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    Dalle farfalle ai cani, così gli animali si adattano ai cambiamenti dell’ambiente

    Mosche e zanzare diventate immuni al Ddt, pecore di montagna con corna più piccole per sfuggire ai cacciatori, plancton che si adatta a mari più caldi, batteri che diventano resistenti agli antibiotici. E ancora, rane che modificano l’intestino per accumulare l’energia e rondini che accorciano le ali per sopravvivere ai Suv che sfrecciano sulle strade trafficate. Sono solo alcuni degli esempi di intelligenza ecologica raccontati nel libro Il genio della natura. Lezioni di vita dalla Terra che cambia, scritto da David Farrier, docente di letteratura inglese all’Università di Edimburgo, in Scozia, e di recente pubblicato da Touring editore. Circa 300 pagine, per un totale di sette capitoli, che uniscono scienza e filosofia, presentando la tesi di fondo: la dote essenziale dei viventi è la plasticità, ovvero la capacità di cambiare forma, di adattarsi per continuare a esistere. Un concetto che si declina, in concreto, in varie strategie.

    Il cane amico
    La prima è la coevoluzione: in pratica due specie mutano insieme nel tempo, trovando un bilanciamento che consenta a entrambe di sopravvivere. Un esempio è il rapporto tra il lupo e l’uomo: la vicinanza reciproca, nata migliaia di anni fa, ha trasformato il primo in cane e il secondo nel suo inseparabile compagno. Eppure questa antica collaborazione è stata oggi spinta all’estremo, generando nuovi squilibri. È il caso dei polli d’allevamento, selezionati per crescere a dismisura in poche settimane, che presentano corpi deformati, incapaci di respirare o camminare. Quando l’adattamento reciproco diventa dominio e sfruttamento, l’equilibrio si interrompe.

    Il polpo creativo
    Un’altra forma di adeguamento è la creatività: significa saper costruire con ciò che si ha, trasformando i limiti in risorse. A rappresentarla è il polpo, dotato di una mente fluida, diffusa, decentralizzata, capace di usare conchiglie, pietre, cocci per costruire rifugi perfetti. I suoi gesti non obbediscono a un progetto, ma all’improvvisazione. “Ogni forma nasce da vincoli fisici e opportunità locali”, chiarisce l’autore.

    Il corallo architetto
    Un approccio alternativo è la simbiosi, che vuol dire cooperazione e interdipendenza tra specie diverse. Un esempio viene dalle profondità marine: il corallo vive grazie a minuscole alghe che lo nutrono e le alghe vivono grazie alla protezione che ricevono dal corallo stesso. Quando il mare si surriscalda e le alghe muoiono, di conseguenza muore anche il corallo: un lutto che racconta la fragilità di un legame spezzato. La barriera corallina è una sorta di città vivente che ci ricorda che un organismo non è un’isola, ma fa parte di una comunità. LEGGI TUTTO

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    Il lago “bollente” di Tefé: così siccità e caldo uccidono l’Amazzonia

    Un evento climatico estremo e catastrofico, l’ennesimo, appena documentato nel cuore dell’Amazzonia. Durante la siccità e l’ondata di calore senza precedenti del 2023, le acque di numerosi laghi amazzonici hanno raggiunto temperature mai viste prima: in alcuni bacini, addirittura, l’acqua ha superato la temperatura di 41°C, trasformando così l’habitat in una trappola mortale per le specie che vi dimorano. Ad attestarlo uno studio appena pubblicato sulla rivista Science, condotto dai ricercatori dell’Instituto de Densevolvimento Sustentável Mamirauá in Brasile (e di decine di altri istituti), che oltre a raccontare la moria di massa di pesci e delfini di fiume in seguito al surriscaldamento delle acque, ne ha identificato le cause principali (acqua bassa, sole e soprattutto assenza di vento, condizioni che hanno creato una “tempesta perfetta”) e ha lanciato l’allarme sulla drammatica vulnerabilità degli ecosistemi tropicali rispetto alla crisi climatica: i laghi amazzonici, in particolare si stanno riscaldando a un ritmo doppio rispetto alla media globale.

    Il lago Tefé, epicentro della catastrofe
    Nel complesso, i ricercatori hanno monitorato dieci laghi della regione, osservando come le acque di cinque di essi abbiano superato i 37°C; quello più colpito è stato il lago Tefé, un bacino lungo circa 60 chilometri nello stato brasiliano di Amazonas, le cui acque, il 18 ottobre 2023, hanno toccato la temperatura record di 41°C. Per di più, non si è trattato di un riscaldamento solo superficiale: le misurazioni hanno confermato che colonne d’acqua fino a due metri di profondità avevano raggiunto uniformemente temperature estreme, il che ha impedito agli animali di trovare rifugio in profondità; nel lago si sono registrati sbalzi termici molto significativi, con variazioni diurne (tra giorno e notte) fino a 13,3°C. Queste condizioni così estreme sono durate parecchio: per 19 giorni nel solo mese di ottobre, scrivono i ricercatori, le acque del lago hanno stabilmente superato i 37°C durante il pomeriggio, e in questo scenario – cui ha contribuito la siccità, che aveva già ridotto del 75% la superficie del lago – le acque sono diventate praticamente inabitabili per molte delle forme di vita che vi nuotavano.

    Strage di delfini e pesci
    Le conseguenze sulla fauna, purtroppo, sono state immediate e devastanti. Lo studio documenta, testuali parole degli autori, una “mortalità massiccia e senza precedenti” di delfini di fiume amazzonici (Inia geoffrensis) e tucuxi (Sotalia fluvialitis): tra la fine di settembre e l’ottobre 2023, nel solo lago Tefé sono state recuperate oltre duecento carcasse di delfini, con un picco di 70 carcasse recuperate in un singolo giorno, il 28 settembre, quando la temperatura dell’acqua ha raggiunto per la prima volta i 39,5°C. Una “febbre” fatale, insomma: come se non bastasse, la moria ha colpito anche i pesci e l’acquacoltura locale, con un caso di 3mila pesci morti in un singolo stagno.

    “Gli animali tropicali come i pesci amazzonici”, scrivono i ricercatori, “si sono evoluti in ambienti stabili, e hanno intervalli di tolleranza termica molto ristretti: diversi studi di laboratorio avevano già mostrato che la sopravvivenza della maggior parte delle specie è compromessa da esposizioni prolungate a temperature superiori ai 33°C, e sappiamo che l’acqua calda trattiene meno ossigeno, portando alla morte per ipossia”, e le osservazioni sperimentali sono state la tragica conferma di queste considerazioni. Come se non bastasse, l’impatto si è esteso anche agli esseri umani: migliaia di persone che vivono lungo i fiumi sono rimaste isolate e senza accesso a cibo, acqua potabile e medicine proprio a causa dei livelli minimi dei corsi d’acqua, diventati non più navigabili.

    Una “tempesta perfetta”
    I modelli idrodinamici sviluppati dai ricercatori hanno evidenziato che l’evento estremo del 2023 è stato il risultato di una “tempesta perfetta” di fattori, tutti legati alla siccità e alle condizioni meteorologiche: acqua bassa (dovuta alla siccità) e torbida (la sospensione dei sedimenti ha causato un maggior assorbimento del calore), alta radiazione solare (la regione è stata colpita da una sequenza anomala di 11 giorni consecutivi senza nuvole) e bassa velocità del vento. Quest’ultimo elemento, in particolare, sembra essere stato quello cruciale: solitamente, il vento sulla superficie dell’acqua aiuta a raffreddarla tramite l’evaporazione, e l’assenza di vento di fine 2023 ha impedito questo processo di raffreddamento notturno.

    Le simulazioni al computer hanno confermato che, con venti deboli, le temperature dell’acqua potevano facilmente salire oltre i 40°C. In ogni caso, gli scienziati sottolineano che l’evento osservato non è da considerarsi “straordinario”, ma purtroppo inserito in un trend allarmante: analizzando i dati satellitari di 24 grandi laghi amazzonici, lo studio ha rivelato che nell’ultimo trentennio (1990-2020) la temperatura media delle acque superficiali della regione è aumentata di oltre mezzo grado per decennio, un tasso che è quasi il doppio rispetto alla media globale di riscaldamento dei laghi, stimata in 0,34°C per decennio. “È assolutamente necessario e urgente”, concludono i ricercatori, “implementare sistemi di monitoraggio a lungo termine, perché i sistemi tropicali, finora poco studiati, si stanno rivelando tra i più vulnerabili. Le conseguenze sulla biodiversità e sulle popolazioni umane potrebbero essere ancora più gravi negli anni a venire”. LEGGI TUTTO

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    Curupira, la mascotte guardiana della foresta brasiliana

    Lancia in mano, capelli scarlatti e ciuffo a forma di fiamma: agile e malizioso, Curupira, guardiano della foresta nella tradizione popolare brasiliana e in particolare amazzonica, è la mascotte della Cop30 a Belém. Secondo un’interpretazione comune, il suo nome deriva dalla contrazione di “curumim” (ragazzino) e “pira” (corpo), nella lingua indigena tupi-guarani. Vestito con un […] LEGGI TUTTO

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    La biologa italiana che vive in Amazzonia “Con gli indigeni per dire al mondo: ricordatevi di noi”

    Chi a bordo di zattere, chi di battelli o piccole imbarcazioni, chi via terra con i mezzi che trova: dal cuore dell’Amazzonia migliaia di indigeni e rappresentanti dei popoli tradizionali si sono già messi in marcia verso la sede della Cop30 a Belém. Emanuela Evangelista, biologa italiana di Lanuvio che da 12 anni vive in Amazzonia nel villaggio di Xixuaù ed è impegnata a proteggere il Parco nazionale dello Jauaperi, la definisce la “Flottila della Cop”, la mobilitazione dei brasiliani per portare un messaggio: “Per salvare l’Amazzonia, non bisogna solo fermare la deforestazione, ma dare più potere e aiuti economici a chi la custodisce, la conosce e la abita. Magari con nuove soluzioni basate proprio sul ripristino della natura“.

    Oltre 25 anni fa la biologa e conservazionista italiana iniziò ad esplorare il territorio amazzonico per studiare lontre e altri ecosistemi, poi “decisi di fermarmi qui. Oggi mi sento una di loro, appartenente ai popoli tradizionali, perché vivo come loro, mangio dalle stesse risorse della natura e con loro – pur essendo sempre europea di nascita – condivido le stesse battaglie“, come quelle “contro la deforestazione, l’inquinamento da estrazione dell’oro o gli impatti della crisi del clima“. A lei abbiamo chiesto come in Amazzonia viene vista la Cop30 e perché è così importante questo evento per i popoli originari. LEGGI TUTTO

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    Crisi climatica, dalla “flotilla indigena” a Trump: al via la Cop30

    BELEM (BRASILE) – La parola chiave della Cop30, la trentesima conferenza delle parti sul clima che inizia ufficialmente oggi a Belém in Brasile, è “pressione”. Mai, nella storia di questi vertici, c’è stata così tanta pressione su un sistema di multilateralismo – quello dove in teoria oltre 190 Paesi hanno lo stesso voto e peso nel decidere su come affrontare la crisi climatica – che potrebbe o uscirne finalmente rafforzato o giungere definitivamente al capolinea. Il perché è evidente. Questa Cop, quella della “verità” la definisce il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, arriva in un contesto preciso: siamo a 10 anni dall’Accordo di Parigi che, dati alla mano, difficilmente sarà rispettato. L’accordo prevedeva sforzi e impegni delle nazioni del mondo a rimanere sotto i +1,5 °C nel tempo. Nel 2025, dopo una serie di anni “più caldi della storia” uno dietro l’altro, siamo però già oltre quella soglia e le attuali proiezioni – se ci basiamo sui piani climatici (Ndc) annunciati dai vari Paesi – ci dicono che ridurremo le emissioni di appena il 10% rispetto al 60% necessario e a fine secolo rischiamo di ritrovarci a +2,5 gradi, il che vorrebbe dire bye bye a ecosistemi come l’Amazzonia, ai ghiacciai della Groenlandia o piogge e temperature miti del passato, perché tutto sarà intensificato e tendente – soprattutto nei “punti di non ritorno” – al collasso.

    Ci sono diversi tipi di pressione in questa Cop. C’è quella del tempo che scarseggia: sia per completare i lavori dei padiglioni (a 24 ore da inizio conferenza sono ancora in alto mare) sia per ottenere decisioni che non siano solo parole, ma fatti concreti. Va indicato per esempio il sistema con cui tirare fuori 1,3 trilioni di dollari all’anno per i Paesi meno sviluppati che senza quei soldi rischiano di non riuscire ad affrontare la crisi del clima. Servono, parola d’ordine, anche più soldi per l’adattamento. Bisognerà poi validare e confermare l’ampliamento dei piani climatici nazionali, trovare accordi per fornire fondi alle popolazioni indigene e per ridurre disuguaglianze climatiche e sociali, ma anche per esempio provare ad affrontare di petto la vera causa del riscaldamento globale, le emissioni di gas petrolio e carbone, quelle che per ora a parte per Paesi come la Colombia e pochi altri, che chiedono una immediata decarbonizzazione, sembrano essere uno dei grandi elefanti nella stanza.

    Editoriale

    Cop30 – “L’ultimo appello”. Un’istituzione da difendere

    di Federico Ferrazza

    03 Novembre 2025

    L’altro grande elefante è ovviamente Donald Trump, motivo di estrema pressione. Il presidente degli Stati Uniti non solo ha ritirato gli Usa dagli Accordi di Parigi e a poche settimane dalla Cop30 ha definito il surriscaldamento globale “una grande truffa” ma – puntando sempre di più su trivellazioni, deep mining e aumento dei combustibili fossili (mentre affossa le rinnovabili) – sembra anche voler boicottare concretamente la Cop30, dove gli Usa sono appunto assenti se non per la rappresentanza di qualche sindaco o governatore.

    Nei corridoi della Cop che sta per iniziare (si parte alle 10 del mattino con la plenaria di apertura) c’è infatti una strana sensazione: quella che lo spettro di Trump, con le sue minacce e pressioni, si concretizzi all’improvviso. Prima della Conferenza gli Stati Uniti sono riusciti, con pressioni commerciali e minacce di sanzioni, a far posticipare di un anno il piano per la decarbonizzazione dei trasporti e delle emissioni marittime chiamato IMO Net-Zero Framework. Grazie alla pressione a stelle e strisce si è arrivati a rinviare di 365 giorni il voto e questa semplice mossa è apparsa come un primo segnale della potenza Usa nel destabilizzare accordi e multilateralismo. Nel frattempo, alla vigilia del vertice, Trump si è messo a scrivere sui social e se l’è presa con il Brasile di Lula che per fare la Cop “deforesta” l’Amazzonia, dice. Questi e altri messaggi fanno pensare ai delegati che il governo Usa possa, nel solo tentativo di far “crollare il castello”, inviare all’improvviso delegati a Belem. Insomma, c’è la sensazione che Trump intenda boicottare, a distanza o meno, possibili accordi per esempio legati al mondo del fossile (che sarà comunque ben rappresentato qui a Belém da centinaia di lobbisti).

    Verso Cop30

    A 10 anni da Parigi la sfida del clima può essere vinta

    di Luca Bergamaschi*

    04 Novembre 2025

    Ad aumentare la pressione c’è poi ovviamente il contesto geopolitico internazionale che, già da anni, ha visto le Cop scivolare lontano dai riflettori. Il ministro italiano dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, atteso a Belém, lo ha proprio detto: “Le aspettative non sono molto alte perché negli ultimi anni l’equilibrio globale è cambiato in modo significativo, con conflitti su più fronti e la formazione di blocchi”. Nella polarizzazione di tutto, tra Paesi che sembrano schierarsi radicalmente contro gli Usa e altri che li appoggiano (vedi Argentina), aumenta dunque la pressione per quella che deve a tutti costi essere una Cop concreta, pragmatica, di risultati e annunci finali quantificabili e realizzabili. Infine, elemento non da poco, a Belém torna la pressione anche da parte della società civile. Dopo tre anni di Cop dal dissenso negato viste le sedi nei petrol-stati, torneranno ad esserci proteste, manifestazione, persone che alzano la voce. LEGGI TUTTO

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    Così gli inquinatori tentano di interferire sulla conferenza sul clima in Amazzonia

    Oogni Cop le sue lobby. Uno dei problemi principali delle Conferenze delle parti sul clima, soprattutto negli ultimi anni, è l’ingerenza dei rappresentanti del mondo industriale sui negoziati. Nelle ultime tre edizioni c’è stata una escalation, fra le sale Onu, di lobbisti: svolgendosi in petrol-stati o Paesi legati all’industria del gas, la maggior parte di questi proveniva dal mondo delle fonti fossili e puntava a mantenere un certo status quo e a permettere ancora la sopravvivenza di petrolio gas e carbone. A Baku, dove il presidente azero Ilham Aliyev in apertura lavori ha difeso il gas “dono di Dio”, i lobbisti dell’oil&gas per numero erano praticamente la quarta delegazione più numerosa, circa 1773 lobbisti.

    Il summit

    Crisi climatica, dalla “flotilla indigena” a Trump: al via la Cop30

    di Giacomo Talignani

    10 Novembre 2025

    Un numero in calo rispetto a Dubai (circa 2400) ma comunque altissimo se si pensa che l’Azerbaigian ospitava circa 15mila persone in meno in confronto agli Emirati. Quest’anno in Brasile potrebbe cambiare la forma, ma non la sostanza. Quando il presidente Luiz Inácio Lula annunciò al mondo l’intenzione di tenere una Cop in Amazzonia dopo tre anni di vertici nei petrol-stati per molti addetti ai lavori fu il segnale di un potenziale cambiamento: ci si aspettava una Cop più inclusiva e soprattutto capace di allontanare l’ingerenza dei lobbisti.

    Eppure, anche visti i costi esorbitanti degli hotel e le difficoltà logistiche di Belém, la Cop30 presenta nuove criticità più esclusive che inclusive: da una parte mancheranno delegazioni e membri della società civile dei Paesi meno ricchi – impossibilitati a raggiungere il Brasile – e dall’altra nonostante il numero totale dei partecipanti sarà inferiore alle passate edizioni (si attendono 45 mila persone, quasi la metà di Dubai) fra questi si teme ci sarà una fortissima presenza di lobbisti di un’altra industria decisiva, quella dell’agrifood. Nel Brasile a forte vocazione agricola, un settore che insieme all’alimentare è responsabile di oltre un terzo delle emissioni globali, i lobbisti dell’agrifood – lo ha fatto capire anche lo stesso Lula – non perderanno infatti l’occasione per far sentire la loro voce. Uno dei campi collegati in cui si gioca questa sfida riguarda per esempio anche l’Italia: noi ci presenteremo alla Cop30 per spingere il consumo di biocarburanti, un mantra del governo Meloni e del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin. Per questa operazione – che mira a far quadruplicare la produzione di biocarburanti entro il 2035 rispetto a dieci anni prima – l’Italia ha già trovato come alleato proprio il Brasile, secondo esportatore di etanolo al mondo. Ovviamente i lobbisti brasiliani, giocando in casa, si faranno sentire nell’interesse comune sui biocarburanti. Per la potente industria agricola brasiliana la Cop30 sarà poi una vetrina per provare a mostrare un’immagine verde e salvaguardare una filiera che rappresenta oltre un quarto del Pil del Paese anche se il suo impatto climatico, direttamente collegato alla deforestazione dell’Amazzonia, è difficile da ignorare.

    Il diario

    Belém, speranza o dovere?

    di Bertrand Piccard

    10 Novembre 2025

    A Belém l’industria spingerà sulle parole “innovazione e sostenibilità”. In tal senso ci saranno lodi per esempio su crediti di carbonio e sistemi di cattura della CO2 come soluzione alle emissioni, nonostante recenti studi abbiano messo per l’ennesima volta in dubbio la loro efficacia. Inoltre, ancora lontani da quel transition away sui combustibili fossili concordato a Dubai, al centro della Cop tornerà nuovamente la questione petrolio. Anche qui, nel Brasile che a inizio anno è entrato nell’Opec+ (il cartello dei petrolieri) e dove a pochi giorni da inizio Cop sono state autorizzate nuove trivellazioni di Petrobras alla foce del Rio delle Amazzoni, è logico aspettarsi l’influenza del settore fossile. Tra l’altro, tra le tante contraddizioni della Cop30, va registrato il fatto che la comunicazione ufficiale della Conferenza è stata affidata alla stessa agenzia che fra i suoi clienti principali annovera il colosso petrolifero Shell. Ingerenze e incongruenze che hanno portato il gruppo “Kick Big Polluters Out” a fare un appello alla presidenza insieme ad altre 225 organizzazioni proprio contro i conflitti di interesse e greenwashing: “Quest’anno cacciate via i grandi inquinatori, non fateli sedere al tavolo“ dicono.

    Finanza climatica

    Cop30, il piano di Lula per salvare le foreste del mondo

    di Giacomo Talignani

    07 Novembre 2025

    Difficilmente però, come avvenuto finora, la richiesta sarà accolta. Infine, una nuova lobby è all’orizzonte: quella della disinformazione. Il 2025 in cui il negazionista Donald Trump ha definito “truffa” la questione climatica, ha registrato infatti una crescita esponenziale di disinformazione sul ruolo delle azioni antropiche e delle emissioni che alimentano il riscaldamento. Una tesi, in un contesto geopolitico fragile e dove molti leader saranno assenti al vertice di Belém, che rischia di infiltrarsi nel summit. Per questo il segretario generale dell’Onu António Guterres ha lanciato l’allerta: “Dobbiamo combattere disinformazione, greenwashing e attacchi alla scienza. Gli scienziati non dovrebbero mai aver paura di dire la verità”. LEGGI TUTTO

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    Gli alberi e la loro salvezza: il nostro futuro passa da qui

    Le foreste prima di tutto. Passa di qui, senza dubbio, il futuro del Pianeta. Coprono, del resto, un terzo delle terre emerse della Terra. Circa 1,6 miliardi di persone – tra cui oltre duemila culture indigene – ne dipendono direttamente o indirettamente. Custodi di biodiversità, ospitano, attraverso i loro ecosistemi, oltre l’80% delle specie terrestri di animali, piante e insetti. E sarebbero, più di tutto, cruciali nella lotta al cambiamento climatico: potenziali barriere naturali contro eventi climatici estremi, in primis tempeste e inondazioni; fondamentali per l’approvvigionamento idrico, ancor più critico con fenomeni siccitosi in crescita; essenziali, soprattutto, nel sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera.

    Finanza climatica

    Cop30, il piano di Lula per salvare le foreste del mondo

    di Giacomo Talignani

    07 Novembre 2025

    Secondo l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, basterebbe gestirle correttamente per registrare un contributo decisivo alle azioni di mitigazione della crisi climatica, con azioni che riducano o rallentino l’aumento della concentrazione di gas serra in atmosfera. Proprio così: da qui al 2030, le foreste potrebbero infatti arrivare ad assorbire tra 4,1 e 6,5 miliardi di tonnellate di gas serra, ossia tra il 7% e il 10% delle emissioni attuali, svolgendo un ruolo determinante per il raggiungimento degli obiettivi degli Accordi di Parigi del 2015.
    Persi 12 ettari ogni anno

    Ma le foreste non se la passano bene: mediamente, negli ultimi 50 anni, ne abbiamo perso 12 milioni di ettari l’anno. E anche se l’ultimo “Global Forest Resources Assessment”, il report quinquennale della Fao, mostra un rallentamento della deforestazione nell’ultimo decennio (dai 17,6 milioni del periodo 1990-2000 ai 10,9 milioni di ettari all’anno nel periodo 2015-2025), il tasso – che si attesta oggi sui 10,9 milioni di ettari all’anno di foreste perdute – resta ancora troppo elevato. Suggerisce cauto ottimismo, semmai, la percentuale (55%) delle foreste oggi soggette a piani di gestione (+365 milioni di ettari dal 1990). Insomma, un processo virtuoso è in atto e sta andando avanti a livello globale.

    Ma basterà? L’urgenza del tema non può che tradursi in un’attenzione massima all’interno di Cop30, con i riflettori del mondo puntati in particolare sull’Amazzonia: qui risiede il 10% della biodiversità del Pianeta. Un suo “collasso” – rischio concreto alimentato da deforestazione, allevamento intensivo, incendi (oltre 50 mila nel 2024) e agricoltura su larga scala – accelererebbe la crisi climatica in atto su scala globale.

    Gestione delle risorse

    Legambiente, foreste a rischio: bruciati 94 mila ettari. Il doppio rispetto al 2024

    di Fiammetta Cupellaro

    29 Ottobre 2025

    Un miliardo di dollari di investimento
    Anche per questo la Cop30 ha un valore, concreto e simbolico, importantissimo, ancor di più dopo l’annuncio del presidente brasiliano Lula alle Nazioni Unite di un investimento di un miliardo di dollari nel “Fondo foreste tropicali per sempre”, strumento finanziario destinato a sostenere i Paesi che proteggono le loro foreste. “Il Pianeta non può più aspettare: proteggere le foreste è un imperativo morale ed economico”, ha detto Lula, invitando le altre nazioni a fare altrettanto. Ma il Brasile è davvero determinato a invertire il trend della deforestazione?

    Con la presidenza Bolsonaro, la lobby dell’agribusiness, rappresentata dal Frente Parlamentar da Agropecuária, aveva spinto affinché l’intero settore rurale, responsabile di parte consistente della deforestazione, potesse sottrarsi alla procedura di autorizzazione ambientale. Con Lula in molti hanno auspicato un cambio di paradigma, complice la nomina a ministra dell’ambiente di Marina Silva, originaria di un villaggio dell’entroterra amazzonico, icona dell’ambientalismo indigeno.
    Le contraddizioni del Brasile
    E con favore, dal mondo ambientalista, era stato accolto il piano “Amazon Security and Sovereignty Plan”, annunciato nel 2023: tra i pilastri, lo stop alla deforestazione illegale entro il 2030, anche grazie all’introduzione di certificazioni dei prodotti forestali, in particolare richieste dai Paesi esteri, e il recupero delle foreste degradate. Ma la partita è ancora in larga parte da giocare, e non mancano le contraddizioni: il Brasile ha riaffermato l’impegno di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, ma ha poi annunciato la sua entrata nell’OPEC+, il collettivo di Paesi estrattori ed esportatori di petrolio. Al punto che giornalisti come Jonathan Watts del Guardian hanno sottolineato una presunta, crescente vicinanza di Lula “al mondo degli affari e all’estrattivismo capitalista”. Ecco perché la Cop30 ha un significato profondo per le foreste del Sudamerica, e non solo.

    A causa degli incendi cala la capacità di assorbire CO2
    “La verità è che i sistemi forestali sono lontani da una efficace inversione del trend – denuncia Andrea Barbabella, responsabile scientifico di Italy For Climate – A causa della continua deforestazione e degli incendi, a loro volta alimentati dall’aumento delle temperature globali, oggi le foreste invece di assorbire CO2 dall’atmosfera, la stanno aumentando. Sono diventate degli emettitori netti: solo nel 2023 gli incendi hanno emesso circa 6,7 miliardi di tonnellate di CO2, il doppio di tutte le emissioni di gas serra dell’intera Unione Europea. E nello stesso tempo sono stati raccolti circa 4 miliardi di metri cubi di legname, la metà per usi energetici. E anche se i tassi di deforestazione negli ultimi anni si stanno riducendo, la strada per liberare il potenziale di mitigazione della crisi climatica delle foreste è ancora lunga”. Basta, in effetti, studiare le ultime stime del report del Global Carbon Budget: l’anidride carbonica emessa dalla deforestazione è due volte quella assorbita dai sistemi forestali in crescita. Ancora: il bilancio complessivo è di una emissione netta in atmosfera di circa 2 miliardi di tonnellate di CO2 ogni anno, pari al 3-4% delle emissioni mondiali di gas serra. Insomma, qualcosa non va.

    Volontà politica e fondi
    “Se gli impegni presentati dai firmatari dell’Accordo di Parigi venissero rispettati, in attesa di comprendere cosa accadrà a Belém, entro il 2030 potremo invertire la situazione e far sì che i suoli e le foreste di tutto il mondo siano assorbitori netti di gas serra per un miliardo di tonnellate all’anno”, spiega ancora Barbabella. Servono volontà politica e ingenti investimenti. Lo chiarisce lo stesso rapporto dell’Unep, che quantifica in 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 e quasi 500 nel 2050 gli investimenti necessari per salute e tutela delle foreste: andrebbero triplicati quelli attuali, stimati nel 2023 in 84 miliardi. Impensabile? Non proprio. Italy for Climate sottolinea come oggi i sussidi ambientali potenzialmente dannosi all’agricoltura, responsabili della perdita di 2,2 milioni di ettari di foreste ogni anno, superino i 400 miliardi di dollari. E gli scenari geopolitici, complici i dazi Usa, hanno rafforzato l’asse tra Sudamerica e Cina, in particolare nella produzione di soia: dietro l’angolo, il rischio di una nuova intensificazione della deforestazione.

    Riflettori accesi, dunque, sulla Cop: all’esame l’articolo 6 degli Accordi di Parigi, che contiene regole condivise per misurare e commercializzare crediti di carbonio connessi agli assorbimenti forestali. “Serve, e non sarà semplice, un consenso trasversale sulle regole per contabilizzare la CO2 sottratta dall’atmosfera in modo trasparente, verificabile e reale”, dice Barbabella. E occorre anche il contributo del settore privato, sin qui ‘tiepido’ sulla questione: degli 84 miliardi di dollari destinati a iniziative in favore dei boschi, solo 7,5 – il 9% – derivano da finanza privata. Il resto? Fondi pubblici. Nessun dubbio: serve di più per salvare l’Amazzonia e le altre foreste. Ma soprattutto l’intero Pianeta. LEGGI TUTTO

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    Energia rinnovabile: come produrla in casa

    Il tema dell’energia rinnovabile non è più un argomento per addetti ai lavori, ma una questione quotidiana che riguarda milioni di famiglie italiane. Bollette sempre più alte, crisi energetica e attenzione crescente alla sostenibilità hanno spinto molti a chiedersi: come produrre energia rinnovabile in casa? Ecco, la buona notizia è che oggi le tecnologie sono mature e accessibili, ma soprattutto consentono a chiunque voglia di provare ad abbassare i consumi, abbattere i costi e in alcuni casi persino di rendersi completamente autonomi dal punto di vista energetico. In questa breve guida cercheremo di rispondere alle domande più frequenti: quali fonti rinnovabili si possono usare in casa, quali alternative esistono al fotovoltaico e se sia davvero possibile produrre energie elettrica fai da te.

    Come produrre energia rinnovabile in casa
    Produrre energia rinnovabile in casa significa sfruttare le risorse naturali disponibili (quindi sole, vento, acqua, calore del sottosuolo o biomasse) per generare elettricità o calore senza ricorrere ai combustibili fossili. Prima di arrivare alla fase della concretezza, c’è una domanda a cui ogni individuo dovrebbe rispondere: di quanta energia ho bisogno per la mia casa? Ad esempio, una famiglia media in Italia consuma tra i 2.500 e i 3.000 kWh all’anno. In base ai consumi, alla posizione geografica e alle caratteristiche dell’immobile, si può scegliere la soluzione più adatta.
    Tra gli impianti domestici più diffusi:

    Pannelli solari fotovoltaici per produrre energia elettrica;
    Solare termico per acqua calda sanitaria e riscaldamento;
    Mini-eolico per sfruttare il vento;
    Micro-idroelettrico, se si vive vicino a corsi d’acqua;
    Geotermia e pompe di calore;
    Biomasse per riscaldamento a basso impatto ambientale.

    Quali sono le energie rinnovabili da utilizzare in casa
    Appurato l’elenco delle energie rinnovabili potenzialmente usabili all’interno della propria abitazione, proviamo a vederne a una a una e capirne insieme le caratteristiche.

    Fotovoltaico: la soluzione più diffusa
    Il fotovoltaico è la tecnologia più conosciuta e ormai la più installata in Italia. I pannelli catturano l’energia del sole e la trasformano in elettricità. Con un impianto ben dimensionato e dotato di batterie di accumulo, è possibile coprire fino all’80% dei consumi di una famiglia. I vantaggi? Riduzione drastica della bolletta, incentivi fiscali e possibilità di vendere l’energia in eccesso alla rete. Tra le ultime novità, anche tegole fotovoltaiche e pannelli integrati direttamente nei tetti delle abitazioni.

    Solare termico: acqua calda gratis dal sole
    Non solo elettricità: i pannelli solari termici permettono di riscaldare l’acqua sanitaria e contribuire al riscaldamento domestico. Una tecnologia semplice, collaudata e molto diffusa soprattutto nelle regioni del Sud Italia.

    Mini-eolico: il vento in giardino
    Se si vive in zone ventose, il minieolico rappresenta un’alternativa interessante. Le turbine domestiche hanno dimensioni contenute e non richiedono necessariamente spazi enormi. L’energia prodotta può essere usata subito, accumulata o immessa in rete. Un ottimo modo per utilizzare energie rinnovabili nell’ambiente domestico.

    Idroelettrico domestico: solo dove c’è acqua
    Più raro, ma molto efficiente: i sistemi micro-idroelettrici sfruttano la forza dell’acqua di un ruscello o di un canale vicino all’abitazione. L’acqua scorre costantemente e garantisce una produzione continua, spesso superiore a quella del vento o del sole. Chiaramente si tratta di una soluzione fattibile solo per tutti coloro che vivono o in zone di campagna, di collina o comunque non nel centro traffico cittadino. È un ottimo modo per risparmiare.

    Geotermia: il calore della terra
    Sotto i nostri piedi il terreno conserva una temperatura costante; le sonde geotermiche e le pompe di calore permettono di sfruttare questa energia per riscaldare e raffrescare gli ambienti domestici, oltre a produrre acqua calda sanitaria. È una soluzione particolarmente adatta alle nuove costruzioni e alle abitazioni indipendenti.

    Biomasse: dal legno all’energia
    Le biomasse comprendono scarti agricoli, legna, pellet e residui organici. Utilizzati in stufe e caldaie di nuova generazione, permettono di riscaldare gli ambienti con un impatto ambientale contenuto, soprattutto se provenienti da filiere locali.

    Quindi è possibile produrre energia elettrica in proprio?
    La risposta è chiaramente “sì”. Sempre più famiglie oggi in Italia scelgono di diventare “prosumer”, ossia produttori e consumatori di energia. A pensarci, infatti, un impianto domestico ben progettato permette sia di coprire buona parte dei consumi elettrici, di ridurre drasticamente la dipendenza da compagnie energiche, di risparmiare in bolletta fino al 70% e di contribuire alla transizione ecologica. Tuttavia, l’autoproduzione non significa solo isolamento dalla rete elettrica. La maggior parte degli impianti, infatti, è connessa e consente di scambiare energia con il gestore e di accumulare l’elettricità prodotta e/o di venderla.

    Produrre energia rinnovabile a casa: cosa sapere prima di iniziare
    Chi decide di installare un impianto per produrre energia rinnovabile in casa deve mettere in conto non solo l’investimento economico, ma anche (e soprattutto, almeno all’inizio) alcuni passaggi burocratici indispensabili per essere in regola. La procedura può sembrare un po’ complessa, ma seguendo con attenzione l’iter corretto si eviteranno ritardi e/o problemi futuri. Ad esempio, se dovessimo parlare di “step da seguire”, la verifica di fattibilità tecnica starebbe al primo posto. Si parte proprio da qui: si capisce (e si verifica, appunto), l’idoneità del sito, che sia il tetto di una casa o un terreno, e si capisce quale tipologia di impianto risponde meglio alle esigenze energetiche della famiglia.

    Poi c’è tutta la questione che riguarda la richiesta di autorizzazione. In base alla potenza dell’impianto e alla normativa locale possono essere necessarie pratiche come la DIA (Denuncia di Inizio Attività), o la PAS (Procedura Abilitativa Semplificata). Per gli impianti minori, invece, di solito è sufficiente una semplice comunicazione al Comune. Inoltre, è importante da considerare anche la connessione alla rete: l’impianto deve essere collegato alla rete elettrica nazionale, per cui la domanda va presentata al Gestore di Rete, che autorizzerà l’allaccio e disciplinerà i flussi di energia. Ci sono poi l’accesso agli incentivi, il collaudo e l’attivazione e infine, ma non per minore importanza, la manutenzione e il monitoraggio, fondamentali ai fini di una buona riuscita dell’obiettivo.

    Energia rinnovabile a casa: le tendenze del futuro
    Accanto alle soluzioni già diffuse, il settore delle energie rinnovabili in area domestica si sta impegnando ad aggiornarsi, ma soprattutto si sta muovendo verso tecnologie sempre più integrate e invisibili. Infatti, si sta parlando molto di nuove opzioni, come le tegole fotovoltaiche (in Canada già esistono), o come i tetti in vetro trasparente con sistemi di captazione termica (nascono in Svezia). Ci sono anche i moduli solari integrati nei materiali da costruzione e i dispositivi che catturano energia dall’aria o dalle vibrazioni ambientali. L’obiettivo, alla fine, è sempre uno solo: rendere ogni abitazione una piccola centrale energetica, senza però rinunciare all’estetica e riducendo al minimo l’impatto ambientale. LEGGI TUTTO