21 Novembre 2024

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    Un’etichetta per misurare quanto inquinano i vestiti

    Da uno a cinque, quanto inquinano i vostri vestiti? E in particolare, quante microplastiche perdono? In un futuro non molto lontano potrebbe essere abbastanza semplice rispondere alle domande, grazie al lavoro di Sophia Murden e Lisa Macintyre, due ricercatrici della Heriot-Watt University che hanno messo a punto una sorta di etichetta per classificare il grado […] LEGGI TUTTO

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    Cop29, Jude Law e altre stelle di Hollywood contro Big Oil: “Stanno distruggendo il Pianeta”

    All’improvviso Jude Law. In una Cop29 che fatica a trovare punti d’intesa sulla finanza climatica e quei trilioni di dollari da mettere sul tavolo per aiutare i Paesi meno sviluppati a reggere gli impatti del nuovo clima, ogni piccola parola, endorsement o sostegno alla spinta necessaria per un cambio di rotta possono essere decisive per fare aprire gli occhi su cosa è davvero fondamentale per il futuro. Per questo non passa inosservato l’ultimo prestigioso attore, la star di Hollywood Jude Law, che si è aggiunto alla campagna #PaybackTime lanciata dall’associazione Global Witness per chiedere che a pagare i conti della crisi climatica siano coloro che la alimentano: le aziende di combustibili fossili, quelle che fanno extraprofitti di miliardi di dollari “continuando ad aumentare le emissioni climalteranti”.

    Jude Law che, proprio mentre i negoziati di Baku vanno (a rilento) verso la conclusione, ha affermato come dal suo punto di vista “petrolio, gas e carbone stanno danneggiando il nostro Pianeta, causando un’ondata di eventi meteorologici mortali. È tempo dunque che le aziende di combustibili fossili rispondano delle loro azioni”. La star britannica si aggiunge ad altre celebrità, politici ed attivisti che hanno sottoscritto l’appello di Global Witness, fra cui l’ex presidente irlandese Mary Robinson, i registi Adam McKay e Joshua Oppenheimer, Michael Shannon, l’attrice di Star Wars Rosario Dawson, la star di “Harry Potter” Bonnie Wright, l’attore britannico David Harewood, Mark Rylance, Aisling Bea, i musicisti Brian Eno e Jon Hopkins e tanti attivisti per il clima tra cui Vanessa Nakate, Kumi Naidoo e Luisa Neubauer.

    A inizio Cop29 gli attivisti di Global Witness avevano fatto uno “scherzetto” non troppo gradito alla presidenza azera, quella che – attraverso le parole del presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev – ha definito più volte i combustibili fossili come “un dono di Dio”. Il dominio cop29.com era stato acquistato in passato da una coppia indiana: l’Azerbaijan ha offerto loro denaro per acquistarlo ma – sostiene Global Witness – “preoccupata per il clima quella coppia ha deciso anziché di venderlo agli azeri di affidarlo a noi”. Il collettivo è così entrato in possesso di cop29.com (il sito ufficiale è invece com29.az) attirando sul portale tantissimi visitatori e sulla homepage, anziché informazioni sulla Conferenza sul clima, ha messo una foto con i volti dei manager delle aziende del petrolio e del gas e la scritta “le aziende che sfruttano i combustibili fossili stanno distruggendo il Pianeta per trarne profitto. L’hanno rotto, dovrebbero pagarlo loro”. Con queste parole è nata la campagna – ora globale – per ricordare sia che “petrolio, gas e carbone sono responsabili di quasi il 90% delle emissioni di anidride carbonica” sia che ogni anno queste aziende “guadagnano trilioni in extraprofitti”, trilioni che servirebbero “per ripagare dei danni fatti. Per decenni molte aziende di combustibili fossili hanno ignorato i propri scienziati e finanziato campagne di negazionismo climatico per continuare a far fluire i propri profitti, e ora interi Paesi rischiano di essere spazzati via dalla mappa. Le aziende petrolifere amano pubblicizzare le proprie credenziali verdi, ma in realtà investono solo una piccola quantità in energia verde. È tempo di far pagare chi inquina” aggiungono i promotori della campagna che punta a “chiedere ai governi di obbligare le grandi compagnie petrolifere a pagare per aiutare le comunità a ricostruirsi e a proteggersi da un clima sempre più selvaggio”.

    Richieste che in futuro, negli Usa guidati dal negazionista Donald Trump, che ha scelto come ministro dell’Energia Chris Wright, manager del fracking e forte protezionista dell’industria del fossile, potrebbero risultare impossibili. Anche negli Usa però, come Jude Law che chiede alle aziende del fossile di “rispondere delle loro azioni”, c’è chi si sta impegnando per una diversa narrativa capace di mettere in risalto le responsabilità delle multinazionali oil&gas: proprio il mese prossimo debutterà negli States il film “The End”, pellicola post-apocalittica del regista Joshua Oppenheimer che affronta il ruolo dell’industria dei combustibili fossili nella crisi climatica. LEGGI TUTTO

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    Cop29, nessun compromesso e opzioni senza cifre per la finanza climatica. Hoekstra: “Inaccettabile”

    BAKU. “Il testo che abbiamo ora davanti a noi, a nostro avviso, è sbilanciato, inattuabile e inaccettabile”. La bocciatura di Woepke Hoekstra, capo della delegazione Ue a Baku, nell’intervento che apre la plenaria al penultimo giorno di Cop29, è totale. Il commissario europeo al clima fa notare come il testo faccia passi indietro, soprattutto sulla mitigazione, vale a dire il taglio alle emissioni di gas serra, rispetto alle intese raggiunte l’anno scorso a Dubai. Gli fa eco il rappresentante dell’Australia: “La triplicazione delle rinnovabili, il raddoppio dell’efficienza energetica e la transition away dai combustibili fossili, (tutti impegni presi a Dubai, ndr) sono nascosti nel testo presentato questa mattina dalla presidenza di Cop29”.

    La replica è affidata ai leader africani che rappresentano il Gruppo dei 77 più la Cina: la vera lacuna del testo è che manca un quantum, la cifra che i Paesi ricchi devono versare a quelli in via di sviluppo e vulnerabile. “Cifra che noi abbiamo indicato in 1,3 trilioni di dollari”. Solo quando ci sarà un numero si potrà parlare delle misure da attuare per la mitigazione e l’adattamento (la prevenzione contro gli effetti dei cambiamenti climatici).

    “Ci sono Paesi che alla Cop29 dicono ‘non parliamo di mitigazione, parliamo solo di finanza’” ha commentato il ministro italiano dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin. “Noi diciamo no, siamo pronti parlare di finanza, ma dobbiamo parlare anche di mitigazione”.

    Lo scontro tra due visioni del mondo va in scena in una riunione plenaria che il presidente di Cop29, l’azero Babayev, ribattezza Qurultay: un concilio politico militare tipico dell’aristocrazia medievale delle steppe asiatiche. I ministri dei quasi 200 Paesi presenti a Baku sono convocati alle 12 locali dopo che all’alba era stata diffusa la bozza di “disaccordo” della Cop29. Occorrerla scorrerla fino al punto numero 22 per cogliere quanto sia ancora ampia la distanza tre le posizioni in campo sulla finanza climatica, il vero cuore di questa Cop. I primi 21 paragrafi descrivono il “Contesto”. Da lì in poi si parla di “Goal”, obiettivi, e le strade si dividono tra i due schieramenti: Sviluppati contro In via di sviluppo. Tanto da rendere necessarie due ipotesi (Opzione ministeriale 1 e 2) totalmente alternative.

    La prima, evidentemente espressione dei Paesi in via di sviluppo (Gruppo dei 77 più Cina) “decide di stabilire un New Collective Quantified Goal on climate finance di almeno [X] trilioni di dollari all’anno, dal 2025 al 2035, forniti e mobilitati dai Paesi sviluppati a tutti i Paesi in via di sviluppo e per rispondere alle loro esigenze in evoluzione, in sovvenzioni a fondo perduto o in termini equivalenti…”. Decide inoltre che siano specificate le cifre di denaro pubblico effettivamente erogato e di finanza privata mobilizzata grazie al denaro pubblico. Invita i Paesi in via di sviluppo disposte a contribuire (Cina, India, Paesi del Golfo, ndr) “a fornire tale sostegno volontariamente in conformità con l’articolo 9.2 dell’Accordo di Parigi” (che già prevede tale contribuzione volontaria, ndr). E soprattutto: “Questo sostegno volontario non sarà contabilizzato nel New Collective Quantified Goal”. Dunque nessuna cifra (resta una enigmatica X che però precede la parola trilioni), ma una serie di precisazioni: devono essere i soli Paesi ricchi a riempire di soldi il cassetto della finanza climatica, devono farlo con sovvenzioni a fondo perduto e non con prestiti i cui interessi finirebbero per indebitare ulteriormente i Paesi in via di sviluppo. E nessun allargamento della base dei donatori: i più grandi tra i Paesi in via di sviluppo possono aiutare economicamente gli altri contro il cambiamento climatico, in modo volontario e senza essere conteggiati nella finanza climatica prevista dall’Accordo di Parigi.

    L’Opzione ministeriale 2 “decide di stabilire un obiettivo di aumento della finanza globale per l’azione per il clima a [X] trilioni di dollari all’anno, entro il 2035, da tutte le fonti di finanziamento”. E più avanti: “stabilisce un obiettivo di mobilitare collettivamente [da un limite minimo di 100 in su] miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per i Paesi in via di sviluppo da un’ampia gamma di fonti e strumenti, tra cui fonti pubbliche, private e innovative, da canali bilaterali e multilaterali… con l’obiettivo di essere perseguito con i Paesi sviluppati che assumono la guida nel contesto dello sforzo globale e includendo gli sforzi di altri Paesi con la capacità economica di contribuire…”. Anche in questo caso si parla di X trilioni, ma nel calderone ci si mette di tutto, finanza pubblica e privata. Inoltre i Paesi ricchi “assumono la guida” ma includono lo sforzo di “altri Paesi con la capacità economica”. Leggasi Cina et al.

    E si torna così al punto si partenza. Nord globale pronto a far crescere il proprio contributo dai 100 miliardi all’anno attuali, ma non certo fino al trilione reclamato dai Paesi vulnerabili, raggiungibile, dicono a Washington e Bruxelles, solo includendo la finanza privata e contabilizzando i contributi “volontari” di Cina e Paesi emergenti. Sul fronte opposto il Sud globale, secondo cui l’Occidente deve farsi pienamente carico delle sue responsabilità storiche, in fatto di emissioni di gas serra e riscaldamento globale.

    Alla domanda di cosa ostacoli l’accordo, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, tornato a Baku dopo il G20 di Rio, ha risposto: “È il momento della verità, e ciascuno deve dire chiaramente la verità sugli impegni che può assumere in questa trattativa. Non sono un negoziatore, ma ho parlato con le delegazioni e ho potuto costatare che ancora oggi sono sulle loro posizioni iniziali: è il momento di abbandonarle e venirsi incontro”. E sugli scarsi riferimenti del testo al taglio delle emissioni di gas serra: “Per me è chiaro cosa dice la scienza: non c’è modo di rimanere al di sotto degli 1,5 gradi di riscaldamento se non si abbandonano i combustibili fossili. Qualunque sia il linguaggio adottato nei testi negoziali, non c’è modo di cambiare questa realtà”.

    Cosa succederà ora a Cop29? La presidenza azera riuscirà a trovare un testo di compromesso entro domani sera (venerdì), temine ufficiale di questa 29esima Conferenza Onu sul clima? A Baku si inseguono le interpretazioni del testo e le previsioni. Non si esclude che un testo così lontano dall’accordo sia uno stratagemma del presidente di Cop29 Babayev per arrivare nelle prossime ore a un documento “prendere o lasciare”, su cui andare a chiudere perché un fallimento non gioverebbe a nessuno. La stessa tattica usata, con successo, dall’emiratino Sultan Al Jaber l’anno scorso a Dubai.

    Come il suo predecessore, anche Babayev ha deciso di mettere in scena un rituale “tribale”, il Qurultay appunto, per sbloccare lo stallo. L’esito sarà lo stesso? Va ricordato che a Cop28 ebbero un ruolo fondamentale gli Stati Uniti, rappresentati da John Kerry, capaci, insieme alla Cina, di convincere i Sauditi ad accettare la formula “tranistion away” dai combustibili fossili.

    Qui a Baku tra i padiglioni e le meeting room delle delegazioni si aggira Sue Biniaz, la consigliera di Kerry che tirò fuori dal suo cilindro di lessico giuridico-diplomatico-climatico quella espressione capace di mettere tutti d’accordo. Ci vorrebbe una sua invenzione anche stavolta. Ma quest’anno gli Usa, con il loro inviato speciale John Podesta, hanno un profilo molto più basso, visto l’esito delle elezioni che riporteranno da fine gennaio Donald Trump alla Casa Bianca. In mancanza della leadership americana, si attende una mossa cinese. Pechino si è messa in una posizione win-win: ha la grande occasione di intestarsi il successo di questa Cop. Ma in casi di fallimento sarebbe un gioco da ragazzi farne ricadere le responsabilità sull’Occidente. LEGGI TUTTO