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    Teresa Ribera, chi è la nuova responsabile dell’ambiente della Commissione Ue

    Se c’erano dubbi sulla reale intenzione di Ursula von Der Leyen di proseguire sulla strada del Green Deal, la candidatura della ministra spagnola Teresa Ribera Rodriguez a vicepresidente esecutiva della Commissione, responsabile per la transizione giusta, pulita e competitiva, sembra fugare ogni dubbio. Anche al netto della nuova formulazione: il suo predecessore, l’olandese Frans Timmermans, era assai più esplicitamente “commissario al Clima e al Green Deal Europeo”. Ma se la denominazione dell’incarico può essere frutto di trattative volte a tranquillizzare chi ritiene le politiche ambientali europea “pericolose” per la tenuta delle industrie del vecchio continente, la biografia della Ribera la colloca in una posizione ancora più dura rispetto a Timmermans.

    La ministra dell’Ambiente spagnola si prese letteralmente la scena internazionale, rubandola al malcapitato Wopke Hoekstra (subentrato a Timmermans che nel frattempo si era candidato alle politiche olandesi) lo scorso dicembre alla Cop29 di Dubai. Ribera rappresentava l’Unione in virtù del semestre europeo in quei mesi a guida spagnola. E fu la protagonista di un braccio di ferro con Abdulaziz bin Salman, il “signore del petrolio”, ministro dell’Energia dell’Arabia Saudita, figlio del re Salman, nonché fratellastro del principe ereditario Mohammed bin Salman. Da una parte la paladina dell’uscita dai combustibili fossili, dall’altra i leader indiscusso dell’Opec. Nelle concitate fasi finali della Conferenza sul clima di Dubai, fu lei a lapidare come “disgustosa” la lettera con cui l’Opec aveva cercato di serrare i ranghi dei Paesi produttori di petrolio. Ed fu lei a sedere alla destra del segretario generale Onu Guterres, nell’incontro avviava l’ultima giornata di trattative di Cop28.

    Il bilancio

    Cop28, vertice storico ma non basta per fermare la corsa della crisi climatica

    di Luca Fraioli

    16 Dicembre 2023

    L’obiettivo della Ribera era anche ritagliare per l’Europa un ruolo non marginale nella diplomazia climatica. Anche se poi, a onor del vero, l’accordo finale di Cop28 con la prima citazione esplicita di addio a carbone, petrolio e gas (pur nella ambigua formula “transition away”), va ascritto al potere di convincimento che esercitarono Usa e Cina, più che l’Europa, sui Paesi produttori di combustibili fossili. Teresa Ribera Rodriguez ha una formazione giuridica, seguita da una carriera da alta funzionaria nella pubblica amministrazione spagnola, e diversi incarichi presso le Nazioni Unite nel campo dello sviluppo sostenibile e dei cambiamenti climatici.

    Nel 2018 il premier spagnolo Pedro Sanchez la sceglie per il ministero della Transizione ecologica. Due anni dopo diventa anche uno dei quatto vice del primo ministro. Nel suo tentativo di rendere green la Spagna, dichiara guerra al carbone, chiude le miniere nel nord del Paese e stanzia 250 milioni di euro per sostenere i lavoratori del comparto costretti alla riconversione. Nel luglio scorso si presenta in bici a una conferenza sul clima a Valladolid, ma pochi metri dietro di lei ci sono le due auto della scorta. Il fatto che fossero elettriche non le risparmia critiche e ironie.

    I personaggi

    Il principe e l’eco-ministra: a Dubai le due facce del mondo sono Abdulaziz e Teresa

    di Luca Fraioli

    13 Dicembre 2023

    Ora, se il Parlamento europeo le voterà la fiducia, dovrà completare la transizione ecologica, “gemella” di quella digitale, come ha detto Von Der Leyen nella presentazione della sua squadra. E dovrà affrontare il suo primo ostacolo proprio sulle auto elettriche, con Paesi, l’Italia prima tra tutti, che chiedono alla Ue di fare dietrofront sullo stop ai motori a combustione a partire dal 2035. Difficile che Ribera possa cedere su questo punto. E allora sarà curioso vedere se, non solo i partiti della maggioranza europea come Verdi e Socialisti voteranno la fiducia al candidato vicepresidente esecutivo Raffaele Fitto, ma anche se i rappresentanti di Fratelli d’Italia e Forza Italia, diranno sì a Teresa Ribera. LEGGI TUTTO

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    Il salice piangente: caratteristiche, tipi e cura

    Il salice piangente è una pianta originaria della Cina e generalmente la si trova in prossimità di aree dove è presente un corso d’acqua oppure un laghetto, giacché la pianta ha bisogno di molta acqua.

    La coltivazione e la messa a dimora del salice piangente
    Il salice piangente o salix babylonica è una pianta davvero molto elegante che non possiamo fare a meno di immaginare nei grandi parchi con i laghetti. Questa pianta è stata esportata dalla Cina nel nostro continente nel 1692 ed è legata alla simbologia della immortalità. La coltivazione del salice piangente nel nostro Paese è ormai comune, tanto che è possibile sempre individuare la pianta nei pressi di laghi, fiumi o torrenti. Questo perché il salice piangente richiede proprio un tipo di terreno umido. Con la corretta coltivazione di questo albero è possibile ottenere una pianta sana che arriva addirittura a 15 metri; solo in casi eccezionali si possono individuare anche esemplari da 25 metri. Per la corretta messa a dimora è necessario selezionare un angolo del giardino fisso: infatti, una volta a terra lo sviluppo dell’albero sarà incredibilmente veloce. Sono assolutamente da escludere aree rivolte verso i muri, giacché la pianta non si sviluppa correttamente. È importante tenere a mente che il salice piangente ha bisogno di spazio per crescere bene e dovrà trovarsi a circa 2 metri di distanza da altre piante. Se non si ha a disposizione una pianta già sviluppata, è possibile attraverso una talea legnosa riprodurre il salice piangente.

    La fioritura del salice piangente
    Il salice piangente è una pianta dioica e, di conseguenza, i fiori che si possono ammirare sugli esemplari maschi e femmine sono differenti. Gli amenti, nome con il quale sono indicati i fiorellini del salice piangente, sono a grappolo: negli esemplari maschili sono gialli e più lunghi, mentre in quelli femminili abbiamo fiori piccoli e di colore verde chiaro. Il periodo in cui è possibile ammirare la fioritura del salice piangente è circa in primavera, tra aprile e maggio. Successivamente compaiono anche i frutti, con capsule che contengono semi con ciuffi di peli bianchi e setosi.

    L’annaffiatura del salice piangente
    A differenza di molte altre piante, il salice piangente non teme assolutamente i ristagni d’acqua. Infatti, è una di quelle piante che ha bisogno costantemente di essere irrigata e, proprio per questo, si selezionano terreni umidi, meglio se in prossimità d’acqua. In caso di siccità estiva, è necessario incrementare ulteriormente l’irrigazione e un segno evidente della necessità d’acqua è la presenza di foglie secche.

    L’esposizione migliore per il salice piangente
    Per quanto riguarda l’esposizione consigliata per questo albero, il salice piangente ama aree esposte al sole o mezzombra. In questo modo, ha la possibilità di svilupparsi correttamente, sempre a patto però di ottenere una giusta irrigazione.

    La concimazione del salice piangente
    Per la concimazione del salice piangente si può ricorrere a quello di tipo organico: con l’arrivo della stagione autunnale basterà diluire in acqua il concime in polvere. In alternativa, è possibile dare maggiore spinta alla crescita della pianta in primavera: in tal caso, sarà importante selezionare una soluzione che contenga solfato di ferro, utile per l’appunto per dare maggiore energia all’albero durante la fase di crescita.

    La potatura del salice piangente
    Generalmente si ricorre alla potatura del salice piangente per donare un aspetto piacevole alla pianta. Infatti, questo albero non ha bisogno di essere potato, poiché i suoi rami assumono una forma a cascata molto ornamentale.

    Le malattie e i parassiti del salice piangente
    Questo è un albero che vive a lungo e riesce addirittura a raggiungere i 30 anni, ma durante il suo ciclo di vita può incontrare alcune difficoltà, come le malattie. Fra i peggiori problemi che si possono manifestare vi sono quelli dovuti alla presenza di parassiti come pidocchi, afidi e bruchi. L’attacco di questi parassiti può addirittura portare alla morte della pianta, poiché i rami si indeboliscono e diventano più sottili. Un’altra problematica in cui può incorrere il salice piangente è la malattia fungina della ruggine. Infine, non dimentichiamo anche il cancro rameale che è un’altra grave malattia del salice da trattare con estrema velocità per evitare la diffusione. LEGGI TUTTO

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    Useremo sempre più aria condizionata e questo aumenterà le disuguaglianze sociali

    Un piccolo tasto, quello con il simbolo del “gelo” sopra, capace di creare grandi divisioni nel mondo. Quest’estate il tema della disuguaglianza termica è diventato improvvisamente centrale per via delle Olimpiadi: a Parigi la scelta di un villaggio olimpico senza condizionatori, dove solo le federazioni più ricche potevano pagare per dotare di impianti refrigeranti le […] LEGGI TUTTO

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    Il Mediterraneo senza acqua? Una catastrofe quasi irreparabile

    Quasi un secolo fa, nel 1927, il signor Herman Sörgel, architetto e filosofo del Reich, partorì il progetto Atlantropa: la sua bislacca idea era di costruire una diga sullo stretto di Gibilterra e far abbassare di circa 120 metri il livello del mar Mediterraneo, per poi colonizzare la terra emersa a seguito dell’operazione. Una follia cui fortunatamente non fu dato seguito, anche perché (posto che la cosa si fosse effettivamente potuta realizzare in qualche modo, il che è tutt’altro che scontato) le conseguenze per l’ecosistema sarebbero state imprevedibili e probabilmente molto drammatiche. Quel che Sörgel probabilmente non sapeva è che c’è stato un momento, circa cinque milioni e mezzo di anni fa, verso la fine del Miocene, in cui il Mediterraneo si è effettivamente prosciugato a opera delle forze della natura. Oggi un’équipe di scienziati di diversi istituti di ricerca europei, tra cui anche molti centri italiani, ha approfondito il fenomeno per comprendere cosa successe alla vita marina dell’epoca, e cosa potrebbe succedere se malauguratamente il Mediterraneo dovesse prosciugarsi di nuovo. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science.

    Un enorme bacino vuoto
    L’evento studiato dai ricercatori è noto come “crisi di salinità del Messiniano” ed è stato scoperto negli anni Sessanta, quando una campagna di rilevamento sismico sul fondo del mar Mediterraneo ha rivelato la presenza, dove il bacino è più profondo, di uno strato di sedimenti salati il cui spessore arriva a quasi tre chilometri: in totale si tratta di un milione di chilometri cubi di sale. Quando e come si è depositato, e cosa ci fa là in fondo? L’analisi dei campioni prelevati ha mostrato che poco più di cinque milioni e mezzo di anni fa lo stretto di Gibilterra si chiuse per cause naturali – probabilmente fenomeni di origine tettonica – e di conseguenza l’acqua del Mediterraneo evaporò, trasformando il bacino in una conca asciutta e profonda fino a cinque chilometri sotto il livello del mare. Si stima che il fenomeno durò circa duecentomila anni e rappresentò una vera e propria apocalisse per la flora e la fauna marine, il più grande evento di estinzione dai tempi del meteorite che 60 milioni di anni fa spazzò via i dinosauri (e innumerevoli altre specie) e pose fine all’era mesozoica.

    Il caso

    Pesci morti, alghe e pericolo batteri: la difficile estate italiana con il mare bollente

    di Giacomo Talignani

    29 Luglio 2024

    L’analisi dei fossili

    Gli autori del lavoro appena pubblicato, in particolare, hanno esaminato i fossili raccolti nel Mediterraneo e risalenti a un periodo compreso tra 12 e 3,6 milioni di anni fa: i risultati della loro analisi suggeriscono, per l’appunto, che la vita marina autoctona si estinse quasi del tutto quando il Mediterraneo si prosciugò, e che è stata la ricolonizzazione successiva, avvenuta dopo la riapertura dello stretto di Gibilterra e il nuovo riempimento del bacino, a dare alla fauna un aspetto più simile a quello che osserviamo oggi.

    Gli scienziati hanno messo insieme le informazioni estratte da oltre 750 articoli pubblicati su questo tema, documentando quasi 23mila esemplari per un totale di 4897 specie viventi nel Mediterraneo. 779 specie, vissute prima della grande crisi del Messiniano, potevano essere considerate endemiche (cioè “residenti” solo nel Mediterraneo): di tutte queste, solo 86 erano presenti dopo il prosciugamento. Tra le specie scomparse figurano anche molti coralli tropicali, che abbondavano prima della crisi della salinità; tra quelle sopravvissute, invece, alcune specie di sardine e i sirenii, un ordine di mammiferi che comprende anche i lamantini e i dugonghi.

    Oceani

    Barriere coralline, come (e perché) stiamo perdendo un patrimonio di biodiversità

    di Pasquale Raicaldo

    03 Settembre 2024

    Un recupero lento e faticoso
    Lo studio, purtroppo, non è riuscito a far luce su come e perché alcune specie siano riuscite a sopravvivere a altre no, ma ha chiarito il fatto che l’impatto dell’isolamento del Mediterraneo sulla sua biodiversità è stato catastrofico e soprattutto che la ripresa è stata molto lenta: secondo le stime degli scienziati, ci sono voluti oltre 1,7 milioni di anni perché il numero delle specie tornasse comparabile a quello precedente alla crisi. Fortuna, insomma, che Sörgel sia stato fermato in tempo. LEGGI TUTTO

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    Gli allevamenti di animali da pelliccia sono un possibile veicolo di pandemie: lo studio

    Se si vuole evitare il rischio di nuove pandemie, di nuovi salti di specie da parte di patogeni pericolosi, bisogna lasciare in pace la fauna ed evitare assembramenti tra esseri umani e animali selvatici. Un nuovo studio, recentemente pubblicato sulla rivista Nature, torna a invitare a tenere alta la guardia, puntando i riflettori sugli allevamenti di animali da pellicce, definiti senza mezzi termini delle vere e proprie “autostrade virali” che potrebbero condurre alla prossima pandemia, e chiedendo nuove misure di biosicurezza per contenere i rischi. “È proprio così che nascono le pandemie”, ha spiegato Eddie Holmes, virologo alla University of Sydney, in Australia, e co-autore dello studio. “Gli allevamenti di pellicce possono diventare un ponte tra gli esseri umani e i virus che circolano tra la fauna selvatica”.

    Sebbene il commercio di pellicce sia diffuso in tutto il mondo, la maggior parte degli allevamenti si trovano in Europa e in Cina: nel 2016 gli allevamenti europei hanno prodotto poco più di 39 milioni di pelle di visone, e quelli cinesi circa 26 milioni. Ed effettivamente i visoni, sia europei che cinesi, sono stati tra i primi animali ad ammalarsi a ridosso dello scoppio della pandemia di Covid-19. Non solo: si sospetta che i visoni abbiano avuto (e stiano avendo) un ruolo importante anche nella diffusione di H5N1, il virus dell’influenza aviaria. Discorso analogo per il cane procione (Nyctereutes procyonoides), un altro comune animale da pelliccia, che potrebbe aver avuto un ruolo nel salto di specie compiuto dal virus che causa la Sars.

    Aviaria: dobbiamo preoccuparci? Come avviene il contagio, quali sono i sintomi e le precauzioni da prendere

    di Irma D’Aria

    06 Giugno 2024

    Gli autori dello studio appena pubblicato, in particolare, hanno cercato di identificare i virus circolanti negli allevamenti di pellicce in Cina. Per farlo, hanno prelevato e analizzato campioni di tessuto polmonare e intestinale da 461 animali morti per malattie infettive tra il 2021 e il 2024: di questi, 164 provenivano da quattro specie allevate esclusivamente per la loro pelliccia (i già citati visone e cane procione, Neogale vison e Nyctereutes procyonoides, la volpe rossa, Vulpes vulpes, e la volpe artica, Vulpes lagopus) prevalentemente in allevamenti intensivi della Cina nord-orientale. Gli altri provenivano da specie allevate sia per la pelliccia che per l’alimentazione e la medicina tradizionale, prevalentemente nella Cina orientale: tra queste, porcellini d’India, cervi e conigli. Sequenziando il DNA e l’RNA prelevati dai campioni di tessuto, i ricercatori hanno identificato 125 diversi virus, tra cui molti virus influenzali e coronavirus: 36 di essi non erano mai stati osservati fino a ora e molti di essi sono stati trovati in specie che non si sapeva potessero ospitarli: il virus dell’encefalite giapponese e un coronavirus simile a HKU5 (il patogeno dei pipistrelli responsabile della Mers), per esempio, sono stati individuati nei visoni; il virus H6N2 è stato individuato in un topo muschiato, il primo mammifero in cui si è osservato questo tipo di contagio.

    Secondo i ricercatori, oltre 30 tra i virus individuati destano particolare preoccupazione a causa della loro capacità di saltare da una specie all’altra, e le specie più “pericolose” sono risultate essere i visoni e i cani procioni, portatori, nel complesso, di dieci dei patogeni più preoccupanti.

    Giornata mondiale della salute

    È il cambio climatico la minaccia principale per la salute umana

    di Wwf Italia

    07 Aprile 2024

    “La nostra analisi”, ha concluso Alice Hughes, biologa conservazionista alla University of Hong Kong, “evidenzia che le preoccupazioni sugli allevamenti di pellicce sono valide, e che la gamma di virus potenzialmente pericolosi per gli esseri umani è più ampia di quel che si pensasse. Bisognerebbe imporre una transizione alla produzione di pellicce esclusivamente artificiali, oppure rendere più rigida la regolamentazione e la supervisione della produzione di pellicce naturali, per esempio garantendo l’attuazione di misure come quarantena per gli animali, riduzione del sovraffollamento, igiene delle gabbie, approvvigionamento del mangime e smaltimento dei rifiuti”. LEGGI TUTTO

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    Ecosmic, la startup che salva lo spazio dall’inquinamento evitando le collisioni

    Il nostro pianeta è circondato da sonde spaziali che svolgono un lavoro importante per studiare il clima in continua evoluzione, fornire servizi di comunicazione e navigazione globali e aiutarci a rispondere a importanti quesiti scientifici. Che si tratti di satelliti commerciali per telecomunicazioni, satelliti di osservazione della Terra o missioni di esplorazione con equipaggio, tutte le attività dell’uomo nello spazio sono messe a rischio dalla presenza in orbita di centinaia di migliaia di detriti senza controllo. E, non a caso, il tema della sostenibilità spaziale è da tempo al centro del dibattito di settore, spingendo verso lo sviluppo di tecnologie sempre più innovative.

    Ed è questo il punto di partenza della startup Ecosmic, che ha sviluppato un software, chiamato SAFE, in grado di stimare con grande precisione le possibilità di collisione in orbita, grazie a specifici algoritmi, suggerendo ai satelliti le manovre ottimali per ridurre al minimo il consumo di carburante e i tempi di inattività e favorire così la sostenibilità a lungo termine delle attività spaziali.

    Fondata da tre donne ingegnere: Imane Marouf, Benedetta Margrethe Cattani e Gaia Roncalli, la startup si propone come una rivoluzionaria software house per satelliti. Il traffico spaziale sta diventando sempre più denso. Tra le grandi costellazioni di satelliti, come Starlink, e i detriti di vecchi satelliti e razzi, ogni frammento diventa un potenziale pericolo per gli altri oggetti in orbita. Ecosmic si concentra sulla cosiddetta space awareness e collision avoidance, ovvero la consapevolezza dello spazio circostante e la capacità di evitare collisioni, con l’obiettivo di ridurre il numero di falsi allarmi, che oggi rappresentano oltre il 99% delle segnalazioni.

    Il problema dei rifiuti spaziali e l’effetto Kessler
    L’attuale spazzatura spaziale è composta in gran parte da frammenti di satelliti, razzi, sonde e rifiuti derivati dalle missioni. Il primo vero accumulo di residui è stato raggiunto nel 2007, quando il satellite meteorologico cinese FengYun-1C è stato intenzionalmente distrutto in un test di armi antisatellite. Hanno poi contribuito ad aumentare la spazzatura spaziale prima una collisione tra due satelliti (Iridium-33 e Kosmos-2251) avvenuta nel 2009, e poi un altro test di armi antisatellite condotto dalla Russia nel 2021, quando è stato disintegrato Kosmos-1408, di oltre due tonnellate di peso. Ognuno di questi eventi ha contribuito a inquinare lo spazio. E ora il problema dei detriti spaziali potrebbe precipitare drammaticamente a causa di un fenomeno noto come effetto Kessler.

    Secondo il rapporto 2024 della NASA, ci sono già più di 35.000 oggetti di detriti spaziali in orbita, di questi circa 26.000 sono pezzi di detriti di dimensioni superiori a 10 cm, e il numero continuerà ad aumentare. L’agenzia spaziale sottolinea che, poiché i detriti spaziali viaggiano a circa 15.700 mph (25.266 km/h) in orbita terrestre bassa, l’impatto di anche un minuscolo frammento di detriti orbitali con un veicolo spaziale potrebbe creare grossi problemi. Il preoccupante scenario ricade sotto il nome di “effetto Kessler” in quanto fu disegnato già nel lontano 1978 dall’allora consulente e ricercatore NASA, Donald J. Kessler. Oggi il volume di detriti spaziali che si trova nell’orbita bassa intorno alla Terra e sta diventando sempre più ingombrante poiché gli stessi oggetti orbitanti entrano più volte in collisione tra loro creando una vera e propria reazione a catena e aumentando in tal modo il volume dei detriti stessi con il rischio di ulteriori impatti.

    La startup della sostenibilità delle operazioni spaziali
    Ecosmic è stata fondata nel 2023 inizialmente a Delft (Paesi Bassi) da Benedetta Cattani, Gaia Roncalli e Imane Marouf ingegnere spaziali, successivamente la sede si è trasferita a Torino. La squadra sta sviluppando una soluzione software per favorire la Space Situational Awareness (SSA) e la prevenzione delle collisioni chiamata SAFE (System to Avoid Fatal Events) che, grazie ad algoritmi proprietari, supporta gli operatori delle missioni spaziali nella valutazione delle minacce di collisione orbitale con maggiore accuratezza e minore rischio di sovrastima, con conseguente risparmio di costi, e nell’identificazione delle migliori manovre da eseguire per evitare collisioni.

    La crescente pressione normativa volta a migliorare la sostenibilità delle operazioni spaziali e la volontà degli operatori spaziali di salvaguardare il ciclo di vita dei loro asset sostengono notevolmente la crescita del mercato dei prodotti per la SSA, che si prevede crescerà a un CAGR del 4,4%, raggiungendo un valore totale di 2,1 miliardi di euro nel 2030.

    Con un’attenzione particolare alla sostenibilità, Ecosmic vuole rendere le operazioni spaziali meno impattanti, incorporando nei satelliti la parte di operazioni satellitari solitamente condotta a terra. Il software SAFE riduce il carico di lavoro e la perdita di ricavi associati al traffico spaziale.

    Il numero di satelliti lanciati sta crescendo in modo esponenziale e gli aspetti operativi di queste missioni rappresentano un costo significativo, in quanto tipicamente durano per un periodo di 5-15 anni e richiedono un coinvolgimento umano intenso. Una preoccupazione urgente per gli operatori spaziali è il volume enorme di detriti spaziali, stimato superare i 100 milioni di pezzi, e una quantità sostanziale di tempo e risorse viene investita nella gestione degli avvisi di collisione. Sorprendentemente, il 99% di questi avvisi sono falsi positivi. SAFE è un software che risolve questo problema eseguendo una previsione avanzata delle collisioni e generando suggerimenti per evitarle.

    La startup ha già ricevuto un grant dalla Commissione europea. È cresciuta grazie all’Esa Business Incubator Center e alla collaborazione con Infinite Orbits, compagnia con la quale stanno perfezionando la versione on board del software.

    Nel 2022 la startup ha vinto il primo premio di T-TeC, Telespazio Techology Contest, il concorso di Open Innovation che Telespazio organizza ogni anno insieme a Leonardo dedicato a promuovere lo sviluppo e l’innovazione tecnologica nel settore spaziale tra le giovani generazioni, valorizzarne le idee e le intuizioni, e immaginare insieme a loro le tecnologie che segneranno il futuro.

    Ad aprile 2024, Ecosmic ha ricevuto un finanziamento di 1,1 milioni di euro da parte del fondo Primo Space, Ecosmic rafforzerà il proprio team e svilupperà SAFE 2.0, una versione aggiornata del prodotto che consentirà agli operatori satellitari di adattare la pianificazione delle missioni a specifiche contingenze, dalle manovre per evitare le collisioni al rilevamento di anomalie, con uno strumento completo di gestione della missione satellitare. LEGGI TUTTO

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    In città piove più che in campagna, colpa del riscaldamento globale

    Il fatto che in città piova di più che in campagna è un luogo comune? Se non lo è, si tratta di un fenomeno globale oppure riguarda solo alcune aree del pianeta? Un gruppo di ricercatori delle università statunitensi del Texas di Austin e della Georgia di Athens ha provato a rispondere attraverso uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences. I risultati ottenuti attraverso l’analisi dei dati satellitari relativi ad oltre mille aree urbane in tutto il mondo, confermano: oltre il 60% delle città prese in considerazione dalla ricerca ha registrato più giorni di pioggia rispetto alle aree rurali circostanti.

    Esperti

    Deloitte: ridurre la CO2 è la priorità

    di Pasquale Raicaldo

    05 Giugno 2024

    Ma perché nelle città piove di più?
    Uno dei fattori responsabili di questo fenomeno, spiega Liang Yang, docente all’Università del Texas di Austin, è la presenza di edifici molto elevati, che rallentano i venti e forzano le masse d’aria a convergere verso il centro della città. Questo provoca, a sua volta, un maggiore movimento dell’aria dal basso verso l’alto: “Movimento che favorisce la condensazione del vapore acqueo e la formazione di nuvole, condizioni critiche per la produzione di piogge e precipitazioni”.

    I dati

    Clima, ASviS: 9 città verso la neutralità al 2030, emissioni ridotte ma ancora barriere

    di redazione Green&Blue

    30 Luglio 2024

    Un’altra correlazione emersa dallo studio riguarda il numero di abitanti delle città prese in considerazione: secondo i risultati della ricerca, le città più popolose sono quelle più soggette alle anomalie di precipitazione. Questo sarebbe, da un lato, legato al fatto che le città con un elevato numero di abitanti tendono a svilupparsi molto verso l’alto con la presenza di edifici alti; dall’altro, alla maggiore emissione di gas serra dovuta agli spostamenti, attività industriali.

    Lo studio
    La novità di questo studio sta nell’ampiezza del campionamento. Gli autori hanno infatti preso in considerazione le anomalie che si sono verificate tra il 2001 e il 2020 nelle precipitazioni di 1.056 città sparse per tutto il globo, tra cui Rio de Janeiro, Città del Messico, Tokyo.
    Spiega Xinxin Sui, ricercatrice e prima autrice dello studio: “Dopo aver scoperto che oltre il 60% di queste città ha più precipitazioni rispetto alla campagna circostante, abbiamo fatto un confronto con le diverse zone climatiche scoprendo che le città più calde e umide registrano anomalie nelle precipitazioni maggiori rispetto alle città che si trovano in luoghi più freschi e secchi”.

    I dati

    Clima, ASviS: 9 città verso la neutralità al 2030, emissioni ridotte ma ancora barriere

    di redazione Green&Blue

    30 Luglio 2024

    Fra le grandi città analizzate, le più importanti anomalie di precipitazione sono state registrate a Houston (Stati Uniti) – dove in media ogni anno le precipitazioni superano quelle delle aree rurali di circa 12 centimetri – Ho Chi Minh (Vietnam); Kuala Lumpur (Malesia); Lagos (Nigeria) e l’area metropolitana di Miami (Stati Uniti). Tra l’altro, si legge nell’articolo, l’entità del fenomeno in queste aree è quasi raddoppiato negli ultimi 20 anni.

    Esistono poi delle eccezioni: le aree urbane di Seattle (Stati Uniti), Kyoto (Giappone) e Jakarta (Indonesia), per esempio, tendono a ricevere meno pioggia rispetto alle campagne limitrofe. Questo, spiegano i ricercatori, si verifica tipicamente in città situate in valli o pianure dove le dinamiche delle precipitazioni sono in parte controllate dalle montagne. LEGGI TUTTO

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    Il filodendro: tipi, cura, esposizione e come annaffiare

    Il filodendro è una pianta appartenente alla famiglia delle araceae ed è in vendita in diverse varietà, per lo più a carattere rampicante o ricadente, anche se si trovano alcuni tipi arbustivi. Questo sempreverde si può coltivare facilmente in vaso, tra le mura domestiche.

    La cura in vaso del filodendro
    Il filodendro, dal greco “amico degli alberi”, è una pianta che gradisce una temperatura compresa tra i 18°C e i 24°C e non ama assolutamente le correnti d’aria fredda. Per prendersi correttamente cura del filodendro in casa è necessario garantire una temperatura minima di 13°C, giacché già a 10°C la pianta riporta gravi danni e rischia anche di morire. Proprio per questo, è consigliabile sistemare il filodendro in un angolo dell’abitazione, magari su una mensola o su un mobile basso. In questo modo, si può godere di uno splendido esemplare sempreverde in piena forma. Ricordiamo, però, di non prendere questa pianta qualora si avessero animali domestici, giacché risulta essere tossica per cani e gatti.

    I tipi di filodendro da coltivare in appartamento
    Del filodendro è possibile trovare ben oltre 500 specie suddivise per dimensioni e colori, caratteristiche che rendono unico ogni esemplare. Infatti, se ne trovano di tipi con foglie grandi o sfumature differenti. Per esempio, la Monstera deliciosa si presenta con grandi foglie forate ed è ideale da collocare in ambienti spaziosi. Il filodendro gloriosum, invece, è un tipo di pianta che ha delle splendide foglie, ma richiede molto più tempo per la sua crescita. Tra le altre varietà diffuse che si trovano facilmente vi è anche il filodendro Brasil che si contraddistingue per essere un esemplare con foglie a forma di cuore verde scuro, a carattere rampicante. Il filodendro Xanadu, invece, ha foglie grandi e lobate e si sviluppa come un cespuglio. Se si desidera un tipo di filodendro davvero speciale, però, non si può fare a meno di menzionare il philodendron Pink Princess che ha foglie verde scuro con una punta di rosa acceso.

    Qual è il terreno migliore per il filodendro?
    Per ottenere una pianta sana è importante selezionare il miglior terriccio disponibile. In tal caso, è necessario usare per questa sempreverde un terriccio ricco di sostanze organiche, con un mix di torba, terriccio e foglie di faggio. Sul fondo del vaso è preferibile sistemare una serie di ciottoli che consentiranno di drenare meglio l’acqua ed eviteranno i cosiddetti ristagni idrici.

    L’annaffiatura del filodendro
    Questa pianta ornamentale richiede annaffiature abbondanti, specie durante la stagione estiva. Durante il resto dell’anno si possono diminuire. È importante far asciugare completamente la superficie del terreno prima di proseguire con la successiva annaffiatura. In questo modo, il terreno ha tutto il tempo di asciugare, evitando inconvenienti che possono influenzare in qualche modo sulla crescita della pianta.

    L’esposizione consigliata per il filodendro
    Il filodendro non gradisce il sole diretto e, anzi, nella maggior parte dei casi la luce di questo genere compromette le foglie, bruciandole. È meglio selezionare un punto della casa o dell’ufficio dove vi è abbondante luce diffusa, poiché in caso di assenza di luminosità si rischia di ottenere una pianta priva di foglie con internodi più lunghi.

    La concimazione del filodendro
    Il filodendro può essere concimato durante il periodo primaverile ed estivo: è preferibile farlo ogni 3 settimane, utilizzando un concime liquido per piante verdi, da diluire proprio con l’acqua delle annaffiature. Selezionare un concime che contiene in prevalenza l’azoto può aiutare nella crescita la pianta.

    La potatura e il rinvaso del filodendro
    Il filodendro non ha bisogno di alcuna potatura, bensì è necessario pulire la pianta con regolarità, togliendo le foglie danneggiate o morte. In questa maniera, si favorisce una crescita sana e forte della sempreverde. Questa “potatura” si può effettuare in qualunque momento dell’anno e spesso è sfruttata anche per dare la forma che si desidera alla pianta. Tra i mesi di febbraio e marzo ci si può occupare del rinvaso della pianta. Il nostro consiglio è di selezionare un vaso leggermente più grande e di sostituire il vecchio terriccio in superficie (circa 2-3 centimetri). Dopodiché, si può rinvasare la pianta, avendo l’accortezza di aggiungere un supporto utile per il sostegno della pianta.

    Le avversità in cui può incorrere il filodendro
    Come avviene spesso per le piantine ornamentali, anche il filodendro teme l’acqua in eccesso: infatti, annaffiature sbagliate possono far sorgere il marciume dell’apparato radicale, portando la pianta alla morte. Naturalmente, anche la carenza di acqua provoca danni al filodendro: l’irrigazione scarsa fa ingiallire le foglie. La pianta non soffre di malattie da parassiti e ciò è dovuto alla presenza di foglie più dure che non sono gradite al palato degli insetti. Possono comunque comparire degli afidi che si combattono con un prodotto antiparassitario. LEGGI TUTTO