Uno dei pochi uomini al mondo che quando beve un caffè, sta lavorando. Uno dei pochi uomini al mondo che quando si presenta fa pubblicità commerciale. Dura vita di Andrea Illy perennemente diviso tra l’essere un uomo come tanti e l’essere l’uomo sandwich di un prodotto. Per lui é la normalità. Ha introiettato fin dalla culla questa doppia dimensione e come i figli dei monarchi non ha mai messo in conto di fare qualcos’altro. La determinazione gli arriva dal nonno mezzo ungherese che dopo la grande guerra trovò patria a Trieste, città cosmopolita che in Europa, oggi, viene considerata uno dei centri più importanti per la ricerca scientifica. Nel 1933, tra il cioccolato e il caffè, scelse quest’ultimo perché lo riteneva affine culturalmente alla Mitteleuropa, ai caffè viennesi, agli intellettuali, più Damel che Sacher.
Ma non furono subito rose a aromi, due anni apolide pur di restare in quella piazza che si apriva al mare, poi i brevetti, il barattolo pressurizzato per conservare la fragranza e la macchina espresso a pressione, la prima al mondo. L’arma di seduzione di questo millennio? Una tazzina disegnata ad arte da 126 artisti di fama mondiale per citarne due, Pistoletto e Koons. Andrea lo racconta con orgoglio lui, che ama il buon vino e le olive.
Andrea, si capisce l’investitura imprescindibile ma da bambino non può aver sognato di diventare il re del caffè…
“Certo che no. Avrei voluto diventare un chirurgo o un pilota di caccia. Poi ho fatto il chimico e il dottore del caffè. Non mi è pesato perché i fondi di quel caffè erano intrisi d’illuminismo e dei movimenti culturali che sono all’origine della modernità. All’epoca l’acqua era infetta e non si poteva bere. Si rimediava con la birra fermentata. Risultato, ubriachezza e scarsa produttività. Il caffè portò una sferzata di vitalità. E il futuro”. Ma lungo andare pure il “nero bollente” causa problemi di salute. “Quattro espressi al giorno non di più ed ecco attivato il potere antiossidante della caffeina”.
Come fa con il suo mestiere? Sarà sovreccitato.
“Quando lo degusto per lavoro, poi lo sputo”. Attento a non farsi vedere, si potrebbe equivocare. E in famiglia? Già vede i suoi eredi? “Ho tre fantastiche bionde di 31, 29 e 27 anni, la quarta generazione. Ancora non lavorano con me, ci vuole un percorso di crescita fuori per arrivare in azienda già formate. Siamo un’azienda familiare ma non chiusa in se stessa. Come famiglia abbiamo istituito una fondazione intitolata a mio padre, un grande maestro per agricoltori ed economisti, presieduta da mia sorella. Bisogna trasferire le conoscenze ai paesi produttori. Parliamo di raccolto tropicale invece abbiamo 12,5 milioni di micro-agricoltori che non hanno risorse per uscire dalla soglia di povertà. Solo il 5% del valore complessivo del caffè da supermercato rimane nelle tasche di chi lo coltiva. Troppo poco ma è un fenomeno strutturale, il flusso di denaro è insufficiente perché questi micro-produttori possano crescere. Figuriamoci ora, flagellati come sono dal cambiamento climatico che li priva persino del raccolto annuale”.
In questi giorni ha riportato una grande vittoria, ci lavorava da anni…
“Su nostra spinta, il Governo italiano aveva inserito il caffè come una delle prime tre priorità del Piano Mattei. Era nell’agenda del G7 di Pescara a fine ottobre. Noi abbiamo sollecitato una partnership pubblico/privato allo scopo di investire nelle piantagioni di caffè, fino alla costruzione di un fondo comune. In queste ore, dopo otto anni di lavoro, la proposta è realtà approvata. Una cooperazione che vede coinvolte 25 milioni di famiglie del Sud del mondo grazie all’adesione di colossi come Jde, Lavazza, Nestlé, Starbucks, il Governo italiano, gli altri G7, e istituzioni intergovernative. Abbiamo anche creato master a livello mondiale con esperti di rigenerazione di ecosistemi naturali per aiutare la comunità a migliorare le condizioni di vita dei bambini che dovrebbero andare a scuola e sono nei campi. Ci occupiamo degli abusi e contrastiamo il crimine sensibilizzando il sociale. Teniamo alla sostenibilità e alla rigenerazione del caffè. Me ne occupo da 40 anni perché è un fattore necessario alla vita. La biosfera dalla quale dipendiamo al 100% è la nostra sopravvivenza. A rischio”.
Siamo messi tanto male?
“Malissimo. Il disastro è in corso. Siamo tecnicamente come una rana bollita. La rana si crogiola nell’acqua calda che si riscalda sempre più e così senza rendersene conto, finisce bollita”.
Che orrore…
“Sì, ma solo a parole. Io da scienziato e imprenditore mi sono preso un anno sabatico per decarbonizzare l’Azienda in modo circolare e studiando mi sono imbattuto nella teoria dell’agricoltura rigenerativa che è l’opposto di quella convenzionale. Il focus è la terra e meno la pianta. La salute del suolo, abbattimento dell’agrochimica a favore dei fertilizzanti naturali per rispettare le biodiversità. Il suolo ha una capacità tre volte superiore rispetto all’atmosfera di sequestrare il carbonio. Le piantagioni sperimentali ci riportano agli agricoltori che collaborano con noi da tempo”.
Chi vi ha aiutato?
“La guerra in Ucraina. Sembra brutto dirlo ma i prezzi dei fertilizzanti per il conflitto sono saliti alle stelle e si è scoperto che questa agricoltura resiliente al cambio climatico non perde produttività, anzi, produrre costa meno, fa bene all’ambiente e alla salute, un’agricoltura più gentile”.
Un modo virtuoso di mettere a frutto il suo tempo adesso che si è fatto un po’ da parte.
“Per 22 anni sono stato operativo. Ora non lo sono più e posso dedicare tutto me stesso a questa che è diventata un’ossessione. Sono i chimici che devono interpretare l’evoluzione della materia nel tempo e nello spazio”.
Non deve essere facile starle accanto.
“È perché mai? Sono discretamente spiritoso, sono curioso di tutto, mi interesso d’arte, parlo cinque lingue, sono sportivo, vado a vela e in bicicletta, pratico sci e moto, mi piacciono le passeggiate aerobiche, non sudo. Dimenticavo, sono elicotterista ma ho smesso perché inquinavo, ho una macchina ibrida e una barca a vela a Barcellona, la barca ufficiale di Emergency, la Ancilla Domini di 22 metri. Io mi troverei simpatico, da frequentare”.
Scherza? Sia mai! Le pare una vita riposante? Un incubo in moto perpetuo…
“A mia moglie piaccio così. Immagini che quando ero attivo in Azienda ero fuori casa 200 notti all’anno e l’ho fatto per trent’anni. Ora io e mia moglie andiamo in giro in barca per quattro settimane all’anno e mai una lite. Stiamo insieme da 38 anni, ci siamo conosciuti a Trieste, ero appena tornato dal Giappone e ho incontrato lei, una marziana, mezza friulana e mezza pugliese. Sono stato fortunato. C’è affinità elettiva, abbiamo le stesse passioni, facciamo tutto insieme”.
Lei parla con orgoglio di ‘’Azienda familiare’’. Come si fa a lungo andare a non odiarsi? Penso ai Gucci ma anche a tanti altri…
“La nostra è una grande responsabilità che si muove tra passato e futuro. Io sono il più giovane della mia famiglia, nato perché i miei fratelli mi hanno voluto. Detto questo, ci vuole una grande disciplina per andare d’accordo, consci sempre del fatto che con 10 milioni di tazzine distribuite al giorno, il vero padrone resta il consumatore. È poi diversificare, il più grande ha un ottimo vigneto di Montalcino, l’altro produce un cioccolato buonissimo. Una mia figlia fa prodotti di bellezza con estratti del caffè. L’Azienda di famiglia è un business e prevale sull’affettività”.
Pensa così anche la sua mamma?
“Soprattutto lei. A 93 anni si interessa (è un eufemismo) degli affari. Pretende di avere lo stesso vigore di una trentenne. Mi pone domande tendenziose che vorrebbero sembrare consigli invece sono spiate di rendiconti, numeri. Quest’anno le ho regalato delle cuffie professionali per sentire meglio ai consigli d’amministrazione”. LEGGI TUTTO