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    Dove c’è più luce gli uccelli cantano di più. “Ma l’inquinamento luminoso va contrastato”

    BirdWeather è un progetto che registra e identifica i diversi canti degli uccelli in giro per il mondo, grazie a dei sensori distribuiti nell’ambiente. Farsi un giro tra le vocalizzazione dei volatili in giro per il mondo è piuttosto facile, basta navigare la mappa con gli audio a disposizione di tutti. Alcuni ricercatori hanno utilizzato questa enorme mole di dati per cercare di capire se e quanto l’inquinamento luminoso alterasse l’attività di alcuni uccelli diurni, in particolare provando a rispondere a questa domanda: dove ci sono più luci gli uccelli cantano più a lungo?

    Biodiversità

    Caldo e illuminazione notturna allungano la stagione di crescita del verde cittadino

    di Simone Valesini

    18 Giugno 2025

    Per rispondere alla domanda, oltre alle registrazione dei canti degli uccelli, gli scienziati avevano bisogno dei dati relativi all’inquinamento luminoso, che sono stati ricavati a partire dalle informazioni raccolte grazie allo strumento satellitare Visible Infrared Imaging Radiometer Suite (Viirs), spiegano i ricercatori dalle pagine di Science. Nel complesso i ricercatori hanno analizzato circa 4,5 milioni di osservazioni per circa 600 specie di uccelli diurni e hanno scoperto che sì, l’inquinamento luminoso rende le giornate più melodiose. Gli uccelli in media iniziano prima a cantare, circa 18 minuti, e smettono dopo, circa 32 minuti, così che a fine giornata cantano quasi un’oretta di più.

    I dati, gli autori non lo nascondono, sono parziali, anche perché parziali sono le stesse osservazioni: navigando nella mappa è chiaro che le zone mappate siano soprattutto Europa (non molte in Italia), Nord America e in misura minore l’Australia. Ciò detto qualcosa dicono. Per esempio, accanto a un generale allungamento dei canti, i ricercatori hanno osservato che per alcune specie di uccelli l’anticipazione o la cessazione del canto erano più marcate (più lunghe) in presenza di un maggior inquinamento luminoso. Accadeva per esempio per le specie con occhi grandi o per quelli che costruiscono nidi aperti. Perché? L’ipotesi dei ricercatori è che queste caratteristiche li rendano nel complesso più abili o più suscettibili a percepire la luce rispetto agli uccelli con occhi piccoli o che nidificano al riparo, per esempio nelle cavità degli alberi. Gli effetti erano più marcati anche per le specie migratorie e per quelle con un areale più ampio, forse più flessibili e sensibili ai segnali temporali come la luce, anche se artificiale, aggiungono gli autori.

    Le rondini sono sempre più piccole: non per evoluzione, ma per il cambiamento climatico

    di Loredana Diglio

    13 Aprile 2025

    Da un lato gli uccelli potrebbero, in luogo di questa maggiore attività diurna, avere meno tempo a disposizione per riposare, ma potrebbero avere maggior tempo per procurarsi cibo e più possibilità di riprodursi. Ma ci muoviamo, per ora, nel campo dei “forse”: servono più dati, più completi e rappresentativi, per avere un’idea degli effetti dell’inquinamento luminoso sull’attività degli uccelli. Qualche dato in realtà c’è, e mostra come troppe luci possano confondere gli uccelli e metterne a rischio la sopravvivenza. Quel che è certo, concludono i due autori, Brent S. Pease e Neil A. Gilbert, rispettivamente della Southern Illinois University e della Oklahoma State University, è che serva fare qualcosa per invertire il fenomeno dell’inquinamento luminoso a livello globale. LEGGI TUTTO

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    La sfida della crisi del clima è globale ma le risposte degli Stati no

    In un vecchio film di Woody Allen, “Io e Annie”, il giovane newyorchese Alvy Singer, terrorizzato dall’imminente fine dell’Universo in espansione, chiede a sua madre: “Mamma, perché devo fare i compiti, se il mondo sta per finire?”. La madre, con disarmante pragmatismo, gli risponde che “l’Universo si starà anche espandendo, ma Brooklyn no”, e che dunque è il caso di continuare a fare i compiti. Un aneddoto cinematografico che cattura perfettamente la paralisi che nasce di fronte a una minaccia percepita come totale e ineluttabile: proprio quello che sta accadendo oggi con il cosiddetto catastrofismo climatico, incarnato mediaticamente da figure come Greta Thunberg. I danni di questo approccio sono evidenti, soprattutto nello spirito dell’opinione pubblica occidentale, la più toccata dal fenomeno: da un lato si genera una quasi rassegnazione, un’inerzia, un chissenefrega di massa; dall’altro si alimenta l’idea di una battaglia disperata da combattere “tutti insieme” cavalcando il concetto di catastrofe perennemente imminente ma sempre rimandata di qualche decennio.

    È ora di rinunciare definitivamente a entrambe queste idee. Il cambiamento climatico – termine già di per sé infelice, perché presuppone l’esistenza di un clima fisso che non è mai esistito, ragion per cui oggi si preferisce parlare di crisi climatica – è un tema eminentemente geopolitico. Normalmente lo si affronta e lo si discute come una questione globale, ma non lo è affatto. La crisi climatica non “cambia” il mondo solo dal punto di vista fisico, ma anche e soprattutto dal punto di vista di chi lo percepisce, a seconda dei soggetti e delle collettività interessate. L’unica ragione per cui lo si presenta come un problema globale è la consapevolezza, giusta ma vana, talvolta espressa talaltra implicita, che senza un impegno solidale di tutti o quasi tutti è impossibile immaginare una soluzione in tempi accettabili. Per rendersi conto che le cose stanno diversamente bisogna guardare ai dati. Dopo anni di battaglie per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica, codificate anche nelle tanto grandiose quanto inutili assemblee delle Nazioni Unite note come COP, non solo le emissioni non sono diminuite, ma sono aumentate su una base recente di circa lo 0,8% ogni anno. Questo significa che l’obiettivo net-zero, proclamato dalla cosiddetta comunità internazionale, potrebbe essere raggiunto nel 2050 solo invertendo drasticamente la tendenza e raggiungendo un obiettivo annuo di riduzione delle emissioni del 4,8%, decisamente molto lontano. Se, invece, ci ponessimo un obiettivo più realistico – ma già difficilissimo – di una diminuzione dell’1% annuo, dovremmo attendere fino al 2160 per raggiungere la neutralità climatica. È difficile, per non dire impossibile, mobilitare qualsiasi comunità verso un traguardo così lontano nel tempo; figurarsi l’umanità intera.

    La conclusione logica è netta: se continuiamo a combattere la battaglia per la crisi climatica come stiamo facendo oggi – cioè fingendo di combatterla – saremo destinati a perdere. Anzi, questa battaglia è già persa. Bisogna prendere atto della radice geopolitica del problema, che impedisce strutturalmente una strategia globale, e cambiare radicalmente strada. Occorre affiancare alla strategia per la riduzione dell’anidride carbonica quello che in gergo si definisce eco-adattamento: non dobbiamo interessarci tanto alla questione della riduzione delle emissioni (non perché non sia importante, ma perché non è possibile risolvere la crisi con questo approccio) quanto piuttosto guardare altrove. Non agire “a monte” ma “a valle”, cioè riducendo e contenendo gli effetti concreti (e molto diversi) che la crisi climatica provoca sui territori, lavorando sulla scorta delle esperienze passate. Per un Paese come l’Italia, dal territorio estremamente difficile sotto il profilo fisico, questo approccio si traduce in azioni urgenti e concrete. Pensiamo alle “bombe d’acqua”, o alle esondazioni di fiumi e torrenti: invece di discutere di percentuali di CO2 che non riusciamo ad abbattere, dovremmo lavorare sul corso dei fiumi, che in tempi moderni sono stati spesso rettificati per migliorare lo sfruttamento idroelettrico, alterandone l’equilibrio naturale. Ogni anno ci ritroviamo con gli stessi fiumi e gli stessi torrenti che producono gli stessi danni, mentre il dibattito resta sterile. Approccio controproducente.

    Un caso emblematico è Venezia: si pensa che possa finire sott’acqua in qualche decennio, malgrado gli adattamenti progressivi come quello del Mose. Diversi studi indicano che l’innalzamento delle acque della laguna, a prescindere dalla stabilizzazione delle temperature, potrebbe continuare per secoli. La nostra possibilità di incidere su questi cambiamenti è limitata. A maggior ragione dovremmo subito mobilitarci per gestire le conseguenze. Ma questa mobilitazione deve essere effettiva, su scala locale e nazionale o di intesa fra alcune nazioni, concentrando interventi e ricerca per ottenere risultati visibili e ravvicinati. Purtroppo, a oggi non si vedono ancora, nel nostro Paese, strategie di adattamento del territorio.

    Una protesta a Nuuk, in Groenlandia, davanti al consolato americano (Ahmet Gurhan Kartal/Anadolu via Getty Images)  LEGGI TUTTO

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    Olio di semi di cotone per tessuti idrorepellenti senza Pfas né formaldeide

    Lisci, idrorepellenti e possibilmente resistenti alla formazione di pieghe: sono le caratteristiche che tipicamente si punta ad ottenere nella fase di finitura dei tessuti, in particolare quando si tratta di tessuti fatti di cotone. A questo scopo vengono spesso utilizzate sostanze come la formaldeide o i Pfas, che però possono presentare rischi sia per la salute che per l’ambiente. Per ovviare al problema, un gruppo di ricercatori e ricercatrici della North Carolina State University (Stati Uniti) sta testando l’olio di semi di cotone modificato chimicamente come possibile alternativa green. E i risultati dei primi esperimenti, presentati al convegno dell’American Chemical Society (Acs) attualmente in corso a Washington, sembrano promettenti.

    La ricerca

    Il tessuto che abbatte le temperature anche di 9°C

    16 Luglio 2024

    Le resine a base di formaldeide tendono a legarsi, grazie alle loro caratteristiche chimiche, alle fibre di cellulosa del cotone, rendendole resistenti alla formazione di grinze e pieghe. Dall’altro lato, le sostanze appartenenti alla classe dei Pfas conferiscono idrofobicità ai tessuti e li proteggono dalle macchie. Come anticipato, però, sia la formaldeide che i Pfas presentano dei rischi sia ambientali che legati alla salute umana. Questi ultimi sono anche conosciuti come forever chemicals, ad indicare il fatto che, una volta introdotti, persistono nell’ambiente praticamente per sempre. La formaldeide, invece, se inalata può causare irritazioni delle mucose del tratto respiratorio, ed è stata classificata come cancerogena per gli esseri umani dalla International Agency for Research on Cancer (Iarc).

    Per ottenere un’alternativa più ecologica e ugualmente efficace, il gruppo della North Carolina State University, basandosi su ricerche condotte in precedenza presso la stessa università, ha modificato chimicamente l’olio che si ottiene dai semi del cotone. In particolare, i ricercatori hanno introdotto dei gruppi funzionali che consentono alle molecole di olio di legarsi alle fibre di cotone in modo analogo a quello che succede con la formaldeide. In sostanza, in questo modo il tessuto viene ricoperto da una sorta di polimero che lo rende idrorepellente e anche resistente alla formazione di grinze.

    Tutorial

    Tessuti sostenibili: quali sono e come sceglierli

    02 Agosto 2025

    L’effettiva formazione dei legami fra le molecole di olio così modificate e le fibre di cotone è stata verificata attraverso specifiche tecniche di spettroscopia infrarossa, mentre l’idrorepellenza è stata testata utilizzando una particolare telecamera che consente di misurare l’angolo di contatto che le gocce di acqua formano con il tessuto di cotone. Ebbene, il tessuto trattato con l’olio di semi di cotone modificato ha mostrato un significativo aumento dell’idrorepellenza.

    Per il futuro, il gruppo di ricerca si ripropone di valutare altre caratteristiche dei tessuti di cotone trattati in questo modo, come la resistenza allo strappo e la durata. Inoltre, spiegano gli autori della ricerca, l’obiettivo finale sarebbe quello di mettere a punto un processo che richieda l’utilizzo di soli solventi acquosi per l’applicazione dell’olio modificato al tessuto, per evitare del tutto l’impiego di sostanze potenzialmente pericolose.

    Inquinamento

    La “schiuma” biologica e biodegradabile che elimina i Pfas dall’acqua

    di Dario D’Elia

    09 Maggio 2025

    “Se riusciremo a raggiungere il nostro obiettivo di modificare le proprietà del tessuto di cotone, rendendolo anti-grinze, anti-macchie e idrorepellente, utilizzando un processo a base acquosa – conclude Richard Venditti, che ha coordinato lo studio ed è docente presso la North Carolina State University -, avremo un metodo ecologico per applicare un materiale biologico sul cotone al posto delle finiture a base di formaldeide e Pfas”. LEGGI TUTTO

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    Greenpeace: viaggiare in Europa costa meno in aereo che in treno

    Nel mezzo dell’ennesima estate segnata da eventi climatici estremi come incendi, ondate di calore e alluvioni che stanno colpendo il nostro continente, un nuovo rapporto di Greenpeace Europa centro-orientale (CEE) denuncia il fallimento del sistema di trasporti europeo, in cui i voli aerei, nonostante il loro enorme impatto climatico, sono più economici dei viaggi in treno. Grazie ai privilegi fiscali di cui godono le compagnie aeree, in più della metà delle tratte analizzate costa meno viaggiare in aereo che in treno, addirittura fino a 26 volte meno.

    Il rapporto esamina 142 tratte in 31 Paesi europei, mostrando che i voli sono mediamente più economici dei treni sul 54% delle 109 tratte transfrontaliere analizzate. In Italia la situazione è anche peggiore: nelle 16 tratte internazionali che riguardano il nostro Paese, viaggiare in aereo è mediamente meno costoso che usare il treno nell’88% dei casi, ponendo l’Italia al quarto posto nella classifica dei Paesi europei in cui l’aereo è più economico del treno. A ciò si aggiunge spesso anche una grande differenza di prezzo: viaggiare da Lussemburgo a Milano costa quasi 12 volte di più in treno che in aereo, da Barcellona a Londra fino a 26 volte di più.

    Trasporti

    Sicurezza aerea, la crisi climatica e gli eventi estremi mettono a rischio l’aviazione

    di Sandro Iannaccone

    20 Giugno 2025

    “Anche se la crisi climatica peggiora, il sistema dei trasporti europeo continua a favorire il mezzo di trasporto più inquinante, con prezzi dei voli assurdamente bassi rispetto a quelli dei treni, che sarebbero molto più sostenibili”, dichiara Federico Spadini della campagna Clima e trasporti di Greenpeace Italia. “Questa situazione non è dovuta a questioni di efficienza, ma all’inerzia politica europea che consente alle compagnie aeree di godere di privilegi fiscali ingiusti che sfavoriscono il trasporto ferroviario a spese del clima del pianeta”.

    Trasporti

    Solo il 13% delle compagnie aeree ha un piano green e sceglie carburanti sostenibili

    di Dario D’Elia

    03 Dicembre 2024

    Il costo ambientale di questo sistema truccato è enorme. I voli aerei emettono in media 5 volte più CO? per passeggero per chilometro rispetto ai treni. Se confrontati con i sistemi ferroviari che utilizzano energia elettrica 100% rinnovabile, il loro impatto può essere oltre 80 volte superiore. Nonostante ciò, le tariffe aeree artificialmente basse continuano a spingere i viaggiatori a scegliere l’aereo, con le compagnie aeree low cost che dominano il mercato grazie a prezzi sleali. Infatti, mentre le compagnie aeree non pagano né l’imposta sul cherosene né l’IVA sui voli internazionali, le ferrovie devono pagare le imposte sull’energia, l’IVA ed elevati pedaggi ferroviari.

    “Ogni tratta in cui l’aereo è più economico del treno è un fallimento politico: l’Europa deve rendere il treno l’opzione più economica, anziché quella più svantaggiosa perché meno finanziata. Per questo chiediamo all’Unione europea e ai governi nazionali di porre fine alle agevolazioni fiscali per il settore aereo, di investire sulla rete ferroviaria e di introdurre biglietti climatici a prezzi accessibili e facili da utilizzare. Le risorse economiche per cambiare il sistema dei trasporti si potrebbero ricavare da una tassazione adeguata del settore aereo, dei super-ricchi e delle aziende più inquinanti come quelle dei combustibili fossili. Servirebbe solo la volontà politica dei leader europei”, conclude Spadini. LEGGI TUTTO

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    Spreco alimentare: le strategie di 21 scienziati per salvare un’area più grande dell’Africa

    Non c’è tempo da perdere: su questo non hanno dubbi. Ma le soluzioni ci sono e consentirebbero di contrastare la crisi climatica in atto arrestando la perdita di biodiversità. Per ridurre lo spreco alimentare in chiave sostenibile frenando la curva del degrado del suolo, intervengono, con un articolo su Nature rivolto in particolare ai decisori politici, 21 scienziati internazionali di spicco: l’articolo quantifica l’impatto, entro il 2050, di una riduzione del 75% dello spreco alimentare e della massimizzazione di una produzione sostenibile, basata in particolare sugli oceani. Misure che da sole sarebbero in grado di salvare circa 13,4 milioni di km² di terreno, un’area più grande dell’intera Africa.Tra i suggerimenti, il ripristino di aree degradate, l’adozione di politiche per prevenire la sovrapproduzione e il deterioramento, il divieto di rifiutare di immettere sul mercato prodotti considerati semplicemente brutti, l’incoraggiamento alle donazioni di cibo e alla vendita a prezzi fortemente scontati di prodotti prossimi alla data di scadenze a, ancora, campagne educative volte a ridurre gli sprechi domestici. Infine, potrebbe essere decisivo un supporto deciso ai piccoli agricoltori nei paesi in via di sviluppo per migliorare i processi di stoccaggio e trasporto delle derrate alimentari.

    Consumi

    La crisi del clima fa impennare i prezzi del cibo: verdure, olio e riso fino al 70% in più

    a cura della redazione di Green&Blue

    22 Luglio 2025

    Piegare la curva del degrado del suolo
    L’analisi parte dalla constatazione che “i sistemi alimentari non sono ancora stati pienamente integrati negli accordi intergovernativi, né ricevono sufficiente attenzione nelle attuali strategie per affrontare il degrado del suolo”. Proprio per questo, sostengono gli scienziati, “solo riforme rapide e integrate incentrate sui sistemi alimentari globali possono far passare la salute del suolo dalla crisi alla ripresa e garantire un pianeta più sano e stabile per tutti”. “Proprio così – annuisce l’autore principale Fernando T. Maestre della King Abdullah University of Science and Technology (Kaust), Arabia Saudita – Abbiamo inteso proporre una serie di azioni coraggiose e integrate per affrontare insieme il degrado del territorio, la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico, nonché un percorso chiaro per attuarle entro il 2050″. “Una trasformazione graduale ma decisa dei sistemi alimentari, anche attraverso uno sfruttamento intelligente del potenziale della pesca sostenibile, aiuterebbe – aggiunge il ricercatore – a ‘piegare la curva’ e invertire il degrado del territorio, avanzando al contempo verso gli obiettivi della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione e di altri accordi globali”.

    L’agricoltura rigenerativa
    “Quando i suoli perdono fertilità, le falde acquifere si esauriscono e la biodiversità si perde, il ripristino del territorio diventa esponenzialmente più costoso. – annota Barron Joseph Orr, direttore scientifico dell’Unccd, la Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione in quei Paesi che soffrono di gravi siccità, particolarmente in Africa – I tassi di degrado del territorio in corso contribuiscono a una serie di crescenti sfide globali, tra cui insicurezza alimentare e idrica, trasferimenti forzati e migrazioni della popolazione, disordini sociali e disuguaglianza economica”. E non v’è dubbio che il degrado del territorio non sia solo un problema rurale, ma “influisce sul cibo che mangiamo, sull’aria che respiriamo e sulla stabilità del mondo in cui viviamo. – aggiunge Orr – Non si tratta di salvare l’ambiente, ma di garantire il nostro futuro comune”.

    Sostegno ai piccoli produttori e tecnologie accessibili
    E dunque ripristinare il 50% dei terreni degradati attraverso pratiche di gestione sostenibile del territorio equivarrebbe al ripristino di 3 milioni di km² di terreni coltivabili e 10 milioni di km² di terreni non coltivabili, per un totale di 13 milioni di km². Perché ciò avvenga, gli autori raccomandano più volte, nel documento, un convinto sostegno ai piccoli agricoltori: la maggior parte del cibo mondiale è coltivato da piccole aziende agricole a conduzione familiare. Si chiede dunque di spostare i sussidi agricoli dalle grandi aziende agricole industriali ai piccoli operatori, incentivando una buona gestione del territorio tra i 608 milioni di aziende agricole del mondo e promuovendo il loro accesso alla tecnologia, ma anche a diritti fondiari garantiti e a mercati equi.Non marginale, l’idea che tasse o tariffe premino l’agricoltura sostenibile e penalizzino gli inquinatori. Fondamentale una etichettatura “ambientale”, affinché i consumatori possano fare scelte alimentari consapevoli e rispettose del pianeta.

    Startup

    Il cestino intelligente che differenzia i rifiuti automaticamente

    di Dario D’Elia

    25 Marzo 2025

    Il futuro è nelle alghe e nei molluschi?
    Il documento punta anche sull’integrazione di sistemi alimentari terrestri e marini: la carne rossa prodotta in modo non sostenibile consuma grandi quantità di terreno, acqua e mangimi ed emette significative emissioni di gas serra. Così, frutti di mare e alghe rappresentano alternative sostenibili e nutrienti. “Un’acquacoltura responsabile, che si concentri su specie a basso impatto come cozze e prodotti derivati dalle alghe, può ridurre la pressione sul territorio”, aggiungono dunque i ricercatori, suggerendo la sostituzione del 70% della carne rossa prodotta in modo non sostenibile con prodotti ittici di provenienza sostenibile, come pesci e molluschi selvatici o d’allevamento. “Questo consentirebbe di risparmiare 17,1 milioni di km² di terreno attualmente utilizzato per pascoli e mangimi per il bestiame”, spiegano gli scienziati.

    Economia circolare

    Nelle mense si gettano via 38mila tonnellate di cibo all’anno. Una startup previene lo spreco

    di Gabriella Rocco

    30 Giugno 2025

    “Tutti insieme per un obiettivo comune”
    Nel documento si chiede inoltre che le tre Convenzioni di Rio delle Nazioni Unite – UNCCD, CBD e UNFCCC – si uniscano attorno a obiettivi condivisi per la salvaguardia del territorio e dei sistemi alimentari e incoraggino lo scambio di conoscenze all’avanguardia, monitorino i progressi e semplifichino la scienza in politiche più efficaci, il tutto per accelerare l’azione sul campo. Di qui l’invito a “promuovere azioni multilaterali sui sistemi territoriali e alimentari in modo coordinato e collaborativo”. “La terra è più che suolo e spazio. Ospita biodiversità, gestisce il ciclo dell’acqua, immagazzina carbonio e regola il clima. – dice Elisabeth Huber-Sannwald, che insegna all’Instituto Potosino de Investigación Científica y Tecnológiva, San Luis Potosí, Messico, ed è coautrice dello studio – Ci fornisce cibo, sostiene la vita e custodisce profonde radici di antenati e conoscenza. Oggi, oltre un terzo del territorio terrestre è utilizzato per coltivare cibo, nutrendo una popolazione globale di oltre 8 miliardi di persone. Eppure, oggi, le moderne pratiche agricole, la deforestazione e lo sfruttamento eccessivo stanno degradando il suolo, inquinando l’acqua e distruggendo ecosistemi vitali. La sola produzione alimentare è responsabile di quasi il 20% delle emissioni globali di gas serra. Dobbiamo agire, quanto prima” LEGGI TUTTO

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    L’urbanizzazione può ridurre fino al 43% la presenza di insetti impollinatori

    Da tempo si parla del fatto che le popolazioni di insetti impollinatori stanno subendo un drastico declino. Un andamento preoccupante, dato che questi animali sono fondamentali per la riproduzione di circa il 90% delle piante selvatiche da fiore e di molte coltivazioni. Fra le cause principali ci sono l’inquinamento da pesticidi e altre sostanze nocive […] LEGGI TUTTO

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    Fa sempre più caldo, i pipistrelli salgono di quota

    La verità sul cambiamento climatico? Arriva dai pipistrelli. Mammiferi longevi (arrivano fino ai quarantuno anni di età) e a riproduzione lenta (di norma, hanno un piccolo all’anno), sono tra gli animali più sensibili all’impatto umano. E stanno offrendo informazioni preziose sul rapporto tra climate change e biodiversità. Già, perché le ondate di calore, sempre più frequenti subito dopo i parti, stanno uccidendo i piccoli di diverse specie nei loro rifugi, non solo in quelli artificiali (le cosiddette “bat box”), ma anche negli edifici e perfino nelle cavità degli alberi. “Sono segnali inequivocabili, tanto più perché arrivano dagli animali, che non votano, non formano lobby e non hanno tessere di partito. – spiega Danilo Russo, ecologo dell’Università Federico II di Napoli e tra i massimi esperti internazionali di pipistrelli – Perciò, quando col loro comportamento raccontano i cambiamenti climatici prodotti dall’azione umana, tocca crederci”.

    Nuovi equilibri
    Così il team coordinato da Russo ha raccolto precise evidenze monitorando il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, lavora da molti anni. In quest’area, le temperature invernali sono aumentate di 4 gradi centigradi in due decenni. Con conseguenze evidenti. “Alcune specie legate ai fiumi stanno spostando le aree riproduttive verso altitudini più elevate, rese ospitali dal clima più mite e dalla maggiore abbondanza di insetti”, spiega Russo. È il caso del vespertilio di Daubenton (Myotis daubentonii), le cui femmine riproduttive sono risalite di 175 metri in 24 anni, seguendo “il caldo che avanza”. Lo fanno sfruttando la rigogliosa vegetazione ripariale dell’area, che offre loro rifugi e cibo. Ancora più rapido l’adattamento del raro vespertilio di Capaccini (Myotis capaccinii), specie legata a grotte e climi caldi: “Appena nel 2023 lo abbiamo registrato a 870 m, dove non era mai stato avvistato”, racconta ancora l’ecologo. Nel luglio 2025 abbiamo osservato una femmina a 1020 m, nel cuore del Parco”.

    Cosa succede al pianeta

    Stiamo cambiando gli equilibri della natura

    di Elena Dusi

    11 Agosto 2025

    Una strategia per sopravvivere
    Evidenze inoppugnabili, che confermano l’importanza di studi specifici come quello finanziato dall’Ente Parco, un progetto di ricerca in cui sono coinvolti anche. Luca Cistrone e il Laboratorio AnEcoEvo (Dipartimento di Agraria, Università Federico II di Napoli), in collaborazione con Mirjam Knörnschild del Museo di Storia Naturale di Berlino. L’obiettivo generale è proprio comprendere come i pipistrelli stiano rispondendo al riscaldamento globale in atto. Spostandosi di quota, e non solo. Perché a quanto pare Myotis daubentonii, in un periodo circa vent’anni, ha anche aumentato le proprie dimensioni corporee. “Riprodursi in rifugi più caldi significa risparmiare l’energia necessaria a scaldare il corpo, e le madri reinvestono questa energia nella crescita dei piccoli”, spiega Russo. Il clima starebbe dunque avvantaggiando questi mammiferi? Difficile dirlo. In un mondo dove gli insetti sono in forte declino, per pipistrelli insettivori come quelli italiani un corpo più grande potrebbe rappresentare un handicap, più che un vantaggio.

    Crisi climatica

    Estati lunghe fino a 5 mesi in molte città d’Europa

    di Paolo Travisi

    11 Luglio 2025

    Che il cambiamento climatico sia una minaccia seria lo conferma un altro studio coordinato da Russo, nel quale è stata documentata la mortalità neonatale in un bosco friulano per la nottola comune, una delle due specie migratrici che lo frequentano. “Le cavità più calde degli alberi attraggono le femmine partorienti – spiega Russo – ma quando arrivano le ondate di calore, quegli stessi rifugi diventano trappole letali da cui i piccoli non possono sfuggire”. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista “Ecology and Evolution”. LEGGI TUTTO