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    Sindrome delle turbine eoliche, uno studio smentisce i sintomi: disturbi del sonno e mentali

    Nel 2009, la ricercatrice Nina Pierpont nel descrivere una serie di sintomi legati all’esposizione al rumore emesso dagli impianti eolici, coniò il termine, sindrome delle turbine eoliche. Disturbi del sonno, mal di testa, nausea, ansia e irritabilità, problemi di concentrazione, erano i sintomi più comuni riferiti dalle persone che abitavano nelle vicinanze di un impianto. Negli anni, con la crescita di questa importante fonte di energia rinnovabile, diversi studi scientifici si sono occupati dell’argomento, senza peraltro validare la tesi di Pieramont.
    Sebbene i parchi eolici siano in linea con i principi dello sviluppo sostenibile, spesso suscitano controversie e disinformazione. Infatti, nonostante l’assenza di evidenze, sono state espresse preoccupazioni sugli effetti di questo rumore sul livello di irritazione, sul benessere psicologico e sulle capacità cognitive; in America in particolare, diversi gruppi hanno continuato a portare avanti l’idea della sindrome come causa di malattie mentali, o altri problemi di salute gravi, come il cancro.
    Ma uno degli ultimi studi, condotto da un team di neuroscienziati cognitivi e ingegneri acustici dell’Università Adam Mickiewicz, in Polonia, evidenzia ancora una volta l’assenza di prove sul fatto che il rumore delle turbine eoliche causi disagi a livello mentale.

    D’altronde, i livelli di decibel sono piuttosto contenuti. Per fare un esempio: un aspirapolvere genera solitamente un rumore compreso tra 60 e 80 dB, a seconda del modello e della potenza, mentre il rumore di una turbina eolica varia tra 35 e 50 dB a una distanza di 300 metri, paragonabile a un ambiente tranquillo in cui si conversa a bassa voce. Ovviamente, ad alterare il livello di percezione ci sono diversi fattori: la distanza, il vento, il rumore ambientale presente nella zona.
    Tornando allo studio, pubblicato sulla rivista Humanities and Social Sciences Communication, il gruppo ha condotto una serie di esperimenti, esponendo 45 volontari, studenti di un’università locale, a vari rumori mentre indossavano dispositivi che misuravano le loro onde cerebrali. La scelta sui giovani è stata motivata dal fatto che ricerche precedenti hanno dimostrato che sono più sensibili al rumore rispetto alle persone più anziane.
    “Per lo studio, abbiamo utilizzato registrazioni reali di una turbina eolica per esaminare i loro effetti sulla dinamica delle onde cerebrali, cruciali per compiti cognitivi complessi, nonché sull’attenzione sostenuta e sul ragionamento induttivo in volontari adulti sani. Inoltre, abbiamo valutato soggettivamente lo stress indotto dal rumore delle turbine eoliche e il livello di fastidio percepito”, si legge nella pubblicazione scientifica.
    Per non esporre le persone a pregiudizi sulla natura dello studio, a nessuno è stato detto lo scopo dell’esperimento; ognuno è stato esposto al normale rumore del traffico, al silenzio e al rumore delle turbine eoliche. Fatto curioso è che nessuno dei 45 volontari è riuscito a identificare la fonte del rumore delle turbine, che lo hanno definito come rumore bianco, ovvero un tipo di suono caratterizzato dalla presenza di tutte le frequenze udibili con la stessa intensità. Per capire la tipologia di suono, un esempio tipico è il suono emesso dalla tv senza segnale dell’antenna o al fruscio di una radio non sintonizzata. È un tipo di rumore, infatti, che viene usato per mascherare altri suono fastidiosi, come il rumore del traffico o il sottofondo di persone che parlano in un’altra stanza.

    Quindi la percezione è di un suono che non crea disagio, tanto che nessuno dei 45 lo ha definito più fastidioso o stressante del rumore del traffico. Inoltre i ricercatori dell’università polacca non sono stati inoltre in grado di rilevare nessuna differenza misurabile nelle onde cerebrali, mentre i volontari ascoltavano i due tipi di suoni.
    “I risultati di questo studio pilota mostrano che l’esposizione a breve termine al rumore delle turbine eoliche, con un livello di pressione sonora realistico (65 dB), non ha effetti negativi sulle funzioni cognitive analizzate e non è percepita come più stressante o fastidiosa rispetto al rumore del traffico stradale”. Invece, studi precedenti hanno dimostrato che una fonte prevalente di rumore in grado di influenzare le capacità cognitive è il rumore generato dai condizionatori d’aria, che possono suscitare risposte fisiologiche, influenzando successivamente la cognizione.
    Inoltre, l’analisi di diverse scale psicologiche ha evidenziato che fattori come la tendenza alla ruminazione o una ridotta capacità di riflessione e tolleranza all’ambiguità non determinano una percezione negativa del rumore delle turbine, né influiscono indirettamente sul funzionamento mentale” scrivono i ricercatori, traendo conclusioni dalle loro misurazioni e test. Si può sottolineare dunque, che pericoli per la salute mentale non ce ne sono, probabilmente neanche legati ad un’esposizione a lungo termine. Alcuni sintomi, infatti, potrebbero essere spiegati dall’effetto nocebo, ovvero la convinzione che le turbine facciano male, porta le persone a sviluppare sintomi reali.
    In Italia esiste una normativa specifica sul rumore, fissata dal DPCM 14/11/1997 che stabilisce i limiti per le emissioni sonore: nelle aree residenziali, può essere al massimo di 45 dB di notte e 50 dB di giorno, mentre nelle aree rurali e industriali i limiti sono più alti. C’è da dire che specie nelle grandi città o comunque nelle zone più vicine alla strada, il rumore può essere anche più elevato, nonostante i limiti normativi. LEGGI TUTTO

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    Carne coltivata si riapre lo scontro, Coldiretti in piazza ma c’è chi difende l’Efsa

    Gli scienziati la chiamano “carne colturale”, molti la considerano una scelta “sostenibile”, per gli ambientalisti è una soluzione etica (non si uccide nessun animale). Eppure la carne coltivata, creata da cellule animali fatte proliferare all’interno di bioreattori (lo stesso procedimento con cui si prende un germoglio e lo si fa crescere in una serra) in Italia continua a provocare polemiche e proteste. L’ultima sarà una manifestazione nazionale indetta per il 19 marzo a Parma dalla Coldiretti davanti alla sede dell’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) con lo slogan #facciamoluce. Nonostante il governo italiano abbia varato una legge in vigore nel dicembre scorso con cui ne vieta sia la produzione che l’immissione sul mercato e che gli unici Paesi al mondo ad averne autorizzato il consumo sono fuori dell’Unione europea: Singapore e Israele. In Europa esistono solo startup che si occupano di carne coltivata e solo alcuni Paesi come la Germania, la Spagna e i Paesi Bassi hanno destinato fondi pubblici alla ricerca. Allora cosa ha scatenato la reazione della Coldiretti?

    Il dossier sul “novel food”
    La questione, un po’ complicata, è questa. L’associazione degli agricoltori, invocando il principio di “precauzione” nei confronti dell’Unione europea, ha deciso di riaprire il dossier “novel food” (che include anche la carne creata su base cellulare) lanciando un appello perché il cibo artificiale venga considerato al pari di una sostanza farmaceutica, invece che un alimento. La sola possibilità che anche la carne coltivata possa essere inserita dall’Efsa tra i nuovi cibi ha spinto la Coldiretti prima sostenitrice della sua messa a bando, insieme al ministro dell’Agricoltura della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida, a scendere in piazza a Parma. La città non è stata scelta a caso: oltre ad essere il cuore della Food Valley italiana è la sede dell’autorità europea per la sicurezza alimentare, l’unica agenzia europea presente in Italia.

    Agricoltura

    La Danimarca verso una carbon tax sugli allevamenti: “Primo paese al mondo”

    di redazione Green&Blue

    18 Novembre 2024

    Lanciando richiami alla difesa dell’identità nazionale e della sicurezza alimentare nell’ambito delle politiche comunitarie, evocando “rischi non esclusi” per la salute, e di effetti “non ancora escludibili” la manifestazione attraverserà il centro della città con le bandiere gialle dell’associazione. In testa, assicurano gli agricoltori, ci saranno il presidente nazionale Ettore Prandini e il segretario generale Vincenzo Gesmundo. Obiettivo: manifestare a favore dell’Europa e sollecitare l’Efsa ad una maggiore attenzione al rapporto cibo-salute quando si parla di cibi nuovi. Ma i toni si sono talmente alzati che i dirigenti dell’Efsa hanno deciso di chiudere la sede “per ragioni di sicurezza” e di far rimanere a casa i circa 800 dipendenti.

    Tra scienza e politica
    Al centro della contesa tra scienza e politica, la carne coltivata secondo la Coldiretti, deve essere considerata come un farmaco e quindi passare attraverso lo stesso iter di un medicinale destinato a curare patologie gravi. Per questo motivo chiedono all’ente europeo di rivedere i criteri di valutazione. Si fa anche riferimento ad un documento apparso sul sito del ministero della Salute in cui alcuni ricercatori dell’università di Tor Vergata chiedono proprio all’Efsa che vengano introdotti test clinici e pre clinici obbligatori per i novel food.

    Innovazione

    Per il cioccolato del futuro senza cacao, la startup pugliese Foreverland raccoglie 3,4 milioni

    di Gabriella Rocco

    01 Ottobre 2024

    Di battaglia “più culturale che economica” parla Beatrice Mautino, divulgatrice scientifica che difende l’ente scientifico europeo e la sua indipendenza. “In Europa siamo riusciti ad avere standard di sicurezza elevati proprio grazie all’Efsa che essendo un ente scientifico non deve subire pressioni di nessun genere. Non solo. Questo documento non è firmato, ma rimanda ad un tavolo tecnico interministeriale di cui non abbiamo trovato traccia. In pratica, la Coldiretti chiede ai ricercatori di cambiare le regole di valutazione della sicurezza alimentare sui cibi a base cellulare. Due i punti critici. Il primo è il fatto che il ministero non chieda il parere alla comunità scientifica, ma ad un singolo team di scienziati, come invece avviene in altri Paesi. Secondo che la Coldiretti vada a protestare contro un ente scientifico indipendente. Gli chiede di diventare dipendente da un sindacato e non di lavorare nell’interesse dei cittadini. Questa è una forzatura: voler scardinare l’indipendenza dell’Efsa”.

    Il Regno Unito approva la carne coltivata come cibo per cani e gatti: sarà in vendita entro l’anno

    22 Luglio 2024

    I motivi dei sostenitori della carne coltivata
    La carne coltivata potrebbe ridurre fino al 99% l’uso del suolo, fino al 96% l’uso di acqua e fino al 96% le emissioni di gas serra derivanti dalla produzione di carne. Un altro motivo è il calo del consumo di carne legato alla crescente attenzione al benessere degli animali che sta convincendo i produttori a valutare metodi di produzione alternativi per restare nel mercato. Infine, con la carne coltivata si limiterebbero le patologie associate al consumo di carne rossa, i casi di zoonosi e la contaminazione della carne da parte di agenti patogeni, associati all’intensità dell’allevamento del bestiame. Infine. Secondo i sostenitori la carne coltivata rappresenta una delle possibili risposte all’impatto ambientale degli allevamenti. LEGGI TUTTO

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    Servono 75 anni per veder tornare api e farfalle in una prateria distrutta

    Si fa presto a dire “ripristinare”. Portare indietro le lancette dell’orologio, quando si tratta di ecosistemi usati a nostro piacimento, non è così semplice. I tempi per tornare indietro potrebbero essere più lunghi di quanto creduto e potrebbe essere necessaria qualche azione di supporto mirata per recuperare la biodiversità di un tempo. E’ il messaggio […] LEGGI TUTTO

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    Italia indietro su mobilità sostenibile, troppe auto e smog

    In Italia la mobilità sostenibile viaggia a rilento. A pesare in primis il taglio delle risorse destinate al settore e il primato del più alto tasso di motorizzazione dell’Ue: 694 autovetture per 1.000 abitanti (571 la media Ue), con città dove l’emergenza smog è cronica. Siamo indietro rispetto alle capitali europee anche in fatto di […] LEGGI TUTTO

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    Una causa da 300 milioni di dollari mette a rischio Greenpeace Usa: “Siamo sotto attacco”

    “Hanno lottato per salvare le balene. Riusciranno a salvare sé stessi?”. Se lo è chiesto l’altro giorno il New York Times, alla vigilia di una udienza decisiva in un processo che vede sul banco degli imputati Greenpeace. La causa riguarda il ruolo dell’associazione ambientalista nelle manifestazioni organizzate ormai un decennio fa contro un oleodotto vicino alla riserva Sioux di Standing Rock, nel Dakota del Nord. La Energy Transfer, proprietaria dell’infrastruttura, accusa Greenpeace di aver appoggiato attacchi illegali al progetto e aver condotto una “vasta e maligna campagna pubblicitaria” che è costata denaro all’azienda. La compagnia vuole 300 milioni di dollari di danni. Una richieste che se accolta dalla giuria metterebbe in pericolo l’esistenza stessa di Greenpeace, o almeno della sua, fondamentale, sezione statunitense: “Una tale perdita in tribunale ci potrebbe costringerla a chiudere i nostri uffici americani”, hanno ammesso gli attivisti.

    L’associazione si è mobilitata in tutto il mondo, a difesa di Greenpeace Usa: da questa mattina sul sito della sezione italiana è aperta una petizione che partendo dal processo in corso, allarga la lotta al revisionismo climatico di questi ultimi mesi: “Greenpeace è sotto attacco. Abbiamo bisogno del tuo aiuto!”, si legge nella pagina web dedicata a alla raccolta delle firme.

    Sostenibilità

    Lavori green, l’avvocato che difende l’ambiente: “Tante battaglie per il bene di tutti”

    di Giacomo Talignani

    09 Marzo 2025

    “La gigantesca compagnia petrolifera Energy Transfer ha intentato una causa contro Greenpeace negli Stati Uniti e contro Greenpeace International per 300 milioni di dollari. In un contesto in cui politici negazionisti della crisi climatica, come Trump o Milei, governano interi Paesi, la battaglia per il futuro del pianeta e dei suoi abitanti è in serio pericolo”.

    Eppure Greenpeace non è nuova a battaglie durissime, sul campo, nei mari, sui ghiacci… ma anche nelle aule di tribunale. Perché il processo intentato dall’Energy Transfer rischia di fare la differenza? L’entità dell’indennizzo richiesto: 300 milioni di dollari sono quasi dieci volte il budget di Greenpeace Usa (nel 2020 era di 40 milioni). Anche una condanna in primo grado, comporterebbe comunque un anticipo tale da far saltare il banco dell’associazione statunitense. Ma il pericolo è più ampio. E non riguarda solo Greenpeace. Il processo dell’oleodotto contrastato dai Sioux è solo la punta dell’iceberg di una generale tendenza a “punire un ambientalista per zittirne 100”.

    Focus

    Ranger, meteorologi, studiosi del clima: chi ha perso il lavoro negli Usa negazionisti di Trump

    di Giacomo Talignani

    28 Febbraio 2025

    Lo nota oggi anche la voce della City londinese, il Financial Times: “Greenpeace contro Big Oil: il caso che mette alla prova la libertà di parola nell’era Trump”. Per restare negli Stati Uniti, pochi giorni fa un’altra notizia dello stesso tenore: il climatologo Michael Mann, che nei mesi scorsi aveva vinto una causa per diffamazione da un milione di dollari, contro chi lo aveva accusato di truccare i dati sul riscaldamento globale, ora dovrà restituire oltre la metà: 530 mila dollari, perché secondo un giudice i suoi avvocati avrebbero utilizzato prove false nel corso del procedimento. In base a una recente legge anti-proteste, in Australia decine di attivisti sono stati arrestati al porto del carbone di Newcastle alla fine del 2024 dopo aver utilizzato kayak e gommoni per protestare contro la struttura: è iniziato il processo e loro si dichiareranno in massa “non colpevoli”, come raccontava ieri il Guardian.

    A inaugurare il filone del giro di vite giudiziario contro gli attivisti climatici era stata la Gran Bretagna, dove erano andate in scena anche le manifestazioni più partecipate e, al tempo stesso controverse: il leader e fondatore di Extinction Rebellion Roger Hallam, sta scontando 5 anni di carcere per aver organizzato un blocco stradale nei pressi di Londra. In inglese il fenomeno si è meritato perfino un acronimo, SLAPP: Strategic lawsuit against public participation, causa strategica contro la partecipazione pubblica).

    Appunto, si fa causa a una associazione o a singoli cittadini, per intimidire gli altri e scoraggiarli dal protestare. D’altra parte gli uffici legali di colossi come la Energy Transfer sono attrezzatissimi e con budget che permettono loro di affrontare anni di specie processuali. Sul fronte opposto organizzazioni che si sostengono grazie alle donazioni dei simpatizzanti. Nell’Unione europea il problema è noto, tanto che esiste una normativa che tutela i cittadini e le associazioni vittime di Slapp. Ed è per questo che Greenpeace International, il cui quartier generale è in Olanda, vuole che per la vicenda dell’oleodotto del Nord Dakota a decidere sia un tribunale del Vecchio Continente.

    Nello specifico della contesa, l’associazione afferma di aver svolto solo un ruolo minore e pacifico nella protesta guidata dagli indigeni e che, appunto, il vero scopo della causa è quello di limitare la libertà di parola non solo all’interno dell’organizzazione, ma anche in tutta l’America. Sushma Raman, direttrice esecutiva ad interim di Greenpeace Usa, ha definito il processo nel Dakota del Nord “un test critico per il futuro del Primo Emendamento”. Energy Transfer, in una nota dei suoi legali, afferma che la vicenda non ha niente a che fare con la: “Si tratta del fatto che non hanno rispettato la legge”.

    Tuttavia il processo aveva già ottenuto un risultato, ancora prima di cominciare. Come ricorda il New York Times, all’inizio del 2023, Greenpeace Usa aveva festeggiato la nomina di Ebony Twilley Martin come direttore esecutivo, “la prima donna di colore direttore di un’organizzazione non-profit ambientale statunitense”. Ma Twilley Martin ha lasciato quel ruolo solo 16 mesi dopo, uno sviluppo che, scrive il quotidiano newyorkese, “due persone a conoscenza della questione hanno detto essere stato in parte dovuto a disaccordi sull’opportunità di accettare un accordo con Energy Transfer”. Nelle prossime ore si scoprirà se Greenpeace oltre alle balene sarà riuscita a salvare se stessa. Oppure se le Slapp avranno inferto un nuovo duro colpo alla libertà di espressione. LEGGI TUTTO

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    Giornata mondiale del riciclo, le sfide italiane e quelle europee

    Oggi è il Global recycling day. Istituita per la prima volta nel 2018 dalla Global recycling foundation, l’organizzazione non-profit che mira a promuovere l’importanza del riciclo a supportare lo sviluppo sostenibile, il 18 marzo è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite come la Giornata mondiale del riciclo. Evento annuale che incoraggia sia la consapevolezza dell’impatto dei rifiuti sull’ambiente, che ad agire per proteggere il Pianeta. D’altronde trasformare i rifiuti in materie prime è proprio uno degli obiettivi fondamentali dell’economia circolare. Non solo. Questa attenzione alla qualità del riciclo è riconosciuta dalla legislazione UE che introduce il principio “chi inquina paga” e la “responsabilità estesa del produttore”. Tra gli obiettivi che pone la direttiva, entro il 2025, si attende che la preparazione per il riutilizzo e il riciclo dei rifiuti urbani dovranno essere aumentati ad un minimo del 55%, 60% e 65% in peso rispettivamente entro il 2025, 2030 e 2035.

    Tutorial

    Raccolta differenziata: gli errori che (quasi) tutti facciamo

    di Paola Arosio

    08 Marzo 2025

    Il riciclo degli imballaggi: la situazione in Italia
    Tantissime le iniziative in Italia dove secondo il Conai, la percentuale di riciclo degli imballaggi nel 2025 dovrebbe assestarsi sul 75,2%, con volumi di riciclo in costante crescita: da 10 milioni e 470.000 tonnellate nel 2023 (ultimo dato consolidato) si arriverà a 10 milioni e 810.000 tonnellate a fine 2025. Sono queste le prime stime che Conai fa a proposito del 2025 in occasione della Giornata mondiale del riciclo.

    Tutorial

    Dagli imballaggi al trasporto, come organizzare un trasloco green

    di Paola Arosio

    03 Marzo 2025

    Per il 2025 si prevede anche un aumento degli imballaggi a fine vita che saranno affidati dai Comuni al sistema rappresentato da Conai e dai Consorzi: un totale di quasi 5 milioni e mezzo di tonnellate, in crescita rispetto ai 4 milioni e 660.000 del 2023 (ultimo dato consolidato).
    Nel dettaglio, l’anno in corso dovrebbe vedere riciclato oltre l’85% degli imballaggi in carta e cartone, oltre l’80% degli imballaggi in acciaio, il 70% degli imballaggi in alluminio, quasi il 64% degli imballaggi in legno, più del 51% degli imballaggi in plastica e bioplastica compostabile (circa il 51% di plastica tradizionale e il 58,5% di bioplastica) e oltre l’81% degli imballaggi in vetro.
    Secondo i dati, tutte le sette filiere dei materiali avranno così superato i rispettivi obiettivi di riciclo minimo chiesti dall’Europa al 2025. In questa Italia che sembra stia andando nella direzione giusta ci sono comunque alcune sfide da affrontare: dagli obiettivi legati alla Single-Use Plastics alla messa in atto del Regolamento Imballaggi.

    Economia circolare

    Il documento d’identità sarà biodegradabile: il prototipo

    di Gabriella Rocco

    14 Marzo 2025

    Ue: attesa per la nuova legge sull’economia circolare
    Il 2025 è un anno importante per l’Unione europea dal punto di vista della circular economy. Se nel Secondo il Circularity Gap Report 2024, il tasso di circolarità globale è sceso al minimo storico del 7,2% e una delle principali cause sembra sia una normativa non in linea con i tempi, Jessika Roswall, nuova Commissaria europea per l’Ambiente, la resilienza idrica e l’economia circolare competitiva, ha detto chiaramente che uno delle priorità sarà lo sviluppo di una nuova legge sull’economia. Obiettivo di questa legge sarà promuovere il riciclaggio, ridurre i rifiuti e migliorare l’efficienza delle risorse. Grande attenzione della Commissione europea sarà posta sulla creazione di una domanda di mercato per i materiali secondari e l’istituzione di un mercato unico per i rifiuti, in particolare per le materie prime critiche come il rame e il litio. La nuova legge dovrà anche armonizzare e razionalizzare le politiche di economia circolare negli Stati membri, consentendo alle innovazioni circolari di superare i confini dei loro Paesi di origine. Per le aziende sarà importanti l’uso di materiali secondari nella produzione per la valutazione di modelli di business circolari. LEGGI TUTTO

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    Batterie preziose come miniere, un progetto italiano per recuperare il 90% del litio

    È ora di considerare le batterie come delle piccole miniere portatili. E dalle miniere, si sa, si ricavano minerali e materie prime molto preziose. Sempre di più. Le comuni batterie agli ioni di litio, quelle che un tempo si definivano ricaricabili, ormai sono il nostro pane quotidiano, e probabilmente per molti di noi sono l’ultimo gesto della giornata: ricaricare la batteria del nostro smartphone. Dentro a queste batterie, troviamo il litio, che è l’elemento chiave per il trasporto degli ioni durante la carica/scarica della batteria, il cobalto che migliora stabilità e durata, nickel che aumenta la densità energetica, e ancora il manganese, la grafite, il rame e l’alluminio. Una lista lunga, ed ogni batteria giunta a fine vita che buttiamo via, e che non viene riciclata e riutilizzata perde e disperde nell’ambiente sostanze preziose.

    Mobilità sostenibile

    Batterie al sale: l’idea di BatterIT per trovare un’alternativa al litio

    di Gabriella Rocco

    08 Gennaio 2025

    Da qui si capisce, quanto sia altrettanto prezioso il progetto di ricerca denominato Caramel, dell’Università di Brescia, che promette di poter recuperare il 90% del litio di ogni batteria, senza usare acidi inorganici e riducendo i consumi energetici del 50%, attraverso lo sviluppo di un innovativo forno a livello industriale. O meglio di un forno a microonde. D’altronde la sfida è di grandi proporzioni, come sottolinea la stessa Commissione Europea che con il Critical Raw Act ha stabilito l’obiettivo di raggiungere nei prossimi anni una serie di percentuali di recupero e una capacità di riciclo di almeno il 25% del fabbisogno continentale europeo.

    Nel caso del litio dai rifiuti di batterie, la Commissione chiede ai paesi membri di arrivare al 50% entro il 2027, per salire fino all’80% entro il 2031. E ci sono anche altri target importanti che interessano, ad esempio le batterie portatili (i power bank), le batterie dei mezzi di trasporto leggeri, così come il recupero del cobalto, del rame, del piombo e del nichel pari al 90% entro la fine del 2027 e del 95% entro la fine del 2031.

    Ma torniamo a Caramel – acronimo di New Carbothermic Approaches to Recovery Critical Metals from Spent Lithium-Ion Batteries – finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca con il bando FISA con un importo di oltre un milione di euro, sotto la guida di Elza Bontempi, docente ordinario di Fondamenti Chimici delle Tecnologie, che con questo progetto universitario intende contribuire in modo significativo alla creazione di una filiera industriale italiana per il riciclo delle batterie agli ioni di litio. Secondo lo studio iniziato nel 2022, il cui metodo è già oggetto di brevetto, il processo di estrazione avviene attraverso la “cottura” all’interno di un forno a microonde che elimina completamente l’uso di acidi inorganici commerciali, limitando le sostanze inquinanti.

    Innovazione

    La batteria green che nasce dagli alberi. L’idea di un giovane colombiano

    di Paolo Travisi

    22 Ottobre 2024

    Il procedimento scoperto sfrutta la radiazione a microonde del forno per riscaldare il materiale, grazie alla presenza di grafite presente nella batteria che assorbe l’energia e genera calore per effetto della polarizzazione dei suoi atomi di carbonio. I vantaggi rispetto ad altri metodi, risiedono principalmente nella velocità del trattamento, che dura appena pochi minuti, che si verifica ad una potenza di radiazione inferiore ai 1000 W, riducendo il consumo energetico di oltre 100 volte rispetto ai trattamenti termici convenzionali e senza additivi chimici aggiuntivi.

    Questo processo, così efficiente che potrebbe addirittura competere con l’estrazione dei metalli dai minerali naturali, contribuirebbe a ridurre la dipendenza dalle miniere e a promuovere il riciclo delle batterie esauste. Entro i prossimi tre anni, l’obiettivo è arrivare ad un impianto prototipale su scala industriale che certifichi la maturità tecnologica e consenta di raggiungere il livello 6 della scala TRL, che valuta il livello raggiunto in ambito industriale, per dare avvio ad un iter di scala. Ed i risultati fino ad ora sembrano essere molto avanzati e “dimostrano che è possibile coniugare innovazione tecnologica e sostenibilità ambientale, e allo stesso tempo contribuire alla creazione di un mercato nazionale per il riciclo delle batterie, attualmente carente in Italia”, spiega Elza Bontempi, responsabile di Caramel. Tra l’altro il progetto dell’Università di Brescia ha ottenuto l’Intellectual Property Award, che ha consentito all’ateneo lombardo di partecipare all’Esposizione Universale di Osaka 2025, in Giappone, all’interno di una giornata dedicata alla valorizzazione dell’eccellenza della ricerca italiana.

    Inoltre, una volta implementato su scala industriale permetterebbe all’Italia, estremamente povera di queste risorse, di essere meno dipendente dalle forniture dall’estero; come stiamo vedendo in queste settimane, le miniere in Ucraina sono proprio il motivo del contendere con gli Stati Uniti per avviare il percorso di pace, perché cedere materie prime così preziose e rare, significa cedere una parte importante di ricchezza di un paese e di potere economico-politico. Non averne, accentua la vulnerabilità del continente europeo. LEGGI TUTTO

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    Rinnovabili, la rotonda che produce energia verde

    Rotonde, rotatorie, rondò, ormai sono ovunque. Le strade dei centri abitati hanno subìto negli ultimi anni profondi cambiamenti nella viabilità, dovuti proprio alla massiccia introduzione di questa soluzione urbanistica, alternativa ai semafori e agli incroci. Un successo dovuto al fatto che, secondo diversi studi, le rotatorie riducono gli incidenti e la loro gravità, soprattutto per le automobili, costrette a rallentare. A detenere il primato al mondo come numero di rotatorie sono Francia (42.986), Regno Unito (25.976) e Italia (18.172). Allora perchè non utilizzare quegli spazi per installare impianti e produrre energia alternativa? LEGGI TUTTO