Praticamente indistruttibili, potenzialmente nocivi. Soprattutto: presenti dappertutto, o quasi. Si chiamano PFAS, acronimo di perfluorinated alkylated substances. Vale a dire sostanze poli e perfluoro alchiliche, acidi molto forti con una struttura chimica in grado di renderli termicamente stabili e resistenti ai processi naturali di degradazione, al punto da essere definiti “inquinanti eterni”. La molecola più nota, l’acido perfluoroottanoico (PFOA), è stata classificata come “cancerogeno per l’uomo” sulla base di prove ‘sufficienti’ di cancro negli animali da esperimenti; possibile cancerogeno per l’uomo, sulla base di forti prove meccanicistiche, è anche l’acido perfluoroottansolfonico (PFOS). Sigle e nomi impronunciabili per composti chimici di origine sintetica che sono ovunque, intorno a noi. E spesso è persino difficile accorgersene, anche leggendo le indicazioni di prodotto.
Carta da forno
Sotto la lente d’ingrandimento, per esempio, finisce la diffusissima carta forno: per renderla resistente alle alte temperature e ai cibi grassi, i PFAS diventano utilissimi. Sottoposta a temperature troppo alte, espongono a un rischio di graduale esposizioni a tossicità. Un rischio trasversale: secondo l’Associazione Italiana Medici per l’Ambiente (Isde Italia) gran parte della carta forno in commercio in Italia conterrebbe PFAS (qui il .pdf). “Si tratta di tracce il più delle volte minime, che non presentano una tossicità acuta ma che possono interferire sui nostri sistemi biologici, per esempio favorendo la colesterolomia o problemi a reni e tiroide, talvolta – con l’accumulo anche nel cervello – causando persino problemi cognitivi”, spiega Sara Valsecchi, ricercatrice presso l’Istituto di Ricerca sulle Acque del Cnr.
“Il punto – aggiunge – è che non c’è l’obbligo di riportare la loro presenza in etichetta. E allora è il legislatore che deve accelerare, magari su pressione dei consumatori”.
Greenpeace e la campagna ‘Acque senza veleni’
“Per orientarsi può essere fondamentale cercare le carte forno che siano dichiaratamente “PFAS free”, e in generale non superare mai le temperature limite di utilizzo specificate sulla confezione, senza disdegnare alternative assolutamente ecologiche, dai tappetini antiaderenti per il forno al vecchio metodo del burro e della farina”, spiega Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, che da anni insiste sulle conseguenze dei PFAS sulla salute umana. E che ha appena concluso la seconda parte della campagna “Acque senza veleni”, raccogliendo campioni di acqua potabile in 260 comuni in tutte le regioni italiane, per verificare proprio la presenza di PFAS.“A breve avremo i risultati – dice – anche se sono già noti diversi gravi casi di contaminazione, come in alcune aree del Veneto, dove più di 350 mila persone sono esposte al problema, e del Piemonte, dove a rischio sarebbero almeno 77 comuni. Noi abbiamo esteso i controlli in tutto il Paese, quelli delle istituzioni sono frammentari se non addirittura assenti. Un’inerzia che rischia di trasformare l’inquinamento da PFAS in un’emergenza nazionale fuori controllo”.
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Nelle falde, nei corsi d’acqua e, infine, nei nostri rubinetti le sostanze arrivano dopo essere liberate dall’industria chimica o da quelle che impiegano queste molecole nella produzione. “Ma anche i depuratori non sono attrezzati, e dunque sotto accusa ci sono anche i reflui industriali e civili”, dice Ungherese.
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Dal Dopoguerra a oggi: storia di un “boom”
La storia dei PFAS ha quasi un secolo, la loro fortuna è nell’impermeabilità all’acqua e la resistenza ai grassi. “Sono composti industriali che hanno iniziato a diffondersi dal Dopoguerra, quando se ne sono comprese le applicazioni industriali: sono, di fatto, indistruttibili. – rileva, dal suo laboratorio del Cnr, Sara Valsecchi – Ma quella che è la loro forza si è rivelata una criticità: restano nell’ambiente, ce li ritroviamo nell’acqua e nel cibo, si muovono attraverso l’aria. Sono difficili da rimuovere. Il 98% della popolazione occidentale è esposta al rischio da una loro contaminazione nel tempo”.
Già, perché l’utilizzo dei PFAS è ultra-pervasivo: la carta forno è in ottima compagnia. “Dai vestiti alle padelle antiaderenti, fino ai contenitori alimentari in carta con protezione oleorepellente, sono utilizzati dappertutto. – segnala Ungherese – Persino sui monitor di alcuni smartphone e sul rivestimento del filo interdentale”.
Ma qualcosa si muove: l’Agenzia Americana per la Protezione Ambientale ha proposto standard più restrittivi, per esempio, sui PFAS presenti nell’acqua potabile (il livello di Pfoa e i Pfos deve rimanere inferiore a quattro parti per trilione ovvero quattro nanogrammi per litro). “In Italia entrerà in vigore una nuova legge nel 2026, ma i limiti sono più alti e non tengono conto della cancerogenicità delle due sostanze, emersa proprio mentre il decreto seguiva il suo iter”, denuncia il responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. “Chiediamo allora che si preveda l’obbligo di dichiararne la presenza nell’etichettatura dei molteplici prodotti in cui sono utilizzati, pur sapendo che è al momento utopistico in assenza di obblighi di legge. – aggiunge – Nel frattempo, i consumatori possono condizionare il mercato, scegliendo solo prodotti per i quali è espressamente specificata l’assenza dei PFAS”.
Scegliere bene per indirizzare il mercato
“Del resto al momento non c’è alcun obbligo. – ribadisce Valsecchi – Di certo i consumatori possono ridurre al minimo l’utilizzo di packaging alimentare, in particolare quello legato al cibo precotto. Tracce di PFAS sono presenti, per esempio, nei diffusissimi cartoni della pizza”.Una crescente attenzione dei consumatori potrebbe, dunque, premiare le realtà virtuose. “Nel caso delle padelle antiaderenti, gli esempi di aziende che dichiarano l’assenza di PFAS non mancano”, rileva la voce di Greenpeace. E sui social hanno sempre più seguito influencer come Rossana Dian, che ha ideato una linea di pentole antiaderenti prive di PFAS, PTFE e altre sostanze potenzialmente nocive.
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“Abbiamo motivo di credere che la strada verso un utilizzo ridotto al minimo delle sostanze perfluoro alchiliche sia segnata. – dice Valsecchi – Fino a qualche anno fa erano presenti in quantità significative anche nei cosmetici, a contatto diretto con la pelle. Poi, quasi tutte le realtà industriali li hanno eliminato, su pressione degli enti regolatori. Noi del Cnr, in qualità di consulenti del ministero dell’Ambiente sui tavoli Ue, siamo pronti a ribadire la necessità di un cambio di passo”. LEGGI TUTTO