consigliato per te

  • in

    Lavori green, il turismo secondo Teresa Agovino: un mondo da esplorare per renderlo migliore

    Organizzare l’intervista con Teresa non è stato facile. Perché di mezzo ci sono oltre quattro ore di fuso orario, circa 6mila chilometri in linea d’aria, nove ore di volo e una connessione internet che fa le bizze. Alla fine, però, ce l’abbiamo fatta. Ed è stato un bene perché chiacchierare con Teresa Agovino, salernitana, classe 1990, occhi verdi e un’infinità di riccioli, attualmente in India per portare avanti il suo progetto di turismo sostenibile, regala energia ed entusiasmo. Gli stessi che mette lei in tutto ciò che fa. “Qui collaboro con istituzioni governative e associazioni per quantificare gli impatti turistici e implementare strategie di miglioramento”, spiega. “In più certifico la sostenibilità delle strutture di accoglienza”.

    A portarla in questo Paese asiatico, ricco di bellezza e contraddizioni, un lungo percorso iniziato oltre una decina di anni fa, quando Teresa ha lasciato l’Italia, con una laurea in Ingegneria ambientale in tasca e nel cuore il desiderio di aiutare le popolazioni svantaggiate e il Pianeta. “Grazie a una borsa di studio erogata dall’Associazione internazionale volontari laici (Lvia), sono riuscita a partire per la Tanzania”, racconta. “Una volta arrivata, ho incontrato il capo-villaggio che mi ha stretto le mani, implorandomi di fare arrivare alla sua gente l’acqua potabile, che mancava da quattro mesi. Per me è stata un’epifania, una straordinaria rivelazione”.

    Così Teresa comincia a girare il mondo e nel farlo si rende conto che anche il turismo ha un impatto non trascurabile sull’ambiente e sulle comunità locali. Consapevole di ciò, intraprende un percorso di formazione internazionale con il Global Sustainable Tourism Council, organizzazione istituita da United Nations World Tourism Organisation e da United Nations Environment Programme e ottiene la qualifica di auditor, figura imparziale che misura e certifica secondo criteri predefiniti la sostenibilità degli operatori turistici per conto di enti internazionali, con l’ambizioso obiettivo di ridurre al minimo i danni generati dal settore, amplificando nel contempo i benefici per le zone di destinazione. Con uno zaino sulle spalle raggiunge il Perù, dove aiuta l’associazione Caith a ideare itinerari sostenibili nella città andina di Cuzco.

    Nella medesima ottica, in Jamaica, a Montego Bay, si occupa del training dello staff in tre resort all-inclusive, certificando le strutture in accordo con gli standard di Travelife. È poi la volta della Thailandia del Nord, terra di montagne e impenetrabili foreste, punteggiate da numerose tribù indigene. Nella città di Chiang Mai, Teresa collabora con Dumbo Elephant, un santuario di elefanti, per offrire agli addetti formazione sul benessere animale e ridurre gli impatti negativi delle attività turistiche sui mammiferi.

    Tra un viaggio e l’altro, decide anche di avviare, insieme con alcuni soci, una startup: Faroo. “Si tratta del primo tour operator a impatto positivo” prosegue. “In particolare, operiamo su un doppio binario. Da un lato, ci confrontiamo con gli operatori del settore, come alloggi, bed&breakfast, agriturismi, fattorie, ai quali proponiamo una certificazione volontaria e gratuita, sviluppata da noi e riconosciuta dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, che analizza cinque aree, 20 categorie e 82 criteri. Dall’altro lato, approcciamo le aziende, alle quali offriamo originali esperienze di team building, come pulire le spiagge con l’affiancamento di biologi marini, piantare alberi in luoghi abbandonati, dipingere sull’acqua usando antiche tecniche giapponesi”.

    A chi volesse intraprendere la sua variegata carriera, Teresa consiglia una laurea analoga alla sua, “perché offre prospettive ampie e solide competenze tecniche. Unico punto debole è che il corso non include discipline sociali e antropologiche, che sarebbero invece importanti per interfacciarsi con successo con le popolazioni locali. In alternativa, un’altra valida possibilità è la laurea in Scienze internazionali e diplomatiche, utile a rapportarsi con le ong, magari seguita da un master che approfondisca i temi idrico, energetico, gestionale. Credo, in generale, che la mia generazione abbia l’esigenza di trovare sé stessa in una missione. Occorre perciò guidare ragazzi e ragazze, affinché riescano a far fiorire il loro potenziale interno, trasformandolo in azioni orientate al bene comune, che lascino il segno”. LEGGI TUTTO

  • in

    Lavori green, l’idrologa: dalla siccità ai fiumi in piena impariamo a gestire l’acqua

    “Il mondo della Protezione civile mi ha sempre affascinato. Ma l’evento che mi ha fatto capire che volevo lavorare in quest’ambito è stato il terremoto dell’Aquila del 2009: avevo 18 anni e dovevo scegliere che università andare a fare da lì a pochi mesi. Mi iscrissi a ingegneria ambientale e poi facendo corsi specifici sulle risorse idriche, l’acqua, gli eventi estremi alluvionali ho capito che quella sarebbe stata la mia strada”. Oggi, a 33 anni, Marta Martinengo è un funzionario tecnico dell’Autorità di bacino del Po e si occupa prevalentemente di gestione del rischio alluvionale.

    “Dopo la triennale a Brescia mi sono trasferita a Trento per la magistrale e un dottorato in Difesa del suolo e Protezione civile”, racconta. Pochi anni dopo si è ritrovata in prima linea: “Quando si sono verificate in Romagna le alluvioni del 2023, sono stata coinvolta in tutte le attività svolte in raccordo con il commissario Figliuolo e la Regione. Ho avuto l’occasione di sorvolare le aree alluvionate a bordo di un aereo della Guardia di Finanza, per rendermi conto insieme ai colleghi della vastità dell’area colpita”.La giovane ingegnera bresciana è insomma uno dei nuovi specialisti dell’acqua, sempre più necessari in un’epoca di cambiamenti climatici, eventi meteo estremi e siccità. “Per buona parte del Ventesimo secolo la gestione dell’acqua è stata una storia di investimento e crescita”, spiega Giulio Boccaletti, tra i massimi esperti italiani e direttore scientifico del Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc). “Fino agli anni Settanta lo sviluppo delle risorse idriche era una delle leve principali per assicurarsi la transizione da un mondo agricolo a uno industriale. Poi nei Paesi ricchi, dopo aver costruito tutto quello che c’era da costruire, la gestione dell’acqua è diventata ordinaria, di servizi, di sicurezza, di manutenzione. Ora stiamo andando verso un terza fase che riporta l’acqua al centro della discussione sullo sviluppo, anche nei Paesi ricchi, perché le statistiche meteorologiche stanno cambiando e quindi le soluzioni sviluppate nel Ventesimo secolo sono obsolete. Nei prossimi vent’anni ci sarà tanto da fare: non solo manutenzione ma cose anche profondamente strategiche”.

    “Dobbiamo riuscire a trovare metodi più innovativi e più resilienti di quelli usati finora, a cominciare dagli argini”, conferma Martinengo. “Servono meccanismi di difesa che sappiano adattarsi ai diversi fenomeni che si possono verificare, e certamente gli argini non sono più in grado di farlo, come ha dimostrato l’evento del maggio 2023 in Romagna”.E come si fa? “Creando una cassa di espansione qui, arretrando un argine in un altro punto, abbassando una golena…”, risponde Martinengo. “Questa però è la teoria, perché come si manifesta un evento di piena nessuno lo può sapere se non quando accade: dipende da come piove e da come il bacino risponde a tali piogge”. E allora ci vuole una pianificazione radicale. “Un corso d’acqua parte da una zona collinare-montana per poi attraversare un fondovalle e quindi sfociare in pianura, dove di solito è arginato. Il nostro obiettivo principale è quello di riuscire a mantenere l’acqua per il maggior tempo possibile nei tratti montani, ma soprattutto nei fondovalle collinari e montani, perché in questo modo si frena la velocità con cui l’acqua raggiunge la pianura e quindi il suo impatto sugli argini, che sono il punto più fragile. Un risultato che si può ottenere ridando più spazio al fiume in quelle zone collinari-montane: più si può espandere lì e più lentamente arriverà a valle”.Una operazione molto difficile nelle attuali condizioni di urbanizzazione e cementificazione del nostro Paese. “Ma in alcune zone, boschive o agricole, qualcosa ancora si riesce a fare”, spiega Martinengo. “Non possiamo illuderci di spostare interi abitati, ma singole abitazioni sì: si potrebbero immaginare delocalizzazioni mirate per recuperare le aree di pertinenza fluviale”.È per questo che secondo Boccaletti “occorrono figure professionali capaci di interfacciarsi con chi vive nei territori. Che tu abbia studiato ingegneria o storia, alla fine devi andare sul campo e misurarti con i molteplici aspetti del problema acqua: da quelli idrologici a quelli economici e sociali. È una di quelle cose che non si impara sui libri. La buona notizia è che non lo potrà mai fare una Intelligenza artificiale, perché si tratta di andare a parlare con le persone del posto e capire il loro punto di vista”. LEGGI TUTTO

  • in

    Lavori green, il bioingegnere Mario Caironi: “In laboratorio non solo la batteria che si mangia”

    Ciò che non fa male al corpo non nuoce nemmeno all’ambiente, anzi. Se per i transistor, alle terre rare si sostituiscono le molecole del colorante per dentifricio, e le batterie sono fatte con derivati da capperi, mandorle e alghe, che possono essere ingeriti, digeriti e assimilati, l’ecosistema ringrazia. L’elettronica edibile è nata come applicazione per il monitoraggio della salute, ma nell’Unità di “Printed and Molecular Electronics” del centro di Milano dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), l’orizzonte si allarga a nuove e diverse applicazioni. A dirigere il laboratorio è Mario Caironi, ingegnere elettronico, laureato al Politecnico di Milano, il suo dottorato ha avuto come focus l’elettronica a base di carbonio, che è riuscito a rendere performante. Postdoc a Cambridge, nel Regno Unito, per continuare a lavorare sull’elettronica organica nel gruppo di Henning Sirringhaus al Cavendish Laboratory: “Lì ho approfondito le tecniche di stampa dell’elettronica a basso costo e impatto ambientale: sono tornato all’Iit con la somma di queste competenze. L’elettronica commestibile l’abbiamo concepita qui, con altri ricercatori e con il contributo dei medici”. A marzo 2023 esce sulla rivista Advanced Materials lo studio che presenta la prima batteria commestibile e ricaricabile, e la rivista Time la sceglie tra le 50 migliori invenzioni dell’anno. Prima volta per una italiana.

    Caironi e il suo team hanno continuato a lavorarci, miniaturizzandola e rendendola più capace e stabile a diverse condizioni ambientali, e integrata con sensori e circuiti anch’essi edibili. “La stiamo pensando sia per pillole sia per sensori esterni, come quelli per il monitoraggio ambientale – fa presente il ricercatore – abbiamo lavorato su circuiti e transistor completamente commestibili. Per esempio utilizzando al posto del silicio, come semiconduttore, la ftalocianina di rame, usata per dare quell’intenso colore blu al dentifricio. I dentisti hanno simulato per noi quanto ne ingeriamo tutti i giorni lavandoci i denti. È una quantità inferiore a quella che ci serve per fare i circuiti. E poi l’integrazione con sensori e circuiti logici anch’essi commestibili, e colle, usando una proteina del mais, la zeina, per assemblare tutto”. Si va verso una capacità di calcolo commestibile, insomma. L’unico limite dell’Elfo (“Electronic Food”) è la fantasia. È adatto per essere applicato al cibo, ed essendo biodegradabile, all’esterno, perché non inquina come le normali batterie: “Lavoriamo su sensori da applicare alla frutta dopo il raccolto, simile al bollino di carta sulle mele. Sono semplicissimi, misurano l’impedenza, che varia in funzione dell’idratazione, e possono indicare l’invecchiamento, per evitare sprechi. E a biosensori più evoluti, sensibili, per esempio, ai gas originati dalla degradazione del pesce e della carne nell’atmosfera interna del packaging. Informano sullo stato di conservazione per stabilire se il cibo è consumabile per l’uomo”.

    Caironi cita il progetto di un ricercatore vincitore di una borsa Marie Sk?odowska-Curie, per una pillola smart ingeribile che cerca particolari marker nello stomaco o nell’intestino. O le applicazioni per distribuire centinaia di migliaia di sensori biodegradabili per il monitoraggio di habitat o in agricoltura. Tutto senza introdurre l’elemento di rifiuto elettronico, nel cibo, nel corpo o nell’ambiente.La sostenibilità nel campo dell’elettronica non riguarda solamente il “fine vita” del sensore, ma è già all’origine, nella sua costruzione: “Non usiamo elementi rari o da estrazione mineraria – fa presente Caironi – e non è in competizione con la filiera alimentare, anzi, cerchiamo di recuperare materiali da sorgenti abbondanti, scarti di cibo e industriali”.L’esigenza di una pillola smart all’Iit è nata, racconta Caironi, dal dialogo di Guglielmo Lanzani, coordinatore del Center for Nano Science and Technology, con i medici per un dispositivo che potesse comunicare lo stato di salute minimizzando i rischi. È il dialogo tra diverse professionalità, scienziati dei materiali, ingegneri chimici ed elettronici, conclude il ricercatore, a muovere l’innovazione: “L’importante è essere forti almeno in una disciplina, poi nella ricerca bisogna farsi guidare dalla passione per creare qualcosa che non è stato ancora fatto”. LEGGI TUTTO

  • in

    Lavori green, il carbon manager: quando business e ambiente si incontrano

    Quando vincono entrambi, l’ambiente e pure il portafoglio, c’è una certa soddisfazione per chi di mestiere aiuta gli altri ad applicare la sostenibilità nei loro percorsi. Un sorriso carico di orgoglio che va sempre condiviso: perché la sostenibilità e la ricerca di soluzioni verdi – quelle che possano per esempio contribuire ad abbassare le emissioni climalteranti o l’impronta di carbonio – non sono mai questione del lavoro o lo sforzo dei singoli, ma sono “un impegno per forza di cose collettivo, che coinvolge più attori, più persone o mondi”. A ricordarlo è Giacomo Magatti, classe 1981, manager della sostenibilità che oggi è vicepresidente e carbon manager di Rete Clima, un’impresa sociale che accompagna le aziende e le organizzazioni a migliorare la loro impronta verde in percorsi di sostenibilità e decarbonizzazione.

    Appassionato di natura e di montagna da sempre, quando Magatti ha iniziato il suo percorso per tentare di coniugare la sensibilità ambientale al mondo delle imprese, era pieno di domande ma trovava pochissime risposte: vent’anni fa le carriere di studio e le specializzazioni per il mondo delle professioni green erano ancora in stato embrionale, “qualcosa che dovevi in parte inventarti. Per questo io dopo una laurea magistrale in Scienze ambientali all’Università Bicocca a Milano, che mi ha fornito molte competenze tecniche, ho scelto di fare un master in Comunicazione dell’ambiente, così da poter avere i mezzi per raccontare quello che avevo studiato e in cui credevo. Da piccolo ero uno scout e, come diceva il nostro motto, ho sempre pensato di voler lasciare il mondo o l’ambiente migliore di come l’avevo trovato” spiega Magatti. Per centrare questa missione, una volta completati gli studi e le prime esperienze all’interno delle aziende come consulente ambientale, acquisisce sempre più competenze che vanno in una direzione precisa: aiutare imprese, enti e Ong a decarbonizzare, ad emettere meno, a intraprendere percorsi di riciclo, oppure a modificare abitudini negative per l’ambiente, ma sempre “con uno sguardo anche al lato economico” spiega.

    Dopo un periodo da ricercatore all’Università Bicocca in cui lavora soprattutto sul Life Cycle Assessment (LCA) – “l’analisi del ciclo di vita di prodotti e servizi che valuta l’impronta ambientale nel suo complesso, uno strumento fondamentale per il nostro lavoro” – fa confluire tutte la sua esperienza nel cuore di quella che oggi è la sua professione a Rete Clima, un manager della sostenibilità che si occupa anche di ogni aspetto carbon delle aziende.

    “La definirei una professione green del presente, necessaria per affrontare le sfide di oggi, sia quelle che impone la lotta alla crisi climatica, sia quelle che richiedono le aziende per essere più sostenibili. Per arrivarci bisogna ovviamente studiare e, consiglio che vorrei dare ai giovani, fare formazione continuamente: bisogna essere aggiornati su scienza, normative, diritti. Solo così si può aiutare altri a trovare percorsi su misura per impattare meno”. Dopo la pandemia da Covid-19 l’attenzione per il green è “letteralmente esplosa. Molte aziende ci hanno contattato per intraprendere percorsi di decarbonizzazione. Quando ci riesci, è davvero bello: la sostenibilità è qualcosa che si fa insieme, in cui mettere in rete più mondi”. Fa un esempio: “Ci è capitato di aiutare una società a cambiare: prima di fatto prendeva plastica in Cina e la rivendeva in Italia, con una impronta decisamente negativa. Oggi, dopo un bel percorso iniziato dall’analisi di ogni aspetto, quella azienda è diventata più verde: ha sostituito plastica vergine con quella riciclata, ha smesso con il trasporto merci aereo preferendo le navi, ha abbassato la sua impronta carbonica e, contemporaneamente, aumentato il suo business”.

    Dimostra, spiega, che “spesso se si inseguono gli aspetti green e sociali, si fanno investimenti che poi ritornano velocemente. Cosa che devo dire le aziende hanno capito da tempo: si muovono già tanto in questa direzione, a differenza della politica”. Ma per aiutare sempre più realtà ad emettere meno gas serra, servono però anche più professionisti “che non applichino la ‘tuttologia’ ai temi ambientali, ma che si specializzino, sempre però con un occhio attento all’insieme. La sostenibilità può essere vista in chiave ambientale, tecnica, ingegneristica, economica: l’importante è che chi lavora in questo mondo sia sempre aggiornato, competente, sapendo che è una professione del presente, dove le cose cambiano in fretta, ma ci sarà sempre bisogno di spingere per – appunto – lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo trovato”. LEGGI TUTTO

  • in

    Lavori green, l’apicoltore: “Nelle arnie il segreto del cibo sano”

    Chiamarlo lavoro, è riduttivo. Una passione? Le api e l’apicoltura possono essere entrambe le cose”. Parole chiare quelle di Giuseppe Cefalo, presidente dell’Unaapi (l’associazione che riunisce gli apicoltori italiani) e imprenditore agricolo. Cinquant’anni, irpino, una laurea in Economia, alla spalle una famiglia impegnata in agricoltura da cinque generazioni: producono olio e miele. ”Ho iniziato ad occuparmi di apicoltura dopo la laurea, perché in casa avevamo le arnie lasciate da mio nonno. Alcune risalivano addirittura al 1922, è stato lui a trasferirmi la passione per le api. Ho cominciato gradualmente finché ho capito che quel mondo affascinante, poteva diventare davvero anche il mio lavoro”.

    Una professione di grande responsabilità, l’apicoltore. Non solo perché le specie di cui si occupa sono considerate a rischio estinzione (in Europa in trent’anni il numero delle api si è ridotto del 70%), ma anche perché il ruolo di questi insetti è considerato cruciale, visto che influisce sull’intero ecosistema. ”Basti pensare che l’impollinazione è essenziale per la produzione di cibo a livello globale. Oltre il 70% della produzione agricola mondiale di frutta, verdura, ortaggi e semi dipende dagli insetti impollinatori, di cui le api sono la specie più numerosa e importante”, tiene a sottolineare Giuseppe Cefalo, che oggi gestisce 600 alveari. LEGGI TUTTO

  • in

    Lavori green, l’ingegnere meccanico: “Sui monti e in laguna ci mando il robot”

    Quando Manolo Garabini ha iniziato, da studente, ad avvitare bulloni a zampe e bracci meccanici, tutto ciò che fa ora, a 40 anni, mentre progetta robot da liberare nelle lagune sarde o nei boschi dello Stelvio, non era nemmeno immaginabile. “Internet era ancora agli albori, il libretto era cartaceo, si faceva tutto in presenza – ricorda – e ancora nel 2010 si lavorava per far uscire i robot dalle fabbriche. Portarli nella foresta era fantascienza”.Garabini, professore di Robotica all’Università di Pisa, ora ne costruisce ancora di più particolari. Li hanno soprannominati con un nome che a un bambino cresciuto negli anni ‘80 fa brillare gli occhi: i “transformers”. Anymal, per esempio, è un “cane”, ha quattro zampe e ruote: “Le zampe garantiscono di superare gli ostacoli, le ruote un’autonomia maggiore”.

    Manolo Garabini insegna Robotica all’Università di Pisa, dove vengono sviluppati robot a quattro zampe capaci di raggiungere luoghi impervi per il monitoraggio ambientale e industriale  LEGGI TUTTO

  • in

    Lavori green, la cheffe sostenibile Chiara Pavan. Quando la stella del ristorante è verde

    “Quando abbiamo tolto la carne dai nostri menù volevamo dare un segnale: l’alta ristorazione può essere a base vegetale”. Parola di Chiara Pavan, cheffe (femminile di chef) del ristorante Venissa, sull’isoletta di Mazzorbo, a Venezia, detentrice di una stella Michelin e una stella verde per la sostenibilità. Pavan non è solo un talento della cucina, ma anche una pioniera di un nuovo modello di ristorazione: più etico, consapevole e innovativo. “Serviamo ancora pesce della laguna e abbiamo un menù con le specie invasive (il famoso granchio blu, ndr), ma forse è arrivato il momento di porre attenzione anche alle risorse ittiche, sempre più vulnerabili”.

    DOSSIER Lavori greenLa transizione ecologica sta cambiando il mondo del lavoro, ristorazione compresa. Proviamo ad allargare lo sguardo, da Venezia all’Italia: il 39% delle aziende del comparto ha fatto eco-investimenti negli ultimi cinque anni, secondo l’ultimo Rapporto Greenitaly della fondazione Symbola, e la domanda di competenze legate alla sostenibilità è in costante crescita. I tecnici della produzione e preparazione alimentare sono tra le figure professionali più richieste, secondo un sondaggio Unioncamere. E l’eco-chef è una delle professioni più in ascesa secondo diverse classifiche. Pavan, classe 1985, consiglia la via per seguire le orme dei migliori: “Fate esperienze diverse e non fermatevi con gli studi, anche in settori lontani dalla cucina”. Lei stessa all’università ha studiato Filosofia e ha scelto la cucina solo dopo la laurea. Il termine “eco-chef” è entrato nella lista dei neologismi Treccani nel 2018 per indicare quei professionisti che scelgono ingredienti biologici e a km zero, minimizzano sprechi e consumi energetici, e promuovono un’idea di cucina in armonia con l’ambiente. Pavan incarna questa filosofia: “Noi puntiamo su orti sociali, rapporto di fiducia con i fornitori e la precisa stagionalità”. L’attenzione è priva di pregiudizi: “Mangiare un pollo allevato bene può avere meno impatto climatico di un pesce pescato senza controllo. Bisogna ragionare in modo sistemico”, spiega.Questa attenzione ha anche un ritorno economico: per la fondazione Bcfn ridurre gli sprechi alimentari genera fino a 13,5 euro di risparmio per ogni euro investito. Un concetto che i ristoranti di alta cucina conoscono bene: “Ci sono chef che pesano la pattumiera. Non ha senso sprecare, incide sui conti e sul Pianeta”, aggiunge Pavan.Oltre agli eco-chef, il settore della ristorazione sta creando nuovi “lavori verdi”.Oltre ai cuochi, nel settore si stanno affermando figure come i responsabili della sostenibilità alimentare, esperti di economia circolare applicata alla ristorazione, e i consulenti per la riduzione dello spreco alimentare, che affiancano i ristoranti per ottimizzare menu, porzioni e gestione degli acquisti. Secondo studi della Lumsa e di Roma Tre, il 45% dello spreco nella ristorazione avviene nella fase di preparazione, il 34% nei piatti dei clienti e il 21% per deterioramento degli ingredienti. Professionisti con competenze in gestione delle eccedenze e food sharing sono quindi sempre più richiesti. Cresce anche la domanda di esperti in energia e risorse idriche.Se da una parte le imprese della ristorazione stanno cambiando, dall’altra anche i clienti giocano un ruolo chiave. Uno studio dell’Osservatorio nazionale sugli sprechi di Last Minute Market mostra che il 90% degli italiani è consapevole degli sprechi in cucina, e ormai prova sempre meno imbarazzo a chiedere la famosa doggy bag, il sacchetto degli avanzi.

    La transizione digitale aiuta, con app sempre più usate come Too Good To Go e BringTheFood, che stanno cambiando le abitudini di clienti e cucine. Sono sempre più diffusi ristoranti con menù circolari e porzioni flessibili, piatti plant-based e cibo biologico. “L’importante è diffondere una cultura del cibo più etica e consapevole, senza moralismi, ma con scelte concrete”, conclude Pavan, che suggerisce un modo per sperimentare da vicino la sostenibilità in cucina, per chi è a casa o lavora in un ristorante: “Provate a fare dei piatti con le bucce delle verdure, come quelle delle zucche, vedrete che soddisfazione”. La sostenibilità è servita, parola di cheffe. LEGGI TUTTO

  • in

    Lavori green, a caccia delle tecnologie per controllare alberi e piante

    Durante gli studi, per arrotondare consegnavo pizze e sushi… le compagnie di delivery me le sono girate tutte. Poi ho conosciuto Riccardo Valentini, dell’Università della Tuscia, che mi ha detto: ‘Possibile che non ci sia un altro modo? Vieni a lavorare con noi’. Ho accettato il suo invito”. Ora Valerio Coppola si occupa di ricerca e sviluppo all’interno di Nature 4.0, azienda specializzata in “tecnologie wireless per la ricerca e le operazioni in ambito ambientale, forestale, agricolo, marino e faunistico”.

    ”È nata come una startup, da un’idea del professor Valentini. Ora siamo passati tra le piccole e medie imprese e ci lavoriamo in una quindicina di persone”, racconta Coppola. L’origine è tutta interna al mondo accademico: “C’era sempre qualche professore che chiedeva: servirebbe un sensore per fare queste misure, per monitorare queste variabili. La nostra azienda nasce per dare risposte a tali richieste”.

    Valerio Coppola, 26 anni, di Viterbo si occupa del settore Ricerca e sviluppo di Nature 4.0  LEGGI TUTTO