consigliato per te

  • in

    A differenza di Trump i Paesi dei petrodollari hanno capito che l’oil&gas avrà vita breve

    Chissà cosa pensava ieri la premier italiana Giorgia Meloni ascoltando l’elogio del petrolio di Donald Trump, nel discorso di insediamento come 47esimo presidente degli Stati Uniti. Meno di una settimana prima la presidente del Consiglio si era ritrovata in un consesso completamente opposto: il World Future Energy Summit di Abu Dhabi. Pur andando in scena in un Paese che basa la sua ricchezza sull’oro nero, gli Emirati Arabi Uniti, quel vertice internazionale ha sancito che non sarà il petrolio l’energia del futuro, nemmeno di quello prossimo. E’ in quella occasione che Meloni ha annunciato l’accordo con Emirati e Albania per importare energia pulita dal Paese delle aquile, prodotta con soldi e tecnologie emiratine.

    Un progetto che prevedete la realizzazioni di impianti eolici e fotovoltaici (l’Albania è già ricca di idroelettrico) e di un elettrodotto che colleghi le due sponde dell’Adriatico. Secondo il premier di Tirana Edi Rama l’intesa con Roma e Abu Dhabi vale un miliardo di euro. “L’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili guarda con grande apprezzamento a questa intesa”, dice Francesco La Camera, direttore di Irena, “anche perché conferma i nostri studi che individuano l’Italia come ponte verso l’Africa e il Medioriente per quanto riguarda le infrastrutture di energie rinnovabili”. Viene però da chiedersi quale sia la reale strategia energetica del nostro governo, che ha lungamente rivendicato per l’Italia il ruolo di “hub europeo del gas” (poi declinato in un più generico “hub energetico”), che si accoda, ma forse solo per omaggiare il potentissimo alleato, alla retorica trumpiana del “drill, baby drill”, che con Eni continua comunque ad esplorare il mondo in cerca di nuovi giacimenti fossili e stringe accordi con grandi esportatori di gas come Algeria e Azerbaigian. E poi fa alleanze con Paesi che, in modo certamente più lungimirante degli Usa di Trump, hanno capito come l’era dell’oil&gas abbia vita breve e occorra attrezzarsi per il futuro.

    L’intervento

    Il discorso di Giorgia Meloni a Baku: “Non c’è un’unica alternativa ai combustibili fossili”

    di  Giacomo Talignani

    13 Novembre 2024

    Pochi giorni prima del summit di Abu Dhabi, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin era volato a Riad, dove ha incontrato il potentissimo ministro dell’energia saudita Abdulaziz Bin Salman Al Saud. “I principali focus del Memorandum d’Intesa”, si legge nella nota ufficiale, “riguardano le energie rinnovabili, la riduzione delle emissioni di metano, le interconnessioni elettriche, l’idrogeno rinnovabile e a basse emissioni, i suoi derivati di natura rinnovabile e low-carbon come l’ammoniaca, i sistemi di cattura, stoccaggio e utilizzo della CO2”. Anche i sauditi, come gli emiratini, sono impegnati a investire le montagne di petrodollari, guadagnati estraendo ed esportando greggio, in innovazione ed energie green. Il loro progetto di punta è Neom, città sostenibile alimentata da energia pulita che sta sorgendo nel deserto. A novembre la nostra Sace, agenzia di assicurazione del credito controllata dal ministero dell’Economia, ha fornito a Riad garanzie su prestiti da 3 miliardi di dollari per lo sviluppo del progetto che ha un costo stimato di 1500 miliardi di dollari. Poi la sortita di Meloni e Pichetto Fratin ad Abu Dhabi. Se la strategia energetica italiana appare poco chiara e ispirata a una generica “diversificazione” (gas naturale finché serve e comprato dal miglior offerente, rinnovabili sì ma senza fretta, ritorno al nucleare entro il prossimo decennio e poi chissà in futuro idrogeno e fusione nucleare…), le recenti intese rendono invece trasparenti i piani dei petrostati mediorientali.

    L’Italia

    Cop29, Pichetto Fratin: “Rinnovabili e nucleare per l’indipendenza energetica”

    di  Luca Fraioli

    09 Novembre 2024

    Chi li guida sa che loro e forse i loro figli faranno ancora tanti soldi con il petrolio, ma certamente non succederà ai nipoti. E così stanno riorientando i loro business, cercando di conquistare i futuri mercati di “elettroni e molecole”, come dicono gli analisti del settore. Da qui, una serie di accordi per trovarsi in posizione di vantaggio competitivo quando ci sarà da costruire elettrodotti (per portare in Europa l’elettricità prodotta in Nordafrica e Medioriente con sole e vento) e gasdotti specifici per l’idrogeno (è ancora oggetto si controversia se quelli attuali progettati per il gas naturale siano adattabili alla molecola H2). Si spiega così l’intesa di Abu Dhabi con Italia e Albania. Che va inscritta in un quadro più ampio. Nel settembre del 2023 la Grecia ha firmato un accordo con l’Arabia Saudita per un elettrodotto (il Saudi Greek Interconnection) che porti fino in Germania l’elettricità saudita, passando per Atene. Un altro progetto analogo (il Great Sea Interconnector) vede coinvolte, oltre alla Grecia, Cipro e Israele. E dall’altra parte del Mediterraneo, almeno sulla carta, si pianificano opere analogo: l’Algeria punta a stendere un cavo sottomarino che porti elettricità green in Italia passando per la Sardegna. Infine il Morocco-UK Power Project, il cui obiettivo è fornire a milioni di case britanniche energia rinnovabile generata in Nord Africa e trasportata tramite 4.000 km di cavi sottomarini. Ci vorrà tempo perché gli elettrodotti sostituiscano gasdotti e oleodotti, navi gasiere e petroliere. Ma i petrostati, come la lontana Cina d’altra parte, non hanno cicli elettorali di 4 o 5 anni: possono pianificare le loro politiche energetiche da qui ai prossimi decenni, senza temere il giudizio delle urne.

    Se però i colossi mediorientali hanno risorse economiche e stabilità politica, non altrettanto si può dire di Paesi come l’Algeria. “In questo caso il nostro ruolo può essere proprio di stabilizzazione”, spiega Silvia Francescon, che si occupa di politica estera per Ecco, il think tank italiano per il clima. “Se il mercato del petrolio e del gas dovessero crollare nei prossimi anni, come lasciano intendere le previsioni, quei Paesi la cui economia poggia tutta sull’esportazione di combustibili fossili, rischieranno il collasso. Aiutarli a riconvertirsi in tempo alle rinnovabili è un modo per sostenere la loro stabilità futura”. Anche se questo può voler dire, per Paesi come l’Italia, rinunciare alla propria autonomia energetica. Per decenni abbiamo importato dall’estero petrolio e gas (senza contare l’elettricità prodotta in Francia con il nucleare), il che ci ha reso spesso dipendenti da sceicchi e dittatori. Ci era stato detto che con le rinnovabili, con il sole e il vento di cui disponiamo, avremmo potuto produrre in casa l’energia che ci occorre. E invece ora la prospettiva è di importare anche elettroni e idrogeno verde dall’Albania, dall’Algeria, in futuro dagli Emirati.

    Resta poi l’incognita Trump: vuole davvero riportare indietro le lancette della storia, rivitalizzando un’industria, quella del petrolio, che altri grandi player stanno, lentissimamente, dismettendo? Ci riuscirà? E la fedeltà all’alleato americano interferirà con gli accordi green appena sottoscritti dal’Italia di Giorgia Meloni? LEGGI TUTTO

  • in

    Perché in Italia l’elettricità costa più che negli altri Paesi europei

    Sui principali quotidiani nazionali è comparsa una pagina pubblicitaria, che in realtà era un grido di dolore: “Perché l’Italia paga l’energia il doppio degli altri Paesi Ue?”. A porsi, retoricamente, la domanda è il gruppo Arvedi, attivo nei settori metallurgico, siderurgico, informatico. Tutti ambiti energivori, per i quali il costo della bolletta rischia di essere un fattore penalizzante nei confronti di competitor di altri Paesi. Non a caso l’appello pubblicato oggi si chiude con un esplicito riferimento a una crisi che potrebbe avere risvolti sull’occupazione: “Abbiamo il dovere e la responsabilità di difendere il posto di lavoro dei nostri lavoratori”. Oggi il prezzo unico nazionale dell’energia elettrica in Italia è di 0,193 euro al chilowattora. Nell’ultima settimana in Spagna è oscillato tra 0,085 e 0,133 euro. Ieri in Gran Bretagna era di 0,098 euro, in Germania di 0,113, in Francia di 0,069. Per quanto le oscillazioni giornaliere influiscano in modo imprevedibile, è comunque la conferma che in Italia la bolletta elettrica è più salata che altrove.

    Se ne conoscono le ragioni: importiamo più della metà dell’elettricità che consumiamo o dei combustibili necessari a generarla. E poi c’è la formazione del prezzo, quello che secondo la campagna di Arvedi rappresenta il nodo cruciale: “Il prezzo dell’energia elettrica viene calcolato e addebitato con riferimento ai costi della centrale a gas meno performante”. In Italia, come in altri Paesi europei, la formazione del prezzo dell’elettricità avviene attraverso un meccanismo noto come mercato marginale. Semplificando, una volta definito il fabbisogno giornaliero nazionale di elettricità, ogni fornitore (da rinnovabili come da fossili) propone il suo quantitativo e il suo prezzo. In genere i prezzi più bassi sono quelli dell’elettricità prodotta con fotovoltaico ed eolico, i più alti quelli dell’elettricità generata importando e bruciando gas naturale. Il meccanismo del mercato marginale prevede però che a determinare il pezzo sia la quota più costosa dell’elettricità necessaria a completare il fabbisogno giornaliero, quella da gas appunto. Perché al momento l’Italia non può fare a meno del gas per raggiungere i circa 55 gigawatt di potenza elettrica consumata nelle ore di punta da imprese e famiglie.

    Focus

    Rinnovabili da record in Gb e Germania, ma in Italia il gas naturale copre il 65% dell’elettricità

    di  Luca Fraioli

    03 Gennaio 2025

    Un sistema non semplice da smontare, anche se ci si sta lavorando. Una delle ipotesi è vendere le fonti rinnovabili attraverso contratti a lungo termine con prezzi fissi, mentre l’elettricità prodotta da gas o carbone potrebbe continuare a essere regolata dal mercato marginalista. L’Arera, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, è molto cauta nell’affrontare questa riforma e vorrebbe un intervento coordinato a livello europeo. Il timore è che disaccoppiando i prezzi di gas e rinnovabili si finiscano per penalizzare entrambi i comparti. I produttori di rinnovabili che ora incassano (e auspicabilmente reinvestono) extraprofitti considerevoli, visto che la loro energia è pagata quanto il costoso gas. I gestori di centrali a gas perché a quel punto risulterebbero i più cari, da soli, sul mercato. In condizioni normali l’asta giornaliera premierebbe sempre fotovoltaico e solare, ma cosa accadrebbe in periodi di assenza di sole e di vento? Le centrali a gas sarebbero in grado di subentrare? E a che prezzo?

    “In realtà non c’è nemmeno bisogno di riforme normative”, spiega Giovanni Battista Zorzoli, esperto di questioni energetiche e membro del comitato tecnico scientifico di Italia Solare. “In Spagna, Portogallo e Germania, il disaccoppiamento tra prezzo delle rinnovabili e prezzo del gas è già una realtà. Come ci sono riusciti? Spingendo eolico e fotovoltaico fino a coprire più del 60% del fabbisogno elettrico nazionale, mentre in Italia siamo ancora al di sotto del 50%”. Con una elettricità rinnovabile a dominare il mercato cresce, nell’arco della giornata, il numero di ore in cui si può fare a meno del gas e questo influisce sulla formazione del prezzo. “E infatti in Spagna e Portogallo c’è stato una riduzione del 40% del prezzo del chilowattora, in Germania del 20%, ma perché i tedeschi usano ancora molto carbone, che è più economico del gas, e quindi il margine di guadagno è stato minore”. LEGGI TUTTO

  • in

    Crisi climatica, cosa succede dopo le scelte di Trump sull’ambiente

    L’America prima, il mondo dopo. La Cina prima, ma con uno sguardo al mondo, grazie soprattutto alle sue compagnie private e alle esportazioni. Per comprendere l’impatto che potrebbe avere la presidenza Donald Trump sul futuro del clima globale bisogna partire dall’attualità. Tre fatti recenti la riassumono bene: il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre, la California ha vissuto il peggior incendio della storia, alimentato dalle condizioni connesse al riscaldamento globale, e le emissioni di CO2 hanno toccato un nuovo record, arrivando addirittura a il 26% in più rispetto a quelle che erano le attese degli scienziati, una traiettoria definita “incompatibile” con quelle che ci permetterebbero di mantenere le temperature entro i famosi +1,5 gradi. Il che significa, lo sappiamo, che le temperature globali continueranno a crescere, con impatti sempre più devastanti sulla salute del Pianeta. L’unica strada individuata finora per fermare questo processo e garantirci un futuro differente, passa per la collaborazione globale e soprattutto per l’impegno dei due più grandi emettitori di gas serra climalteranti al mondo, la Cina e gli Stati Uniti.

    L’accordo

    A differenza di Trump i Paesi dei petrodollari hanno capito che l’oil&gas avrà vita breve

    di  Luca Fraioli

    21 Gennaio 2025

    Il luogo deputato a questa collaborazione, in cui quasi 200 Paesi teoricamente dovrebbero avere lo stesso peso, sono le Conferenze delle Parti sul clima, le COP. É qui per esempio che si possono trovare strategie condivise sulle rinnovabili, oppure sulla decarbonizzazione, o ancora sui fondi necessari per aiutare i vari Paesi del mondo a reggere gli impatti del riscaldamento. Finora, nella delicata partita delle COP, a guidare gli sforzi per la battaglia climatica tra i Paesi sviluppati sono stati soprattutto l’Europa e in parte gli Usa. Per questioni tecniche legate al 1992, la Cina, nonostante la sua economia, è considerata fuori dalla lista dei Paesi sviluppati. Nel 2015, a Parigi, entrambi i Paesi hanno preso parte al famoso “Accordo di Parigi”, quello che ha l’obiettivo – con strategie condivise – di mantenere il Pianeta entro i +1,5 gradi. Le strategie passano per impegni e piani nazionali che ovviamente dovrebbero toccare o modificare tutti i principali settori legati alle emissioni: in primis quello dei combustibili fossili e l’energia, ma anche dell’industria, i trasporti, l’agricoltura. Da quegli Accordi, nella sua visione negazionista sulla crisi climatica, Donald Trump ha già tentato di smarcarsi nel 2017, ma l’amministrazione di Joe Biden – nonostante non sia esente da critiche per esempio sull’aumento delle trivellazioni e la produzione di petrolio – nel tempo ha riportato gli Usa al centro delle dinamiche delle COP. A novembre 2024 però c’è stato un doppio cambiamento. Da una parte la rielezione di Trump, che ha subito parlato di voler uscire dagli Accordi e di puntare, come annunciato anche durante l’insediamento del 20 gennaio, sull'”oro liquido” del Paese, il petrolio, e sugli altri combustibili fossili. Dall’altra, mentre venivano diffusi i dati del costante aumento delle energie rinnovabili in Cina, i rappresentanti del dragone alle COP hanno iniziato a mettere i paletti per intestarsi qualcosa di nuovo. Per la prima volta, alla COP29 di Baku, la Cina nonostante sia considerata per tecnicismo ancora un “paese in via di sviluppo” ha cominciato infatti col ricordare come dal 2016 abbia investito più di 24 miliardi di dollari per l’azione per il clima (aiutando altri Paesi) e ha iniziato ad assumere un ruolo più centrale nelle negoziazioni sul clima. La Cina non solo si è dimostrata “collaborativa”, come riassumono molti analisti, ma ha anche mostrato un atteggiamento diverso dal passato, quello in cui nei grandi meeting si calibrava solo a seconda di come si muovevano gli Stati Uniti. La potenziale rivendicazione di una nuova leadership cinese, nel grande sforzo globale necessario per il clima, per alcuni esperti potrebbe essere direttamente legata a una questione economica, non per forza negativa, anzi.

    Focus

    Trump e l’eredità green di Biden: cosa cambierà negli Usa per le politiche ambientali

    di  Luca Fraioli

    09 Gennaio 2025

    La Cina, a differenza degli Stati Uniti che ora con Trump puntano a “trivellare e trivellare” e a spremere i combustibili fossili del Paese anche per garantire la gigantesca quantità di energia necessaria ai Big Tech e ai database di Elon Musk, sta vivendo oggi una costante crescita delle energia rinnovabili grazie ai settori privati e alle sue aziende. Otto pannelli solari su dieci nel mondo sono realizzati in Cina, così come due terzi della produzione di turbine eoliche, proprio quelle turbine che per esempio coinvolgono l’eolico offshore, altro sistema che Trump dal giorno del suo insediamento ha subito tentato di fermare e disinstallare bloccando le concessioni. Sempre in Cina si producono tre quarti delle batterie al litio del mondo e quasi il 60% del mercato globale dei veicoli elettrici. L’esportazioni di pannelli da parte di Pechino continuano ad aumentare e, anche secondo il presidente cinese Xi Jinping, il fotovoltaico, i mezzi elettrici e le batterie sono il nuovo “trio” al centro dell’economia cinese. Inoltre il Paese sta andando a ritmi altissimi anche sulla produzione nucleare, in cui presto potrebbe primeggiare. Certo, la Cina resta prima per emissioni (ma non pro capite) e per molti aspetti va ancora soprattutto a carbone, petrolio e gas, ma è innegabile come la costante crescita delle rinnovabili non solo stia trainando la sfida della neutralità climatica, ma stia anche spaventando altri Paesi sul fronte esportazioni, oggi impegnati ad ostacolare la Cina con dazi.

    Proprio mentre Trump giurava fedeltà all’America dalla Cina sono arrivati nuovi dati sulle installazioni di energia rinnovabile: hanno toccato un nuovo record. La capacità di produzione di energia solare è aumentata del 45,2%, quella eolica del 18%. Questo sta portando la Cina a raggiungere i suoi obiettivi climatici più velocemente, tanto che nel 2023 ha centrato l’obiettivo di installare 1,2 TW di capacità eolica e solare entro il 2030 con ben sei anni di anticipo. Tutto ciò, nella grande partita del clima, indica come il possibile interesse della Cina di intestarsi la leadership nei negoziati, magari insieme all’Europa, possa avere anche interesse economico: incoraggiare altri Paesi a ridurre le loro emissioni utilizzando tecnologie e attrezzature a basso costo cinesi. La scelta di Trump di uscire dall’Accordo di Parigi potrebbe avallare in qualche modo la leadership cinese ed europea: in sostanza, il mondo potrebbe tirare dritto sulla strada delle zero emissioni, ma ovviamente mancherebbe una componente fortemente impattante come gli Usa. Per uscire dall’Accordo, tecnicamente, ci vuole un anno: dunque a novembre a Belem, quando si terrà la COP30 in Brasile, definita come “decisiva” nel cambio di passo per la battaglia climatica, gli Stati Uniti ci saranno, sempre se il presidente vorrà inviare o meno una delegazione. Non avranno però probabilmente voce e voto (saranno osservatori) su questioni relative all’Accordo, ma sugli altri temi conteranno ancora. Bisogna capire però se la visione trumpiana trascinerà altri Paesi fuori dagli Accordi (vedi l’Argentina di Milei) o dai cammini finora intrapresi. L’idea è anche che con le sue prime mosse – l’uscita da Parigi, la dichiarazione di emergenza energetica, l’implementazione del settore fossile, le trivellazioni in Alaska e l’annullamento della pausa sulle esportazioni del gas – Trump voglia mandare un segnale ad altri per uscire velocemente dalla democrazia climatica. In pratica è come se incoraggiasse altri Paesi a tornare a puntare sui combustibili fossili, nonostante scienziati ed esperti di clima avvertano come ulteriori estrazioni potrebbero compromettere non solo gli obiettivi climatici degli States (ridurre le emissioni del 66% entro un decennio), ma anche quelli mondiali.

    Ma c’è un però, perché se da una parte le scelte di Trump faranno gioco all’industria del fossile (miliardaria finanziatrice della sua campagna elettorale), negli Stati Uniti c’è anche una fiorente green economy, con migliaia di posti di lavoro, che include società private e investitori che proprio come in Cina potrebbero continuare a spingere per un cambiamento anche a favore del clima. Come ha spiegato Jonathan Pershing, diplomatico veterano che ha lavorato sotto quattro presidenti degli Stati Uniti partecipando a ogni COP, “la crisi climatica è un problema globale che richiede un’azione urgente. La mancata azione porterà a più incendi, siccità e danni alle comunità e alle aziende sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Mentre il presidente sta ritirando gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, la realtà è che il governo federale da solo non avrebbe mai risolto la crisi climatica. Ciò ha sempre richiesto un approccio che coinvolgesse l’intera società. Nonostante la decisione dell’Amministrazione di ritirarsi, molti nel mondo degli affari, dei governi statali e locali, della società civile e della filantropia restano impegnati per un futuro pulito e prospero per tutti. Attraverso la collaborazione, il dialogo e la ricerca di un terreno comune, garantiremo soluzioni climatiche durature che favoriscano la crescita economica, rafforzino le comunità e costruiscano un futuro più sostenibile”.

    Insomma, America first, ma l’azione multilaterale per il clima – magari guidata dalla Cina – sembra non volersi fermare: a patto però di un cambiamento, lo stesso che scienziati e diplomatici avevano chiesto proprio durante la COP29, una riforma del processo delle stesse COP, che funzionano oggi a stento, per tracciare davvero una strategia efficace a livello globale nell’arginare la crisi del clima. Come dice Laurence Tubiana, considerata l'”architetta” dell’Accordo di Parigi, “il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo è un peccato, ma l’azione multilaterale per il clima ha dimostrato di essere resiliente ed è più forte delle politiche e delle strategie di qualsiasi singolo pPaese. Ma questo momento dovrebbe servire da campanello d’allarme per riformare il sistema, assicurando che i più colpiti, comunità e individui in prima linea, siano al centro della nostra governance collettiva”. LEGGI TUTTO

  • in

    Lettiera per gatti, qual è la più eco-friendly?

    “Quale dono più grande dell’amore di un gatto?”, si chiedeva Charles Dickens, i cui amici a quattro zampe erano liberi di circolare nel suo studio londinese, mentre lui si dedicava alla scrittura. Indipendenti e apparentemente schivi, i mici sono in realtà molto affettuosi, come tutti coloro che li amano sanno bene. Quando se ne adotta uno, occorre subito attrezzarsi con pochi, fondamentali strumenti per accogliere il nuovo arrivato nel migliore dei modi. Tra i primi accessori a cui pensare c’è la lettiera, che sarà usata da queste bestiole, per loro natura molto pulite, già entro il primo mese di vita. Ma come sceglierla affinché sia il più possibile sostenibile per l’ambiente? Ecco una piccola guida, che analizza pro e contro delle varie tipologie.
    A base di bentonite
    La lettiera convenzionale è fatta di bentonite, un’argilla altamente assorbente e agglomerante che, in presenza di liquidi, può espandersi fino a 15 volte la sua dimensione originale. Piuttosto economica, è in grado di neutralizzare con efficacia gli odori. Gran parte della fornitura mondiale di questo materiale proviene da miniere a cielo aperto, presenti soprattutto negli Stati Uniti, in particolare nel Wyoming, terra di vaste pianure, di montagne, di parchi immensi, di canyon e di geyser. Il problema è che l’attività di estrazione, che consiste nel rimuovere gli strati superiori del terreno in un’ampia area, rischia di distruggere gli ecosistemi, causare erosione e inquinare l’acqua circostante.

    Per ovviare a ciò le leggi federali e statali impongono alle aziende estrattive di ripristinare le zone sottoposte a escavazione. “In praterie come queste, è difficile ristabilire le piante autoctone e le specie faunistiche locali, come l’antilocapra americana e il gallo cedrone maggiore”, afferma Lyle King, ecologo e scienziato del suolo che ha lavorato per decenni alla bonifica delle miniere di bentonite, stimando che meno della metà dei progetti di estrazione in cui è stato coinvolto durante la sua carriera siano stati ripristinati in modo soddisfacente.
    In gel di silice
    Un’alternativa è la lettiera realizzata in gel di silice, che si presenta sotto forma di cristalli o granuli altamente assorbenti. In realtà, anche l’estrazione di questo materiale dal quarzo danneggia la vegetazione e l’habitat di ampie porzioni di territorio. Inoltre, i macchinari impiegati per l’operazione rilasciano gas serra e contribuiscono all’inquinamento idrico e acustico delle zone interessate.

    Le lettiere a base di bentonite e di silice non sono biodegradabili: una volta gettate via, sono destinate a rimanere in discarica per centinaia di anni. Non proprio un’ottima opzione dal punto di vista ambientale.
    Compostabili nel wc
    Ci sono poi le lettiere smaltibili nel water o compostabili. Molto pubblicizzate come eco-friendly, in realtà non lo sono. “Raccogliere gli escrementi del micio e gettarli nel wc è sconsigliato”, dice Kellogg Schwab, microbiologo ambientale e ingegnere all’Università Johns Hopkins, negli Stati Uniti. “Le loro feci possono, infatti, ospitare il Toxoplasma gondii, un parassita in grado di colpire anche gli esseri umani, provocando la toxoplasmosi, un’infezione che può essere mortale per le persone con un sistema immunitario compromesso e che può causare gravi problemi ai feti in via di sviluppo. Una volta finito nelle acque reflue, il germe, che è molto difficile da rimuovere o da uccidere anche per la presenza di una sorta di guscio che lo protegge, può raggiungere i corsi d’acqua e i campi coltivati, diffondendosi con facilità”. Senza contare che gettare nel water qualsiasi materiale che non siano escrementi umani e carta igienica rischia di favorire intasamenti e di danneggiare l’infrastruttura fognaria.
    Di origine vegetale
    Le lettiere a base vegetale sono in genere composte da mais, erba, piselli avanzati, cioè da scarti agricoli che dovrebbero essere privi di pesticidi e fertilizzanti. Il loro svantaggio principale risiede nello smaltimento. Se finiscono in discarica, vengono sepolte sotto cumuli di altra spazzatura. Qui, senza ossigeno sufficiente per decomporsi correttamente, rilasciano metano, un potente gas serra. Del resto, non è nemmeno facile trasformare questa lettiera in compost, a causa del rischio di contaminazioni da Toxoplasma gondii e altri patogeni.

    Tenendo conto di tutto ciò, l’opzione migliore sarebbe, secondo gli esperti, una lettiera a lenta decomposizione, per esempio a base di gusci di noce, in modo da ridurre al minimo l’emissione di metano nella discarica. LEGGI TUTTO

  • in

    Quando il cavolo è ornamentale: i consigli per coltivarlo

    Appartenente alla medesima famiglia del cavoro nero e di quello riccio, il cavolo ornamentale è una particolare varietà che presenta foglie colorate, declinate in sfumature come viola, rosa e verde, potendo anche essere bicolor oppure con variegature sui toni del bianco. Estremamente resistente e facile da coltivare, questa tipologia di cavolo, pur essendo commestibile, non viene utilizzata in cucina per via del suo sapore amaro, ma è esclusivamente impiegata a scopo ornamentale.

    Cavolo ornamentale e l’esposizione
    Chiamato a livello scientifico brassica oleracea, il cavolo ornamentale è una varietà del gruppo acephala, che raggiunge un’altezza massima di 25 centimetri. La sua bellezza e i suoi colori vivaci rendono questa splendida pianta decorativa ideale per abbellire aiuole, bordure, terrazze e balconi anche nel corso dell’inverno, visto che la sua fioritura va da novembre a febbraio. Inoltre, è molto resistente, adattandosi anche ai climi rigidi e vedendo le sue tonalità intensificarsi più le temperature si abbassano. Ideale da abbinare con ciclamini ed eriche, può durare in giardino anche fino a 2 anni, perdendo tuttavia con lo scorrere del tempo le sue nuance vibranti, mentre in vaso circa 6 mesi.

    Coltivare il cavolo ornamentale è piuttosto semplice: la pianta non richiede particolari cure e si adatta a diverse condizioni climatiche, risultando alla portata anche di chi è alle prime armi con il giardinaggio. Pianta da esterno rustica, stagionale e dal ciclo breve, per quanto riguarda la sua semina può essere coltivata all’esterno tra maggio e luglio oppure tra febbraio e marzo se posta in un ambiente protetto. In merito all’esposizione, il cavolo ornamentale cresce sia in pieno sole che in mezz’ombra: per svilupparsi in modo rigoglioso, evitando l’insorgere di muffe e marciume radicale, deve essere posto in un luogo soleggiato e ventilato. La pianta resiste al freddo, anche a temperature sottozero, e non ama il caldo afoso: proprio per questo, va collocata all’esterno, evitando però i climi torridi, che tendono a rovinarla in breve tempo portandola ad appassire.

    Coltivazione in giardino e in vaso del cavolo ornamentale
    La coltivazione del cavolo ornamentale richiede un terreno ben drenato, fresco, profondo e fertile. Per la semina in giardino la pianta dovrà essere posta in un terriccio umido, creando dei gruppi di 7-10 semi, ciascuno posto a una profondità di 0,5 centimetri (senza coprirli con il terriccio), e lasciando tra loro 45 centimetri di distanza, oppure 30 centimetri se si desidera ottenere un effetto più compatto.

    Oltre che in piena terra, il cavolo ornamentale può essere coltivato in vaso: in questo caso si deve ricorrere a un terreno composto da un terzo di terriccio universale e due terzi di torba, usando anche a uno strato di sabbia di fiume oppure ghiaia grossolana, in modo tale da scongiurare il marciume delle radici e incentivare il drenaggio sul fondo del recipiente. Visto che le piantine crescono in breve tempo e tendono ad allargarsi, quando si sovrappongono è necessario trapiantarle subito in un vaso di dimensioni più grandi.

    Irrigazione del cavolo ornamentale
    La manutenzione del cavolo ornamentale passa anche dalla corretta irrigazione, facendo in modo che il terreno non sia mai asciutto, dovendo dare da bere alla pianta in modo regolare e moderato. In caso di un apporto idrico troppo scarso, la sua crescita potrebbe essere rallentata e le sue foglie divenire gialle e soggette a una caduta precoce.
    Durante le giornate più calde e assolate è importante aumentare la frequenza delle irrigazioni, diminuendole invece nel corso dell’autunno e dell’inverno, premurandosi sempre di evitare i ristagni idrici. Le foglie non andrebbero mai bagnate, per scongiurare l’insorgere di malattie fungine.
    Manutenzione del cavolo ornamentale: consigli utili
    Dopo circa una decina di giorni dalla messa a dimora del cavolo ornamentale si può procedere con la concimazione, ricorrendo a prodotti con cui stimolare la colorazione delle foglie e la radicazione, optando per soluzioni ricche di fosforo e quantità modeste di potassio e azoto. Riguardo al trapianto, la pianta predilige terreni fertili, ben drenati e sciolti, evitando di utilizzare quelli poveri, che non fanno altro che rendere le piantine piccole e prive della loro tipica colorazione, e quelli umidi e troppo freddi, che potrebbero determinare il marciume radicale.
    In merito alla potatura, questa operazione non è necessaria, dovendo limitarsi soltanto a rimuovere le parti eventualmente danneggiate, in modo tale da mantenere il cavolo ornamentale in salute, rigoglioso e impedendo l’insorgere di possibili malattie e parassiti.
    Malattie e parassiti che possono colpire il cavolo ornamentale
    Nella cura del cavolo ornamentale è cruciale prevenire l’insorgere dei parassiti, intervenendo prontamente se presenti. In particolare, le sue foglie rappresentano una fonte di nutrimento per lumache, cavolaie, tortrici e afidi. Il nemico numero uno della pianta è rappresentato dalla lumaca, da combattere impiegando la sepiolite, sostanza granulare assorbente, con cui dare vita a una barriera capace di rendere il cavolo ornamentale inaccessibile a questo essere, che non viene ucciso, ma bensì respinto. In caso di afidi è necessario applicare una soluzione idroalcolica di propoli.
    Per evitare gli attacchi da parte dei parassiti, una volta all’anno è importante ricorrere a un trattamento specifico e, inoltre, bisogna rimuovere regolarmente le foglie secche e marce, responsabili del loro insorgere, ma anche di eventuali malattie fungine. In particolare, la pianta è soggetta a muffe e oidio, da combattere con trattamenti basati su polveri bagnabili, che svolgono anche un’azione preventiva. LEGGI TUTTO

  • in

    Conservare l’anidride carbonica sotto l’oceano è più di una teoria

    Lo studio pubblicato su Chemical Engineering Journal parte dal presupposto secondo cui i metano-idrati (CH?) rimangono stabili per milioni di anni nei sedimenti oceanici e i ricercatori hanno provato in laboratorio a ottenere il medesimo risultato con l’anidride carbonica, la CO2, registrando un successo sul quale è ancora necessario lavorare. I test sono stati effettuati da un gruppo interdisciplinare composto da ricercatori della divisione ExxonMobil Research and Engineering e del dipartimento di Ingegneria chimica e Biomolecolare dell’Università nazionale di Singapore e i risultati, ancora allo stato embrionale, sono promettenti.

    Immagazzinare l’anidride carbonica sotto i fondali oceanici
    Il gruppo di lavoro coordinato dal professor Praveen Linga è riuscito a ricreare in laboratorio le condizioni per la cattura dell’anidride carbonica sotto forma di idrati nei sedimenti oceanici.
    Per capire meglio in cosa consiste il lavoro dei ricercatori è opportuno procedere con l’immagine di un cubetto di ghiaccio con all’interno dell’anidride carbonica. In pratica, combinando l’anidride carbonica con acqua ad alta pressione e a bassa temperatura – le condizioni che vigono nelle profondità degli oceani – si ottiene qualcosa di simile a del ghiaccio che all’esterno è formato da acqua e, all’interno, da anidride carbonica.
    L’obiettivo è quindi quello di catturare e stoccare la CO2 sotto forma di idrati negli oceani, indicativamente a un chilometro di profondità con condizioni di pressione pari a 10 megapascal (100 bar) e con una temperatura di 4 gradi centigradi. LEGGI TUTTO

  • in

    Nepal, il governo: “Le tigri sono troppe e attaccano l’uomo”

    “In un paese così piccolo, abbiamo più di 350 tigri. Sono troppe, non possiamo lasciare che divorino gli umani”. Nepal, Asia Meridionale, 148 mila chilometri quadrati, il Paese dell’Everest. Le parole del primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli, pronunciate a margine di un incontro organizzato per esaminare i risultati ottenuti dallo stato in termini di contrasto ai cambiamenti climatici, alimentano il dibattito. Qui più che altrove l’obiettivo di tendere una mano a una specie sull’orlo dell’estinzione è stato, negli anni, brillantemente raggiunto: lo stop al bracconaggio, l’ampliamento della copertura forestale del paese e la realizzazione dei corridoi forestali che collegano, di fatto, 16 diverse zone protette del Nepal con aree dell’India settentrionale hanno portato, tra il 1992 e il 2016, a raggiungere l’obiettivo del raddoppio del numero di tigri.

    Biodiversità

    Deforestazione e conversione a palmeti devastano gli ecosistemi

    di  Sandro Iannaccone

    20 Gennaio 2025

    40 morti in 4 anni
    Un secolo fa, in Asia le tigri selvatiche erano più di centomila, oggi sono appena 5.600.Il Nepal è stato così il più virtuoso tra i paesi – Cina, India, Thailandia, Indonesia e Russia gli altri – chiamati a invertire il trend. Ma c’è un “ma”, a quanto pare. Secondo i dati del governo, gli attacchi delle tigri avrebbero causato 40 morti e 15 feriti tra il 2019 e il 2023. Una cifra che sarebbe sensibilmente più alta, secondo le autorità locali. Di qui, la presa di posizione del premier, che lo scorso dicembre ha dichiarato che il numero di tigri considerato sufficiente in Nepal è di 150 individui. E gli altri? “Potremmo inviarli ad altri paesi in regalo”, ha detto, come riportato dalla Bbc. Diceva sul serio.

    Biodiversità

    Le giraffe non sanno andare in salita. “Grazie a questa scoperta ora possiamo proteggerle”

    di  Giacomo Talignani

    18 Dicembre 2024

    L’equilibrio tra specie
    Esiste un numero di tigri da considerare “sostenibile” nell’equilibrio con le popolazioni umane? “È assurdo pensare la crescita della loro popolazione sia pericolosa”, spiega a Green&Blue il naturalista Ullas Karanth, direttore emerito del Centre foe Wildlife Studies di Bangalore, 45 dei suoi 76 anni trascorsi a studiare l’ecologia di questi grandi felini. “La verità – aggiunge – è che spesso i politici sono confusi e cercano di accontentare tutti e, elemento più grave di tutti, incoraggiano l’invasione umana dell’habitat delle tigri per ottenere più voti. La questione dirimente è rappresentata dalla disponibilità di prede nell’area in cui vivono. Ciascuna tigre – aggiunge – dovrebbe trovarsi nelle immediate vicinanza di circa 500 potenziali prede, cervi, antilopi e bufali in primis”. Piuttosto, Oli e il governo nepalese dovrebbero concentrare i loro sforzi sull’espansione delle aree naturalistiche protette.

    Biodiversità

    Stop alla caccia ai canguri: in Australia partono gli appelli dopo gli incendi

    di  Pasquale Raicaldo

    19 Gennaio 2025

    Le zone cuscinetto
    Gli attacchi delle tigri agli esseri umani, registrati proprio ai margini delle foreste, nascono dalla necessità di uscire dalle zone di protezione in cerca di prede. Le aree più critiche sono le “zone cuscinetto” tra i parchi naturali e gli insediamenti umani, dove la compresenza di animali selvatici e cittadini è all’ordine del giorno: qui gli allevatori portano il bestiame a pascolare, qui le tigri hanno sempre incontrato gli esseri umani. Oggi, evidentemente, accade più spesso.
    “Campagne rivolte ai cittadini, come quelle che abbiamo sviluppato con il Centre for Wildlife Studies, possono accrescere la consapevolezza della comunità, ma non eliminare il conflitto naturale che si genera dalla coesistenza di popolazioni di tigri in età riproduttività con agricoltura e allevamento – spiega ancora Karanth – Bisogna investire nell’espansione degli habitat delle tigri e nel fornire incentivi concreti alle persone affinché non occupino le aree a rischio. C’è molto margine di manovra, perché i cittadini si offrono volontarie per trasferirsi in aree più urbane, dove possono beneficiare di una migliore istruzione, lavoro, salute e altre risorse. Ma a quanto pare nessuno ci sta pensando seriamente”.

    World economic forum

    Global Risks Report 2025, l’emergenza climatica tra i primi 10 rischi globali

    di  Fiammetta Cupellaro

    15 Gennaio 2025

    La convivenza possibile
    In questi mesi, il problema della convivenza tra tigri e uomini sta alimentando il dibattito nella comunità scientifica. “Le strategie di conservazione hanno una valenza ecologica, ma anche una ricaduta sociale”, sottolinea alla Bbc lo zoologo Karan Bahadur Shah. “La perdita di vite umane va prevenuta, le comunità locali devono essere parte integrante dei progetti di conservazione, va evitato che si rivoltino contro di esso”. La stessa predazione del bestiame da parte delle tigri, che negli ultimi è in costante aumento, alimenta la rabbia della popolazione: dinamiche che, con i dovuti distinguo, registriamo anche in Europa con lupi e, in parte orsi.
    “Una parte significativa della popolazione del Nepal vive ancora in aree rurali e dipende dalle risorse forestali, ma gli sforzi di conservazione delle tigri non possono avere impatti così significativi”, conferma alla Bbc Thakur Bhandari, presidente della Federation of Community Forestry Users Nepal. “Noi lavoriamo per la tutela delle foreste e non possiamo, dunque, essere contro la fauna selvatica, ma neanche ignorare il suo impatto sugli esseri umani e sulla nostra società”.

    Ecosistemi e clima

    Aree protette, parchi e riserve naturali alle prese con le sfide del clima

    di  Fiammetta Cupellaro

    17 Dicembre 2024

    Il potenziale habitat delle tigri
    “Quel che è certo è che i numeri delle tigri sono ancora troppo bassi a livello globale e anche a livello locale, in India e Nepal – riprende Karanth – Ciò non significa che non emergano conflitti nelle aree in cui le tigri hanno alti tassi riproduzione. Dobbiamo leggere la questione nella prospettiva della specie, e non del singolo animale: il potenziale habitat delle tigri nel mondo è di 1,5 milioni di chilometri quadrati. Le tigri a densità ragionevole e in riproduzione occupano meno del 6% di quest’area: due secoli fa abitavano 30 paesi, oggi le troviamo in dieci”.

    Biodiversità

    Delle foreste pluviali abitate da animali vertebrati solo il 25% è davvero integro

    di Sara Carmignani

    17 Dicembre 2024

    Un tema spinoso
    In Nepal, oggi, la gestione delle tigri resta un tema decisamente “spinoso”. E il Dipartimento dei parchi e della fauna selvatica ne è perfettamente consapevole: così, gli animali responsabili di aggressioni mortali agli uomini vengono catturati e tradotti in cattività. “Ma gli zoo e i centri di recupero sono già abbondantemente pieni da tigri problematiche”, annotano gli esperti. Di qui, l’urgenza di un protocollo che regoli il loro salvataggio, la loro gestione e, infine, la loro “riabilitazione”.“Ma io trovo assurda l’idea di spendere milioni di dollari per tradurre in cattività le tigri considerate in eccesso – spiega Karanth – Più utile è l’abbattimento degli esemplari protagonisti di casi predazione sugli esseri umani, utilizzando i fondi per incentivare l’abbandono delle aree a rischio da parte dei cittadini che vivono a ridosso delle foreste”. LEGGI TUTTO

  • in

    Ue, da oggi vietato usare Bisfenolo A nei contenitori per alimenti

    Una posizione netta e chiara da parte dell’Unione europea nei confronti del Bisfenolo A (Bpa) una sostanza chimica molto diffusa, usata per produrre plastiche e resine, materie prime di bottiglie, lattine e contenitori per alimenti. Insomma, prodotti di uso quotidiano. Dopo anni di impasse, dal 20 gennaio 2025, il regolamento europeo 2024/3190 vieta l’uso di Bisfenolo A in una vasta gamma di materiali che sono abitualmente usati nel packaging di alimenti. Imballaggi e contenitori, come le bottiglie di plastica riutilizzabili o le lattine metalliche delle bibite – dove viene usato internamente – utensili da cucina, distributori d’acqua refrigerati. Ma la normativa restringe l’utilizzo anche per i suoi sali e altri bisfenoli o derivati, ritenuti comunque nocivi, come il Bisfenolo S (BpS). Elementi che saranno limitati nell’impiego di adesivi, gomme, materie plastiche, inchiostri da stampa, siliconi, vernici.

    Le sue vaste applicazioni

    Insomma la lista è piuttosto lunga, ed è rigorosa nei confronti di prodotti che entrano a contatto con il cibo, anche se ci sono eccezioni; solo i prodotti monouso o ad uso ripetuto per contenere gli alimenti potranno essere immessi sul mercato fino al 20 luglio 2026. Nel Regolamento 2024/3190 viene scritto che ci sono analogie nelle strutture chimiche con “altri bisfenoli o derivati di bisfenoli che possono presentare rischi analoghi al BPA quando sono utilizzati in materiali e oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari e migrano nei prodotti alimentari. Alcuni bisfenoli sono già stati confermati come aventi proprietà pericolose per la salute umana a causa della loro tossicità. In futuro è probabile un’ulteriore classificazione armonizzata dei bisfenoli e dei derivati di bisfenoli, a seguito dell’identificazione di alcuni di essi come sostanze estremamente preoccupanti”.

    Greenpeace: in Italia mancano dati sulla pericolosa contaminazione da TFA

    di  Fiammetta Cupellaro

    09 Gennaio 2025

    Bisfenolo A, perchè è ritenuto potenzialmente pericoloso

    Il divieto europeo segue la bocciatura da parte dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) che ha revisionato circa 800 studi pubblicati sull’argomento, per valutare il livello di rischio connesso a quello che mangiamo o beviamo. Dopo una serie di esami l’Efsa ha etichettato i prodotti a base di BPA con effetti potenzialmente nocivi per il sistema immunitario e riproduttivo. “In un’ampia valutazione delle prove scientifiche e dopo il contributo di una consultazione pubblica, gli esperti dell’EFSA hanno individuato effetti potenzialmente dannosi per la salute sul sistema immunitario”.

    Alimentazione e ambiente

    Pellicola per alimenti, quella sostenibile cambia colore se il cibo va a male

    di  Fiammetta Cupellaro

    11 Novembre 2024

    Potenziali effetti anche sulla fertilità
    Secondo la letteratura scientifica attuale, la molecola di questa sostanza chimica ha effetti dannosi sul sistema endocrino ed interferisce con il funzionamento ormonale naturale dell’organismo umano. Secondo degli studi condotti sul Bisfenolo A, l’esposizione prolungata può compromettere il sistema immunitario e riproduttivo, arrivando a compromettere anche la fertilità. Inoltre va sottolineato che il BPA è già vietato per i biberon e per le confezioni di prodotti destinati ai bambini sotto i 3 anni. Infatti l’esposizione nei bambini può alterare lo sviluppo cerebrale e far aumentare il rischio di malattie croniche, tra cui il diabete ed altre patologie a carico del sistema cardiovascolare.

    Dove trovarlo
    Se il BPA è usato in materiali che sono a contatto con il cibo, allora viene da chiedersi in quali alimenti sia più facile ritrovarlo. Uno studio tedesco del 2022 ha analizzati alcuni cibi confezionati in lattina, scoprendo che sono il Bisfenolo A è facilmente riscontrabile nel pesce, come le scatolette di tonno, nella carne, prodotti a base di salsiccia, latte di cocco, zuppe pronte. Insomma, cibo molto comune. Se il divieto scatta a partire dal 20 gennaio 2025, è opportuno aspettarsi un periodo di transizione che durerà 18 mesi, durante il quale i prodotti realizzati con BPA dovranno essere ritirati progressivamente dal mercato. Ma il regolamento europeo ha previsto anche delle maglie di permissivismo più larghe per le aziende che dovranno convertire la loro produzione, fino ad un massimo di tre anni, laddove non siano ancora disponibili alternative tecniche al BPA. La svolta europea sul Bisfenolo A, arriva a distanza di 15 anni dalla Francia, che nel 2009 aveva già vietato la sostanza chimica nell’utilizzo per i biberon, e dal 2013, in tutti i contenitori alimentari. L’Ue, invece, ha iniziato a muoversi solo nel 2018, vietandolo nei materiali destinati ai bambini sotto i tre anni, fino alla decisione odierna di estenderlo a tutti gli imballaggi che potenzialmente possono contaminare il cibo. LEGGI TUTTO