno invasivi rispetto a quelli terrestri, quali sono i principali vantaggi e le principali criticità ambientali e impatti sulla fauna (ciclo vitale e rotte migratorie degli uccelli marini, dei pesci, delle tartarughe marine, dei cetacei, etc), sulla pesca, e sugli ecosistemi locali che potrebbero comunque derivare dalla loro installazione e funzionamento? Vengono considerati e valutati anche eventuali impatti negativi sul comparto turistico?

“Gli impianti eolici offshore sono certamente più produttivi e meno impattanti di quelli a terra per molte ragioni. In primo luogo, non occupano suolo e non alterano il sottosuolo. Inoltre, a mare c’è molto più vento e quindi un singolo aerogeneratore produce quanto 3 aerogeneratori a terra. Le principali criticità nella parte aerea sono per l’avifauna migratoria, per questa ragione si fa attenzione alla loro collocazione, distanziamento e adozione di misure per minimizzare o annullare gli impatti, come ad esempio sistemi radar e/o termoscanner in grado di individuare uno stormo (o anche un singolo uccello) e bloccare la pala al suo passaggio. Per quanto riguarda la parte sommersa si deve fare molta attenzione ai punti di ancoraggio di queste strutture galleggianti per evitare che danneggino habitat marini vulnerabili. Tuttavia, l’orientamento recente delle commissioni MASE è di accompagnare l’istituzione di campi eolici con sistemi di restrizione della pesca in modo tale che queste aree diventino capaci di ripopolare il mare e preservare gli ecosistemi, contribuendo potenzialmente agli obiettivi di protezione ambientale che indicano la protezione del 30% dei mari entro il 2030”.

Roberto Danovaro

Nell’informazione e coinvolgimento delle comunità locali e dell’opinione pubblica in generale, qual è il ruolo dei media? E quello della comunità scientifica? L’approccio scientifico post normale, secondo i proponenti Funtowicz e Ravetz è utile quando i fatti sono incerti, i valori in discussione, gli interessi elevati e le decisioni urgenti: sembra proprio la descrizione anticipata della situazione attuale sulle FER. Siamo in grado di mettere in atto in tempi rapidi un approccio di questo genere, in cui agli esperti del settore energetico si affianchino esperti di altri settori rilevanti, i cittadini interessati, nonché tutti i titolari di interessi in gioco?

“La transizione energetica vede l’affacciarsi di nuove realtà imprenditoriali, ma anche la presenza di potenti interessi contrari in grado di influenzare i media e di condizionare la politica con il fine di bloccare la crescita delle rinnovabili. In questo contesto sarebbe interessante istituzionalizzare forme di partecipazione e di approfondimento. Un esempio viene dalle Assemblee di Cittadini sul Clima francesi create sorteggiando 150 cittadini in modo da rappresentare uno spaccato fedele della società. L’esperimento lanciato nel 2019 prevedeva che i prescelti venissero raggruppati in diverse sessioni con un mandato chiaro. Traslato in Italia questo approccio potrebbe servire per identificare i percorsi e le misure in grado di far raggiungere in una data Regione la percentuale di rinnovabili coerente con gli obbiettivi nazionali ed europei al 2030 e 2050. Naturalmente i cittadini dovrebbero venire messi nelle condizioni di disporre di tutte le informazioni necessarie, anche con il supporto di un ‘gruppo d’appoggio’ formato da esperti in una varietà di discipline. E i risultati dovrebbero essere presi in seria considerazione dalla politica”.

Gianni Silvestrini, direttore scientifico Kyoto Club, responsabile del Master Ridef al Politecnico di Milano

Sicilia e Sardegna saranno collegate da un nuovo cavo sottomarino, il Tyrrhenian link: a che serve e perché la sua realizzazione è fondamentale per le rinnovabili? Qualcuno sostiene che anche con il Tyrrhenian link, non ci sarebbe abbastanza connessione per trasportare sul continente tutta l’energia prodotta. Quindi, o si creano abbastanza punti di stoccaggio commisurati al sistema di produzione (che però causano altro consumo di territorio), o si fanno girare le pale a vuoto, tanto le società guadagnano lo stesso anche se l’energia prodotta non viene accumulata e successivamente utilizzata. Cosa c’è di vero in queste considerazioni?

“Una delle garanzie per favorire una crescita delle fonti rinnovabili e la stabilità delle reti è data dalle interconnessioni elettriche tra diverse aree di un paese o tra paesi diversi. Questa è la motivazione del progetto del Tyrrhenian Link, un collegamento elettrico ad alta tensione in corrente continua lungo 970 chilometri tra la Sardegna e la Sicilia e tra la Sicilia e il Continente. Lo scopo è quello di rafforzare la stabilità e la sicurezza di rete, ottimizzando i flussi di energia rinnovabile. Insomma, un elemento decisivo anche per lo smantellamento entro il 2028 delle centrali a carbone consentendo così di togliere alla Sardegna il record di regione con le più alte emissioni di gas serra: 11 tonnellate pro capite all’anno, contro una media nazionale di 7 tonnellate. Va chiarito infine che gli aerogeneratori devono produrre kWh per recuperare gli investimenti fatti e non avrebbe quindi senso farli girare a vuoto, ma piuttosto vanno favorite le connessioni e i sistemi di accumulo”.

Gianni Silvestrini

Quali modelli di business possono essere sviluppati a livello regionale e locale per garantire che i benefici economici derivanti dalla produzione di energia eolica e fotovoltaica rimangano in loco? Come può la presenza di parchi eolici attrarre nuovi investimenti e stimolare la crescita di settori emergenti come quello della green economy nella nostra regione? Esistono strategie per incentivare il consumo locale di energia eolica e fotovoltaica, come l’adozione di smart grid o contratti a lungo termine con aziende e abitazioni? In che modo i parchi eolici potrebbero contribuire a ridurre i costi energetici per le famiglie e le imprese locali nel lungo termine? Come si può conciliare la realizzazione degli impianti FER con le esigenze del turismo, sia nelle aree costiere che nelle zone interne?

“Ci sono evidenti ricadute occupazionali ed economiche nelle Regioni che puntano sulle rinnovabili. Ma c’è un’importane novità, sancita dal decreto-legge 9 dicembre 2023 n. 181, che favorirà proprio le Regioni che producono più elettricità da rinnovabili. A partire dal 1° gennaio 2025, infatti, il sistema tariffario dell’energia elettrica in Italia vedrà progressivamente l’eliminazione del PUN (prezzo Unico Nazionale) per passare alla adozione di tariffe zonali, che saranno determinate in base alle specifiche dinamiche di produzione. Cioè, in sostanza, le Regioni che avranno più fonti rinnovabili e meno centrali fossili godranno, come è giusto di bollette più basse. Un caso emblematico è proprio quello della Sardegna, dove il passaggio alle rinnovabili consentirà di chiudere le inquinanti centrali a carbone che attualmente generano un terzo della elettricità dell’isola consentendo una riduzione delle bollette. Per di più, considerando che i costi dei kWh da rinnovabili sono più bassi, la diffusione di solare ed eolico rappresenta un ulteriore elemento per favorire nuovi insediamenti produttivi.

Gianni Silvestrini

“Le opportunità per il territorio derivate dall’utilizzo delle rinnovabili riguardano comunque anche i green job e lo sviluppo industriale. Alcune figure professionali diventeranno centrali nelle aziende e sempre più ricercate dal mercato del lavoro, che richiederanno competenze da formare. Alcune sono inedite, come ad esempio: manager della sostenibilità, data scientist per la gestione dei big data, figure gestionali legate ai prodotti finanziari green. L’eolico, in particolare l’off-shore galleggiante, è tra gli esempi più evidenti del potenziale industriale del nostro Paese che rischia di rimanere inespresso. E’ possibile infatti attivare all’interno della filiera settori chiave dell’economia italiana: materiali da costruzione, prodotti in metallo, meccanica avanzata, cantieristica, apparecchiature elettriche, liberando migliaia di posti di lavoro, ed iniziando una attività di formazione per la definizione di competenze al momento non presenti. I settori industriali coinvolti nello sviluppo di questa tecnologia sono di grande interesse e di grande storia per il nostro Paese, dalla metallurgia alla cantieristica, alla realizzazione delle infrastrutture elettriche, con un giro di affari complessivo che supera i 250 miliardi di euro all’anno. L’utilizzo delle rinnovabili abbassa e stabilizza il costo dell’energia perché non ricomprese nelle valutazioni dei mercati internazionali, soprattutto in vista di una loro revisione e aprono importanti potenzialità di turismo sostenibile legati ai territori”.

Livio De Santoli

Quali sono i vantaggi ambientali (riduzione dell’impronta di carbonio) ed economici (riduzione della bolletta energetica) di una comunità locale su cui insiste un impianto di rinnovabili? In Danimarca le comunità locali possono opzionare una parte dell’energia elettrica prodotta da un impianto diventando una sorta di azionisti dell’impianto stesso che consente la riduzione della bolletta elettrica, questo è un modello applicabile in Italia?

“A parte le “royalties” per un periodo predeterminato (dieci, quindici, venti anni) che le società che installano rinnovabili versano ai Comuni, è certamente possibile ed auspicabile attivare un azionariato diffuso coinvolgendo i cittadini. Ci sono molte esperienze di questo tipo in giro per l’Europa, dove sono state proprio cooperative di agricoltori e cittadini che hanno dato slancio allo sviluppo delle rinnovabili. Anche in Italia si iniziano a sperimentare forme di cofinanziamento degli impianti da parte degli abitanti del luogo. Insomma, le rinnovabili che saranno al centro della transizione energetica dei prossimi anni e decenni possono rappresentare anche un’importante opportunità per i territori dal punto di vista occupazionale ed economico. Una volta si pensava che raffinerie e petrolchimica potevano essere un elemento di rilancio economico per i territori. Adesso si capisce che sarà la transizione energetica, rinnovabili, batterie, mobilità elettrica a determinare il futuro di molte Regioni”.

Gianni Silvestrini

“I vantaggi sono sia ambientali che economici, specie in un’ottica di gestione del rischio legato alla volatilità del prezzo delle fonti energetiche fossili, e – di conseguenza – dell’elettricità. Le comunità energetiche sono state introdotte a livello europeo (e quindi non solo in Danimarca, pur facendo leva sulle esperienze danese e tedesca) dal 2019, al fine di permettere a diversi individui che formano parte di comunità locali di unire le forze e investire in energia rinnovabile, mettendola in comune. Questo consente loro di affrancarsi, almeno in parte, dalla formazione dei prezzi dell’elettricità sulla base di fonti fossili dal momento che l’autoproduzione viene privilegiata per il consumo diretto e l’acquisto dell’energia dalla rete è necessario solo in casi in cui l’autoproduzione non è sufficiente a coprire il consumo della comunità stessa. Le comunità energetiche promuovono anche pratiche sostenibili per quanto riguarda il consumo di energia, favorendo un cambiamento fondamentale nel comportamento dei consumatori. Questo riflette una transizione da soggetti tradizionalmente passivi a “prosumatore” (produttore e consumatore, allo stesso tempo) di energia. In Europa, la direttiva relativa a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica (UE/2019/944) sostiene la diffusione delle comunità energetiche ed ha introdotto nuove norme per consentire la partecipazione attiva dei consumatori, in tutti i mercati (Italia compresa). Questa partecipazione è possibile generando, consumando, condividendo o vendendo energia elettrica o fornendo servizi di flessibilità attraverso la risposta alla domanda e lo stoccaggio. Riconoscendo il contributo delle comunità energetiche alla realizzazione di un sistema energetico più sicuro per l’Europa (e quindi un vantaggio collettivo, oltre a quello specifico per chi investe nelle comunità energetiche), il piano REPowerEU ha anche proposto l’obiettivo di realizzare una comunità energetica per ogni Comune con una popolazione superiore a 10000 abitanti entro il 2025”.

Pierpaolo Cazzola

La transizione energetica deve rappresentare anche una giusta transazione occupazionale. Come le maestranze che ora operano nel settore energetico fossile devono essere formate e riconvertite nella manutenzione e produzione delle rinnovabili? Quali nuove figure professionali dovrebbero formare le Scuole e le Università nei prossimi 5-10 anni? Rispetto ai 6,2 GW da FER previsti per la Sardegna, è possibile fare una stima dei posti di lavoro generati, possibilmente suddivisi per macro categorie (ad es. operai generici, operai specializzati, tecnici, funzionari, dirigenti, etc)? Quali le ipotesi per l’indotto?

“Le figure professionali che accompagnano la transizione hanno a che fare con una varietà di profili, con bisogni di formazione che non si limitano al re-skilling di chi lavora nel settore energetico fossile. Alcuni esempi comprendono, tra gli altri, profili professionali legati a: manifattura di impianti produttivi (non solo per a parte di generazione, come generatori eolici e pannelli fotovoltaici, ma anche per la parte relativa all’uso delle tecnologie, come pompe di calore e veicoli elettrici); installazione di sviluppo delle reti elettriche; integrazione dei sistemi (attraverso tecnologie digitali, di nuovo non solo nel caso della produzione, ma anche del consumo di energia); sviluppo di strumenti finanziari capaci di ridurre le barriere legate al maggior costo di capitale (ancora una volta non solo per a parte di generazione, ma anche per la parte relativa all’uso delle tecnologie, ed anche per il finanziamento di nuovi poli manifatturieri, legati agli impianti necessari alla transizione); sviluppo di politiche pubbliche capaci di accompagnare la transizione, sia dal punto di vista dell’innovazione che da quello della protezione sociale. Tale transizione va affrontata con la consapevolezza delle profonde implicazioni che comporta, non solo in Sardegna e nel 2024, ma anche su scala nazionale ed europea. Focalizzarsi su impatti diretti, sul breve termine, e sui soli 6,2 GW in questione mi pare riduttivo, data la complessità del tema”.

Pierpaolo Cazzola

Qual è la vita media di un impianto eolico e fotovoltaico? A fine esercizio quali sono le garanzie che l’impianto verrà smantellato e a carico di chi? Quanto costa la sua rimozione, l’eventuale smaltimento e conferimento in discariche dedicate di alcune componenti? O è tutto riciclabile? Gli impianti fotovoltaici e agrivoltaici al momento della dismissione lasciano interrati i plinti e/o una infinità di micro frammenti: esistono norme che, al momento del rilascio delle licenze, vincolino le società concessionarie alla bonifica dei suoli? Quali le problematiche di dismissione degli impianti eolici a terra e off shore?

“La vita media utile di un impianto fotovoltaico è di 25 anni, ma in buone condizioni di manutenzione può raggiungere e superare i 30 anni. Il processo di riciclo dei pannelli solari prevede il recupero di materiali come il silicio, il vetro, l’alluminio e il rame, che permette un risparmio di nuovi approvvigionamenti e di energia. Le tecnologie avanzate di oggi permettono di recuperare fino al 98% del peso di un pannello. I pannelli fotovoltaici vengono recuperati e riutilizzati senza subire modifiche chimiche o meccaniche significative e possono essere utilizzati per produrre nuovi pannelli solari o altri prodotti simili. Gli impianti eolici hanno una vita utile di 20-25 anni e sono oggi riciclabili per il 90% del loro peso. E’ in corso da parte degli operatori del settore e delle associazioni di categoria l’individuazione di programmi di riciclo, riuso e recupero energetico delle pale eoliche, che rappresentano il componente più critico di un aerogeneratore. Livio De Santoli Il proponente dell’impianto eolico per ottenere l’approvazione da parte del ministero deve anche prevedere un piano di dismissione completa dell’area che è prevista al termine della durata di vita dell’aerogeneratore.

Roberto Danovaro


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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