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    Basta bottiglie di plastica, inquinano e contengono inquinanti

    L’acqua del rubinetto? “Pietra angolare della responsabilità ambientale e della salute pubblica”. Il messaggio arriva dal commento ospitato in questi giorni sulle pagine di BMJ Global Health: in gioco c’è la salute dell’ambiente sì, ma anche quella umana.
    A firmare quello che suona come un rinnovato appello a prediligere borracce e caraffe, sono alcuni esperti della Weill Cornell Medicine del Qatar e del New York Medical College, che mettono sul piatto numeri e ragioni per rinvigorire le azioni contro quello che definiscono senza dubbio un consumo “eccessivo” di acqua in bottiglia. Non c’è un aspetto, nei vari da loro affrontati, in cui il consumo di acqua imbottigliata possa apparire superiore a quella del rubinetto. Parliamo, ovviamente, dei paesi a medio e alto reddito, dove l’acqua del rubinetto è controllata, potabile e generalmente di buona qualità. In Italia, per esempio, quella del rubinetto rispetta largamente i parametri richiesti per legge, come reso noto nei mesi scorsi dal Centro nazionale per la sicurezza delle acque (CeNSiA) dell’Istituto superiore di sanità (Iss).

    Ambiente

    Dal Giappone, le perle di ceramica per purificare l’acqua del rubinetto e ridurre la plastica

    di Paolo Travisi

    13 Agosto 2024

    L’acqua in bottiglia non conviene quasi mai
    Non certo dal punto di vista energetico, scrivono Amit Abraham e colleghi: è più dispendiosa di circa duemila volte rispetto a quella del rubinetto, e per produrre un solo litro di questa possono servire fino a 35 litri di acqua. E i numeri sono enormi, dal momento che, ricordano gli autori, le stime dicono che ogni minuto al mondo si comprano un milione di bottiglie, che finiscono in buona parte dei casi in giro per l’ambiente: il 12% dei rifiuti di plastica arriva da qui.

    Longform

    Tutto quello che sappiamo sulle microplastiche e quanto inquinano

    di Paola Arosio

    18 Luglio 2024

    Se non bastasse a preoccupare il problema ambientale – poca la plastica riciclata, molta quella dispersa, con tutti i rischi relativi alla diffusione per l’ambiente, e i problemi per gli ecosistemi – anche sul fronte della salute le bottigliette di plastica sono problematiche. Secondo quanto riferiscono i ricercatori spesso i controlli richiesti per l’erogazione delle acque municipali sono maggiori di quelli che devono ottemperare i produttori di acqua in bottiglia (senza considerare, ricordano, che in alcuni casi, altro non si tratta che di acqua del rubinetto imbottigliata). Ma oltre alle norme, le confezioni di plastica possono rilasciare una serie di inquinanti collegati a diversi problemi di salute, compresi solo in parte.

    Acqua del rubinetto, perché un italiano su tre non si fida (e fa male)

    di Elvira Naselli

    16 Luglio 2024

    Problematici sono in particolare i contenuti di sostanze quali ftalati, microplastiche – fino a centinaia di migliaia per litro, secondo alcuni studi – Pfas, bisfenolo A, alchilfenoli.

    La contaminazione
    Non è chiaro come queste sostanze influenzino la salute, ma sono state correlate a disfunzioni del metabolismo lipidico, dell’equilibrio ormonale ma anche a problemi gastrointestinali, cardiovascolari e neurologici, scrivono gli autori: “La contaminazione diffusa con microplastiche, interferenti endocrini e altre sostanze pericolose tradisce l’immagine pulita dell’acqua in bottiglia”. Il messaggio è per tutti, ma soprattutto per i decisori e i governatori, che possono e devono guidare le politiche per garantire acqua sicura, aiutare a ridurre l’utilizzo della plastica, specie quella monouso, e rinvigorire il messaggio che l’acqua del rubinetto è molto spesso la scelta migliore che si possa fare. LEGGI TUTTO

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    Pfas, le nuove regole Ue sulle sostanze pericolose per l’ambiente e la salute

    La Commissione europea ha imposto nuove restrizioni sull’uso di alcune sostanze chimiche pericolose per la salute e l’ambiente, vietando l’acido perfluoroesanoico (PFHxA) e i suoi derivati, composti sviluppati dall’industria negli anni ’40 per la loro capacità di resistere all’acqua. Queste sostanze, appartenenti alla famiglia dei PFAS, sono note come “sostanze chimiche eterne” per la loro persistenza nell’ambiente, che porta alla contaminazione del suolo e delle acque, inclusa quella potabile.

    Energia

    Inquinamento, le batterie al litio sono una (nuova) sorgente di PFAS

    di Sandro Iannaccone

    12 Luglio 2024

    “Stiamo eliminando le sostanze nocive dai prodotti che i cittadini utilizzano quotidianamente, come i tessuti, i cosmetici e gli imballaggi alimentari” ha dichiarato Maros Sefcovic, vicepresidente esecutivo Ue per il Green Deal, commentando le nuove misure Eu in linea con il regolamento Reach, il principale strumento normativo europeo per proteggere la salute umana e l’ambiente dai rischi delle sostanze chimiche.

    Salute

    Pfas nelle giacche a vento per bambini: rintracciate le sostanze chimiche nocive nel 63% dei test

    di Paolo Travisi

    25 Aprile 2024

    La restrizione vieterà la vendita e l’uso dell’acido perfluoroesanoico in una concentrazione pari o superiore a 25 ppb per la somma del PFHxA e dei suoi sali, o pari a 1.000 ppb per la somma delle sostanze correlate al PFHxA, misurata in materiali omogenei. Questo divieto si applicherà a una vasta gamma di articoli di consumo: prodotti tessili (tovaglie e tende oscuranti), cuoio, pellicce e pelli utilizzate nell’abbigliamento (tra cui giacche antipioggia) e relativi accessori (quali borse), calzature, carta e nel cartone utilizzati come materiali a contatto con gli alimenti (per esempio, scatole per pizza), spray impermeabilizzanti, cosmetici.

    Un ambito particolarmente delicato riguarda le schiume antincendio, dove saranno applicate eccezioni per garantire la sicurezza in contesti critici. Tuttavia, alcuni settori strategici, come quello dei semiconduttori e delle batterie per l’idrogeno, manterranno per ora la possibilità di utilizzare queste sostanze.

    Il nuovo regolamento sugli “inquinanti eterni”
    Messo a segno un passo importante verso la riduzione delle sostanze tossiche nell’ambiente. L’obiettivo principale è limitare l’uso di questi composti laddove il rischio non sia adeguatamente controllato, i costi economici siano limitati rispetto ai benefici per la salute umana e l’ambiente, ed esistano alternative sostenibili.
    “Sostituire le ‘sostanze chimiche eterne’ aiuta a mantenere l’ambiente sano, a preservare le risorse e a promuovere l’innovazione in alternative più pulite. La direzione è chiara e le imprese avranno a disposizione periodi di transizione sufficienti per adattarsi” ha aggiunto il Commissario Sefcovic. La restrizione, infatti, entrerà in vigore dopo periodi transitori compresi tra 18 mesi e 5 anni a seconda dell’uso, lasciando il tempo necessario per sostituire la sostanza con alternative più sicure.

    Nella catena alimentare
    Negli ultimi 20 anni, l’UE ha intensificato le sue azioni per contrastare l’inquinamento da PFAS, anche nel cibo che mangiamo. Nel 2020, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), che da anni monitora la diffusione l’impatto dei PFAS negli alimenti, ha stabilito una nuova soglia di sicurezza per i principali composti perfluoroalchilici, che tendono ad accumularsi nell’organismo umano. La dose settimanale tollerabile di gruppo (DST) è stata fissata a 4,4 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo, ma non ha riguardato i PFHxA. Due anni dopo, la Commissione Ue ha emesso una raccomandazione (CE2022/1431) che invita gli Stati membri, in collaborazione con gli operatori del settore alimentare, a monitorare la presenza di PFAS, inclusi i PFHxA, negli alimenti dal 2022 al 2025.

    Ambiente

    La denuncia di Greenpeace: “Acqua contaminata da PFAS nei fiumi toscani”

    di redazione Green&Blue

    19 Marzo 2024

    “Finora l’EFSA ha ricevuto e pubblicato i dati di monitoraggio per il 2022” ha affermato Hans Steinkellner, responsabile scientifico di EFSA. “Seguiranno i dati di monitoraggio per il 2023, 2024 e 2025. Quando saranno pervenuti dati sufficienti, la Commissione europea potrà eventualmente richiedere all’EFSA una valutazione di follow-up sulla contaminazione da sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) negli alimenti.” LEGGI TUTTO

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    In due foto di Meloni il nodo dell’automotive italiano

    Facciamo un esercizio comparativo e accostiamo due foto recenti della presidente del consiglio Giorgia Meloni. La prima è di pochi giorni or sono e la vede ritratta mentre parla alla platea di Confindustria: sta dicendo che l’obiettivo europeo di vendita di auto 100% zero emission, al 2035, è “autodistruttivo” e va radicalmente ridiscusso; e paventa, se così non fosse, l’azzeramento dell’automotive nell’Unione, la perdita di 14 milioni di posti di lavoro e altre catastrofi.

    La seconda foto, e siamo alla fine dello scorso luglio, la vede sorridente mentre stringe cordialmente la mano al presidente Xi Jinping, nel corso di una missione in Cina che aveva, tra i suoi scopi principali, quello di convincere le case auto di Pechino a impiantare la loro produzione elettrica in Italia.

    La distanza temporale tra i due scatti è minima; quella politica, invece, è apparentemente incolmabile. Eppure in Meloni e nel suo governo quelle due linee – la battaglia in Europa contro l’auto elettrica e il tentativo di rilanciare l’automotive nazionale, attirando i carmaker cinesi – convivono, per quanto contraddittorio ciò possa apparire.

    Il ministro Urso ha dichiarato che il 25 settembre chiederà all’Unione di anticipare la revisione dei regolamenti sulla riduzione delle emissioni di CO2 da auto e van. “Chiunque conosca il sistema produttivo sa che gli investimenti si fanno se c’è certezza”, ha dichiarato Urso. “Chiedo di anticipare questa decisione (rivedere l’impegno al 2035, ndr) perché se lasciamo l’incertezza fino al 2026 (…) rischiamo il collasso dell’industria”.

    L’assunto da cui muove il ministro per il Made in Italy è corretto: la certezza delle prospettive industriali è cruciale per mobilitare capitali e sostenere la transizione. Il ragionamento che ne consegue è invece fragile: proprio perché dobbiamo garantire stabilità e prospettiva all’industria europea, che già molto ha investito, il punto non dovrebbe essere quando ridiscutere gli obiettivi che l’Unione si è data, quanto piuttosto confermarli e sostenerli con misure di finanza pubblica dell’Unione, come suggerito dal report di Mario Draghi.

    L’Italia continua nel suo braccio di ferro (perdente) con Tavares e con Stellantis, chiedendo che la produzione del gruppo, nello stivale, torni a un milione di veicoli. Per tutta risposta il ceo portoghese continua a tagliare la produzione e a migrarla in Polonia, Serbia, Turchia e nord Africa. Di produttori cinesi pronti a investire in Italia, nel mentre (ma speriamo di essere smentiti presto), neppure l’ombra. Per quale motivo dovrebbero venire a produrre auto elettriche in un Paese che continua a segnalarsi per la sua ostilità a quella tecnologia?

    L’Italia reclama una via di “neutralità tecnologica” al 2035; non si è accorta, forse, che è esattamente quel che prevede la normativa, che non dice in alcun passaggio che le auto vendute a partire da quella data dovranno solo essere elettriche: potrà esserci spazio per ogni tecnologia (idrogeno o carburanti sintetici) che consegua gli obiettivi climatici e si dimostri percorribile in termini industriali.

    La partita del nostro governo è intesa a garantire mercati ai biocarburanti di ENI, già rigettati dall’Europa come vettori troppo emissivi e non conformi alla normativa; e a far sopravvivere, in qualche modo e in qualche misura, il motore endotermico, una tecnologia vecchia e largamente inefficiente in termini energetici. Se questo può rassicurare, nel brevissimo termine, parte della nostra industria componentistica, non può rappresentare per contro una prospettiva industriale per il Paese.

    Meloni e Urso sembrano immaginare l’Italia come una “nicchia” industriale per l’endotermico, magari l’ultima a ‘resistere’ in un’Europa convertita alla produzione elettrica. Contano forse, in questo modo, di costruire una rendita di posizione che invece non potrà concretizzarsi. Non è e non sarà l’Italia a produrre auto “fossili” di serie B, o componentistica endotermica, magari per i mercati extraeuropei; altri Paesi possono farlo con maggiore competitività. Il nostro ha bisogno di innovare; ovvero, di fare l’esatto contrario delle battaglie di retroguardia a cui assistiamo da mesi. La prospettiva industriale dell’elettrificazione dell’auto è ben più che concreta: lo dimostra la competizione tra Cina, USA e Unione Europea, nonché gli enormi investimenti dell’industria. Che piaccia o meno, questa è la sola partita che le economie europee possono giocare, Italia inclusa.

    *Andrea Boraschi – Direttore Transport & Environment LEGGI TUTTO

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    I coleotteri che spaventano l’Europa: 12 specie aliene dannose per le nostre foreste

    Per l’Europa alcuni sono innocui come il coleottero dei chicchi di caffè, un parassita che attacca piante che in Europa crescono solo in un paio di campi sperimentali in Sicilia. Altri insetti della stessa famiglia sono, al contrario, molto più pericolosi. Ad esempio quelli del genere Euwallacea, appartenenti al gruppo dei coleotteri dell’ambrosia, colonizzano il legno sotto la corteccia degli alberi e per sopravvivere coltivano funghi che poi conducono la pianta al capolinea.

    Nel 2021 ai giardini Trauttsmandorf in provincia di Bolzano è stato necessario bruciare tutte le piante della serra tropicale, comprese 500 orchidee, per l’introduzione accidentale di uno di insetti originari del sudest asiatico, sbarcato in Europa una volta sola, per sbaglio, in Polonia nel 2017.

    Ora l’EFSA, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, ha identificato 12 specie aliene di questi coleotteri ad alto rischio di introduzione nei paesi dell’Unione. Sono tutti scolitidi, una famiglia che comprende 6.495 specie delle quali circa 350 native, e innocue, del nostro continente. Colpiscono in particolare le latifoglie, un genere che include tanti alberi importanti sia per la biodiversità forestale come il faggio o il frassino, e altri di valore economico come il noce, il ciliegio e il castagno.

    La startup Vaia e i boschi distrutti dalla tempesta: “Dall’economia circolare sono nati 100mila abeti ma non basta”

    di  Serena Gasparoni

    19 Settembre 2024

    “Ci sono due fattori che negli ultimi anni hanno aumentato in modo significativo le probabilità di invasione da parte di specie aliene, il cambiamento climatico e il commercio internazionale. – spiega Massimo Faccoli, ordinario di entomologia forestale dell’Università di Padova che ha coordinato lo studio dell’EFSA – Le temperature più alte consentono a questi insetti spesso di origine tropicale e subtropicale di sopravvivere ai nostri inverni più miti mentre l’impennata del traffico globale delle merci, in questo caso legate al legno e alle piante arboree, agisce come via preferenziale di ingresso”.

    Ai primi posti della black list si trova Pityophthorus juglandis, un coleottero di origine centro americana che negli Stati Uniti ha mandato al tappeto la coltivazione del noce, compreso quello nero molto richiesto dall’industria del legname. Mentre il genere Euwallacea, di origine asiatica, conta quasi la metà delle specie della lista nera ed è tra i più insidiosi. LEGGI TUTTO

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    Iris, i fiori della speranza: come coltivare la pianta

    L’iris è un genere di piante che comprende più di 300 specie differenti, molte delle quali sono degli ibridi naturali, tutte appartenenti alla famiglia delle iridacee. Le origini di queste piante bulbose o rizomatose sono da ricercare nel continente asiatico, mentre gli arabi ne hanno permesso l’arrivo nel Mediterraneo. L’iris è disponibile in tanti colori differenti, con fiori che possono essere viola (pseudopumila, sibirica), blu (reticulata), bianchi (japonica, florentina), bianchi e viola (marsica), rosa (laevigata), lilla (pallida), arancioni (germanica orange) o gialli (pseudacorus, una specie che cresce spontaneamente in aree acquitrinose). Il periodo di fioritura dell’iris cambia a seconda delle varietà: alcune fioriscono all’inizio della primavera, mentre altre in autunno, ma di solito per periodi che non superano un paio di settimane. I fiori dell’iris sono contraddistinti dai petali interni orientati verso l’alto e quelli esterni che, invece, pendono verso il basso. Nel linguaggio dei fiori, regalando un iris trasmettiamo un messaggio che ha un significato di positività e speranza.

    L’esposizione ideale per l’iris

    La pianta è piuttosto versatile, giacché gradisce l’esposizione in pieno sole, ma tollera altrettanto senza problemi la penombra. Alcune specie non temono in modo particolare i climi rigidi: l’iris sibirica e germanica, ad esempio, sono particolarmente rustici. Nel caso delle varietà esotiche, invece, le temperature minime al di sotto dei 10 gradi rappresentano un problema. Per queste specie di iris, in tante aree del nostro paese si impone l’esigenza della coltivazione in vaso. Ricordiamoci di sistemare il contenitore in un luogo privo di correnti d’aria e che offra una buona esposizione alla luce solare.

    Il terreno adatto per l’iris
    Per offrire delle condizioni ideali per la crescita della pianta, dobbiamo scegliere un terreno caratterizzato da una buona capacità di drenaggio. Solo in questo modo possiamo scongiurare che vi sia del ristagno idrico che possa causare l’attacco del bulbo o del rizoma da parte delle muffe. L’iris si adatta a crescere anche nei terreni poveri, a patto che abbiano un substrato leggero. Se fosse necessario, per incrementare la capacità drenante del terreno, potremmo aggiungere della sabbia o dell’argilla espansa (soprattutto nel caso di coltivazione in vaso).

    L’iris: come e quando piantarlo
    Le specie rizomatose di iris vanno messe in terra attorno alla seconda metà di giugno, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, avendo l’accortezza di interrare il rizoma appena sotto il livello del terreno. Se posizioniamo i rizomi troppo in profondità, il rischio è che non fioriscano e possano essere più soggetti al marciume. Nel caso dei bulbi, invece, ricordiamoci di piantarli verso la fine di settembre: in questo caso, dobbiamo interrarli alla profondità di circa una decina di centimetri.

    L’innaffiatura e la concimazione dell’iris
    A prescindere dalle esigenze specifiche di ogni singola specie, teniamo presente che bulbi e rizomi non sono particolarmente amanti dei ristagni idrici. Per evitare che l’iris possa essere colpito dalla muffa, non eccediamo nella quantità di acqua e, soprattutto, attendiamo sempre che il terreno sia ben asciutto tra un’annaffiatura e la seguente. Alcune specie esotiche di iris possono avere esigenze di irrigazione più contenute in ragione delle condizioni climatiche piuttosto aride di origine. Per quanto riguarda la concimazione, possiamo ricorrere al fertilizzante liquido da aggiungere all’acqua di irrigazione: possiamo darlo una volta al mese, solo durante la stagione vegetativa.

    La riproduzione dell’iris
    A seconda delle specie di iris, bulbose o rizomatose, possiamo propagare la pianta tramite la separazione dei bulbilli o, rispettivamente, la suddivisione del rizoma. Nel caso in cui non ricoverassimo i bulbi durante l’inverno, lasciandoli nel terreno, ricordiamoci di verificare se siano presenti dei bulbilli attorno ai bulbi madre. Qualora ci fossero, rimuoviamoli con cura: in questo modo, ogni singolo bulbo potrà svilupparsi con maggior vigore.

    La potatura dell’iris
    Questa pianta non richiede degli specifici interventi di potatura. Per evitare però che l’iris possa risentire dell’attacco da parte di parassiti, non dimentichiamoci di rimuovere subito le foglie o i fiori che fossero danneggiati o comunque disseccati.

    I rischi per l’iris
    Diverse varietà bulbose e rizomatose dell’iris possono essere colpite dalla mosca dei bulbi, che si nutre di questa parte della pianta. La cetoniella, invece, può divorarne i fiori. L’iris può soffrire anche del cosiddetto marciume molle, una malattia causata da un batterio che causa lo spappolamento di foglie e rizomi. La pianta può essere colpita anche da alcune avversità causate dai funghi, come nel caso del marciume asciutto (macchie brune sulle foglie), muffa verde (marciume di bulbi e rizomi ricoverati durante la stagione invernale), ruggine (macchie gialle sulle foglie) e seccume fogliare (macchie scure che diventano buchi). I rimedi consigliati per la cura delle avversità dell’iris sono, a seconda dei casi, un insetticida, un antifungino o un antibatterico. LEGGI TUTTO

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    Filodendro, tante piante da interni: i consigli

    Il filodendro è una pianta appartenente alla famiglia delle araceae ed è in vendita in diverse varietà, per lo più a carattere rampicante o ricadente, anche se si trovano alcuni tipi arbustivi. Questo sempreverde si può coltivare facilmente in vaso, tra le mura domestiche.

    La cura in vaso del filodendro
    La cura del filodendro o philodendron in vaso presuppone una buona crescita della pianta, con foglie lussureggianti che sembrano quasi volerci trasportare all’interno delle foreste americane. Il filodendro, dal greco “amico degli alberi”, è una pianta che gradisce una temperatura compresa tra i 18°C e i 24°C e non ama assolutamente essere collocata in zone dove sono presenti correnti d’aria fredda. Per prendersi correttamente cura del filodendro in casa è necessario garantire una temperatura minima di 13°C, giacché a 10°C la pianta riporta gravi danni e rischia anche di morire. Proprio per questo, è consigliabile sistemare il filodendro in un angolo dell’abitazione, magari su una mensola o su un mobile basso. In questo modo, si può godere di uno splendido esemplare sempreverde in piena forma. Ricordiamo, però, di non prendere questa pianta qualora si avessero animali domestici, giacché risulta essere tossica per cani e gatti.

    I tipi di filodendro da coltivare in appartamento
    Del filodendro è possibile trovare ben oltre 500 specie suddivise per dimensioni e colori, caratteristiche che rendono unico ogni esemplare. Infatti, se ne trovano di tipi con foglie grandi o sfumature differenti. Per esempio, la Monstera deliciosa si presenta con grandi foglie forate ed è ideale da collocare in ambienti spaziosi. Il filodendro gloriosum, invece, è un tipo di pianta che ha delle splendide foglie, ma richiede molto più tempo per la sua crescita. Tra le altre varietà diffuse che si trovano facilmente vi è anche il filodendro Brasil che si contraddistingue per essere un esemplare con foglie a forma di cuore verde scuro, a carattere rampicante. Il filodendro Xanadu, invece, ha foglie grandi e lobate e si sviluppa come un cespuglio. Se si desidera un tipo di filodendro davvero speciale, però, non si può fare a meno di menzionare il philodendron Pink Princess che ha foglie verde scuro con una punta di rosa acceso. Selezionando la pianta che si preferisce di più, si potrà dare un grande tocco di personalità all’ambiente.

    Qual è il terreno migliore per il filodendro?
    Per ottenere una pianta sana è importante selezionare il miglior terriccio disponibile. In tal caso, è necessario usare per questa sempreverde un terriccio ricco di sostanze organiche, con un mix di torba, terriccio e foglie di faggio. Sul fondo del vaso è preferibile sistemare una serie di ciottoli che consentiranno di drenare meglio l’acqua ed eviteranno i cosiddetti ristagni idrici.

    L’annaffiatura del filodendro
    Questa pianta ornamentale richiede annaffiature abbondanti, specie durante la stagione estiva. Durante il resto dell’anno si possono diminuire. È importante far asciugare completamente la superficie del terreno prima di proseguire con la successiva annaffiatura. In questo modo, il terreno ha tutto il tempo di asciugare, evitando inconvenienti che possono influenzare in qualche modo sulla crescita della pianta.

    L’esposizione consigliata per il filodendro
    Il filodendro non gradisce il sole diretto e, anzi, nella maggior parte dei casi la luce di questo genere compromette le foglie, bruciandole. È meglio selezionare un punto della casa o dell’ufficio dove vi è abbondante luce diffusa, poiché in caso di assenza di luminosità si rischia di ottenere una pianta priva di foglie con internodi più lunghi.

    La concimazione del filodendro
    Il filodendro può essere concimato durante il periodo primaverile ed estivo: è preferibile farlo ogni 3 settimane, utilizzando un concime liquido per piante verdi, da diluire proprio con l’acqua delle annaffiature. Selezionare un concime che contiene in prevalenza l’azoto può aiutare nella crescita la pianta.

    La potatura e il rinvaso del filodendro
    Il filodendro non ha bisogno di alcuna potatura, bensì è necessario pulire la pianta con regolarità, togliendo le foglie danneggiate o morte. In questa maniera, si favorisce una crescita sana e forte della sempreverde. Questa “potatura” si può effettuare in qualunque momento dell’anno e spesso è sfruttata anche per dare la forma che si desidera alla pianta.
    Tra i mesi di febbraio e marzo ci si può occupare del rinvaso della pianta. Il nostro consiglio è di selezionare un vaso leggermente più grande e di sostituire il vecchio terriccio in superficie (circa 2-3 centimetri). Dopodiché, si può rinvasare la pianta, avendo l’accortezza di aggiungere un supporto utile per il sostegno della pianta.

    I rischi per il filodendro
    Come avviene spesso per le piantine ornamentali, anche il filodendro teme l’acqua in eccesso: infatti, annaffiature sbagliate possono far sorgere il marciume dell’apparato radicale, portando la pianta alla morte. Naturalmente, anche la carenza di acqua provoca danni al filodendro: l’irrigazione scarsa fa ingiallire le foglie. La pianta non soffre di malattie da parassiti e ciò è dovuto alla presenza di foglie più dure che non sono gradite al palato degli insetti. Possono comunque comparire degli afidi che si combattono con un prodotto antiparassitario. LEGGI TUTTO

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    I giovani si muovono in modo “sostenibile”, ma l’Italia è indietro

    Cammina, condividi, ricicla, ripara e riusa. Queste le 5 regole d’oro, secondo le nuove generazioni, per avere uno stile di vita amico del Pianeta. Il punto di partenza è la mobilità sostenibile: il 60% si “promuove” in termini di attenzione quotidiana alla riduzione delle proprie emissioni carboniche quando si muove da un luogo all’altro. Questo aspetto risulta quello più importante da curare – secondo il 39% – per ridurre il proprio impatto ambientale, seguito dalla raccolta differenziata (24%) e dal recupero/riuso degli oggetti (23%). Non manca, poi, chi pone più attenzione a comportamenti virtuosi come usare meno risorse – acqua ed energia in primis – per il benessere personale (8%) o prodotti cosmetici meno inquinanti (7%).

    È questo il messaggio lanciato alla comunità dai 2.500 studenti – di età compresa tra i 15 e i 35 anni – che hanno partecipato all’indagine “I giovani e la mobilità sostenibile” condotta nelle scorse settimane da Skuola.net per ECO Festival della Mobilità Sostenibile e delle Città Intelligenti, l’evento dedicato allo stato dell’arte della transizione ecologica nei trasporti di persone e merci in Italia.

    L’impegno delle Generazioni Y e Z sembra non limitarsi alle parole. Si traduce nei comportamenti di tutti i giorni. Oltre 2 su 3, infatti, sostengono di aver pressoché abbandonato i mezzi di trasporto più inquinanti: il 33% preferisce, laddove possibile, sfruttare il servizio pubblico (bus, tram, metropolitane, treni locali, ecc.), il 13% si divide tra biciclette e monopattini, il 4% sta già sperimentando altre forme di micromobilità elettrica (come, ad esempio, hoverboard, monowheel e dintorni), il 19% quando ha modo va direttamente a piedi. Solo il 31%, dunque, continua a prediligere i classici veicoli a motore (automobili, moto e motocicli), da ospite o guidatore.

    Mobilità

    “La mobesity non aiuta l’ambiente. Serve una tassa sui SUV elettrici”

    di  Dario D’Elia

    18 Settembre 2024

    Anche il ricorso allo shopping online – che secondo alcuni studi può ridurre le emissioni di CO2 di quasi tre volte rispetto a un acquisto nel canale fisico – rappresenta uno dei contributi alla causa, seppur inconsapevole: solo il 16% è a conoscenza di questo aspetto mentre l’8% pensa che l’e-commerce abbia addirittura impatti ambientali negativi.

    Quali sono le mosse che, secondo i giovani, potrebbero agevolare la transizione? Innanzitutto un riassetto del trasporto pubblico, ovvero i mezzi che conoscono meglio in quanto più utilizzati. Per quasi la metà di loro (45%) potrebbe bastare un potenziamento della frequenza delle corse, il 26% punterebbe piuttosto sull’allargamento della rete al maggior numero possibile di aree cittadine, il 21% pensa che il contenimento dei prezzi di biglietti e abbonamenti sarebbe la soluzione ottimale, solo l’8% in via prioritaria agirebbe sulla sicurezza e sul comfort dei veicoli.
    Perché allo stato attuale è innegabile che l’automobile, specie in alcuni contesti (per esigenze lavorative, logistiche, famigliari, ecc.), rimane un mezzo indispensabile o quasi. Gli stessi ragazzi, proiettandosi al domani, prevedono comunque di acquistarne una: per il 61% è praticamente certo, il 23% potrebbe rinunciarvi solo se dovessero crescere e affermarsi definitivamente i servizi di car sharing o di noleggio. Appena il 16% lo esclude a priori.
    Un dato apparentemente in controtendenza rispetto ai numerosi studi che vedono la Generazione Z lontana dall’auto di proprietà quale status symbol, ma che risente della sfiducia dei ragazzi rispetto a quanto il Paese sta facendo per la transizione ecologica.
    Solo il 30% delle ragazze e dei ragazzi pensa, infatti, che in Italia si stia lavorando efficacemente verso questo obiettivo, sia dal punto di vista economico che culturale e chiedono perciò uno sforzo anche agli adulti, specialmente a quelli “che contano”, per prendere decisioni e mettere in campo azioni che accelerino il cambiamento. Alla fine, oltre 1 su 2 prevede tempi molto lunghi per il suo raggiungimento e 1 su 4 ritiene che in Italia smart cities e mobilità sostenibile siano un’utopia irrealizzabile.
    Come fare, ad esempio, a imprimere una spinta decisiva verso un approccio ecologico al settore delle auto? Secondo gli intervistati, si dovrebbe agire su un doppio binario. Da un lato incrementando la presenza di colonnine di ricarica nelle nostre città: per 1 su 3 non si può prescindere da ciò. Dall’altro incentivando il passaggio tramite bonus e incentivi: li mette al primo posto il 31%. Solo in secondo piano vengono, invece, le campagne sulla conoscenza dei benefici dell’elettrico per il Pianeta e dei benefit che si possono avere grazie a questi veicoli (parcheggi gratuiti, accesso ai centri storici, ecc.): a considerarle prioritarie è, in entrambi i casi, il 18%.
    Il contesto urbano è, in ogni caso, il fulcro del discorso. Ma le città potrebbero essere sempre più a emissioni zero, non solo ricorrendo all’elettrico ma anche grazie alla ciclabilità. Per incentivare i cittadini a inforcare le due ruote per la mobilità quotidiana, sempre secondo i giovani, bisogna lavorare essenzialmente su due aspetti: il 47% degli intervistati ritiene che sia fondamentale aumentare le infrastrutture dedicate (piste ciclabili, bike station, ecc.), mentre il 27% crede sia fondamentale ripensare gli spazi urbani con più attenzione a ciclisti e pedoni.
    Oltre a questo, le città del futuro dovrebbero poi per poter contare su una riduzione dei limiti di velocità – il 71% sarebbe ben disposto ad accettarli in cambio di una riduzione della mortalità dovuta agli incidenti stradali (prima causa di morte per i giovani italiani sotto i 30 anni) – e su una maggiore riforestazione, per assorbire le emissioni di CO2 inevitabili: per 2 intervistati su 3, anche su questo punto ancora non si sta facendo abbastanza.
    “I giovani sono disposti ad abbracciare il cambiamento, a muoversi con i mezzi pubblici o in maniera sostenibile. Ma sono anche consapevoli che, allo stato attuale, le nostre città non sono ancora pronte. Quindi se per oggi la maggior parte lascia parcheggiate auto e moto private, un domani l’auto di proprietà sarà un must per molti di loro, per gestire la vita da adulti”, commenta così i dati dell’indagine Daniele Grassucci, direttore di Skuola.net. LEGGI TUTTO

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    Clima, la temperatura della Terra degli ultimi 540 milioni di anni legata alla CO?

    Già lo sapevamo, ora ne siamo ancora più sicuri: la variazione della temperatura sul nostro pianeta è strettamente correlata con la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera. A confermarlo uno studio appena pubblicato sulla rivista Science da un’équipe internazionale di ricercatori, che ha ricostruito in modo estremamente dettagliato i valori medi della temperatura media sulla superficie terrestre negli ultimi 540 milioni di anni. Oltre a confermare la correlazione tra anidride carbonica e temperatura, lo studio ha anche evidenziato che la temperatura, nell’ultimo mezzo miliardo di anni, è cambiata più di quanto pensassimo, specie in corrispondenza delle diverse estinzioni di massa avvenute sul nostro pianeta.

    La ricerca
    Per ricostruire l’andamento della temperatura, gli scienziati hanno usato un approccio chiamato assimilazione dei dati, che consente di mettere insieme informazioni provenienti da fonti diverse, in particolare registri geologici e modelli climatici. “Il modello”, ha spiegato Emily Judd, prima autrice dell’articolo e ricercatrice al National Museum of Natural History della Smithsonian Institution e alla University of Arizona, “era stato sviluppato, inizialmente, per le previsioni del tempo. Noi lo abbiamo ‘invertito’: anziché per prevedere il futuro, lo abbiamo usato per guardare indietro nel passato”. E guardare a cosa è successo nel passato, secondo gli autori del lavoro, può essere di grande aiuto per comprendere cosa potrebbe succedere nel futuro.

    Biodiversità

    Moria di mitili nell’Adriatico a causa del caldo

    di  Pasquale Raicaldo

    17 Settembre 2024

    L’analisi dei dati
    L’analisi degli scienziati ha evidenziato che la temperatura è variata molto più di quanto si pensasse durante l’eone Farenozoico, l’epoca di tempo che va da circa 542 milioni di anni fa (quando per la prima volta apparvero sulla Terra gli animali a guscio duro, antenati degli attuali molluschi) a oggi, con valori della temperatura superficiale media globale (Gmst) compresi tra 11 e 36 gradi centigradi. I periodi di calore estremo corrispondono ai periodi di maggior concentrazione di anidride carbonica in atmosfera. “La nostra ricerca”, ha commentato Jessica Tierney, paleoclimatologa alla University of Arizona, “mostra chiaramente che l’anidride carbonica regola in modo dominante l’andamento della temperatura globale su scale di tempo geologiche. Quando l’anidride carbonica è bassa, la temperatura è fredda; quando è alta, la temperatura è calda”.

    Economia

    L’impatto del cambiamento climatico aumenta sul reddito dei più ricchi

    di redazione Green&Blue

    13 Settembre 2024

    Il riscaldamento attuale è il più rapido mai avvenuto
    Di più: stando ai dati, l’attuale Gmst del nostro pianeta – poco più di 15 gradi centigradi – è più fredda rispetto alla maggior parte del Fanerozoico; eppure, e questo è l’aspetto più preoccupante, le emissioni di gas serra dovute all’attività umana stanno riscaldando il pianeta a un tasso molto più veloce rispetto a quanto accaduto nel passato. Se pensiamo che gli eventi passati di riscaldamento, molto più lenti, hanno innescato diverse estinzioni di massa, c’è parecchio da allarmarsi su cosa può succedere (e sta succedendo) questa volta. “Gli esseri umani e tutte le altre specie animali e vegetali si sono evolute adattandosi a un clima freddo”, ha spiegato Tierney. “Un aumento improvviso della temperatura è quindi molto pericoloso”. Motivo in più per stare attenti a ciò che immettiamo in atmosfera. LEGGI TUTTO