3 Settembre 2024

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    Bonus e contributi, come programmare l’installazione di un impianto fotovoltaico

    Ultimi mesi a disposizione per usufruire del bonus fotovoltaico al 50%. Se non ci saranno novità nella legge di Bilancio, infatti, dal 2025 la detrazione scenderà al 36%. Per chi abita in paesi con meno di 5.000 abitanti e decide di installare un impianto creando un gruppo di autoconsumo, però, c’è la possibilità di usufruire ancora per due anni del rimborso immediato del 40% della spesa grazie ai fondi del PNNR. Il bonus fiscale e il contributo non sono cumulabili, ma per i gruppi di autoconsumo è prevista anche la tariffa incentivante per 20 anni. In fase di programmazione dell’investimento, dunque, occorrerà valutare la convenienza tra le due opzioni.

    Il bonus del 50%
    Per quanto riguarda i bonus, le spese di acquisto e di realizzazione di un impianto fotovoltaico di­retto alla produzione di energia elettrica al servizio di un immobile residenziale godono della detrazione del 50%. Il bonus fiscale è ammesso ai sensi della lettera h) del comma 1 dell’art. 16-bis del TUIR che riconosce la detrazione agli interventi “relativi alla realizzazione di opere finalizzate al conseguimento di risparmi energetici con particolare riguardo all’installazione di impianti basati sull’impiego delle fonti rinnovabili di energia”. Possono usufruire dell’incentivo solo i pannelli destinati al consumo domestico con una potenza massima di 20KW. Si può trattare di prima o seconda casa, senza alcuna differenza. L’installazione può avvenire sia sul tetto che su una pertinenza, ad esempio sul box. Nella spesa agevolata rientrano non solo i costi per l’acquisto e la posa in opera dei pannelli, ma anche tutte le spese accessorie all’intervento, da quelle edilizie alle spese di tipo tecnico per la dichiarazione di conformità e messa a norma dell’impianto, come pure l’eventuale aggiunta di un sistema di accumulo. Il limite di spesa ammesso alla detrazione è unico e vale sia per l’impianto sia per il sistema di accumulo.

    Gli incentivi per i gruppi di autoconsumo
    Se i pannelli vengono installati con l’obbiettivo di creare un gruppo di autoconsumo scattano anche i contributi. Il gruppo è un insieme di almeno due utenti che si associano per condividere l’energia elettrica prodotta da un impianto da fonte rinnovabile installato su uno stesso edificio. Si può creare un gruppo di autoconsumo, dunque, anche su una villetta bifamiliare, o di un immobile nel quale si trovano sia appartamenti che locali commerciali, e che ciascuno abbia una propria utenza. Una volta entrato in funzione l’impianto il Gse pagherà una tariffa incentivante per ogni MWh prodotto e condiviso. L’importo varia in funzione della grandezza dell’impianto, e vai dai 60 euro per gli impianti più grandi agli 80 euro per quelli più piccoli, ossia fino ai 200kw. È prevista inoltre una maggiorazione di 4 euro nelle regioni del centro (Lazio, Marche, Toscana, Umbria, Abruzzo) e di 10 euro o nelle regioni del nord (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta e Veneto). La tariffa incentivante verrà riconosciuta per 20 anni. Alla tariffa va aggiunto l’ulteriore corrispettivo Arera di valorizzazione per l’energia autoconsumata.

    Il contributo PNNR
    Se si decide di realizzare un impianto al servizio di un gruppo di autoconsumo in un paese con meno di 5.000 abitanti è possibile richidere il contributo del 40% a rimborso dei costi sostenuti. In particolare l’impianto di produzione per la cui realizzazione è richiesto il contributo in conto capitale, deve avere potenza non superiore a 1 MW ed entrare in esercizio entro diciotto mesi dalla data di ammissione al contributo e, comunque, non oltre il 30 giugno 2026. Tutte le informazioni sul sito del Gse. LEGGI TUTTO

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    La zantedeschia o calla: coltivazione, esposizione e cura

    La calla – o zantedeschia – è un genere di pianta rizomatosa che appartiene alla famiglia delle aracee. Le origini si possono collocare in modo particolare in tutta la regione africana che si trova al di sotto del Sahara. Questa pianta perenne può avere le foglie sempreverdi o caduche, a seconda delle specie. Il tratto caratteristico della zantedeschia è la tipica infiorescenza con la spata allungata, un elemento che conferisce una notevole eleganza alla pianta.La calla è coltivata anche nel nostro paese e, in modo particolare, la sua coltivazione è molto diffusa nelle aree litoranee (soprattutto in Liguria). Si tratta di una pianta che per vegetare in modo ottimale richiede una temperatura media attorno ai 15 gradi o, per le specie a fioritura tardiva, di circa 20 gradi. Le origini del nome scientifico della calla sono da ricondurre al fatto che questo genere è dedicato al botanico italiano Francesco Zantedeschi.

    La varietà di specie e cultivar di calla
    Esistono numerose specie di calla, che si contraddistinguono per una maggiore (o minore) rusticità e per la fioritura precoce (o tardiva). La specie più famosa e diffusa è probabilmente quella della Zantedeschia aethiopica, alta circa un metro, e contraddistinta dalle foglie di colore verde scuro, nonché dalle infiorescenze con la spata color bianco panna. La aethiopica rientra tra le calle rustiche – può sopportare occasionalmente una temperatura minima attorno agli zero gradi – e con fioritura precoce. Tra le calle meno rustiche e con fioritura tardiva troviamo invece la zantedeschia albomaculata. Questa varietà, come suggerisce il nome stesso, ha le foglie che si differenziano per le screziature di color bianco. La temperatura minima dev’essere pari ad almeno dieci gradi. La zantedeschia aethiopica flamingo è invece una cultivar che si differenzia per la sua spata di color rosa fenicottero, caratteristica dalla quale deriva il suo nome. La zantedeschia frozen queen ha invece un’infiorescenza con la spata di color rosa ciclamino, mentre le foglie – di forma irregolare – hanno un’insolita colorazione bianco-argentea nella parte più interna.

    La calla è una pianta da esterno o dev’essere coltivata in casa?
    In Italia, la calla può essere coltivata tanto in piena terra quanto in vaso. Nelle località che sono situate sui litorali – o che beneficiano di microclimi favorevoli, come sui laghi settentrionali – possiamo scegliere di coltivarla in giardino. Se decidiamo di coltivare la calla in vaso, ricordiamoci di scegliere un contenitore dal diametro di almeno 20-25 centimetri. Tra la zolla con i rizomi e il lato interno del vaso bisogna mantenere tra i 2-3 centimetri di terra, in modo tale da garantire un’innaffiatura ottimale. Quando dobbiamo rinvasare la calla, scegliamo un contenitore che sia di un paio di centimetri più ampio del precedente. Il periodo del rinvaso varia a seconda delle specie con fioritura precoce o tardiva: nel primo caso, dobbiamo rinvasare la calla durante la seconda metà dell’estate. La calla con fioritura tardiva dev’essere rinvasata invece durante la seconda metà del periodo invernale.

    Quando si mettono a dimora i bulbi (rizomi) di calla?
    Nel caso della calla, si parla più propriamente di rizomi (e non di bulbi). Il periodo ideale per la messa a dimora cambia in funzione della varietà a fioritura tardiva o precoce: nel primo caso, dobbiamo piantarla nel mese di ottobre. Nel secondo, invece, il momento più proficuo è in marzo. I rizomi devono essere interrati a circa 10 centimetri di profondità, avendo l’accortezza di mantenere una distanza di circa 50 centimetri tra gli esemplari.

    Dove posizionare la calla
    La pianta privilegia l’esposizione in luoghi che sono contraddistinti da tanta luminosità, ma con l’accortezza di evitare le posizioni in cui la calla possa ricevere l’irraggiamento solare diretto. Per comprendere quale sia l’esposizione ideale, possiamo osservare i luoghi in cui si trovano esemplari cresciuti spontaneamente: nella maggior parte dei casi, la calla può beneficiare di una parziale ombreggiatura che scherma i raggi del sole.

    Il terreno per la coltivazione della calla
    Per coltivare in modo ottimale la calla, dobbiamo ricreare le sue condizioni ambientali ideali e, cioè, quelle tipiche dei contesti umidi. Il terreno dev’essere quindi fertile e, al tempo stesso, favorire anche il mantenimento di un buon livello di umidità. A questo scopo, è possibile sfruttare un terriccio organico ma che assicuri al tempo stesso un buon drenaggio.

    L’innaffiatura della calla
    L’annaffiatura della calla deve assecondare l’alternanza di periodo di riposo vegetativo, ripresa dell’attività vegetativa e fioritura, che varia a seconda delle specie con fioritura precoce o tardiva. Nel caso della calla con fioritura precoce, da giugno a gennaio dobbiamo ridurre al minimo le innaffiature, preoccupandoci di non far mai inaridire il terreno. Da febbraio a maggio, invece, dobbiamo seguire la fase di vegetazione e fioritura della calla, incrementando la quantità di acqua proprio quando iniziano a sbocciare i fiori. La calla con fioritura tardiva, invece, richiede poca acqua nei mesi tra ottobre e febbraio. La frequenza di annaffiatura deve essere invece aumentata nei mesi tra aprile ed ottobre.

    La concimazione della calla
    Anche la concimazione della calla deve seguire le esigenze particolari delle specie, tardive o precoci, a partire dal momento in cui spuntano i boccioli dei fiori. Nel caso della calla con fioritura precoce, dobbiamo prevedere la concimazione tra febbraio e giugno. Quella con fioritura tardiva, invece, dev’essere concimata nei mesi compresi tra aprile ed ottobre. Per la concimazione possiamo aggiungere del fertilizzante liquido all’acqua di irrigazione, per almeno due volte al mese.

    La potatura della calla
    Per quanto riguarda la potatura, la calla non ha particolari esigenze. Dobbiamo però avere l’accortezza di recidere tutte le foglie secche o comunque danneggiate, per evitare che possano favorire l’attacco da parte di parassiti.

    Le tipiche avversità che colpiscono la calla
    La calla non è una pianta particolarmente colpita dalle malattie: nella maggior parte dei casi, le avversità sono il risultato di errori colturali. Quando le foglie hanno un aspetto sbiadito, con una colorazione verde un po’ spenta, la causa è da imputare all’eccessiva aridità del terreno. In questo caso, possiamo rimediare al problema avendo cura di innaffiare in modo più regolare la calla. Nel caso in cui le foglie avessero dei segni di bruciatura, potremmo individuare la causa nell’irraggiamento solare diretto. Dovremmo quindi preoccuparci di spostare la pianta in un luogo con un’esposizione ottimale. L’accumulo di gocce di acqua sulla superficie delle foglie, nel caso di soleggiamento diretto, può causare un ulteriore ingrandimento delle macchie scure. LEGGI TUTTO

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    Centinaia di jet privati e rifiuti, la parabola sempre meno green del Burning Man

    Nelle ultime ore del Burning Man costosissimi jet privati, uno dopo l’altro, lasciano la polverosa pista dell’aeroporto temporaneo di Black Rock City. Quegli aerei, insieme a una lunga scia di altre incongruenze, stanno diventando il simbolo di un festival famosissimo ma sempre più in difficoltà, che negli ultimi anni “ha perso la sua anima” come sostengono i partecipanti della prima ora, quelli che nel 1986 si radunarono a Baker Beach in California. Quasi quarant’anni dopo, la grande festa oggi spostata nel deserto del Nevada sta diventando un evento sempre più destinato ai ricchi e con una impronta ambientale, nonostante gli sforzi per tracciare un bilancio di sostenibilità, difficile da difendere.

    Lo scorso anno, quello dell’edizione disastrosa – quando le piogge bloccarono nel fango oltre 72mila persone, tra bagni chimici che non funzionavano e distese di detriti – ha visto anche una serie di proteste ambientaliste sia per il massiccio uso di jet privati, sia per l’eccesso di rifiuti in plastica monouso. Nell’edizione attuale, iniziata il 25 agosto e conclusa in queste ore, il via vai di aerei privati si è però ripetuto, con forte disappunto degli ambientalisti. I giornali locali parlano di centinaia di jet, tra 800 e 3000, partiti e poi nuovamente decollati per raggiungere il luogo della festa, il tutto in una pista d’atterraggio costruita per l’occasione e che sarà poi smantellata. Per ridurre la polvere, sulla pista, viene sprecata e utilizzata una grande quantità di acqua. Su quella pista arrivano voli charter e jet privati di ogni tipo, particolarmente costosi: un volo sola andata per un viaggio di appena 45 minuti da Reno può costare anche 800 dollari, mentre quelli andata e ritorno sono sui 1500. Aerei di quindici posti, da prenotare con compagnie private, sono quotati intorno ai 20mila dollari di noleggio.

    Burning Man, un morto e 70mila bloccati nel deserto: l’uragano trasforma il festival in un incubo di fango

    di Massimo Basile

    03 Settembre 2023

    Il gran numero di velivoli e in generale di mezzi con cui viene raggiunta la sperduta località in cui si tiene il grande Festival della controcultura Usa, come hanno ricordato decine di attivisti impegnati in una protesta lo scorso anno è la causa principale dell’enorme impatto ambientale di questa manifestazione: oltre il 90% dell’impronta di carbonio dell’evento deriva proprio dai viaggi andata e ritorno, mentre un altro 5% è legato ai generatori a diesel e gas per accendere luci e condizionatori. Report del 2020 stimavano come ogni Burning Man generi in media 100mila tonnellate di CO2, in pratica quanto producono 22mila auto a benzina all’anno, un ritmo decisamente poco sostenibile. Tra critiche all’impatto ambientale, complessità logistiche, drammi come quello dello scorso anno e anche alcuni casi di persone decedute, il fascino del costosissimo ed esclusivo Festival quest’anno sembra aver subito una battuta d’arresto significativa.

    Sono stati per esempio venduti meno biglietti (non è andato per la prima volta subito sold out) e la reputazione del Burning Man appare in netto calo. Anche per questo, coloro che partecipano già da anni al Burning Man, stanno chiedendo una svolta, una rivoluzione per recuperare l’identità originaria – e meno impattante – del Festival, quello in cui l’anima ecologica e non consumistica dell’evento era ancora viva, quando lo spirito verde “bruciava” ancora. Su questo Corinne Loperfido, artista e partecipante del Burning, di recente ha scritto sul San Francisco Chronicle, giornale che segue da vicino l’andamento del raduno, un articolo che critica fortemente lo spirito perduto dell’evento, diventato ormai sempre più elitario e meno attento all’ambiente. L’autrice sottolinea ad esempio come il Burning si sia trasformato ormai in un “raduno irriconoscibile” che deve essere reinventato, soprattutto dal punto di vista ambientale. “Ho visto pellicce sintetiche, costumi illuminati a Led, cassonetti delle città limitrofe traboccanti di vestiti fast fashion e plastica” in un Festival che sembra sempre più lontano da quel concetto iniziale di “non lasciare traccia”. “Non sembra molto autosufficiente – scrive Loperfido – se si considerano i combustibili fossili necessari per raggiungere l’evento e alimentare i grandi veicoli ricreazionali, oppure per l’aria condizionata”.

    La stessa autrice, invitando a ripensare alla natura e l’organizzazione del Festival, non si augura che la festa finisca, ma che si possa costruire qualcosa di nuovo e meno impattante. “Viviamo su una Terra in fiamme, letteralmente e figurativamente. Il caos climatico sta provocando inondazioni, incendi e ondate di calore che sembrano solo diventare più gravi con ogni stagione che passa. Organizzare un festival incredibilmente costoso e dannoso per l’ambiente alla luce di questo stato del mondo sembra semplicemente sbagliato. Non sto proponendo che tutto il divertimento venga annullato, ma sto chiedendo alle persone di concentrare le proprie risorse e attenzione a livello locale e di portare l’ispirazione e i principi del Burning Man nelle loro comunità. Gli organizzatori del Burning Man dovrebbero imparare dai fallimenti di quest’anno e ridimensionare l’evento del Nevada. In cambio, dovrebbero raddoppiare i loro sforzi per supportare gli eventi regionali del Burning Man, rendendoli altrettanto speciali e stimolanti, su una scala che infligga molto meno danni ambientali e richieda meno risorse per organizzarli”. LEGGI TUTTO

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    Celosia: come coltivarla, cura e consigli

    I suoi fiori appagano gli occhi, le sue forme sorprendono e i suoi colori avvolgono più sfumature. La Celosia è una pianta molto apprezzata sia per la sua bellezza, sia per la sua coltivazione semplice. Si tratta di una pianta ornamentale erbacea, perenne, facente parte della famiglia delle Amaranthaceae, il cui fascino è dato dal portamento eretto, capace di raggiungere anche i 50 cm. Le sue foglie lanceolate sono di un colore verde intenso, mentre i fiori presentano forme diverse a seconda della varietà, tra cui spiccano la Celosia caracas, con petali simili a piume, la Celosia argentea plumosa, con fiori a spiga e la Celosia argentea cristata la cui infiorescenza è originale e tinta di rosso o di giallo.

    Celosia, il fiore del coraggio: le caratteristiche
    Sono molte le persone appassionate di giardinaggio che la scelgono per abbellire giardino e/o terrazzo. La Celosia, infatti, è considerata a tutti gli effetti una pianta ornamentale e la sua estetica affascina: non sono solamente i fiori con le loro colorazioni bizzarre a colpire la vista, ma lo sono anche le foglie, considerate decorative sia per il colore, sia per la loro fattezza. Questa pianta dalla simbologia positiva è conosciuta anche con i nomi “cresta di gallo”, “amaranto piumoso” e “fiore di velluto”, tutte metafore connesse alla sua struttura sensoriale. Oltre alla vista e al tatto si aggiunge anche l’olfatto: il profumo della Celosia, tendente allo speziato, inebria e riempie ogni spazio.

    Celosia e la coltivazione: cosa sapere
    La Celosia si coltiva generalmente come pianta annuale e l’appartamento è una destinazione molto frequente. La coltivazione in vaso è infatti una delle più gettonate, ma si può fare crescere anche a terra, qualora si abbia a disposizione lo spazio adeguato. Questo “amaranto piumoso” può essere seminato nei mesi tra aprile e maggio all’esterno (quindi vaso o a terra), oppure nei mesi di febbraio e marzo in ambiente protetto (letto caldo o semenzaio). Nella fase di coltivazione è molto importante utilizzare un buon terriccio, che deve essere specifico per piante da fiore.

    Coltivare la Celosia in giardino
    Per coltivare la Celosia in giardino occorrerà preparare il cosiddetto “letto di semina”. Con la zappa e il rastrello si andrà a lavorare la terra per renderla soffice e porosa, poi si passerà al concime organico, molto importante ai fini della crescita della pianta dai fiori sensoriali. Passata una settimana da questa prima fase, si passerà alla semina vera e propria, che di solito avviene nei mesi di aprile e di maggio. Il cespuglio della Celosia sarà di circa 30 cm, quindi bisognerà fare caso anche alle distanze tra ogni seme (30 cm), da distribuire e coprire con un velo di terra pari a 0,5 cm.

    Coltivare la Celosia in vaso
    La coltivazione in vaso è semplice e molto pratica. Una volta acquistati i semi di Celosia e avendo tra le mani un vaso adatto, sarà fondamentale seguire questi due passaggi. In primis, bisognerà stendere sul fondo del vaso uno strato di biglie di argilla espansa per migliorare il drenaggio, subito dopo si riempirà di terriccio e si concimerà il tutto con un fertilizzante liquido per piante da fiore. Questo passaggio può essere svolto ogni 15 giorni durante il periodo della fioritura, quindi nei mesi che vanno da maggio fino a settembre compreso.

    Celosia: annaffiatura
    Annaffiare la Celosia richiede parsimonia e la si deve bagnare solo quando il terriccio inizia ad asciugarsi. Temendo molto i ristagni idrici, infatti, la sua richiesta di acqua è equilibrata. Nel caso in cui si eccedesse nel bagnarla, è consigliabile svuotare il sottovaso onde evitare marciumi e asfissia radicale. Durante la stagione calda, la sua preferita, la Celosia può essere inumidita più spesso, specialmente nelle giornate più calde. Per migliorare l’umidità ambientale, quindi, si consiglia di vaporizzare un po’ di acqua direttamente sulle foglie, facendo molta attenzione a non bagnare i fiori. Il momento ideale per annaffiare in estate? Al mattino presto, così una volta giunta la sera le foglie saranno tornate asciutte.

    L’esposizione della Celosia: dove posizionarla
    Questo fiore dalle mille sfumature di colore ama il sole. L’ideale per lei sarebbe l’esposizione alla luce totale (non diretta se esposta in casa), facendo particolare attenzione alle correnti d’aria. Vive molto bene nelle zone a clima mite e la sua temperatura ideale si aggira tra i 20° e i 24°, motivo per il quale può essere tenuta anche in appartamento senza problemi. Ciò che la Celosia teme è il freddo, quindi da evitare nel periodo invernale.

    Come prendersi cura della Celosia: consigli utili
    La Celosia non richiede troppa cura, ma quella poca che richiede deve essere rispettata se la si vuole sempre in salute e ricca dei suoi fiori splendidi. Per evitare che proprio questi ultimi appassiscano in tempi brevi, è importante evitare di esporre la Celosia vicino alla frutta: la fermentazione del fruttosio in etanolo, infatti, è dannosa per i fiori. Poiché questo fiore vellutato può essere soggetto a problemi causati da vari insetti fogliari e radicali (afidi, cocciniglie e acari), è sempre consigliabile combatterli anche in via preventiva con l’uso di trattamenti naturali ad hoc. L’olio di lino, ad esempio, è ottimo contro gli acari e le cocciniglie, mentre per sconfiggere afidi e cimici si consiglia l’uso del piretro. Sempre valido anche l’olio di neem, ottimo contro le mosche bianche, gli afidi e i lepidotteri, mentre per evitare fumaggini si può provare con il sapone molle. La Celosia può anche subire “attacchi” da malattie fungine (muffe, mal bianco, peronospora, ruggine sono le più frequenti), ma anche in questo caso si possono prevenire grazie a trattamenti specifici a base di polveri bagnabili. Si consiglia l’utilizzo sia dello zolfo agricolo per l’oidio, sia dell’ossicloruro di rame per tutte le altre patologie. LEGGI TUTTO

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    Barriere coralline, come (e perché) stiamo perdendo un patrimonio di biodiversità

    “Straziante, è stato letteralmente straziante. Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto abbiamo osservato con i nostri occhi un’ecatombe di coralli lungo le scogliere delle Maldive. Un patrimonio naturale sottoposto a molteplici stress, che ne minano l’integrità e la sopravvivenza a lungo termine: tra questi, l’innalzamento della temperatura degli oceani è uno dei più gravi. I coralli possono vivere solo all’interno di un ristretto intervallo di temperature, e quando questi valori superano i 30 gradi centigradi i coralli muoiono, attraverso un fenomeno noto come bleaching o sbiancamento”. Paolo Galli insegna Ecologia Marina all’Università di Milano Bicocca, con la quale gestisce – dal 2009 – un Centro di ricerca, il MaRHE Center, nato dalla collaborazione con il governo delle Maldive. “Tra le attività di punta del Centro vi sono proprio gli studi sullo stato di salute dei coralli. – spiega – Le scogliere coralline delle Maldive costituiscono il settimo sistema corallino più grande al mondo, con una superficie totale di 8.920 km². Purtroppo, è un patrimonio sempre più a rischio. Il mese scorso numerosi coralli sono morti a causa di temperature anomale dell’acqua: resta il loro scheletro di colore bianco, da cui il nome di sbiancamento”.

    Al Centro lavorano ricercatori che valutano lo stato di salute dei coralli con tecniche avanzate di ecologia molecolare: l’obiettivo ultimo è quello di allevare coralli in vivai per trapiantarli nelle barriere attraverso la tecnica di coral restoration (restauro delle scogliere coralline). “Una tecnica nella quale siamo leader, in collaborazione con l’Acquario di Genova”, spiega Galli. Eppure, vanno diffondendosi report e notizie su uno stato di salute in ripresa, su scala globale, delle barriere coralline. Sono fake news? “Per citare Cardarelli, stanno ‘sempre daccapo, con levate di Lazzaro e ricadute di convalescente’. – risponde l’ecologo – Ogni volta che le barriere si riprendono, arriva un evento che ne mina l’integrità. Spesso, c’entra il cambiamento climatico. E non si tratta solo di un problema estetico, ma di sopravvivenza: per esempio, l’intera catena alimentare delle Maldive parte dai coralli. Senza di loro, non ci sarebbe cibo per i pesci e, di conseguenza, l’intero ecosistema ne sarebbe compromesso. Inoltre, senza i coralli, verrebbe meno la protezione fornita dalle scogliere, che funzionano come vere e proprie barriere, impedendo alle onde del mare di penetrare nell’entroterra delle isole, spesso grandi solo qualche centinaio di metri”.

    Come fare, allora, a invertire il trend? “Le scogliere coralline devono essere tutelate attraverso studi scientifici mirati, capaci di fornire risposte su come preservarle in un periodo storico in cui i cambiamenti climatici le sottopongono a stress elevato. – spiega Galli – Inoltre, è fondamentale aumentare la consapevolezza dell’opinione pubblica sulla gravità della perdita di questo patrimonio. Senza le scogliere coralline, la sopravvivenza delle popolazioni insulari, che possono contare solo su questa risorsa, sarebbe messa seriamente a rischio”.

    Crisi climatica

    Grande Barriera Corallina: negli ultimi anni temperature mai viste che hanno causato lo sbiancamento

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    26 Agosto 2024

    Gli allarmi delle grandi organizzazioni
    A lanciare l’allarme, nei mesi scorsi, era già stata la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), organismo che lavora alla comprensione e alla previsione dei cambiamenti climatici e meteorologici che, in particolare, si riflettono sulla vita del mare e degli oceani.“Da febbraio 2023 ad aprile 2024, è stato documentato un significativo sbiancamento dei coralli sia nell’emisfero settentrionale che in quello meridionale di ogni bacino oceanico principale”, ha evidenziato Derek Manzello, Ph.D., coordinatore del Coral Reef Watch (CRW) della NOAA. Un Sos che ha toccato le barriere coralline di tutti i tropici, dalla Florida ai Caraibi, dal Pacifico orientale alla Grande barriera corallina australiana, non risparmiando vaste aree del Pacifico meridionale (comprese Figi, Vanuatu, Tuvalu, Kiribati, Samoa e Polinesia francese), il Mar Rosso, il Golfo Persico e il Golfo di Aden. A maggio la denuncia dell’Australian Museum, a giugno sul tema era intervenuto il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, l’UNEP, organizzazione internazionale che opera contro i cambiamenti climatici a favore della tutela dell’ambiente e dell’uso sostenibile delle risorse naturali. Sottolineando come le barriere coralline siano tra gli ecosistemi più vulnerabili del pianeta al cambiamento climatico. “Entro la fine di questo secolo potrebbero virtualmente scomparire”, ha denunciato l’UNEP.

    “E perderli sarebbe una vera tragedia dal punto di vista della biodiversità e dell’economia”, ha sottolineato Leticia Carvalho, responsabile della divisione marina e delle acque dolci del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. “Di più, sarebbe devastante per uno degli ecosistemi più ricchi del nostro pianeta blu e per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo che dipendono dalla pesca costiera”, ha aggiunto.

    Danovaro: “No ai negazionismi, e la colpa è nostra”
    Non c’è negazionismo che tenga. “Tutt’altro, non v’è alcun dubbio sul fatto che per la quarta volta in venticinque anni stiamo assistendo allo sbiancamento di massa dei coralli. Abbiamo già perso il 25% delle barriere coralline a livello globale e non v’è dubbio che la causa principale siano i cambiamenti climatici. – spiega Roberto Danovaro, già presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn, oggi docente di ecologia all’Università Politecnica delle Marche, tra gli esperti più influenti al mondo sullo studio degli oceani – Parliamo di sistemi che coprono appena l’1% della superficie del pianeta, ma che svolgono un ruolo cruciale racchiudendo addirittura il 25% della biodiversità globale, con un valore ancor più rilevante se si considera la loro incidenza sui flussi turistici. Uno studio di prossima pubblicazione, al quale sto lavorando, dimostra come la perdita di coralli in Egitto abbia ricadute economiche quantificabili in 5 miliardi di euro all’anno. Di fronte a evidenze simili, non c’è negazionismo che tenga, né basta citare lo stato di salute buono di alcune barriere coralline per distrarsi da quelle, e sono purtroppo sono la maggioranza, che soffrono. E soffrono per causa nostra: la responsabilità dell’uomo nei cambiamenti climatici è stimata intorno all’87% e su questo concordano 170 mila scienziati degli oceani. Ecco, entro il 2050 avremo perso o profondamente trasformato il 50% delle barriere coralline”.

    In questi giorni Danovaro è al lavoro a Lampedusa per una serie di campionamenti. “Per la prima volta, notiamo uno sbiancamento anche della Posidonia oceanica, avvolto da un muco biancastro a basse profondità. Lo scorso anno era accaduto con la Cladocora caespitosa, uno dei pochi coralli autoctoni nel Mediterraneo. Anche in questo caso, la colpa è dell’uomo: camminamento e costruzione, per effetto diretto, e cambiamenti climatici, per effetto indiretto, stanno profondamente incidendo sulla biodiversità del mare”. Invertire il trend è ancora possibile? Secondo la NOAA i modelli climatici prevedono un aumento in frequenza ed entità degli impatti dello sbiancamento dei coralli, di pari passi con il riscaldamento dell’oceano. Per ridurne gli effetti, spiegano gli scienziati, serve allora un’azione globale: anche per questo i membri internazionali dell’organismo stanno da mesi condividendo e applicando azioni di gestione basate sulla resilienza e sulle lezioni apprese dalle ondate di calore marine del 2023 in Florida e nei Caraibi. Ma bisogna fare presto. LEGGI TUTTO

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    Il ministero apre un’inchiesta su undici università telematiche private: lauree false e abilitazioni sprint

    ROMA – Undici atenei sotto inchiesta del ministero dell’Università e della Ricerca. Sono istituzioni telematiche private e, secondo segnalazioni raccolte dalla scorsa primavera e tutte girate alle procure territoriali, garantirebbero titoli e abilitazioni agli iscritti con procedure veloci e ormai fuori controllo. LEGGI TUTTO