14 Novembre 2024

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    Abbiategrasso, il professore aggredito da un alunno a ottobre vuole lasciare la scuola

    Ha deciso di lasciare l’insegnamento Rocco Latrecchiana, il professore che lo scorso 15 ottobre era stato aggredito all’istituto Lombardini di Abbiategrasso, da uno studente di 16 anni.L’aggressione era scattata per un rimprovero all’alunno in quello che era il primo giorno di insegnamento per Latrecchiana, che ancora non è rientrato al lavoro. Al Corriere della Sera […] LEGGI TUTTO

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    Non solo gattini e cani: per la conservazione della fauna selvatica i social network contano

    Siamo invasi da gatti e gattini sul web: i felini di casa piacciono. Studiare il fenomeno può essere interessante sotto diversi punti di vista. Può essere un’occasione per comprendere un po’ le dinamiche che regolano i nostri comportamenti digitali, ma le ripercussioni possono spingersi ben oltre. Gatti e parenti felini infatti possono insegnarci anche a prenderci cura dell’ambiente. Ne sono convinte Gabriella Leighton e Laurel Serieys dell’Università di Cape Town, secondo le quali vale la pena scommettere su alcuni animali particolarmente “carismatici” online per salvarli offline, nel loro ambiente naturale. Soprattutto quando questo è sotto la minaccia dell’espansione urbanistica, scrivono dalle pagine di Environmental Communication.

    Il loro è in parte il resoconto di un progetto (Urban caracal) nato dieci anni fa in Sudafrica, nella penisola del Capo, inizialmente con lo scopo di studiare l’ecologia del felino africano caracal, poi divenuto l’occasione anche per capire qualcosa di più sulla comunicazione in fatto di strategie di conservazione, spiegano le esperte. Il caracal è un grosso felino ed è un animale piuttosto elusivo, ricorda il sito del progetto, studiato in maniera indiretta per lo più grazie a radiocollari e alle analisi compiute sugli esemplari rinvenuti morti. Somiglia moltissimo al gatto e questo sarebbe il suo punto di forza a detta delle autrici.
    Vale per le profondità dell’oceano, vale per le foreste del mondo: c’è ancora una marea di specie che gli esseri umani non conoscono. Se parliamo di piante vascolari – quelle con radici, fusto e foglie – gli scienziati stimano che esistano almeno 100mila specie di piante non ancora scoperte. Tenendo conto dell’attuale perdita (costante) di biodiversità, riuscire a identificare dove queste piante potrebbero essere – in modo da studiarle e proteggere – un’azione cruciale, anche per preservare la varietà genetica che la natura ci offre. Già, ma dove bisogna cercare? A dircelo è uno studio internazionale portato avanti dai ricercatori del Royal Botanic Gardens di Kew.

    Attraverso l’analisi dei dati e grazie a test in grado di individuare le carenze di dettagli geografici e tassonomici, gli esperti hanno individuato 33 “darkspot”, sorte di zone oscure alla scienza che potrebbero essere ricche di diversità ma che non sono ancora state indagate. Queste aree potrebbero infatti contenere “la maggior parte delle specie non descritte e non ancora registrate”. La maggior parte di questi darkspot, scrivono i biologi, si trovano all’interno di Nuova Guinea, Colombia, Myanmar, Perù, Filippine e Turchia. In questi Paesi – con altri indicati come possibili che vanno dal Madagascar sino alla Bolivia – bisogna concentrare gli sforzi per “comprendere le carenze di conoscenza tassonomica e geografica, un atto fondamentale per dare priorità ai futuri sforzi di raccolta e conservazione”. Nel dettaglio gli esperti ricordano che molti di questi luoghi in cui cercare sono anche hotspot della biodiversità, ovvero aree del pianeta ricche di vita ma minacciate di distruzione. La maggior parte dei 33 darkspot si trova nell’Asia tropicale (in almeno 14 zone dal Vietnam fino all’Himalaya), 8 sono invece in Sud America e altre 8 nell’Asia temperata (dall’Iran al Kazakistan), 2 in Africa (Madagascar e province del Capo) e uno in Nord America (Messico sud-occidentale). Ci sono decine di specie ogni anno che vengono scoperte. Esemplari come la palma del Borneo che è in grado di fiorire sotto terra, oppure particolari orchidee, o ancora piante endemiche come quelle individuate lo scorso anno in Abruzzo o Sardegna.

    Biodiversità

    Dieci piante appena scoperte che rischiano di scomparire

    di Fabio Marzano

    12 Gennaio 2024

    Per trovarne altre, i botanici hanno però bisogno di indicazioni, proprio come quelle contenute nello studio pubblicato sulla rivista New Phytologist. Coordinate che potrebbero aiutare a individuare specie utili per esempio nel mondo della farmaceutica e la medicina, ma anche quello dell’energia (carburanti) o della cosmesi. “Dobbiamo proteggere il 30% del Pianeta entro questo decennio secondo gli attuali obiettivi delle Nazioni Unite, ma non sappiamo quali aree proteggere se non abbiamo le giuste informazioni” ha spiegato il direttore scientifico del Kew, il botanico Alexandre Antonelli. “Precedenti ricerche – aggiunge – hanno dimostrato che i biologi non sono stati particolarmente efficienti nel documentare la biodiversità. Siamo tornati negli stessi posti più e più volte e abbiamo trascurato alcune aree che potrebbero contenere molte specie”.

    Esplorazioni, quelle necessarie, che includono però una lotta contro il tempo: accelerare il tasso di scoperte delle piante è infatti necessario perchè all’attuale ritmo di identificazione molte specie, anche per gli impatti della crisi del clima e delle azioni antropiche, rischiano di estinguersi ancor prima di essere note alla scienza. Una corsa che – si spera – potrebbe essere rafforzata dalle decisioni che verranno prese prossimamente a Cali, in Colombia, dove si terrà la Cop16 sulla biodiversità. Come ricorda Samuel Pironon, docente di biologia alla Queen Mary University di Londra e autore dello studio, “tutti i Paesi hanno concordato di preservare e ripristinare la biodiversità, inclusa quella vegetale. Ma come possiamo farlo se non sappiamo di quali specie stiamo parlando o qual è la biodiversità e dove possiamo ripristinarla?”.

    Biodiversità

    I botanici “estremi”: in paramotore (al posto del SUV) per studiare le piante più rare nel deserto

    di  Fabio Marzano

    05 Ottobre 2024

    Ecco perché il nuovo studio, nella sua funzione di mappa che indica i darkspot, potrebbe risultare estremamente importante, anche se servirebbe una mano in più: quella dei cittadini. Secondo i biologi infatti chiunque, appassionato di natura, senza raccogliere le specie, può però segnalarle e fotografarle: condividere dati nelle tante piattaforme di citizen science è un gesto prezioso, “una grande opportunità per rafforzare le partnership tra scienziati e cittadini. Le persone scattano foto di piante che ritengono possano essere interessanti per il resto del mondo e gli scienziati sono fondamentali perché aiutano a identificare quelle specie” dice Pironon.
    Il bilancio del progetto, avviato nel 2014, a loro detta infatti sarebbe più che positivo. La popolarità del caracal infatti da allora è cresciuta, più per esempio del servàlo, un altro felino selvatico africano (91% di crescita nelle ricerche online, contro il 76%), ma anche i canali social nati a sostegno del progetto hanno avuto un discreto successo, raggiungendo milioni di persone, scrivono Leighton e Serieys, e generando interesse per approfondimenti su altri media. Degno di nota, proseguono, anche l’interesse internazionale generato dal progetto, con utenti da tutto il mondo.

    Tutto questo secondo le esperte conferma, ancora una volta, le potenzialità dei social come strumento di comunicazione scientifica, ma non solo. L’aspetto più interessante sta nella capacità del progetto di generare curiosità nel pubblico, stimolando report da parte dei cittadini (per esempio di avvistamenti o ritrovamenti), utili come attività di citizen science ma in generale utili soprattutto ad aumentare la popolarità del caracal. Con ricadute positive sulla conservazione delle specie in natura, disseminando i risultati delle attività di ricerca portate avanti sul caracal. Un esempio? Studiando le carcasse degli animali deceduti, i ricercatori hanno scoperto che gli avvelenamenti accidentali (con veleno per topi) o l’esposizione ai pesticidi, dopo gli incidenti, sono una delle minacce maggiori per questo felino selvatico. Farlo sapere al pubblico, generando discussione in materia, magari attraverso i popolari canali social, potrebbe aiutare a preservare questo animale (ed altre specie).

    Ma non dimentichiamo che parliamo di un felino, fondamentale per le esperte. “Il successo e l’attrattiva del progetto derivano probabilmente dal fenomeno dei ‘gatti su Internet’ – riconoscono le autrici – Utilizzare una specie che piace, come il caracal, è un modo efficace per catturare l’attenzione del pubblico e comunicare l’importanza di preservare la fauna selvatica urbana”. Soprattutto, e concludono, nelle aree in rapida urbanizzazione. LEGGI TUTTO

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    Nucleare, dall’Iran alla Corea del Nord. Grossi: “La diplomazia fondamentale per evitare la guerra”

    L’aveva annunciato nel corso della sua visita romana la settimana scorsa: “Entro pochi giorni sarò a Teheran. Per incontrare il presidente Masoud Pezeshkian e visitare alcuni impianti nucleari iraniani”. E poche ore fa Rafael Mariano Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), è atterrato nella capitale iraniana e ha avuto un primo colloquio con il leader del Paese degli ayatollah. Ma l’agenda del 63enne diplomatico argentino è fitta di appuntamenti che hanno a che fare con le crisi più gravi sullo scenario geopolitico, tutte in qualche modo collegate al nucleare: oltre allo scontro tra Israele e Iran con le facilities atomiche di Teheran possibile bersaglio di rappresaglia, la guerra in Ucraina con le centrali sotto tiro e l’escalation della Corea del Nord che esibisce i suoi missili balistici. Grossi gira il mondo per tenere aperto il dialogo. Ma non può fare a meno di sottolineare come negli ultimi anni il contesto politico globale si sia deteriorato: “C’erano delle linee rosse invalicabili, dai diritti umani al non colpire siti nucleari. Ora le si oltrepassa”. E auspica un ritorno alla “diplomazia attiva”, quella fatta di viaggi, incontri e dialoghi, contrapposta alla passività di chi, pur in ruoli di responsabilità, si limita a “osservare ciò che accade e a fare post sui social network”.

    Direttore Grossi, qual è la crisi “nucleare” più urgente da risolvere?
    “La centrale nucleare di Zaporizhzhia continua a destare preoccupazione: è un enorme impianto nucleare nel pieno di una zona di guerra. Non vediamo una possibile soluzione immediata e sappiamo che un incidente nucleare, come possibile conseguenza di azioni militari, è imprevedibile”.

    La Aiea ha ancora i suoi ispettori all’interno?
    “Sì. Come anche nelle altre centrali nucleari ucraine. E il mese scorso, dopo il mio ultimo incontro con il presidente Zelensky, ho avviato il monitoraggio delle stazioni elettriche di trasmissione. È una novità importante per la sicurezza nucleare, vista la loro funzione di alimentazione dei sistemi di raffreddamento: colpirle può produrre effetti ancor più letali che sparare direttamente sulla centrale. Sono consapevole che non sia una garanzia totale, ma è comunque un monitoraggio ‘dissuasivo’”.

    Non è però riuscito nella sua idea iniziale di creare una zona “santuario” intorno a Zaporizhzhia. “Ho capito che i militari non avrebbero accettato. Da negoziatore mi sono adeguato e ho creato un sistema di regole e comportamenti: si può mettere nero su bianco che certi mezzi militari non possono essere schierati in alcune aree, con la Aiea si occupa del monitoraggio. Questo mi ha permesso di avere un po’ più di flessibilità dalle parti coinvolte”.

    Ha trovato flessibilità anche nel presidente russo Putin, che ha visto l’ultima volta a marzo?
    “Non so se chiamarla flessibilità. Ha dimostrato di capire la logica di questa mia idea. E lo stesso posso dire di Zelensky”.

    Veniamo al Medioriente. Ritiene possibile una attacco israeliano alle infrastrutture nucleari dell’Iran? E quali conseguenze avrebbe?
    “Non possiamo escludere alcuna ipotesi. E alla Aiea abbiamo già una idea di cosa accadrebbe nel caso di attacco all’una o all’altra facility. Proprio per questo ritengo indispensabile sempre più diplomazia: il mio viaggio in Iran va in questa direzione”.

    Una visita simbolica?
    “Certamente c’è un messaggio simbolico: il direttore generale della Aiea è lì. Ma lo scopo è anche dire agli iraniani che deve migliorare il livello di trasparenza sul loro programma nucleare. Non posso scendere nei dettagli, ma ho sviluppato una serie di idee e di iniziative”.

    Teheran punta a ripristinare il trattato JCPoA voluto da Obama nel 2015 e poi annullato da Trump nel 2018.
    “Sì, ma tutto è cambiato da allora. Oggi la Federazione Russa è schierata con l’Iran, mentre quel trattato fu il frutto di una azione congiunta di Cina, Russia, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania. Inoltre, il programma iraniano in questi anni ha raggiunto livelli molto più importanti, per esempio per quanto riguarda la produzione di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio: il JCPoA era relativo a una utilitaria, ora hanno una Ferrari”.

    Cosa sta succedendo in Corea del Nord?
    “Ne sappiamo abbastanza: sugli impianti per l’arricchimento dell’uranio abbiamo condiviso informazioni con elevato grado di precisione. Ma oltre alle armi nucleari di Pyongyang, mi preoccupa la sicurezza: è l’unico programma nucleare al mondo che si sottrae a qualsiasi controllo. Non abbiamo la minima garanzia dell’applicazione di standard di sicurezza”.

    Veniamo al nucleare civile. Si può parlare di una rinascita, visto che le Big Tech stanno puntando sull’energia nucleare per far fronte ai grandi fabbisogni di elettricità che servono ad alimentare i loro server? dopo Microsoft, Google, Open Ai, nelle ultime ore lo annunciato anche Mark Zuckerberg, ceo di Meta.
    “È un momento di grandi opportunità. Queste aziende stanno avendo un approccio intelligente, pratico e moderno: prima di iniziare questo tipo di percorso vengono da noi per chiedere come si fa, quali sono le caratteristiche principali dei piccoli reattori modulari. Non vogliono certo vedersi coinvolti in un incidente”.

    Anche l’attuale governo italiano vuole riaccendere reattori per produrre elettricità. Ci sono contatti tra Roma e l’Aiea?
    “Ne abbiamo parlato l’altro ieri con il ministro Pichetto Fratin. L’agenzia un approccio imparziale, non abbiamo interessi commerciali, aiutiamo se veniamo interpellati. Possiamo per esempio fornire sostegno tecnico sullo sviluppo dei reattori modulari: conosciamo tutto quello si sta facendo nel mondo, tutto il catalogo dei modelli e sappiamo quali sono le loro caratteristiche”.

    E la fusione nucleare di cui parlerete a Roma è ancora una chimera?
    “Sono stati fatti grandi progressi, ma in ordine sparso, con tante isole che finora non si sono parlate. Il World Fusion Energy Group è il nostro modo di dare al lavoro sulla fusione l’integrazione che mancava”.

    Nelle sue giornate romane ha incontrato anche il Papa. Di cosa avete parlato?
    “Di sicurezza e di pace. Da leader etico, morale e religioso, ritiene che tutti questi problemi vadano affrontati mettendo al centro l’essere umano. Il Santo Padre parla a tutto il mondo e la sua voce è molto ascoltata, anche in Paesi non cattolici. Io, su una scala assai più modesta, voglio essere un ponte logico, pratico, non arrogante ma utile. Parlo con Puntin e Zelensky, con iraniani e americani. Bisogna che qualcuno faccia questo lavoro. Osservare ciò che accade e fare post sui social network non serve a niente”. LEGGI TUTTO