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    Accordo per il trasporto navale green: sanzioni a chi non usa carburanti puliti

    A sorpresa, anche il trasporto navale scala una marcia e si impegna a ridurre le emissioni di gas serra. Venerdì scorso, dopo una settimana di colloqui a Londra, i governi membri dell’Organizzazione marittima internazionale (Imo) hanno votato una decisione che impone agli armatori di ridurre la quantità di emissioni che contribuiscono al riscaldamento climatico per […] LEGGI TUTTO

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    Clima, La Niña è finita. Ora che succede?

    La Niña è finita e ora che succede? Dopo soli tre mesi da quando a gennaio è iniziato il fenomeno naturale de La Niña, che a differenza del più noto El Niño tende in generale a portare un raffreddamento in varie parti del globo, questo periodo è già stato dichiarato concluso da scienziati e meteorologi. Prima di un eventuale ritorno di El Niño (o de La Niña stessa) entriamo ora in una fase neutra, che probabilmente durerà per tutto il 2025, caratterizzata da diversi tipi di instabilità e incertezze. Per esempio, spiegano gli stessi scienziati, le previsioni metereologiche a lungo termine saranno più difficili da stabilire durante questo periodo in cui i fenomeni naturali non sono presenti. A questo vanno aggiunte inoltre anche le incertezze sul futuro di uno dei principali centri che forniscono questo tipo di informazioni, ovvero la NOAA, il National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), che con le sue politiche di tagli e di negazionismo climatico il presidente statunitense Donald Trump dopo una prima ondata di licenziamenti intende ora continuare a ridurre e smantellare.

    Meteo

    La Niña potrebbe arrivare presto e portare freddo e neve ma sarà debole e breve

    di Giacomo Talignani

    12 Dicembre 2024

    Nel frattempo, all’inizio di questa fase neutrale rispetto ai due fenomeni opposti di El Niño e La Niña, nel mondo continuano a registrarsi eventi record inaspettati, rendendo il futuro climatico del globo ancora più incerto. In Australia ad esempio dove è autunno la storia climatica viene costantemente riscritta: nella costa sud a Red Rocks Point si è arrivati a 41 gradi, una temperatura di oltre 13 gradi superiore perfino alle media estiva. Nuovi record vengono registrati anche nelle Filippine, con temperature altissime durante le notti (29 gradi) per il periodo, ma anche in Messico dove in aprile si è arrivati a 45 gradi a Sonora oppure, davvero sorprendente, in Siberia, dove le notti hanno raggiunto temperature minime di 20,5 gradi. In Oceania, dove si ipotizzava più freddo in alcune zone proprio grazie a La Niña, negli ultimi giorni non c’è stato nessun effetto riscontrabile del fenomeno naturale: a Vanuatu si è arrivati a 33,5 gradi. Di norma La Niña negli Stati Uniti tende a causare un clima più secco nel sud e nell’ovest e spesso rende più umide alcune parti dell’Indonesia, dell’Australia settentrionale e dell’Africa meridionale, ma in molti casi questi effetti sono stati appunto quasi irrisori.

    Anche per questo il 2025, nonostante oltre tre mesi di La Niña, secondo il Met Office britannico potrebbe comunque risultare fra gli anni più caldi registrati, anche se forse non batterà l’ultimo record raggiunto nel 2024, nonostante per esempio in Europa il marzo appena concluso sia stato il più caldo di sempre. In questa fase neutra, dopo gli effetti di El Niño e quelli (scarsi) del suo contro-fenomeno, quest’estate potrebbe secondo gli scienziati essere ancora una volta caratterizzata da ondate di calore e incendi più intensi, anche se come detto attualmente è più complesso fare previsioni a lungo termine. Di sicuro c’è che La Niña ha avuto una durata molto breve e per diversi aspetti strana, portando meno condizioni fredde rispetto a cicli del passato: nell’Oceano Pacifico tropicale, dove dovrebbe farsi sentire di più, ha avuto impatti solo per poche settimane. Esperti, come Michelle L’Heureux, climatologa del Climate Prediction Center, raccontano che capire cosa accadrà ora sarà “molto difficile”: per esempio sarà complesso stabilire come si svilupperà la prossima stagione degli uragani atlantici che inizierà tra meno di due mesi. La Niña solitamente determina una stagione degli uragani molto più attiva e intensa, ma forse visto il suo debole stato nel 2025 ciò potrebbe non accadere. Dall’altro lato però per via di altri fattori, come l’accumulo del calore negli oceani, così come la costante crescita delle emissioni e della crisi climatica, la stagione degli uragani potrebbe anche regalare brutti scherzi. Nel complesso la NOAA indica che l’attuale fase di neutralità in cui siamo entrati dovrebbe persistere almeno fino all’autunno (probabilità superiore al 50%). Gli stessi meteorologi ricordano però che solo “con il volgere della primavera all’estate, la nostra sfera di cristallo dovrebbe diventare più chiara”, dunque per ora restano enormi incertezze. Questo, in assenza di segnali chiari, vale anche per il futuro clima estivo in Italia che probabilmente sarà fortemente collegato alle condizioni di calore del Mar Mediterraneo, all’anticiclone delle Azzorre e quello africano e, come sempre, agli effetti legati alla crisi del clima che come abbiamo già sperimentato in passato quasi sicuramente porteranno a nuove e pericolose ondate di calore. LEGGI TUTTO

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    L’inquinamento da psicofarmaci altera il comportamento migratorio dei salmoni

    L’inquinamento da farmaci è un fenomeno più diffuso di quanto si possa pensare: secondo una ricerca pubblicata nel 2022, per cui sono stati presi in esame più di mille siti di campionamento lungo 258 fiumi sparsi per tutti i continenti, in un caso su quattro la concentrazione di questi contaminanti nelle acque superficiali è superiore a quella ritenuta sicura per l’ambiente e per la salute umana. Sono più di 900 i prodotti farmaceutici, o loro derivati, individuati fino ad oggi nei corpi idrici di tutto il mondo. Fra questi c’è anche il farmaco ansiolitico clobazam.

    Per approfondire la questione, gli autori e le autrici di uno studio appena pubblicato su Science hanno analizzato nello specifico gli effetti che questo principio attivo appartenente alla classe delle benzodiazepine ha sul comportamento dei salmoni selvatici dell’Atlantico (Salmo salar). Dai risultati è emerso che il clobazam sembra alterare le abitudini migratorie di questa specie, esponendola potenzialmente a maggiori rischi. Nel dettaglio, il team di ricerca ha dotato 279 salmoni selvatici di un impianto per il rilascio controllato di farmaci. Di questi, un gruppo ha ricevuto un impianto di controllo, non contenente alcun principio attivo, un secondo gruppo è stato invece esposto al clobazam, un terzo a un farmaco oppioide, il tramadolo, mentre un quarto e ultimo gruppo ha ricevuto un impianto contenente un mix di clobazam e tramadolo. Dopodiché i salmoni sono stati rilasciati nel fiume Dal, in Svezia, e i loro spostamenti sono stati monitorati attraverso appositi strumenti posizionati nel corso d’acqua. Questo esperimento è stato ripetuto per due anni di seguito in modo da tenere conto di eventuali variabilità nella migrazione dei pesci, legate a fenomeni naturali.

    Contemporaneamente, i ricercatori hanno condotto degli esperimenti di laboratorio su 256 salmoni, attraverso i quali hanno confermato che i farmaci rilasciati dagli impianti raggiungono effettivamente il cervello degli animali, e che la concentrazione dei principi attivi nei tessuti è paragonabile a quella rilevata nei pesci esposti a livelli ambientali reali di benzodiazepine e oppioidi. Dai risultati è emerso che l’esposizione al clobazam causerebbe un aumento del numero di salmoni giovani che raggiungono il mare. Anche se non sono state osservate differenze significative nella velocità complessiva di spostamento, gli animali che hanno ricevuto il clobazam tramite l’impianto di rilascio controllato avrebbero infatti attraversato più velocemente le dighe idroelettriche, che costituiscono un ostacolo alla migrazione. Gli autori ipotizzano che questo comportamento possa essere legato a una maggiore propensione al rischio da parte degli animali esposti al farmaco. Allo stesso tempo, il clobazam avrebbe anche ridotto la tendenza dei salmoni a stare in gruppo, anche in presenza di predatori.

    Secondo i ricercatori, queste osservazioni evidenziano le complesse conseguenze ecologiche dell’inquinamento da farmaci, dato che i cambiamenti comportamentali rilevati possono da un lato favorire la migrazione, ma dall’altro aumentare la vulnerabilità alle minacce naturali. “Il prossimo obiettivo è quello di seguire i movimenti su piccola scala dei pesci esposti ai farmaci, utilizzando strumenti di tracciamento degli animali ad alta risoluzione – commenta Jack Brand, primo autore dello studio e ricercatore presso la Swedish University of Agricultural Sciences – Ampliare la nostra comprensione di come i diversi inquinanti psicoattivi e le loro interazioni influenzino il successo della migrazione sarà fondamentale per prevedere gli impatti a lungo termine sulle popolazioni ittiche. Questo è particolarmente importante in un mondo sempre più inquinato, dove sono necessarie politiche basate su prove scientifiche per proteggere le specie e gli ecosistemi vulnerabili”. LEGGI TUTTO

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    Come eliminare i cattivi odori in casa con metodi naturali

    Rendere la nostra casa accogliente passa anche dal mantenerla sempre fresca e profumata, compito che talvolta può non essere semplice. Nella gestione degli ambienti domestici tra le varie criticità che ci si può ritrovare ad affrontare spiccano i cattivi odori, spesso spia di problemi più seri, dovendo intervenire prontamente per risolvere la situazione. Che gli odori spiacevoli derivino dalla cucina, dal bagno oppure da un elettrodomestico specifico esistono dei rimedi naturali grazie ai quali liberarcene.

    Cattivo odore in casa: le cause
    I cattivi odori possono insinuarsi tra le nostre stanze, rendendole poco piacevoli. Prima di affidarsi alle soluzioni con cui sbarazzarsi di questo problema è cruciale individuarne le cause: questo compito può essere difficoltoso, visto che il punto dal quale provengono eventuali fragranze sgradite non è sempre chiaro. È necessario setacciare la casa per capire quale zona emani il cattivo odore, scovandone così la fonte e la causa. Per esempio, gli scarichi del lavello potrebbero emanare puzza in cucina, come anche i cestini della spazzatura oppure il frigo non pulito correttamente o ancora del cibo scaduto dimenticato in un angolo della dispensa.

    Le cause più comuni che determinano gli odori spiacevoli in casa sono il ricambio d’aria assente, l’igiene delle stanze insufficiente, la scarsa pulizia di specifici elettrodomestici, l’umidità eccessiva, la muffa, i rifiuti accumulati, i vapori provenienti dalla cucina, giochi e cucce degli animali domestici e i tessuti maleodoranti.

    Rimedi naturali per sbarazzarsi dei cattivi odori in cucina
    Tra le stanze della casa più soggette agli odori fastidiosi rientra in assoluto la cucina, a fronte del suo uso quotidiano, che ci vede impiegare acqua, fornelli e maneggiare e conservare gli alimenti. Le puzze spiacevoli possono provenire da bidoni della spazzatura, frigo e credenze: per liberarsi di queste problematiche è importante pulire regolarmente la cucina, concentrandosi in particolare su elementi di uso quotidiano come fornelli e piano cottura.

    Inoltre, esistono dei rimedi casalinghi che consentono di mantenere la stanza profumata, liberandola da eventuali fragranze sgradite. Tra le soluzioni naturali l’aceto rappresenta un alleato su tutti per dire addio ai cattivi odori in cucina: mischiandolo con dell’acqua si ottiene un composto estremamente efficace per pulire le superfici, liberandole dei cattivi odori. Questo rimedio può essere anche impiegato per pulire periodicamente i bidoni della spazzatura. Nel caso in cui si debba trattare il frigo, una volta pulito con l’aceto, si può aggiungere al suo interno un contenitore con del bicarbonato, ingrediente con cui assorbire i cattivi odori e mantenere l’elettrodomestico fresco e profumato. In alternativa, si può ricorrere a una fetta di limone da lasciare per qualche giorno nel frigo, oppure a una patata sbucciata o ancora a una tazzina con dei fondi di caffè.

    Quando l’odore dei fumi di cottura domina la cucina si può impiegare l’aceto, ponendolo in una ciotola da posizionare in cucina per 24 ore, che funge da deodorante naturale. Per sbarazzarsi dei cattivi odori è anche possibile utilizzare il sale, da collocare all’interno di contenitori da sistemare in angoli strategici della stanza. Qualora il miasma provenisse dagli scarichi del lavandino si possono versare due cucchiai di sale al loro interno per poi lasciarli agire, risciacquando infine con dell’acqua calda.

    Gli agrumi sono altri alleati per profumare la cucina grazie alle loro bucce, dalla fragranza fresca e intensa, che possono essere bollite con dell’acqua in un pentolino a fuoco lento: il loro aroma coprirà puzze spiacevoli, eliminandole. Un’altra possibilità è far bollire del latte, aggiungendo delle foglie di alloro, con cui infondere alla stanza un profumo avvolgente. Inoltre, si possono porre in cucina erbe aromatiche, come rosmarino e origano, con cui mantenere sempre la stanza profumata.

    Come neutralizzare i cattivi odori in bagno
    Oltre alla cucina, anche il bagno è un catalizzatore dei cattivi odori e per contrastare questa criticità è fondamentale pulirlo a fondo e con regolarità, affidandosi anche a rimedi naturali con cui renderlo profumato, fresco e curato. Tra le principali fonti di cattivi odori in bagno rientrano gli scarichi dove possono proliferare i batteri per via di accumuli di sapone, detriti organici e capelli. Per dire addio alla puzza derivante dagli scarichi vengono in nostro aiuto il bicarbonato e l’aceto bianco. Basta versare mezza tazza di bicarbonato nello scarico per poi procedere con una tazza di aceto bianco, lasciando agire il tutto per un quarto d’ora, risciacquando infine con dell’acqua bollente.

    Qualora il problema fosse la lavatrice, gli odori spiacevoli potrebbero inficiare anche il bucato, dovendo quindi intervenire subito, controllando se ci siano problemi come tubi di scarico ostruiti, filtro sporco oppure calcare. Un rimedio naturale estremamente utile prevede l’uso dell’aceto bianco, aggiungendone un bicchiere nel cestello della lavatrice e nella vaschetta del detersivo, per poi azionare un lavaggio a vuoto ad alte temperature. In questo modo si puliscono il cestello e i tubi di scarico, eliminando di conseguenza eventuali fragranze maleodoranti.

    Altre soluzioni naturali per eliminare gli odori spiacevoli in casa
    Tra le altre fonti di cattivi odori in casa rientrano tessuti come tappeti, tende e cuscini, dovendo pulirli regolarmente per mantenerli sempre freschi. Nel caso del tappeto è possibile ricorrere al bicarbonato: basta spargerlo sulla sua superficie per poi lasciarlo in posa per 30 minuti, aspirandolo in seguito con attenzione.

    Se in casa vivono persone che fumano l’odore pungente delle sigarette può impregnare le stanze. Per contrastare questa problematica un alleato è l’aceto bianco, da bollire nell’acqua, per poi lasciarlo diffondere negli ambienti, vedendo così la puzza svanire in breve tempo. Altro rimedio efficace vede l’utilizzo del limone, da tagliare a fette, su cui versare sopra dell’acqua bollente, ponendo il tutto in un recipiente da collocare nella stanza dominata dalla puzza di fumo, che verrà presto neutralizzata.

    Un’altra problematica è poi la puzza nei cassetti, causata spesso dalla muffa che si forma in ambienti umidi e poco areati. In questo caso è necessario intervenire prontamente, pulendo i cassetti in modo approfondito con una soluzione a base di acqua e aceto, agente antimicotico, capace di contrastare i cattivi odori. Inoltre, è possibile spargere del bicarbonato di sodio nei cassetti, lasciandolo agire per 24 ore per poi rimuoverlo. LEGGI TUTTO

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    I cani domestici fanno male all’ambiente?

    Sono quasi un miliardo, in tutto il mondo. E in Italia, secondo i dati diffusi dall’Anagrafe Animali d’Affezione, sono 13.863.734 quelli regolarmente dotati di microchip: in media, uno ogni quattro persone. Ora, però, un nuovo studio fa luce sui danni potenziali dei cani domestici all’ambiente. Sottolineando come il loro impatto sia “vasto e multiforme”, traducendosi “nell’uccisione diretta e nel disturbo di numerose specie, in particolare uccelli costieri” e nel disturbo generale ad altre specie, sia in modo diretto che indiretto, attraverso le tracce di odore, urina e feci, non di rado responsabili della trasmissione di malattie ad altri animali o di effetti negativi sulla crescita delle piante.

    Un conto, insomma, potenzialmente “salato” quello che il miglior amico dell’uomo presenta all’ambiente, come rimarcano gli autori di un nuovo articolo appena pubblicato sulla rivista Pacific Conservation Biology. “L’impatto ambientale dei cani di proprietà è molto maggiore, insidioso e preoccupante di quanto generalmente riconosciuto”, sentenzia lo studio, che si concentra in particolare sui disturbi alla fauna selvatica, uccelli costieri in primis. Citando, per esempio, gli attacchi dei cani senza guinzaglio ai pinguini minori, in Tasmania: una casistica importante, che potrebbe portare a un collasso demografico delle colonie.

    Ancora: secondo i dati dell’Australia Zoo Wildlife Hospital, tra i ricoveri per animali selvatici più grandi al mondo, gli attacchi dei cani costituiscono, dopo gli incidenti automobilistici, la principale causa di decessi di fauna selvatica.Lo studio evidenzia, ancora, come negli Stati Uniti cervi, volpi e linci tendano a girare alla larga dalle aree selvatiche in cui i cani sono ammessi o in cui la loro presenza è più o meno costante. Non marginali, infine, le conseguenze sugli ecosistemi dei corsi d’acqua del rilascio delle sostanze contenute nei farmaci usati per combattere pulci e zecche e l’impronta, in termini di emissioni, dell’industria del food per animali domestici.

    “La nostra – chiarisce Bill Bateman, docente della Curtin University, che ha sede a Perth, in Australia, tra gli autori dello studi – non è una ricerca volta a condannare i cani, ma mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sul suo impatto ambientale. Un impatto che si accompagna – precisa – agli enormi benefici che i cani hanno sulla salute mentale e fisica dei loro proprietari”.

    Di qui, piuttosto, l’esigenza di mitigarne l’impatto con un comportamento più informato e meno negligente, da parte dei proprietari, che può tradursi – spiegano i ricercatori – anche in azioni semplici, come tenerli al guinzaglio a una distanza di sicurezza dagli uccelli limicoli. “E forse – aggiunge Bateman – in alcune aree del mondo è il caso di prendere in considerazione norme leggermente più severe, con qualche restrizione in più”.

    Tra i meriti dello studio, quello di accendere i riflettori su un tema sin qui poco indagato. “Certamente meno rispetto all’effetto sull’ambiente dei gatti, che è scientificamente più noto e studiato. – annuisce il biologo Emiliano Mori, che lavora per l’Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri (IRET) del Cnr – Sono molte, anche in Italia, le specie sensibili alla presenza dei cani, con esemplari direttamente o indirettamente danneggiati dalla loro presenza. Ma per numero di specie e fenomeni rilevati, le predazioni da cani sono circa metà di quelle dei gatti e, almeno in Italia, la legge prevede un maggiore controllo per i primi, che restano tendenzialmente meno liberi di muoversi e mostrano, in generale, un’efficienza predatoria minore”.

    Ma al problema della potenziale invadenza di Fido, benché meno sentito che in Australia, l’Italia non sembra impermeabile. “Tra le criticità che riscontriamo, soprattutto d’estate – conferma Raffaella Miravalle, guardiaparco del Parco Nazionale Gran Paradiso – c’è senz’altro l’introduzione dei cani domestici, che per definizione non sono educati all’incontro con la fauna selvatica, marmotte in primis, e il cui impatto costituisce un potenziale danno per l’equilibrio degli ecosistemi”. LEGGI TUTTO

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    Anche lavorando a maglia si può aiutare il Pianeta

    Nata nel cuore del distretto tessile toscano, Bettaknit è una startup fondata dalle sorelle Barbara ed Elisabetta Fani, con l’obiettivo di riportare il lavoro a maglia al centro della creatività quotidiana, in chiave sostenibile e accessibile. L’azienda unisce l’amore per la maglia con un’attenzione alla sostenibilità ambientale e sociale e all’innovazione, portando la tradizione artigianale nell’era digitale. Il modello di business è basato su kit di maglia completi – filati, strumenti (ferri, uncinetti), istruzioni e tutorial digitali – pensati per chi desidera realizzare da sé i propri capi, con un impatto positivo sull’ambiente e sul proprio benessere. La produzione dei filati avviene interamente in Italia, con una concentrazione nel distretto tessile di Prato, uno dei poli più avanzati in Europa per l’economia circolare nel settore moda. Qui, innovazione e tradizione convivono da generazioni, dando vita a un ecosistema virtuoso fatto di rigenerazione, competenze tecniche e attenzione alla qualità.

    Uno stile di vita più lento e sostenibile
    “Fare la maglia è molto più di un’attività creativa, è un gesto profondamente sostenibile, a impatto quasi nullo sull’ambiente. Non servono macchinari né energia, solo le mani, il tempo e i materiali naturali. È un modo per rallentare, ritrovare concentrazione, scaricare lo stress e riconnettersi con sé stessi”, racconta Barbara Fani, co-fondatrice e Ceo di Bettaknit. “Il knitting è una forma di slow living. Ti impone con dolcezza di fermarti, per dedicare attenzione a ogni punto, a ogni passaggio della creazione. È un tempo che non si perde, al contrario s’investe in un progetto che cresce tra le dita, in un oggetto destinato a durare. In un mondo accelerato, scegliere di creare qualcosa con calma è un atto quasi rivoluzionario”. Non solo aggiunge Fani: “Si tratta di una scelta che parla di consumo consapevole: un capo realizzato a mano non è un oggetto qualsiasi, è il frutto di cura, impegno e pazienza. Ed è proprio questo che lo rende prezioso e duraturo nel tempo. Quando si utilizzano filati di qualità, come quelli proposti da Bettaknit, ogni maglione, sciarpa o accessorio diventa qualcosa da custodire, riparare e tramandare. Una risposta concreta all’obsolescenza programmata e alla logica del fast fashion”.

    Barbara Fani ed Elisabetta Fani, fondatrici di Battaknit  LEGGI TUTTO

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    Lampadine: dove si buttano? I consigli per smaltirle in modo corretto

    E la lampadina dove la metto? si potrebbe dire, parafrasando una celebre canzone di Domenico Modugno. Per indagare le conoscenze dei cittadini europei sul tema, nel 2020 EucoLight ha commissionato un’indagine che si è svolta in Italia, Austria, Germania, Paesi Bassi, Spagna, dalla quale è emerso che il 62-88% degli abitanti ha identificato correttamente il luogo di smaltimento.

    “Pur essendo positivi, i risultati evidenziano il bisogno di maggiore informazione per raggiungere coloro che ancora non sono consapevoli della necessità di separare nel modo giusto questo tipo di rifiuti”, sostiene Marc Guiraud, segretario generale dell’associazione.

    Del resto, può non essere sempre facile individuare il bidone idoneo, visto che il conferimento dipende dalla tipologia di lampadina: a incandescenza, alogena, a Led. Ecco allora una mini-guida per non sbagliare.

    A incandescenza
    Tale tipo di lampadina è formata da un bulbo di vetro, da un gas inerte (come argon o azoto) e da un filamento di tungsteno. Quest’ultimo componente, al passaggio dell’energia elettrica, si scalda fino a diventare incandescente, emettendo luce. Si calcola, però, che una lampadina a incandescenza converta solo il 5-10% dell’elettricità in illuminazione, mentre la restante percentuale viene dissipata sotto forma di calore. Ciò si traduce in una bassa efficienza energetica e in una durata relativamente breve.

    Come smaltirle
    Nonostante siano da anni fuori produzione e fuori commercio, le lampadine a incandescenza potrebbero essere ancora presenti nelle case, magari montate su qualche lampada poco utilizzata. Il loro corretto smaltimento dipende dai regolamenti locali. In alcuni Comuni è, infatti, possibile conferirle nella raccolta indifferenziata, mentre in altri devono essere portate nei centri di raccolta abilitati (isole ecologiche) e gettate in un cassonetto specifico. In ogni caso, al pari di tutte le altre lampadine, non devono mai finire nel bidone del vetro, dato che sono composte anche da altri materiali. LEGGI TUTTO

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    La schiusa dei nidi delle tartarughe Caretta caretta è migliore se avviene lontano dall’uomo

    Alla notizia che Caretta caretta si trova sempre più bene sulle coste italiane, tanto che negli ultimi anni sono stati sempre di più i nidi della tartaruga marina certificati sul territorio, gli esperti hanno reagito con timido ottimismo. L’ipotesi che queste nidificazioni fossero gli effetti delle strategie di conservazione attuate negli anni precedenti andava pesata tenendo conto anche di altri fattori in grado di spiegare in parte quando osservato, come i cambiamenti climatici. Oggi a rispondere in parte alla questione è un nuovo studio italiano pubblicato sulle pagine di Plos One, volto ad analizzare i fattori in grado di influenzare la riproduzione della tartaruga marina. Scopo dell’indagine è quello di ottimizzare le strategie di conservazione della specie, considerata a rischio minimo per il Mediterraneo ma vulnerabile a livello globale, scrivono Luca Ceolotto e colleghi.

    Per farlo i ricercatori hanno analizzato in che modo una trentina di fattori naturali e antropici si associano al successo di schiusa delle tartarughe, ovvero alla percentuale di tartarughe emerse dalle uova deposte, come spiega a Green&Blue Ceolotto, biologo marino presso il dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione presso l’Università degli Studi di Padova. “In precedenza i lavori si sono concentrati sui fattori che influenzano la scelta di una spiaggia piuttosto che un’altra, ma questo aspetto non era stato invece indagato”. Una curiosità scientifica che prende spunto dai primi studi di Ceolotto nel campo, da quando, ancora bagnino e studente, fu testimone di una schiusa eccezionale sul lido di Jesolo nel 2021. “Per questo studio abbiamo analizzato 237 nidi risalenti al periodo compreso tra il 2019 e il 2023 in tutta Italia – riprende – e preso in considerazione fattori naturali quali la temperatura della sabbia e del mare, la salinità delle acque, l’altezza delle onde, la granulometria della sabbia e fattori antropici, quali il disturbo legato alla presenza umana ricollegabile a stabilimenti balneari per esempio”. Queste informazioni sono state raccolte o estrapolate anche grazie all’analisi di dati satellitari e grazie alla partecipazione attiva di alcuni cittadini. D’altronde, ammette il ricercatore, il contributo della citizen science, frutto di una maggiore sensibilizzazione nel campo, è diventato sempre più importante per gli studi su Caretta caretta.

    I ricercatori hanno anche confermato che, negli ultimi anni, parimenti a un incremento nel numero di nidificazioni – siamo passati da una media annuale di un centinaio a seicento nidi nel 2024, ricorda Ceolotto – si è osservato uno spostamento dei nidi verso ovest e verso nord. In media, si legge nel paper, il successo di schiusa oscillava da circa il 10% al 60%. Un dato variabile in dipendenza della stagione (e dei fattori correlati, turismo compreso) e del mese di deposizione e schiusa, continuano gli esperti. “I risultati in generale hanno mostrato che le attività di antropizzazione, come la vicinanza a strade o stabilimenti balneari, sono associate a schiuse con basso successo – spiega il ricercatore – mentre abbiamo confermato che spiagge naturali, ampie e con dune favoriscono un maggior successo di schiusa”. I risultati sorprendono poco e confermano, prosegue Ceolotto che: “molti dei fattori in grado di influenzare la schiusa di questa specie di tartaruga marina sono sotto il diretto controllo umano. Dovremmo tenerne conto, preservando le spiagge naturali e limitando l’antropizzazione e il turismo, per esempio programmando gli interventi di ripascimento dei lidi”. Tanto più che altri fattori, come l’aumento delle temperature e del livello del mare, legati ai cambiamenti climatici, sono fattori che possono alterare il successo di schiusa di Caretta caretta, concludono gli autori. LEGGI TUTTO