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    Clima e ambiente, quanto ne sai davvero?

    Quanto sta cambiando davvero il nostro pianeta? L’uso dei combustibili fossili aumenta o diminuisce? Qual è il ruolo di oceani e foreste nell’assorbimento dell’anidride carbonica? Tutte domande cui risponderemo dal palco del Festival di Green&Blue, in programma dal 5 al 7 giugno a Milano, con l’aiuto di scienziati, associazioni, attivisti, imprenditori, amministratori. Ma nell’attesa abbiamo […] LEGGI TUTTO

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    Crisi climatica, per le nostre città ora la vera sfida è l’adattamento

    Cominciamo da quattro numeri: 3, 55, 75, 80. Queste cifre hanno plasmato per anni il modo in cui parliamo delle città. Le città occupano solo il 3% della superficie del pianeta. Ospitano oltre il 55% della popolazione globale. Consumano il 75% di tutta l’energia e producono l’80% delle emissioni di anidride carbonica.È il modello standard. Spesso viene usato per giustificare l’importanza delle città – perché renderle più efficienti potrebbe avere un impatto globale sproporzionato. E per molto tempo, questa è stata la logica guida: ottimizzare la città, e il Pianeta seguirà.

    Il programma

    G&B Festival 2025, dal 5 al 7 giugno a Milano: il programma

    20 Maggio 2025

    Ma c’è un altro insieme di numeri di cui dobbiamo iniziare a parlare:

    1.5 – i gradi Celsius che con ogni probabilità supereremo nei prossimi decenni.
    2035 – l’anno in cui, secondo alcune proiezioni, la barriera del MOSE a Venezia potrebbe non reggere più.
    3,6 millimetri all’anno – l’attuale ritmo di innalzamento del livello medio globale del mare.
    150.000 – le morti stimate ogni anno legate al clima entro la fine di questo decennio.

    Questi non sono numeri che richiedono ottimizzazione. Chiamano l’adattamento. Per anni, come architetti, urbanisti e progettisti, ci siamo concentrati sulla mitigazione. Abbiamo parlato di ridurre le emissioni, rimpicciolire l’impronta ecologica, abbassare le soglie. Abbiamo progettato edifici con un migliore isolamento, sistemi più efficienti, materiali più intelligenti. Al MIT, abbiamo sviluppato tecnologie per riscaldare o raffreddare direttamente le persone, evitando di sprecare energia per stanze vuote. A Singapore, abbiamo scoperto che la domanda di mobilità privata si poteva soddisfare con una frazione del parco auto attuale – se le persone erano disposte a condividere. Ma anche se implementassimo ognuna di queste soluzioni, la realtà è questa: il clima è già cambiato. Il danno non è più teorico. Il mare si alza. Il caldo aumenta. E le infrastrutture che abbiamo costruito – fisiche e concettuali – non sono pronte. L’adattamento diventa, così, la vera frontiera del progetto.

    Cosa significa progettare per l’adattamento? Significa immaginare edifici e città capaci di convivere con l’acqua, invece di respingerla. Significa abbracciare la flessibilità al posto della permanenza, la ridondanza invece della precisione. Significa guardare ai sistemi ecologici – barriere coralline, zone umide, colonie microbiche – non solo come metafore di resilienza, ma come veri modelli da cui apprendere. Significa anche cambiare i parametri con cui misuriamo il successo. Se 2, 50, 75 e 80 hanno definito il capitolo precedente dell’urbanistica, quali numeri dovrebbero guidare il prossimo? Quanti edifici riescono ad assorbire calore senza ricorrere a sistemi meccanici? Quante infrastrutture sono progettate per cedere senza collassare? Quanti ambienti urbani riescono a sostenere più di una specie?

    Alla Biennale Architettura 2025, abbiamo usato spesso un termine latino: intelligens – non semplicemente intelligenza come qualcosa che si possiede, ma inter-legere: la capacità di leggere tra le righe. Tra il naturale e l’artificiale. Tra le discipline. Tra umani e non umani. Questo spirito del “leggere tra” è essenziale per l’adattamento. Perché adattarsi non è un esercizio solitario. È un atto collettivo. Ci chiede di lavorare oltre i compartimenti stagni, oltre i confini, oltre le specie. Di attingere all’intelligenza naturale, ai sistemi artificiali e alla creatività umana – non in isolamento, ma in dialogo.

    Sì, i numeri contano ancora. Ma i numeri da soli non bastano a farci orientare in ciò che ci aspetta. Per questo, dobbiamo cambiare il modo in cui progettiamo, collaboriamo e immaginiamo. Una volta progettavamo le città per resistere all’ambiente. Ora, la vera sfida è imparare a viverci insieme.

    La partecipazione al G&B Festival è gratuita previa registrazione. LEGGI TUTTO

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    Carne coltivata, il grande rebus: pro e contro

    Perché sì: “Questione di etica e sostenibilità”
    “Quella che chiamiamo eufemisticamente carne sono in verità pezzi di cadaveri, di animali morti, morti ammazzati. Perché fare del proprio stomaco un cimitero?”, chiedeva provocatoriamente lo scrittore Tiziano Terzani. Il tema dell’etica e della compassione è uno dei motivi per cui i ricercatori hanno avviato la sperimentazione di carne coltivata, ottenuta da cellule staminali sviluppate in laboratorio, quindi senza la necessità di allevare e macellare polli, bovini, suini. Poi c’è la sostenibilità.“I cambiamenti climatici in atto e l’elevato tasso di inquinamento impongono di trovare alternative all’industria della carne tradizionale, una filiera basata sugli allevamenti intensivi, che hanno un rilevante impatto ambientale”, sostiene Luciano Conti, professore del dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata dell’Università di Trento. Un’alternativa, la carne “sintetica”, che permetterebbe a tutti di beneficiare delle proteine animali diverse rispetto a quelle vegetali, contenute, per esempio, in legumi, avena o frutta secca. Alla luce di tali benefici, gli esperti stanno lavorando per risolvere le sfide relative a questo alimento, ovvero l’alto costo e la complessità produttiva. “Per ovviare a entrambe le criticità sono ora in commercio, a Singapore e negli Stati Uniti, solo prodotti ibridi, costituiti cioè, oltre che da cellule animali, in particolare di pollo, anche da fibre”, spiega il biologo.Nel frattempo, in altre aree del mondo, come Australia, Hong Kong, Regno Unito, Svizzera, Israele, stanno valutando l’ingresso sul mercato di questi preparati. “In Europa sono state avanzate due richieste di approvazione: la prima da parte dell’impresa francese Gourmey, che produce foie gras, una sorta di patè a base di materiale cellulare d’oca; la seconda da parte dell’azienda olandese Mosa Meat, che crea grasso di manzo da colture bovine”, prosegue l’esperto. Solo in caso di esito positivo i prodotti potranno essere commercializzati, ma ciò non implica un’immediata distribuzione nei supermercati. La palla dovrà, infatti, passare al Parlamento europeo, che analizzerà gli aspetti commerciali.

    “«Quando un nuovo prodotto ottiene l’approvazione, occorre svolgere alcune analisi per valutare l’impatto sul mercato”, continua Conti. “Nel caso della carne coltivata, poiché il prodotto più prossimo è la carne tradizionale, bisogna effettuare un confronto con l’industria degli allevatori, che costituiscono una lobby potente. Si tratta di valutare in quale misura il nuovo processo industriale potrebbe creare posti di lavoro e indotto economico, oltre a essere più etico e sostenibile”. In ogni caso, nel momento in cui la cultivated meat ottenesse il via libera in Europa, l’Italia non potrà opporsi. “Il nostro Paese ha varato nel 2024 una legge in antitesi con la normativa europea, nella quale vieta la commercializzazione di carne coltivata”, stigmatizza il professor Conti. “Del resto, bandire un prodotto a priori, attraverso norme preventive, è un controsenso, significa guardare al passato e non al futuro, sostenendo gli interessi di pochi a scapito di benefici per tutti”.

    Il programma

    G&B Festival 2025, dal 5 al 7 giugno a Milano: il programma

    20 Maggio 2025

    Perché no: “Sarà sicura per la nostra salute?”
    Nel maggio 2012, durante la trasmissione televisiva Quello che (non) ho su La7, Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, aveva pronunciato un monologo. “Appartengo alla Terra”, disse. “E come me tutta l’umanità e ogni forma di vita. Animali d’ogni specie e tutto ciò che il lavoro umano ha plasmato e trasformato nel tempo”. Bisognerebbe forse partire da qui per comprendere la posizione dell’associazione sul tema carne coltivata. “I consumi di carne in Occidente sono insostenibili”, dice la presidente Barbara Nappini. “E questa impennata della produzione è correlata allo sviluppo degli allevamenti intensivi, che provocano più del 30% delle emissioni di CO? nel Pianeta, inquinano il suolo e l’acqua, causano la sofferenza del bestiame e, infine, compromettono la nostra salute”. Secondo Slow Food, quest’ultimo settore è oggi controllato da poche multinazionali, come Virgin Group, Jbs, Cargill, Tyson Foods, le stesse che stanno finanziando la ricerca sui prodotti di origine cellulare.

    Gli ospiti

    Antartide, Boston, New York, Losanna: scienza senza confini al Festival di Green&Blue

    di Sandro Iannaccone

    19 Maggio 2025

    “Ora che il settore dell’allevamento inizia ad avere prospettive più incerte, i grandi gruppi aziendali si sono concentrati su un altro business, applicando gli stessi strumenti, come brevetti e monopoli”, incalza Nappini. Due le principali criticità che la presidente ravvisa nei nuovi preparati a base di cellule. La prima: l’elevato impatto ambientale, visto che “al momento gli impianti necessari alla produzione consumano una rilevante quantità di energia”. La seconda: l’incognita della salubrità, dato che “nei processi produttivi vengono impiegati sia ormoni sia lieviti geneticamente modificati, realizzando così alimenti iperprocessati”. Un’ulteriore considerazione riguarda le ricadute negative sui piccoli allevatori, che usano un modello estensivo e che, in seguito all’introduzione degli alimenti innovativi, “rischierebbero di scomparire”, sostiene la rappresentante dell’associazione, che non fa sconti nemmeno sulla denominazione: “Il nome attribuito ai sostituti della carne e la loro etichettatura non devono generare confusione nel consumatore. Perciò questi nuovi prodotti non potranno essere definiti carne, ma neppure si potranno usare termini come salame, latte, prosciutto per riferirsi ai derivati”.

    Alla luce di tutto ciò, conclude Nappini, “il problema di un’eccessiva produzione di carne non si risolve passando dagli allevamenti intensivi ai laboratori, ma si affronta analizzando e modificando il modello che ha originato la distorsione. È, dunque, imprescindibile ridurre il consumo di proteine animali e puntare su un allevamento sostenibile”. Per cercare di raggiungere questi obiettivi, l’organizzazione ha realizzato varie iniziative di comunicazione. Tra queste, Slow Meat, la campagna internazionale “Diamoci un taglio” mirata a sensibilizzare i consumatori sulla necessità di diminuire il consumo di proteine animali. È, invece, rivolta anche ai cuochi, oltre che ai cittadini, la campagna “Meat the change”, che invita i professionisti dei fornelli a promuovere menù amici del clima. LEGGI TUTTO

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    Le foreste sono in crescita ma non abbassiamo la guardia

    Vietato fare gli “addormentati” nel bosco. O meglio, vietato abbassare la guardia su tutto ciò che riguarda le nostre aree forestali perché la buona notizia, ricorda il ricercatore Giorgio Vacchiano che sarà sul palco del Festival di Green&Blue la mattina del 5 giugno, è che in Italia sono più del previsto e stanno “offrendo un importante contributo nell’assorbimento di CO?, anche se non sufficiente rispetto alle emissioni dell’uomo”, ma la cattiva notizia è che se non ce ne occupiamo possono facilmente tornare a rischio nel volgere di pochi anni.

    Il programma

    G&B Festival 2025, dal 5 al 7 giugno a Milano: il programma

    31 Maggio 2025

    Si stima infatti che ogni 10 anni il 3% della biomassa europea sia a rischio di essere distrutta da tempeste di vento, incendi e attacchi di insetti, e la vulnerabilità a questi disturbi è in aumento. Per fortuna però attualmente, in un generale contesto negativo di crisi climatica, incendi e perdita di habitat e biodiversità, le foreste italiane stanno dando segnali incoraggianti. Lo stato delle nostre foreste è infatti in costante crescita, “abbiamo ormai raggiunto 11 milioni di ettari tra foreste e altre terre boscate” spiega Vacchiano, ricercatore e docente in Gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano, ricordando l’importanza di implementare “una gestione attiva di questi ettari”.“Inoltre – continua il professore – gli ultimi inventari nazionali delle emissioni ci mostrano, al 2023, come le foreste italiane assorbono 53 milioni di tonnellate di anidride carbonica, in pratica il 14% delle emissioni. Un dato quasi raddoppiato rispetto alle ultime rilevazioni, anche se in realtà va considerato il fatto che sono cambiate modalità di conteggio e sono stati aggiornati i dati di base. Però sappiamo comunque che l’espansione forestale è superiore rispetto a quella simulata finora dai modelli e che anche il servizio di assorbimento di CO? è di conseguenza cresciuto. Un dato più confortevole di quanto pensavamo”. Questo prezioso eco-servizio offerto dai boschi, fondamentale per le vite di tutti noi, va però preservato con molta attenzione.

    Giorgio Vacchiano, Ricercatore dell’Università Statale di Milano ed esperto di gestione forestale  LEGGI TUTTO

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    Valeria Barbi: “Un milione di specie a rischio estinzione e ci stiamo abituando”

    “Oggi 1 milione di specie sono a rischio estinzione: di queste, il 50% potrebbe scomparire entro la fine del secolo. Rischiamo di veder sparire specie che non abbiamo ancora scoperto. E i fattori alla base di questa debacle sono connessi tra loro e dipendono tutti dalle attività umane: perdita di habitat, crisi climatica, sovrasfruttamento, inquinamento e diffusione di specie aliene”. Valeria Barbi è una naturalista e giornalista ambientale: autrice di Che cos’è la biodiversità oggi (Edizioni Ambiente) e di WANE – We Are Nature Expedition, un reportage con cui ha documentato il rapporto uomo-natura lungo la Panamericana. “Mi inquieta – dice – che ci si abitui alla perdita di biodiversità quasi sia nel naturale stato delle cose assistere all’estinzione di una specie per colpa nostra. Non sappiamo, ad oggi, il numero di specie animali che popolano la Terra: circa 2,2 milioni sono quelle catalogate, ma potrebbero essercene miliardi, nelle profondità oceaniche o negli angoli remoti delle foreste pluviali. Dall’inizio di questa intervista, è possibile che una specie si sia estinta ancor prima di essere stata scoperta”.

    Partiamo dalla crisi climatica.
    “Gli effetti sulla biodiversità sono diffusi in ogni angolo del Pianeta: si traducono nella fisiologia di diverse specie – alcuni uccelli migratori diventano più piccoli e con ali più grandi – e nella rottura di connessioni spaziali e temporali tra specie diverse, per esempio tra insetti impollinatori e fioriture o fra predatori e prede . Ma si registrano anche variazioni negative sul successo riproduttivo”.

    I temi

    Festival di Green&Blue, sul palco la ricchezza della biodiversità

    di Sandro Iannaccone

    22 Maggio 2025

    Quali sono le specie più a rischio?
    “Un numero importante riguarda gli endemismi terrestri: l’84% potrebbe scomparire entro il 2100. A rischio soprattutto specie d’alta quota come lo stambecco: ha sviluppato caratteristiche evolutive che gli consentono di resistere a temperature rigide, controproducenti nell’era del global warming. Tra le conseguenze, una maggiore attività di notte che lo rende più vulnerabile alla predazione del lupo, e la riduzione dell’habitat – che potrebbe dimezzarsi entro il 2100 – con la necessità di spostarsi a quote sempre più alte, dove il foraggio ha minore qualità, il che influenza negativamente le cucciolate”.

    Il tema del sovrasfruttamento è sempre attuale, in particolare con la pesca.
    “Un terzo delle specie conosciute di squali e razze sono sull’orlo dell’estinzione: di alcune ci nutriamo, spesso inconsapevolmente. Oggi la criticità non è nella pesca artigianale delle piccole comunità ma nella pesca commerciale. La prima è anzi, se ben gestita, funzionale alla conservazione e alla definizione di aree marine protette: in Messico ho incontrato comunità di pescatori di squali che si sono trasformate in guide turistiche”.

    Altro tema: come conciliare la tutela della biodiversità con l’overtourism?
    “Alle Galapagos ho trovato un paradiso preso d’assalto dai turisti. Oggi, complici i social, anche aree remote come l’arcipelago caro a Darwin rischiano l’assedio dei turisti. Il problema è ancor più sentito nei Paesi dove la popolazione vive in condizioni di fragilità sociale: per mantenere la famiglia si è disposti a dare in pasto il proprio patrimonio naturale al turismo di massa. La parola chiave, ovunque, è educazione: va cambiato il paradigma secondo cui sia un diritto vedere il giaguaro o l’orso, nei loro habitat. Il turismo va regolamentato, soprattutto nelle aree protette, e alcune zone devono restargli precluse. Un caso virtuoso? Nel parco nazionale Madidi, in Bolivia, le comunità native hanno dato vita a un’offerta di turismo sostenibile che sta aiutando a frenare deforestazione e bracconaggio”.

    Si parla molto di convivenza con le specie selvatiche.
    “Ci troveremo sempre più a condividere gli spazi con le specie selvatiche: ne abbiamo eroso i confini, abbiamo cementificato i loro habitat. Dobbiamo educarci alla presenza della fauna selvatica. Senza pregiudizi. E questo vale anche per i grandi carnivori, da sempre stigmatizzati, come il lupo. A proposito: in Europa il lupo preda 65 mila capi di bestiame l’anno su circa 279 milioni di animali allevati per il consumo umano. L’errore è che sia la politica ad occuparsi di scienza, strumentalizzando le questioni, incapace di visioni a lungo termine. Come nel caso del declassamento del lupo: un contentino per pochi, non la soluzione ideale. L’abbattimento selettivo delle specie è selettivo quasi sempre solo sulla carta”. LEGGI TUTTO

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    Dalla transizione non si torna indietro

    Nei dieci anni dall’adozione dell’Agenda 2030 dell’ONU per lo sviluppo sostenibile possiamo distinguere due fasi: la prima, nella quale hanno dominato le spinte economiche, politiche e culturali dirette a metterla in pratica per raggiungere gli obiettivi da essa indicati. La seconda, nella quale si sono affermati orientamenti politici e culturali opposti, con il rafforzamento delle spinte nazionalistiche e degli oligopoli economici, l’indebolimento dei sistemi di dialogo multilaterale, l’uso generalizzato della disinformazione, le guerre e la violenza come strumenti per la risoluzione delle controversie. Se a dividere in modo netto le due fasi è stata la pandemia da Covid-19, negli ultimi sei mesi chi spera che quei valori guidino le scelte dei leader politici ed economici ha subito una “doccia fredda”.

    L’avvio dell’Amministrazione Trump ha determinato cambiamenti profondi nelle relazioni internazionali e nel funzionamento del sistema economico e politico statunitense, con evidenti ricadute sulle priorità dell’Unione europea, e quindi del nostro Paese. Tra l’altro, la parola “sostenibilità” non può essere usata dalle agenzie federali e il rappresentante degli Stati Uniti all’ONU ha detto che “gli sforzi globalisti come l’Agenda 2030 e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile […] sono contrari ai diritti e agli interessi del popolo americano [e che] pertanto, gli Stati Uniti respingono e denunciano l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile”.A livello europeo la situazione appare contraddittoria: con il “Patto per l’industria pulita” proposto dalla Commissione è stato confermato l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 e il taglio del 55% delle emissioni al 2030 e del 90% al 2040. D’altra parte, in nome delle “semplificazioni” la Commissione ha proposto (pacchetto Omnibus) modifiche significative delle Direttive sulla rendicontazione di sostenibilità e sul dovere di diligenza delle imprese, nonché del Regolamento sulla tassa sul carbonio alle frontiere e della Tassonomia degli investimenti ecosostenibili.

    A fronte dell’accoglienza positiva espressa da diverse associazioni imprenditoriali, molte grandi imprese, organizzazioni della società civile e perfino la Banca Centrale Europea hanno espresso dubbi e critiche sul pacchetto Omnibus, la cui adozione determinerebbe un forte indebolimento dei quadri normativi finalizzati a promuovere comportamenti responsabili sul piano sociale e sostenibili su quello ambientale da parte delle imprese. Peraltro, visto che le banche continueranno a domandare dati relativi ai fattori Environment, Social and Governance (ESG) al fine di valutare i rischi finanziari ad essi connessi, la messa in pratica delle proposte della Commissione minerebbe comparabilità, qualità e trasparenza dei dati, senza parlare del fatto che molte imprese hanno già attivato investimenti rilevanti in questo campo, anche per ottenere vantaggi reputazionali sia nei mercati dei loro prodotti che nelle relazioni con la filiera e con il sistema finanziario.

    Quanto brevemente ricordato ha fatto dire ad alcuni che “la sostenibilità è passata di moda”, ennesima fake news messa in giro da chi si batte contro la trasformazione del sistema economico promossa dall’Agenda 2030. Ovviamente, le difficoltà nella sua attuazione sono cresciute enormemente e la scelta europea di aumentare le spese per la difesa drenerà risorse destinabili a migliorare la competitività e la giustizia sociale, fronteggiare la crisi climatica e favorire il ripristino degli ambienti degradati. Ma la sostenibilità è sempre più al centro delle scelte delle imprese e della società civile non solo perché è l’unica strada per un futuro di benessere, ma anche perché conviene sul piano economico.Il successo del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2025, con gli oltre 1.300 eventi (+45% rispetto al 2024) organizzati in tutta Italia, testimonia che la società civile crede nei valori dell’Agenda 2030 e si impegna per realizzarli. D’altra parte, i dati citati nel Rapporto indicano chiaramente che le imprese italiane che hanno scelto la sostenibilità aumentano produttività e competitività. In particolare, tra le imprese che hanno investito sulla sostenibilità ambientale (il 34,5% delle unità con 3-9 addetti e il 73,8% di quelle con 250 e più addetti) quelle manifatturiere con un profilo di sostenibilità «alto» (7,1% del totale) hanno una crescita addizionale del valore aggiunto pari al 16,7% rispetto a quelle non sostenibili. Inoltre, per il 92% delle imprese familiari e per l’89% delle non familiari integrare la sostenibilità comporta benefici: per questo, la sostenibilità è uno degli obiettivi prioritari delle imprese nel prossimo futuro. Infine, solo il 21% delle imprese indica il rafforzamento delle normative climatiche come un rischio, mentre più del 50% di quelle manifatturiere ha già investito nell’efficientamento energetico.Insomma, la sostenibilità conviene già ora e può accelerare la futura crescita economica del Paese. Dunque, essa deve restare la stella polare dei comportamenti individuali e collettivi, concetto che la politica italiana stenta ancora ad abbracciare. E i risultati di questo scetticismo si vedono.

    *Enrico Giovannini, co-fondatore e direttore scientifico dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), parteciperà al G&B Festival 2025.

    L’articolo è tratto dal numero di Green&Blue in edicola il 4 giugno, allegato a Repubblica e dedicato al Festival di Green& Blue (Milano, 5-7 giugno)
    La partecipazione al G&B Festival è gratuita previa registrazione. LEGGI TUTTO

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    Green City Network, la sindaca Bugetti: “Così Prato è cambiata tra nuove idee e ricerca”

    Il museo del Tessuto, i tesori di Lippi, Metastasio e Botticelli, ma anche un polo manifatturiero di 30 mila addetti, impianti ottocenteschi da tutelare e perfino un centro di ricerca per studiare e analizzare materiale proveniente da Marte, campioni che arriveranno dall’Agenzia spaziale italiana. Siamo a Prato, punto di riferimento per stilisti di tutta Europa che qui vengono a cercare nuove idee, una città dalle tante anime. “Più o meno conosciute” la descrive la sindaca Ilaria Bugetti, la prima donna a ricoprire questa carica a Prato. “Sono duecento anni che qui ci occupiamo di sostenibilità. Basta pensare alla lana rigenerata che ha fatto la fortuna del territorio riutilizzando scarti e avanzi. Fino ad arrivare alla collaborazione con la Scuola Superiore Sant’Anna, con cui abbiamo creato il marchio Cardato recycled”.

    Davvero tante anime racchiuse in una sola città, come si protegge e si valorizza un patrimonio ambientale come questo?
    “Lavorando tutti insieme, il ché significa trovare soluzioni che vadano bene sia al distretto economico, che ai cittadini. Qui siamo abituati a pensare ai progetti collaborando tra pubblico e privato. Come è accaduto quando abbiamo costituito una società per azioni tra Comune, Confindustria Toscana Nord e il Gruppo Consiag. Grazie a GIDA, un distretto industriale energivoro come quello tessile riesce a non impattare sulle risorse idriche, perché separa le acque reflue civili da quelle industriali e le ricicla rimettendole in produzione”.

    L’impatto delle emissioni di CO2 è notevole a causa del distretto del tessile. Come state gestendo la transizione visto che dovete raggiungere la neutralità climatica entro il 2030?
    “Abbattere l’inquinamento in un distretto vivace come il nostro non è semplice. Ci lavoriamo ogni giorno. Continuamente monitoriamo la nostra capacità di stoccaggio e assorbimento di CO2. Tutta la città è coinvolta su questo impegno, non soltanto le aziende, perché se si vogliono raggiungere gli obiettivi bisogna intervenire anche sulla mobilità e edilizia. Ci siamo presi l’impegno e lo rispetteremo. Abbiamo approvato il “Contratto di Città sul Clima” firmato da 51 partner che provengono dai più diversi settori economici, sociali, ambientali e culturali. Dobbiamo ridurre dell’83% le emissioni entro il 2030, ma si potrebbe arrivare anche al 96,4%. Stiamo lavorando per decarbonizzare i consumi termici ed elettrici. Prato entro quest’anno avrà una sua Comunità energetica promossa direttamente dal Comune, ma ce ne saranno altre in zona industriale. Eravamo pronti, ma aspettavamo i decreti attuativi. Siamo anche rimasti delusi per non essere stati inseriti ad aprile scorso nel Decreto bollette”.

    Ossia?
    “Il distretto pratese aveva chiesto in vista della conversione in legge di poter essere inserito nella misura decisa dal governo per contrastare il caro energia. Ma le nostre imprese industriali, allacciate solitamente alla media tensione (c’era un emendamento che lo prevedeva), sono state ritenute di non avere i requisiti. Peccato, sarebbe stata una boccata d’ossigeno per gli imprenditori di questo settore che sta comunque soffrendo un momento di crisi”.

    Parliamo di mobilità: la vicinanza a Firenze con il pendolarismo che ne deriva è sempre stato un problema per Prato. Ci sono progetti per alleggerire il peso del traffico?
    “Abbiamo completamente rivisto il Piano urbano della mobilità sostenibile ripensando ad una nuova viabilità tra la stazione ferroviaria e altre zone della città. Non solo. Con i fondi del Pnrr, circa 8 milioni stiamo acquistando autobus urbani elettrici. Piano piano rinnoveremo tutta la flotta del trasporto pubblico locale. Ci sono i progetti delle piste ciclabili che riguardano soprattutto l’area della stazione e la connessione con il polo industriale e con la Ciclovia del Sole. Tutto questo senza toccare la splendida area del Parco agricolo, che ci divide proprio dal centro urbano di Firenze”.

    Con Firenze avete in corso una polemica in Regione per l’allungamento della pista dell’aeroporto. Perché siete contrari?
    “Perché impatta proprio su questa zona verde che non vogliano sia toccata. Consideriamo sia anche un progetto inutile. Firenze non ha uno scalo di dimensioni come Bologna o Pisa, noi invece perderemo una zona ambientale ricca. La mia è una posizione politica che arriva da lontano, ma anche i cittadini di Prato non vogliono che quel luogo si trasformi in aeroporto”.

    Cosa sogna per la sua città?
    “Il suo riscatto. Siamo una grande realtà non sono nel tessile, qui si fa ricerca avanzata scopriamo nuovi materiali. Nascono startup. Ora studieremo perfino Marte”.

    L’articolo è tratto dal numero di Green&Blue in edicola il 4 giugno, allegato a Repubblica e dedicato al Festival di Green& Blue (Milano, 5-7 giugno) LEGGI TUTTO

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    Green City Network – Viterbo, la sindaca Frontini: “Ora troppe auto per una mobilità sostenibile”

    l 25 aprile l’ha detto chiaramente nella piazza principale di Viterbo mentre si svolgevano i festeggiamenti: “I partigiani di oggi sono i ragazzi che si battono per il clima”. Chiara Frontini, classe 1989 è la prima sindaca donna del capoluogo della Tuscia. Eletta nel 2022 con una lista civica, ha messo in cima al suo programma elettorale la riqualificazione urbana della città. “Intesa soprattutto come percorso verso una sostenibilità sociale e ambientale”, spiega. Frontini amministra una città di 70 mila persone residenti in un polo agricolo e turistico importante alle porte di Roma. Molte le questioni aperte che sta affrontando la prima cittadina sul fronte della tutela del territorio e per migliorare la qualità di vita dei concittadini. Tra le priorità, la mobilità, la riconversione energetica degli edifici pubblici, l’uso del suolo agricolo.

    Partiamo dalla mobilità e dai collegamenti con Roma, snodo cruciale per i viterbesi e per la salvaguardia ambientale: un’ora e mezza di treno significa che tanti pendolari sono costretti a prendere l’auto?
    “È così, perché non esistono collegamenti diretti. Infatti ci sono 78 auto ogni 100 abitanti. Troppe. Per questo abbiamo messo subito mano al Piano sulla mobilità sostenibile. Non potendo incidere sulla rete extraurbana di competenza della Regione abbiamo incentivato la rete dei bus locali che collegano le stazioni alle frazioni, in modo da agevolare il passaggio treno-bus. Fondamentali i 30 chilometri di ciclabili stazione-centro storico-università”.

    Bisogna convincere dunque gli abitanti di Viterbo a lasciare a casa l’auto. Ci riuscirà?
    “Ci sono stati incontri pubblici per spiegare sia il percorso delle piste ciclabili sia l’uso del bike sharing. Ma i cittadini stanno anche assistendo alla sostituzione dei mezzi pubblici, su cui abbiamo fatto un grosso investimento utilizzando i fondi del Comune per acquistare mezzi elettrici e ibridi. Sono convinta che tutto questo creerà una mentalità nuova. Certo, come amministrazione dobbiamo collaborare con la Regione per avere finalmente i collegamenti ferroviari diretti con la capitale. Ci sono molti pendolari che vanno a Roma per studiare o lavorare. Per noi è un tema cruciale”.

    Appena eletta è riuscita a finanziare impianti fotovoltaici sulle scuole. È stato complicato?
    “C’erano fondi che potevamo utilizzare. Oltre ai pannelli solari nelle due scuole abbiamo realizzato altri interventi sempre per ridurre il consumo di energia. Ci sono pannelli anche sugli impianti sportivi comunali e la piscina. Ma quello che davvero inciderà sulla transizione energetica a Viterbo è il Centro di ricerca dedicato a Piero Angela”.

    Di che si tratta?
    “La nostra idea è che dovrà diventare il punto di riferimento per tutte le aziende della Tuscia. Obiettivo: supportare gli imprenditori che devono affrontare le fasi della transizione energetica. Siamo riusciti a finanziare il progetto utilizzando alcuni investimenti stanziati addirittura dal Governo Gentiloni per le periferie, ma mai spesi. Di tutto quel pacchetto di progetti era rimasto ben poco, anche perché nel frattempo i prezzi sono lievitati. Così abbiamo deciso di convogliare 13 milioni sulla sostenibilità”.

    Sul fronte della gestione dei rifiuti, Viterbo ha sofferto, anche su questo punto, la vicinanza con Roma. Ora come stanno le cose?
    “Voglio subito dire che la nostra è una provincia virtuosa: noi chiudiamo l’intero ciclo dei rifiuti rimanendo nel nostro territorio. Abbiamo ancora problemi sulla raccolta differenziata, ma ci stiamo impegnando per rispettare quel 65% chiesto dall’Unione europea. Purtroppo, abbiamo dovuto spesso supportare altre province come Rieti e soprattutto Roma. Dopo la chiusra della discarica a Malagrotta, molti rifiuti dalla capitale sono arrivati a Viterbo”.

    E poi c’è l’agricoltura, altro settore importante di questo territorio. In che modo gli imprenditori agricoli stanno affrontando un percorso di sostenibilità?
    “Una leva fondamentale è quello della riduzione dei consumi energetici, su cui hanno tutto il nostro appoggio. Ma sia ben chiaro la nostra posizione è quella di evitare di installare pannelli solari direttamente sui campi. Gli impianti fotovoltaici devono stare sui tetti delle stalle, dei capannoni agricoli e delle cantine, ma non sui terreni che devono essere lasciati all’agricoltura. Per la tutela del suolo e del paesaggio. Ce ne sono già troppi di impianti a terra e pale eoliche. Ci siamo consultati anche con i colleghi dell’Anci e con la Regione. E poi stiamo cercando di fare il possibile per sensibilizzare i viterbesi a consumare i prodotti del territorio. La filiera alimentare può essere corta e i pannelli per terra rubano la terra. Meglio in alto”.

    L’articolo è tratto dal numero di Green&Blue in edicola il 4 giugno, allegato a Repubblica e dedicato al Festival di Green&Blue (Milano, 5-7 giugno) LEGGI TUTTO