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Basterebbe lasciare in pace l’1% del suolo per proteggere le specie più a rischio

Dal 1550 a oggi, circa il 30% delle specie viventi è stato minacciato o portato all’estinzione a livello globale. E la percentuale, complici il cambiamento climatico, l’inquinamento e lo sfruttamento della terra e del mare, potrebbe salire al 37% entro il 2100. Questo, purtroppo, dicono gli ultimi studi. E se ci aggiungiamo il fatto che pare ormai acclarato che la sesta estinzione di massa sia in atto e corra più veloce di quanto ci si aspettasse, lo scenario diventa ancora più fosco. Fortunatamente, all’orizzonte c’è anche qualche buona notizia – se non proprio ottima, almeno incoraggiante: stando ai risultati di uno studio appena pubblicato sulla rivista Frontiers in Science, condotto da un gruppo di scienziati afferenti a organizzazioni ambientaliste e università da diversi paesi del mondo, basterebbe lasciare intatto appena l’1,2% del suolo terrestre per sventare le estinzioni più probabili e imminenti.

Biodiversità

Con il cambiamento climatico a rischio oltre 3mila specie

05 Luglio 2024

C’è da dire che finora non siamo stati a guardare: da diversi anni sono stati messi in campo molti sforzi per tutelare le specie più a rischio, il più significativo dei quali è stato il cosiddetto Kumming-Montreal Global Biodiversity Framework, un accordo siglato nel 2022 sotto l’egida delle Nazioni Unite con lo scopo di “arrestare la perdita di biodiversità e preservare le condizioni perché sussista la vita sulla Terra”, da raggiungere trasformando il 30% del pianeta in zona protetta entro il 2030. Tuttavia – premesso che l’obiettivo al momento è ancora lontano – i risultati dello studio appena pubblicato suggeriscono che questa azione potrebbe non essere la migliore: secondo gli autori del lavoro, infatti, bisognerebbe concentrarsi meno sulle dimensioni delle riserve naturali e più sulla quantità di vita che contengono. Cioè: interventi di protezione “mirati” e intensivi, concentrati su aree con alta densità di popolazione, potrebbero essere più efficaci rispetto a interventi più estesi e per forza di cose meno “personalizzati”.

“La maggior parte delle specie che vivono sulla Terra sono rare”, ha spiegato Eric Dinerstein, primo autore dello studio e biologo conservazionista di Resolve, un’organizzazione non governativa che sviluppa soluzioni sostenibili ai problemi ambientali, “nel senso che sono specie con areali molto ristretti o densità di popolazione molto bassa, o entrambe le cose. E ciascuna di queste rarità è molto ‘concentrata’. È una buona notizia, perché vuol dire che ottimizzando i nostri sforzi per la conservazione possiamo ottenere risultati migliori”. Con questo in mente, gli scienziati hanno analizzato un enorme corpus di dati sulla biodiversità, per stimare quali sono le regioni in cui vivono le specie più minacciate: in questo modo, hanno identificato oltre 16mila siti non protetti, che nel complesso rappresentano appena l’1,2% della superficie emersa del nostro pianeta. La metà di questi siti si trova nelle zone tropicali, e molti di essi sono vicini a riserve naturali già esistenti. Intervenire su questo 1,2% sarebbe certamente più economico (e fattibile) rispetto a convertire un terzo delle terre emerse e, a quanto pare, anche più efficace.

“La nostra analisi”, dice Andy Lee, un altro ricercatore di Resolve, “stima che proteggere le aree tropicali costerebbe approssimativamente 34 miliardi di dollari l’anno per i prossimi cinque anni, meno dello 0,2% del Pil degli Stati Uniti e meno del 9% dei sussidi annuali a beneficio dell’industria dei combustibili fossili”. Sembra un buon investimento.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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