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    Come si coltiva e come prendersi cura della sassifraga

    La sassifraga è una scelta molto diffusa per dare un tocco di colore a giardini, balconi e interni. Si tratta di una splendida pianta erbacea dalle tonalità delicate, apprezzata per la sua bellezza e la sua grande resistenza, visto che si adatta anche alle condizioni più avverse. Estremamente robusta e avvolta in un fascino unico, la sassifraga è semplice da coltivare e richiede una bassa manutenzione.

    Dove piantare la sassifraga?
    Parte della famiglia delle Saxifragaceae, la sassifraga è originaria delle regioni montuose dell’Asia, del Nord America e dell’Europa e il suo nome botanico è saxifraga. Nota anche come spacca sasso, i suoi fiori colorati danno vitalità a luoghi freddi e aspri e proprio da questo deriva il suo nome, dal latino saxifraga, che significa “pianta che spacca le rocce”.

    Questa pianta si presta per decorare interni e balconi e donare colore in aiuole e giardini rocciosi, vista la sua capacità di crescere tra le fessure delle rocce. Presente in tantissime specie differenti, alcune annuali mentre altre perenni, tutte le varietà della sassifraga si sviluppano al meglio in ambienti dal clima fresco.

    Per quanto riguarda il luogo dove coltivarla, è bene sceglierne uno dalla parziale esposizione solare e che sia riparato dal vento: la luce solare indiretta stimola la fioritura della pianta e la rende rigogliosa. Proprio per questo, un’ottima soluzione è collocare la sassifraga all’esterno sotto piante più alte, in modo da filtrare i raggi solari diretti, mentre negli interni è indicato sistemarla su un davanzale che sia rivolto a nord, per un’esposizione moderata, oppure a est, consentendo di contare su una luce delicata al mattino. La pianta si adatta anche all’ombra, ma questa determina una sua minore crescita, e le temperature che preferisce vanno dai 7 ai 18 gradi. Nelle zone con estati calde è consigliato fare in modo che la pianta si trovi in un luogo ombreggiato al pomeriggio per proteggerla dalle temperature alte, tenendo conto che non tollera bene il caldo intenso, a differenza del freddo che non teme. La resistenza della sassifraga la rende capace di prosperare in molteplici ambienti anche se predilige un terreno ben drenato e fertile.

    Coltivazione in giardino e in vaso della sassifraga
    La sassifraga ha un portamento tappezzante o strisciante, è bassa, compatta e presenta foglie pelose e fiori di piccole dimensioni, che di solito sono raggruppati in grappoli e i cui colori vanno dal rosa, al rosso, al giallo per giungere al bianco.

    Tendenzialmente la pianta fiorisce durante la primavera, anche se alcune delle sue specie sbocciano durante l’estate o l’autunno. Il periodo ideale per piantarla è la primavera oppure l’autunno. Prima di procedere con la semina in giardino, è necessario preparare il terreno, eliminando eventuali detriti ed erbacce per poi aggiungere del compost decomposto allo scopo di rendere il terreno più fertile: visto che la pianta ama i terreni rocciosi, si può inserire nel substrato della ghiaia in modo tale da renderlo ancora più drenante. I semi vanno piantati a 1-2 centimetri di profondità, premendoli sul terreno, lasciando tra ciascuno 30 centimetri di distanza.

    La sassifraga è adatta anche alla coltivazione in vaso: la pianta è molto scenografica se posta sul balcone in cesti appesi, con rami pendenti. Prima di procedere con la semina, è necessario porre sul fondo del vaso scelto uno strato di argilla espansa in modo da drenare l’eventuale acqua in eccesso, e ricorrere a un terriccio per pianta da fiore. Ogni 2 settimane si può aggiungere del fertilizzante liquido all’acqua impiegata per l’irrigazione. Per quanto riguarda il rinvaso, questo va eseguito ogni anno all’inizio della primavera, ricorrendo a un contenitore un po’ più grande di quello precedente.

    La sassifraga può essere prorogata durante la primavera tramite varie tecniche, tra cui la talea, metodo semplice che prevede di tagliare le punte di stoloni sani con giovani gruppi di foglie, per poi farle radicare in un terreno drenato e umido, garantendo luce indiretta e un’irrigazione adeguata.

    Come irrigare la sassifraga e quali altri interventi eseguire
    La manutenzione della sassifraga è facile e richiede poche e semplici azioni. Dalla crescita vigorosa, nella sua cura l’irrigazione riveste un ruolo cruciale, dovendo essere svolta regolarmente e in modo abbondante: se è fondamentale che il terreno sia sempre umido e non risulti mai asciutto, dall’altro lato è altrettanto importante non renderlo neanche zuppo, evitando così i ristagni idrici responsabili del marciume radicale. Nel corso dell’inverno le irrigazioni vanno moderate, assicurandosi che tra una e l’altra il terreno sia effettivamente asciutto, aumentando la frequenza delle annaffiature in primavera e in estate, periodi in cui dare da bere alla pianta più volte alla settimana.

    In merito alla concimazione, questo intervento può essere eseguito durante il periodo vegetativo, in primavera o in estate, ricorrendo a del fertilizzante liquido contenente azoto, fosforo e potassio, da aggiungere nell’acqua di irrigazione.
    La sassifraga non richiede particolari operazioni di potatura, dovendosi limitare a rimuovere i fiori appassiti e le foglie all’inizio della primavera, in modo tale da stimolare la formazione di nuovi fiori. Qualora la pianta diventi molto grande nel corso del tempo, in autunno e primavera può essere divisa: per svolgere questo intervento è necessario sollevarla in modo delicato per poi dividerla con un coltello in diverse sezioni, da piantare in un altro luogo.

    Cura della sassifraga: malattie e parassiti
    Nella cura della sassifraga è importante tenere conto di come possa essere incline a diverse problematiche tra le quali il marciume radicale, criticità da prevenire assicurandosi sempre un terreno drenato e non irrigandolo mai in modo abbondante.
    Inoltre, la pianta è soggetta all’attacco di afidi, che succhiano la sua linfa vitale, come anche le cocciniglie: i primi vanno trattati con antiparassitari sistemici per rimuoverli, mentre le seconde ricorrendo a un batuffolo di cotone imbevuto con alcol oppure a un prodotto ad hoc. Tra i rimedi naturali per eliminare i parassiti ci si può affidare all’olio di neem, da nebulizzare sulle foglie, oppure a uno spray con pomodoro o aglio o ancora a pesticidi a base di sapone biologico. Nel caso di infestazioni gravi è necessario usare pesticidi specifici. LEGGI TUTTO

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    Se aumentano le temperature le piante assorbono più nanoplastiche

    Le alte temperature aumentano l’assorbimento delle nanoplastiche da parte delle piante. La notizia arriva da uno studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Plant Physiology and Biochemistry che per la prima volta ha analizzato l’effetto amplificatore dei cambiamenti climatici sull’inquinamento da nanoplastiche. La ricerca è stata condotta dal gruppo di Botanica della professoressa Monica Ruffini Castiglione, e da quello di Fisiologia Vegetale della dottoressa Carmelina Spanò, in collaborazione con le colleghe Stefania Bottega e Debora Fontanini.

    La sperimentazione nei laboratori dell’Università di Pisa ha impiegato come pianta modello Azolla filiculoides Lam, una piccola felce acquatica galleggiante con radici fluttuanti e sottili che assorbono le sostanze disciolte nell’acqua. Come inquinante sono state utilizzate nanoplastiche di polistirene, una delle materie plastiche più comuni e diffuse con cui si realizzano ad esempio posate e piatti usa e getta, imballaggi, contenitori da asporto e seminiere per l’ortoflorovivaismo.

    Biodiversità

    Alberi più piccoli ed elefanti senza zanne: così la natura si adatta all’uomo

    di  Giacomo Talignani

    07 Gennaio 2025

    Dai dati è emerso che a 35° la presenza di nanoplastiche aumenta apprezzabilmente all’interno della pianta rispetto alla situazione ottimale a 25°. Questo provoca il deterioramento dei parametri fotosintetici e l’aumento dello stress ossidativo e della tossicità nelle piante. L’impiego di nanoplastiche fluorescenti ha inoltre permesso alle ricercatrici di tracciarne con precisione l’assorbimento e la distribuzione nei tessuti e negli organi vegetali. LEGGI TUTTO

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    In Gran Bretagna arriva la carne “coltivata” per i cani

    Il futuro del cibo per animali domestici potrebbe essere nella carne coltivata. Mentre in Italia resta vivace il dibattito sulla versione sintetica prodotta in laboratorio con un processo di coltivazione cellulare che parta dalle cellule staminali embrionali di un animale, nel Regno Unito arriva sul mercato, per la prima volta al mondo, pet food di origine animale coltivato in laboratorio, in vasche industriali. Si tratta, nella fattispecie, di bocconcini di pollo – testualmente chick bites – prodotti da Meatly. L’obiettivo, spiega l’azienda, è spingere perché si arrivi “a eliminare l’uso degli animali fattori per l’industria alimentare per gli animali domestici”. Venerdì scorso la sperimentazione in un negozio di Brentford, un distretto di Londra. “Il procedimento è semplice, le cellule vengono ricavate dal singolo uovo di una gallina. – spiega Owen Ensor, founder dell’azienda – Nel giro di una settimana siamo in grado di raccogliere del pollo da destinare agli animali domestici. Da un singolo uovo siamo potenzialmente capaci di ricavare una quantità infinita di carne”. Numeri non marginali: del resto, viene calcolato che circa il 20% della carne consumata in tutto il mondo è destinata agli animali domestici.

    “I proprietari dei cani? Ancora un po’ schizzinosi”
    Ma il mercato è pronto? “I proprietari di animali domestici sono un po’ schizzinosi”, ammette Ensor. Del resto il tema continua a essere divisivo su scala globale: se Singapore è stato, nel 2020, il primo Paese ad autorizzare la vendita di carne coltivata in cellule per il consumo umano, seguito dagli Stati Uniti tre anni dopo, l’Italia ha espressamente vietato – con un disegno di legge del novembre 2023 – la “produzione e immissione sul mercato di alimenti prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati”. Al solito, il dibattito è polarizzato su due posizioni estreme: chi sottolinea i benefici alimentati, denunciando come l’impatto ambientale – in termini di produzione di anidride carbonica e consumo di acqua – della carne da allevamento sia, oggi, uno dei fattori più distruttivi per la salute del Pianeta e chi, invece, punta l’indice sui costi dell’alternativa da laboratorio e sulle ricadute sull’industria zootecnica.

    Per esempio, la British Veterinary Association – come dichiarato alla Bbc – chiede più ricerche su sicurezza e la sostenibilità della carne coltivata. Il prodotto di Meatly, ribadisce l’azienda, è approvato dagli enti di regolamentazione alimentare (ottenendo l’approvazione normativa dopo un processo di verifica di 18 mesi, condotto con la collaborazione della Food Standards Agency, del Department for Environment & Food Affairs e dell’Animal and Plant Health Agency) e non contiene ormoni, steroidi e altre sostanze chimiche, che viceversa sono talvolta presenti nella carne da allevamento. Resta il nodo dei costi: “Ad oggi il procedimento è effettivamente dispendioso, ma abbiamo fatto grandi passi avanti riducendo drasticamente i costi negli ultimi due anni e continueremo a farlo”.

    “L’Italia non resti indietro”
    E in Italia? “Da noi, il mercato del pet food ha superato i 3 miliardi di euro, con una crescita continua sia in termini di valore sia di volume, come mostrato dai dati di Circana, numeri che ormai evidenziano l’importanza strategica ed economica del settore”, spiega Filippo Maturi, presidente di Assopets, la prima associazione a tutela dei consumatori proprietari di animali domestici. “La priorità indiscussa rimane la salvaguardia della salute degli animali, ma qualora non emergano evidenze scientifiche che dimostrino problematiche legate alla salute, come sembra, ritengo cruciale – proprio mentre in Inghilterra l’esperimento è avviato – considerare l’opportunità di non rimanere indietro dal punto di vista industriale. Un approccio più proattivo consentirebbe all’Italia di allinearsi con la crescente sensibilità verso una dieta non basata sull’uccisione degli animali e di contribuire al rispetto dell’ambiente. È urgente, quindi, anzitutto spingere per una comunicazione più positiva – privilegiando per esempio il termine carne ‘coltivata’ a carne ‘sintetica’ – e poi, soprattutto, aprire un tavolo di confronto basato su evidenze scientifiche per discutere seriamente la possibilità di integrare la carne coltivata nel mercato del pet food italiano. Questo – conclude Maturi – consentirebbe non solo di mantenere la competitività del nostro sistema industriale, ma anche di rispondere alle nuove istanze etiche e ambientali emergenti”. LEGGI TUTTO

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    Piani climatici: solo 10 paesi su 195 rispettano la data prevista dall’Accordo di Parigi

    Tra i numerosi appuntamenti che segnano il cammino verso la salvaguardia del pianeta, uno dei più significativi è la data del 10 febbraio 2025. Una data scritta nell’Accordo di Parigi siglato nel 2015: gli Stati infatti si sono impegnati a rispettare il termine che scadeva oggi per presentare i propri Piani climatici nazionali (Nationally determined […] LEGGI TUTTO

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    San Francisco in testa alla classifica della mobilità sostenibile. Indietro le italiane

    Parigi ha cinque chilometri di pista ciclabile per km quadrato contro, per esempio, ai 2 circa di Milano e agli 0,2 di Roma: “Parigi ha tracciato la strada della rivoluzione urbana. Dopo anni di congestione e inquinamento, la città ha operato una trasformazione radicale sotto la guida della sindaca Hidalgo – commenta Federico Ucci, partner della società di consulenza strategica globale Oliver Wyman -. La simbolica rue de Rivoli, un tempo completamente dedicata alle auto, oggi ospita tre corsie per biciclette, con centinaia di ciclisti che la attraversano quotidianamente. Il traffico automobilistico è significativamente diminuito, lasciando spazio a forme di mobilità più dolce e rispettose dell’ambiente. Un cambiamento che non è solo infrastrutturale, ma rappresenta una vera e propria rivoluzione culturale nella concezione degli spostamenti urbani”. Non è quindi un caso che la capitale francese si sia aggiudicata quest’anno il secondo posto nella nuova edizione della classifica Urban Mobility Readiness Index, stilata dall’Oliver Wyman Forum, il think tank di Oliver Wyman.

    Lo studio ha considerato 70 metropoli nel mondo, analizzando 71 indicatori numerici tra i quali il numero di chilometri di piste ciclabili, lo stato dei trasporti pubblici, l’innovazione del sistema di trasporto, l’efficienza e i collegamenti aeroportuali e altri. A guidare la classifica è San Francisco, seguita da Parigi e Singapore. Le altre città europee in top ten sono Monaco, Amsterdam, Stoccolma, Berlino, Zurigo e Londra. Secondo il report, Milano (14esima su 19 città europee) ha lavorato bene per limitare le emissioni e ha un sistema di trasporto pubblico efficiente e green, ma la densità di stazioni è ancora inferiore rispetto ad altre città europee e – come il resto d’Italia – è molto indietro nell’adozione dei veicoli elettrici e degli spostamenti in bici ed e-bike. “A Milano serve solo la volontà di compiere il passo successivo – commenta l’esperto -. I francesi non sono secondi a nessuno nel ribellarsi e le resistenze sono state enormi, ma l’amministrazione ha avuto il coraggio di andare avanti. Milano, in particolare, è pronta: città contenuta, piatta, con un sistema di trasporto pubblico già molto efficiente. Oggi è ancora troppo sbilanciata, ma ha le potenzialità per diventare un modello di mobilità urbana”. E aggiunge: “Dobbiamo offrire piste ciclabili e aria respirabile, limitando gli spazi per le auto. Siamo stati pionieri con Area C, la prima zona a traffico limitato in Europa. L’associazione Via Libera ha recentemente mappato 60.000 auto in sosta irregolare a Milano, segno che la qualità dell’aria deve migliorare. Le amministrazioni temono spesso che le persone non siano pronte al cambiamento, ma abbiamo dimostrato con il Covid di saper adattarci. Perché non dovremmo poter trasformare la mobilità per il bene comune?”. Milano possiede un sistema di trasporto pubblico efficiente con circa 250 autobus a zero emissioni e punta a convertire l’intera flotta di 1.200 bus all’elettrico entro il 2030. Questo è un esempio convincente di come Milano stia adottando modalità di trasporto sostenibili per diventare neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050. Il piano del 2020 di Milano include un limite di velocità di 30 chilometri orari per migliorare la sicurezza. L’attuazione a livello cittadino ha subito ritardi, ma l’obiettivo resta quello di completare la realizzazione di 100 strade scolastiche a 30 chilometri orari nel 2025.

    Mobilità sostenibile

    Da Ferrara a Pesaro, così cambia la mobilità urbana grazie alle piste ciclabili

    di  Fiammetta Cupellaro

    07 Febbraio 2025

    Roma si trova invece nella seconda metà della classifica, al 40esimo posto. La capitale, che in Europa “batte” solo Lisbona e Istanbul, ha dalla sua un trasporto pubblico conveniente, uno dei più economici d’Europa; inoltre, può diventare pioniera nella mobilità aerea urbana grazie al vertiporto di Fiumicino. “Fiumicino è un aeroporto molto efficiente e premiato e con un traffico in significativa crescita che sicuramente migliorare con l’ingresso di Ita in Lufthansa – spiega Ucci -. Inoltre è uno dei primi ad aver implementato un modello di urban air mobility”. L’uso massiccio delle auto private e la scarsa infrastruttura ciclabile, però, la rendono ancora dipendente da modalità di trasporto tradizionali, con un impatto significativo sull’ambiente e sulla qualità della vita urbana. “La mobilità pubblica a Roma necessita di un profondo ripensamento. Sviluppare trasporti più diffusi ed efficienti non è semplice, ma rappresenta una sfida cruciale. Il potenziale delle biciclette, soprattutto elettriche, è enormemente sottovalutato. La mobilità condivisa sta già dimostrando di funzionare e può essere la chiave per una trasformazione urbana sostenibile”.

    Inquinamento

    “Mal’aria di città”: migliora, anche se di poco, l’inquinamento. Cosa fare entro il 2030

    di  Giacomo Talignani

    04 Febbraio 2025

    Da San Francisco, prima in classifica, dovremmo mutuare la capacità di investire in innovazione e startup per il bene della città e dei suoi cittadini. La città infatti ha ottenuto ottimi risultati soprattutto in innovazione e classificandosi al primo posto nel sotto-indice di adozione tecnologica. San Francisco ha ingenti investimenti pubblici e privati nella mobilità, inclusi acquisti di veicoli elettrici e installazione di stazioni di ricarica. L’obiettivo è raggiungere il 25% di nuovi veicoli elettrici entro il 2030 e installare oltre 1.500 colonnine pubbliche, alcune delle quali gratuite. San Francisco sta promuovendo le tecnologie di guida autonoma e punta a essere un’anticipatrice delle nuove soluzioni di mobilità aerea urbana come i taxi volanti. Nell’agosto 2023 ha autorizzato per la prima volta operazioni commerciali di robo-taxi. Alcune aziende stanno progettando reti di mobilità aerea con veicoli elettrici a decollo verticale che potrebbero collegare San Francisco con altre città della Bay Area già entro la fine del 2025, riducendo i tempi di viaggio da 1-2 ore a 10-20 minuti.

    L’Europa è avanti rispetto agli altri continenti in termini di mobilità efficiente e sostenibile: 7 delle prime 10 città dell’Urban Mobility Readiness Index sono europee. In Asia ci sono eccellenze come Tokyo o Singapore, ma in generale le altre città si collocano in basso nella classifica: “Molte sono caratterizzate da una in fase di costruzione: la loro crescita economica va di pari passo con quella di sistemi di mobilità più efficienti”, conclude Ucci. LEGGI TUTTO

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    Nel parco di Yellowstone lupi e orsi hanno aiutato a ripristinare l’ecosistema

    Meglio prendersi cura di Yoghi, Bubu e di tutti gli altri predatori. In un contesto di difficile soluzione, quello in cui si fa fatica a sviluppare la convivenza tra orsi, lupi ed esseri umani, dal parco di Yellowstone, negli Stati Uniti nord-occidentali, – che ci riporta con la mente alle avventure del plantigrado Yoghi – arriva un’importante lezione da tenere a mente: ripristinare i predatori significa ripristinare la natura. In un recente studio sottoposto a peer-review e pubblicato sulla rivista Global Ecology and Conservation i ricercatori dell’Oregon State University e del Conservation Biology Institute di Corvallis raccontano infatti gli effetti ecologici positivi della presenza di lupi, orsi e carnivori all’interno del Parco Nazionale di Yellowstone, effetti che a cascata si riversano sulla ripresa degli ecosistemi.

    Per raccontare come e perché i predatori possono aiutare la resilienza e la ripresa della natura i biologi hanno analizzato, per oltre vent’anni, i dati relativi ad alcune specie di salici. Utilizzando i dati raccolti dal 2001 al 2020 sulle condizioni della vegetazione lungo i corsi d’acqua del parco gli esperti hanno notato un aumento del 1500% del volume delle chiome dei salici: per la presenza degli alci queste piante, così come altre all’interno degli ecosistemi dello Yellowstone, in passato non riuscivano a crescere e svilupparsi, senza apportare così reali benefici alla biodiversità dell’area. Da quando però nel 1995-96 i lupi sono stati reintrodotti, così come sono stati sviluppati parallelamente progetti di conservazione degli orsi, si è creato un effetto di cascata trofica positivo per la crescita delle piante. I predatori infatti, contenendo ed operando sulla popolazione degli alci, hanno aiutato la ripresa del volume delle chiome, permettendo così a salici e altri alberi di crescere e di fungere come importante luogo di riparo e riproduzione per altre specie all’interno del parco. LEGGI TUTTO

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    La fecondazione in vitro per salvare i canguri e altri mammiferi marsupiali dall’estinzione

    La fecondazione in vitro potrebbe salvare i marsupiali dall’estinzione. Una potenziale svolta per una serie di specie che registrano, in Australia, un declino delle popolazioni arriva da un esperimento (riuscito) dell’università del Queensland, che ha prodotto il primo embrione di canguro al mondo tramite fecondazione in vitro.“Un risultato rivoluzionario – commenta Andres Gambini, che ha coordinato le attività di ricerca, confluite in una pubblicazione scientifica – che ci lascia in dote preziose informazioni sulla riproduzione dei marsupiali e sul potenziale delle tecnologie di riproduzione assistita per la loro conservazione”.

    Nel dettaglio, ricercatori sono riusciti a iniettare con successo un singolo spermatozoo di canguro grigio orientale in un ovulo maturo. Il percorso per arrivare a una nascita è ancora lungo, ma i risultati sono più che promettenti. “Approfittando della sovrabbondanza dei canguri grigi orientali, abbiamo raccolto i loro ovuli e lo sperma per usarli come modello per adattare le tecnologie embrionali già applicate ad animali domestici e umani”, spiega ancora Gambini. Specificando che “l’accesso ai tessuti dei marsupiali è difficile perché sono meno studiati degli animali domestici, nonostante siano iconici e parte integrante della biodiversità australiana”. LEGGI TUTTO

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    Il sale antighiaccio, una soluzione per la viabilità ma un problema per l’ambiente

    E’ una necessità nei mesi invernali, in quelle aree del Paese dalle temperature molto rigide e dalle nevicate frequenti, quella di usare il sale sulle strade proprio per sciogliere le formazioni di ghiaccio, molto pericoloso per la viabilità. Ma quando il sale è sparso con troppa abbondanza, va oltre la pavimentazione stradale e si disperde nel terreno circostante, fino a raggingere i corsi di acqua dolce, mettendo a rischio gli equilibri ecologici e la vegetazione. Ora che il sale in eccesso nel periodo invernale possa creare qualche problema è un fatto noto, ma un nuovo studio pubblicato su Science of the Total Environment approfondisce l’impatto del cloruro di sodio (la composizione chimica del sale) sui bacini di ritenzione, ovvero quelle strutture artificiali, create appositamente dall’uomo, sia per accogliere l’acqua piovana che per evitare piene ed allagamenti. Intorno ai bacini è presente una folta vegetazione, fondamentale per mantenere la stabilità dell’ecosistema di flora e fauna.

    Ma come finisce il sale delle strade nell’acqua piovana dei bacini? La domanda è più che lecita. I bacini, di solito, quando sono costruiti in prossimità delle strade, come abbiamo detto, hanno la funzione di raccoglierne l’acqua in eccesso, quindi anche quella che trasporta via il sale che contrasta gelo e ghiaccio e che finisce per alterare i livelli di salinità del bacino, mettendo sotto stress anche le piante che circondano la struttura di raccolta. Lo studio americano ha preso in esame per un periodo temporale di 12 mesi, 14 bacini situati nel nord della Virginia, negli Stati Uniti, in un anno in cui la neve è caduta in quantità superiori alla media stagionale, per cui è stato necessario fare un abbondante ricorso al sale sulle strade. I ricercatori hanno evidenziato che per almeno 2 volte sono state superate le soglie di tolleranza al sale da parte della vegetazione limitrofa, nei terreni di tutti i sistemi di drenaggio delle strade ed in metà dei sistemi di drenaggio dei parcheggi. Le 255 specie di piante presenti intorno ai bacini, tra cui 48 autoctone, sono in grado di tollerare livelli elevati di sale, ma le concentrazioni intra-tessutali di ioni di sodio e cloruro erano più elevate nella piante alofite, scrivono gli esperti, una specie vegetale che può adattarsi e sopravvivere anche su terreni molto salini o alcalini, mitigando l’effetto dell’inquinamento da sale e favorendo la resilienza degli ecosistemi urbani. Tra le piante di questa specie, le più conosciute sono la salicornia, il limonium e alcune varietà di graminacee che sono molto diffuse nei suoli costieri e paludi salmastre.Secondo lo studio, infatti, molte delle acque dolci del mondo si stanno salinizzando, un processo noto come sindrome da salinizzazione, che minaccia la salute dell’ecosistema delle acque dolci, la produttività agricola e la sostenibilità, al pari dell’affidabilità e sicurezza delle forniture di acqua potabile.

    Inquinamento

    Il sale antigelo sulle strade inquina. Le alternative ecologiche: barbabietola e succo di pomodoro

    di Mariella Bussolati

    23 Dicembre 2021

    Secondo le ipotesi dei ricercatori, la copertura del terreno circostante un bacino di circa 2/3mila metri quadrati, posto nei pressi di un’autostrada, con la pianta alofita potrebbe “depurare” concentrazioni saline tra i 100 e 200 chili all’anno, anche se questo livello stimato di assorbimento non sarebbe sufficiente a compensare l’applicazione di sale invernale. Questo processo, noto come fitodepurazione, potrebbe aiutare a ridurre l’impatto salino, ma non a risolvere il problema, che deve chiamare in causa le amministrazioni locali, ad un uso più attento del sale sulle strade, usando quantità più equilibrate. Ma c’è di più da tenere in considerazione, sostengono i ricercatori: “Sebbene i nostri risultati siano ampiamente coerenti con altri studi sui climi freddi, ci aspettiamo che il nostro lavoro sia più estensibile ad altre zone climatiche in cui i cicli di gelo e disgelo e una combinazione di eventi invernali di pioggia e neve siano la norma o si prevede che lo diventino a causa del cambiamento climatico” si legge nell’articolo scientifico. Quindi, ancora una volta è chiamato in causa anche il climate change, perché proprio nelle regioni in cui la copertura nevosa è più persistente, l’uso del sale potrebbe “alterare significativamente i profili di stress salino nonché la capacità delle piante di bonificare i terreni e migliorare la resilienza delle infrastrutture delle acque piovane a futuri eventi di disgelo”. LEGGI TUTTO