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    Entro il 2100 carenze idriche gravi nelle aree siccitose

    Entro il 2100 il rischio di gravi carenze idriche dovute ai cambiamenti climatici interesserà quasi tre quarti (74%) delle regioni soggette a siccità. Lo rivela una ricerca pubblicata su Nature Communications. Si tratta della prima stima pubblicata di questo tipo. Gli autori riportano che in questo decennio e nel prossimo emergeranno probabilmente focolai di scarsità […] LEGGI TUTTO

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    I ghiacciai italiani pieni di contaminanti e metalli pesanti, che finiscono nei fiumi e in mare

    Per decenni abbiamo congelato i nostri “problemi” ma adesso, per via del surriscaldamento generato dalle nostre stesse attività, stanno per essere “liberati”. I ghiacciai italiani sono infatti pieni di contaminanti: metalli pesanti, DDT, PCB e inquinanti vari sono rimasti congelati negli anni sulle vette ma la crisi del clima che pone gli stessi ghiacciai sempre più in sofferenza oggi amplifica il rilascio di queste sostanze destinate ad arrivare fino ai fiumi e poi ai mari, impattando direttamente sugli ecosistemi da cui dipendiamo.

    Cambiamento climatico

    Alaska, il ghiacciaio si scioglie e emerge una nuova isola

    di Fiammetta Cupellaro

    18 Settembre 2025

    La prima mappa su ampia scala dello stato di contaminazione dei ghiacciai italiani è stata realizzata dall’Università Statale di Milano insieme a One Ocean Foundation che in un articolo pubblicato sulla rivista Archives of Environmental Contamination and Toxicology mettono proprio in evidenza lo stato di inquinanti e la connessione fra sistemi montani e marini.

    Finora, hanno ben documentato gli scienziati in tutto il mondo, i ghiacciai globali hanno mostrato caratteristiche di sofferenza comune: stanno arretrando, diventano più scuri e meno riflettenti e accelerano, con la fusione la perdita delle riserve idriche di ogni Paese aumentando così parallelamente l’innalzamento del livello dei mari. Un nuovo rischio però, ricorda la ricerca italiana, è alle porte: lo scioglimento può infatti comportare il rilascio di tutta una serie di sostanze inquinanti – soprattutto di natura antropica – che sono rimaste congelate per lunghissimo tempo. LEGGI TUTTO

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    Bonus per le auto elettriche: tutto quello che c’è da sapere

    Conto alla rovescia per il bonus per l’acquisto di auto elettriche. Dal 23 settembre lo portello online è operativo per i venditori, e non appena sarà chiusa questa prima fase fase alla piattaforma dovranno registrarsi gli acquirenti. Chi ha i requisiti potrà ottenere un voucher da utilizzare al momento dell’acquisto per ottenere lo sconto sul […] LEGGI TUTTO

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    Al via la Climate Week di New York, senza l’inviato italiano per il clima

    L’Italia e l’Europa si presentano zoppicanti alla Climate Week di New York, uno degli eventi più importanti nel panorama della diplomazia climatica. Organizzato tradizionalmente in concomitanza con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quest’anno di svolge dal 22 al 28 di questo mese, ospitando tra i relatori personaggi del calibro si Simon Stiell, responsabile Onu per il clima e Teresa Ribera, vicepresidente della Commissione europea con delega alla Transizione giusta e pulita. E mercoledì 24 settembre il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ospiterà un Summit sul Clima, nell’ambito della settimana dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

    “Entro la Cop30, tutte le Parti dell’Accordo di Parigi dovranno presentare nuovi Contributi Determinati a Livello Nazionale (Ndc) che riflettano azioni coraggiose per il prossimo decennio”, ricorda Guterres. “Questi piani aggiornati rappresentano un’opportunità per sfruttare i benefici di un futuro giusto, resiliente e a basse emissioni di carbonio”.

    L’appuntamento di martedì vuole essere un piattaforma in cui i leader potranno presentare i loro nuovi Ndc. C’è molta attesa per il previsto intervento del presidente cinese Xi Jinping, mentre non ci si fa illusioni sull’Amministrativo Trump che, in patria e all’estero, sta smontando le politiche climatiche Usa. Iscritti a parlare 80 capi di Stato e di governo, ma non ci sarà la premier Giorgia Meloni.

    E, appunto, l’Italia? E l’Europa? Il nostro Paese arriva a New York con le idee confuse sugli obiettivi e acque agitatissime all’interno del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica. Della delegazione partita da Roma nelle scorse ore non fa parte l’Inviato speciale per il clima Francesco Corvaro, nonostante nella Grande Mela diversi appuntamenti prevedano la partecipazione degli Special Envoy delle nazioni partecipanti. La decisione di lasciare a casa Corvaro è riconducibile ad Alessandro Guerri, Direttore generale Affari Europei, Internazionali e Finanza Sostenibile del Mase, che non ha autorizzato la missione a New York. Il conflitto è spiegabile certamente con una “incompatibilità caratteriale” tra i due, come dice chi le conosce. Ma anche con la genesi e la gestione, tutte all’italiana, della figura dell’Inviato speciale per il clima. Il suo battesimo risale al governo Draghi. Dopo un lungo braccio di ferro tra l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il collega di governo Roberto Cingolani (Transizione ecologica) si scelse un compromesso: una figura di secondo piano, scelta dalla Farnesina (gli Inviati speciali sono una sua prerogativa) ma incardinata nel ministero di via Colombo e quindi sotto il controllo di Cingolani. Niente a che vedere quindi con figure di grande spessore e potere decisionale come John Kerry per l’Amministrazione Biden o Jennifer Morgan nel governo tedesco guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz. Morgan, per esempio, dopo essere stata per anni leader globale di Greenpeace, aveva a Berlino lo status di sottosegretario di governo.

    Da noi invece, per il primo Inviato speciale clima la scelta (gennaio 2022) cade sul diplomatico Alessandro Modiano, oggi ambasciatore in Messico. Ma l’esecutivo di Giorgia Meloni non può tenere al suo posto una figura, per quanto tecnica, di nomina Cinque Stelle. E così, per riempire una casella che ormai esiste ma che non interessa davvero e che comunque un governo di destra non può cancellare senza scatenare polemiche e accuse di negazionismo climatico, si individua un sostituto (agosto 2023): Francesco Corvaro, professore di Fisica tecnica e “vicino” al governatore Fdi delle Marche Acquaroli. Proprio la sua provenienza accademica fa però di Corvaro un corpo estraneo nei corridoi del ministero. E nessuno, né al Mase né alla Farnesina, si è preoccupato di riempire di contenuti un ufficio che pure esiste in tutti i governi occidentali: “Non gli è mai stato detto cosa doveva fare o non fare, con il rischio di sovrapporsi ad altri se non proprio di pestare i piedi”, dice un suo collega.

    La decisione di Guerri di lasciare a Roma l’Inviato speciale italiano per il clima mentre a New York è in corso la kermesse più importante del mondo, se si escludono le conferenze Onu sul clima, sembra essere la rottamazione definitiva non tanto e non solo di Corvaro ma alla figura stessa dell’Inviato: chi non c’è non serve. Il problema è che il nostro Paese arriva all’appuntamento americano non solo senza il suo Inviato speciale, ma anche senza alcuna idea precisa sui tagli alle emissioni di gas serra che si impegnerà a fare in prossimi anni (i famosi Ndc di cui parla Guterres). Perché è l’intera Unione a non avere le idee chiare è bucare l’occasione newyorkese per assumere, magari insieme alla Cina, il ruolo di leader climatico dopo il vuoto lasciato dagli Stati Uniti.

    La scorsa settimana i ministri dell’Ambiente europei non hanno trovato un accordo sugli Ndc e hanno rimesso la decisione ai capi di Stato e di governo che si riuniranno il 22 e 23 ottobre per il Consiglio europeo, troppo tardi per l’evento Onu di dopodomani e a pochi giorni dall’inizio di Cop30 a Belém, in Brasile. È stata però partorita una “dichiarazione di intenti” da leggere nel Palazzo di Vetro mercoledì prossimo. Probabilmente, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel suo intervento la impugnerà per dire che se è vero che la Ue sta ancora discutendo, lo sta facendo all’interno di una forbice di valori tra cui decidere, valori che comunque dimostrano come l’Europa non voglia tornare indietro rispetto all’Accordo di Parigi. Tra liti interne al Mase e difficoltà a livello europeo c’è da chiedersi quale potrà essere il contributo della delegazione italiana alla Cop30. Per ora c’è solo una certezza: i nostri negoziatori non hanno accora un alloggio prenotato nella città brasiliana che ospiterà l’evento, mentre il ministero degli Esteri li rassicura: stiamo trattando con Costa Crociere per riservarvi delle cabine su una delle loro navi che sarà ormeggiata nel porto di Belém. LEGGI TUTTO

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    La raffineria texana che produce biocarburante dai bovini, contribuendo alla deforestazione

    Se per ridurre l’impatto di emissioni inquinanti nei trasporti su strada, auto e camion, si sta puntando sull’elettrificazione, nell’aviazione il discorso è più complesso. E le batterie non ne fanno parte. Allo stato attuale sia Stati Uniti che Europa stanno puntando sul SAF, acronimo di Sustainable Aviation Fuel, un carburante prodotto da fonti sostenibili, come olii vegetali, grassi animali, rifiuti agricoli, ma anche alghe o anidride carbonica catturata. Il SAF può ridurre le emissioni di gas serra fino all’80% rispetto ad un aereo alimentato con carburante tradizionale, nel corso del suo ciclo di vita. Una riduzione che include le emissioni derivanti dalla produzione, dal trasporto e dalla combustione del carburante. Purtroppo, ancora oggi le percentuali di SAF impiegato per l’aviazione sono molto basse.

    Il caso

    Amazzonia in crisi: tra deforestazione e una COP30 piena di guai

    di Giacomo Talignani

    05 Settembre 2025

    A livello mondiale, gli Stati Uniti sono il maggior produttore mondiale. Nel 2023, si stima che la produzione americana di SAF abbia toccato quota 190 milioni di litri, ma siamo a meno dell’1% del carburante per aereo totale consumato dal paese. Mentre il mercato globale del carburante per jet, seppur piccolo, vale circa 2,9 miliardi di dollari nel 2025 secondo la società di analisi SkyQuest Technology Group, rispetto al mercato globale di 239 miliardi di dollari per il carburante per aviazione convenzionale.

    All’interno di questa filiera produttiva, che nonostante i numeri esigui, riguarda miliardi di dollari di fatturato, s’inserisce una vicenda dai contorni torbidi, che lega un’azienda produttrice del Texas alla Foresta Amazzonica. Stavolta gli alberi non fanno parte di questa storia, ma il bestiame di bovini. Dicevamo, infatti, che una delle fonti per produrre il SAF è il grasso animale. L’agenzia di stampa Reuters, attraverso un’accurata inchiesta ha scoperto che una raffineria texana che vende il carburante verde alle compagnie aeree statunitensi avrebbe acquistato il grasso proveniente dal bestiame allevato su terreni illegalmente disboscati in Amazzonia.

    Il nome dell’azienda è Diamond Green Diesel, che ha investito centinaia di milioni di dollari in una raffineria a Port Arthur, nello stato del Texas, che trasforma il sego – questo il nome del grasso bovino – nel carburante “pulito” per gli aerei. L’affare scotta ancor di più perché questa azienda, nel 2022 ha raccolto la considerevole cifra di 3 miliardi di dollari in crediti d’imposta per la produzione di biocarburanti. L’inchiesta ha svelato che dietro al sego ci sono due fabbriche brasiliane che hanno fornito migliaia di tonnellate di grasso, a loro volta comprato da macelli che avrebbero acquistato animali da allevamenti illegalmente disboscati nella foresta pluviale amazzonica. Insomma un circolo vizioso non da poco.

    Anche perché i vettori aerei, che a loro volta comprano SAF, ottengono dei crediti per la riduzione delle loro emissioni, perché l’impianto di Diamond Green Diesel è certificato sulla base di un accordo che coinvolge le Nazioni Unite. Come dire che tutti gli attori in gioco ci guadagnano, ma in modo sporco. O comunque poco trasparente, a danno, ancora una volta del povero polmone verde del mondo, in cui l’industria bovina brasiliana è coinvolta in modo importante.

    Intanto, in Brasile le autorità giudiziarie hanno acceso i riflettori sulla faccenda. ”Le aziende che traggono profitto da materie prime provenienti da una catena di approvvigionamento che implica la deforestazione, sono anche responsabili di queste illegalità”, ha detto a Reuters, Ricardo Negrini, procuratore federale brasiliano che ha aperto una serie di indagini sull’industria bovina; per contro le aziende coinvolte non avrebbero rilasciato commenti alle domande dettagliate sulla catena di approvvigionamento del sego brasiliano.

    Se le compagnie aeree, per raggiungere gli obiettivi di riduzione ed azzeramento di emissioni di CO? entro il 2050, sono sotto pressione dei rispettivi enti competenti per ciascun paese (come avviene per l’industria dell’auto), è altresì vero che il SAF o comunque il carburante sostenibile per l’aviazione per ottenere il certificato d’idoneità ai crediti, non deve provenire da biomassa di terreni deforestati dopo il 2008 o da aree protette secondo gli accordi internazionali.

    A spingere le compagnie aeree verso net zero è CORSIA, acronimo di Carbon Offsetting and Reduction Scheme for International Aviation, meccanismo basato sul mercato, sviluppato e gestito dall’International Civil Aviation Organization, l’agenzia delle Nazioni Unite che sovrintende alle convenzioni sull’aviazione civile internazionale. Se in questa fase l’adesione delle compagnie è ancora su base volontaria, dal 2027 sarà d’obbligo per poter riscattare i crediti compensativi legati alle emissioni di CO2.

    E l’uso di SAF è un pilastro fondamentale di CORSIA. Infatti, secondo alcuni esponenti che hanno partecipato alla stesura di CORSIA, sentiti da Reuters, la produzione di sego per SAF non provocherebbe un aumento diretto della produzione di bestiame, quindi della deforestazione in Amazzonia, perché si parte dal presupposto che il bestiame sarebbe comunque allevato per la carne, e il sego è semplicemente un risultato inevitabile e secondario di quel processo. LEGGI TUTTO

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    Equinozio d’autunno 2025: cos’è, quando cade e alcune curiosità

    L’estate 2025 sta ufficialmente per concludersi. Nonostante il rialzo delle temperature degli ultimi giorni, la stagione delle vacanze al mare, dei tramonti e delle giornate senza fine, non tarderà a salutarci. Infatti, l’equinozio d’autunno, ossia il momento simbolico che segna il passaggio alla nuova stagione, è vicinissimo. Nel 2025 cadrà lunedì 22 settembre e da quel preciso momento ci sarà un cambio temporale-stagionale importante: nell’emisfero boreale si entrerà ufficialmente nella stagione autunnale, mentre in quello australe inizierà la primavera.
    Ma che cos’è esattamente l’equinozio? Perché non cade sempre lo stesso giorno? E quali significati, scientifici e spirituali, porta con sé questo appuntamento che da millenni affascina culture di ogni parte del mondo?

    Che cos’è l’equinozio d’autunno e che cosa avviene
    La parola “equinozio” deriva dal latino aequus nox, ossia “notte uguale”. Si tratta del momento in cui il Sole si trova esattamente sopra l’equatore celeste e i raggi solari colpiscono la Terra in modo perpendicolare. In teoria, questo comporterebbe una perfetta parità tra ore di luce e ore di buio in tutto il pianeta. In realtà, le cose sono un po’ più complesse: a causa della rifrazione atmosferica, che fa apparire il Sole all’orizzonte qualche minuto prima che emerga davvero, e del calcolo ufficiale dell’alba (legato al primo raggio visibile), la giornata dell’equinozio regala sempre qualche minuto in più di luce.
    Il vero giorno in cui il bilancio è perfettamente equilibrato si chiama “equilux” e cade pochi giorni dopo.

    Quando cade l’equinozio d’autunno 2025
    L’equinozio non è un’intera giornata, ma un istante preciso. Nel 2025 la data da segnare in calendario è lunedì 22 settembre. L’orario? Le 18:19 UTC, che corrispondono alle 20:19 ore italiane. Sarà in quell’esatto momento che diremo addio all’estate, accogliendo a braccia aperte la stagione del foliage, dell’odore di cannella e dell’accorciarsi delle giornate. C’è chi ama tutto questo e chi, invece, vorrebbe rimanere in estate per sempre. LEGGI TUTTO

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    Tutto sull’uva spina: come coltivarla

    Appartenente alla famiglia delle Sassifragaceae, l’uva spina è una pianta che produce le bacche esattamente come i ribes, ma molto più grandi e con un sapore del tutto differente. Il suo nome tecnico è, non a caso, Ribes Grossulariacee e può raggiungere un’altezza di circa due metri. Le sue foglie sono colorate di un verde intenso e i suoi margini sono dentati, mentre i rami hanno le spine; quindi, si riconosce proprio a livello visivo con estrema facilità.
    Inoltre, l’uva spina può essere coltivata tranquillamente in vaso e regalare frutti gustosi. Il periodo ideale della sua fioritura? La stagione primaverile, mentre per i frutti bisognerà aspettare il mese di giugno e oltre.

    Uva spina: coltivazione, terreno, esposizione
    L’uva spina si può coltivare sia in giardino, sia in orto, sia in vaso; l’importante è seguirla nei primi anni dopo la messa a dimora, questo perché così crescerà sana e rigogliosa. Superato il primo periodo, basterà prestare attenzione alla potatura e alla raccolta dei suoi gustosissimi frutti.

    Il terreno ideale per coltivare l’uva spina è di medio impasto, ricco di sostanza organica e abbastanza profondo. Anche chi vive in zone a prevalenza argillosa e calcarea può provare a coltivarla, visto che la pianta si adatta abbastanza bene a queste condizioni. Il pH ottimale si aggira intorno a 6,5, con un livello di umidità molto alto e un’irrigazione abbondante, soprattutto durante la fioritura e la maturazione del frutto, fasi in cui la pianta va mantenuta costantemente idratata. L’uva spina predilige un’esposizione semi-soleggiata in un luogo riparato dalle intemperie. La pianta è resistente anche al freddo invernale, sopportando temperature fino a -15 gradi durante il periodo di dormienza, ma un eventuale gelo intenso potrebbe causarle danni significativi.

    Potatura dell’uva spina: come effettuarla e quando
    Nei primi quattro anni di vita, l’uva spina richiede una potatura di allevamento per rafforzare la pianta e costruire la sua struttura. Nella prima primavera si spuntano i rami a 30 cm da terra, mentre l’anno successivo si eliminano tutti tranne 4-5 rami robusti che formeranno il cespuglio principale. Nella terza e quarta primavera si mantengono solo questi rami, fino a quando la pianta è pronta a fruttificare.

    Dopo i quattro anni iniziali, l’uva spina entra nella fase produttiva e necessita di una potatura mirata: in primavera si eliminano i brindilli in eccesso, cioè i rami corti con molte gemme, e si accorciano le branche più vecchie di 5 anni. Ogni anno si sostituiscono i rami vecchi con quelli giovani per mantenere la pianta sempre produttiva.

    Quando raccogliere i frutti di uva spina
    La raccolta avviene in estate, quando i frutti sono maturi, simili a piccoli acini d’uva e si staccano facilmente. È importante indossare guanti resistenti per proteggersi dalle spine e maneggiare con cura i frutti, riponendoli delicatamente nei cesti per evitare di danneggiarli.

    Uva spina: varietà
    L’uva spina si distingue principalmente in due grandi famiglie: la bianca e la rossa. Tra le varietà bianche, spiccano la Careless, originaria dell’Inghilterra, con bacche grandi e verdi, e la White Smith, simile ma con frutti più gialli. C’è poi la Leveller e la Pax, quest’ultima apprezzata per la resistenza all’oidio, l’assenza di spine e la qualità del frutto. Sul versante rosso, invece, troviamo la Poorman, una specie americana con frutti grandi spesso usati nell’industria per prodotti sciroppati. Dall’Inghilterra arriva la Winham Industry, caratterizzata da bacche oblunghe e di grandi dimensioni dal colore violaceo, mentre la Josta, coltivata in Olanda, presenta frutti simili per colore. L’uva spina rossa, però, è più sensibile all’oidio e richiede trattamenti specifici per proteggerla da questa malattia.

    Le malattie dell’uva spina: cosa sapere
    Tra le principali minacce per l’uva spina c’è l’oidio, una malattia fungina causata dal genere Uncinula, noto anche come “mal bianco”. Questo fungo si manifesta con una caratteristica muffa grigio-biancastra che ricopre foglie, fusti e fiori, provocando macchie pulverulente. Le foglie colpite si ingialliscono, si accartocciano e poi si seccano, mentre i rami possono deformarsi compromettendo la salute generale della pianta.

    L’oidio si sviluppa grazie a micelio che cresce sulla superficie delle parti verdi, penetrando nelle cellule con strutture speciali chiamate austori. Il fungo si conserva da una stagione all’altra tramite spore che resistono al gelo o come micelio negli organi infetti. A differenza di molte altre malattie, l’oidio non richiede condizioni di umidità particolari per prosperare e può attivarsi già a basse temperature, sopportando anche il caldo intenso. Questo lo rende un nemico difficile da debellare, in grado di colpire una vasta gamma di piante, dall’erbacee agli alberi. Dunque, per chi coltiva uva spina, la prevenzione e il controllo tempestivo con prodotti specifici sono fondamentali per limitare i danni e mantenere la pianta sana e produttiva. LEGGI TUTTO

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    Le sorelle Mashouf: “Così trasformiamo l’anidride carbonica in tessuti”

    Un abito acquistato online per pochi euro, un paio di sneakers super scontate recapitate a casa in un paio di giorni, una cintura che costa come un caffè. Dietro la fast fashion, alimentata soprattutto da colossi come Shein e Temu, si nasconde un costo ben più alto di quello indicato sullo scontrino. A pagare il prezzo è soprattutto il Pianeta: l’industria tessile risulta, infatti, tra le più inquinanti del mondo, responsabile, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (United Nations Environment Programme, Unep), di circa l’8% delle emissioni di anidride carbonica, più di tutti i voli internazionali e le spedizioni navali messi insieme. A trasformare questa minaccia in una risorsa sono due giovani scienziate statunitensi, Neeka e Leila Mashouf, titolari di Rubi Laboratories, startup biotecnologica attiva proprio nell’industria dei materiali per la moda sostenibile.

    La passione per la scienza
    Una storia, questa, che va raccontata dal principio. Le gemelle, cresciute nella Baia di San Francisco, in California, in una famiglia di imprenditori, si sono cimentate fin da ragazzine in ricerche sulla fotosintesi artificiale e sulle terapie contro il cancro. Un inizio precoce e straordinario, che ha avviato un percorso di ricerca scientifica e innovazione. Su questa scia, anni dopo Neeka si è laureata in ingegneria dei materiali ed economia aziendale all’Università di Berkeley, mentre Leila ha studiato medicina e neuroscienze alla Hopkins University e poi a Harvard.

    Un’avventura imprenditoriale iniziata nel 2020
    Già durante il loro percorso universitario, le sorelle restarono colpite dall’enorme impatto ambientale del settore tessile. Di fronte a ciò, Neeka pensò di mettere a frutto le proprie competenze cercando di ideare strategie in grado di arginare, almeno in parte, il problema. Così, dopo varie esperienze lavorative, nel 2020 ha fondato Rubi, diventandone amministratore delegato l’anno successivo. Leila si è unita poco dopo in qualità di chief technology officer. Entrambe hanno progettato una nuova tecnologia finalizzata alla creazione di fibre eco-friendly. Un metodo che ha attirato l’attenzione degli investitori, che nel 2022 ne hanno sostenuto lo sviluppo con circa 3,3 milioni di sterline.

    Come funziona il procedimento
    Il processo messo a punto dalle imprenditrici parte dall’anidride carbonica, che funge da materia prima. In un reattore chimico di base, grazie all’azione di enzimi — catalizzatori biologici paragonabili a piccoli Pac-Man che inglobano le molecole e le rilasciano in una nuova forma — si avviano reazioni a catena che generano fogli di polpa di cellulosa. Questa sostanza, un polimero filamentoso, viene poi trattata fino a ottenere un materiale simile al cotone o ad altre fibre naturali, a seconda delle fasi di lavorazione successive. “Il nostro procedimento si ispira al meccanismo con cui gli alberi fissano l’anidride carbonica per produrre energia e tessuti vegetali”, spiega Neeka. “Abbiamo dimostrato che questo gas può essere una risorsa preziosa anziché un prodotto di scarto nocivo”.

    Un metodo sostenibile
    A differenza delle tecnologie convenzionali di conversione del carbonio, basate su processi termochimici o fermentativi, che richiedono energia, cospicui finanziamenti, attrezzature specializzate, il nuovo metodo è scalabile e a basso impatto. Secondo le sorelle, il loro procedimento richiederebbe dieci volte meno fabbisogno energetico rispetto a quelli tradizionali, preservando acqua, territori, foreste. “Stiamo creando un paradigma in cui la manifattura tessile può prosperare, rispettando, però, le risorse naturali e promuovendo gli obiettivi climatici”, aggiunge Leila.

    L’azienda sta già sperimentando i suoi materiali con Walmart, Patagonia e H&M. “I nostri sistemi possono essere integrati nelle catene di approvvigionamento tessili esistenti, aiutando i marchi a ridurre la propria impronta di carbonio senza dover riconfigurare l’infrastruttura”, evidenzia Neeka.

    Oltre il settore tessile
    Proprio in ragione di questi risultati, le due scienziate si sono collocate tra i primi dieci innovatori del Premio Giovani Inventori, assegnato dall’Ufficio europeo dei brevetti nel giugno 2025 agli under 30 che hanno utilizzato la tecnologia per contribuire agli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.
    L’idea pionieristica delle sorelle può, tra l’altro, essere utile anche in ambiti che esulano dal settore tessile, tra cui imballaggi, farmaci, cosmetici, materiali da costruzione, applicazioni alimentari. Concedendo in licenza il processo, Neeka e Leila mirano ad accelerarne l’adozione e a generare un impatto positivo su larga scala. LEGGI TUTTO