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    L’Artico da bianco sta diventando blu: fra soli tre anni potrebbe restare senza ghiaccio

    Fra soli tre anni, nella peggiore delle ipotesi, gli scienziati stimano che potrebbe accadere qualcosa di finora inimmaginabile: passare da “un Oceano artico bianco” a un “Oceano artico blu”, in poche parole un Artico senza più ghiaccio. Una previsione inquietante, quella raccontata su Nature da due ricercatrici, Céline Heuzé del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Goteborg e Alexandra Jahn, esperta di scienze atmosferiche e oceaniche dell’Università del Colorado Boulder. Le stime si basano su dolorosi calcoli che, partendo come base dai dati raccolti nel 2023, dimostrano come agli attuali ritmi e tendenze di perdita di ghiaccio se per l’impatto del riscaldamento globale e delle attività antropiche si supereranno (cosa probabile) le perdite raggiunte finora c’è un’alta probabilità che l’Oceano artico rimanga senza ghiaccio “inevitabilmente entro i prossimi 20 anni”, con una possibilità estrema che ciò accada già a partire dal 2027.

    Il ritmo attuale di perdita è già superiore al 12% per ogni decennio, di conseguenza il giorno che simboleggerà una “pietra miliare minacciosa per il Pianeta”, scrivono le esperte, potrebbe essere centrato purtroppo in un lasso di tempo molto breve. Le conseguenze, nel tempo, sarebbero devastanti: non solo la perdita di ghiaccio può influire su circolazioni dell’aria e meccanismi del clima, aggravando determinate condizioni, ma come sappiamo è già letale per la sopravvivenza degli ecosistemi, dagli orsi polari sino alle altre creature che vivono nell’Artico fino alla sussistenza per le comunità che oggi abitano il Nord del mondo. Più in generale il ghiaccio marino mondiale ha un ruolo cruciale nella regolazione delle temperature dell’oceano e dell’aria e nell’alimentazione delle correnti oceaniche che trasportano calore e sostanze nutritive in tutto il mondo, per cui le ripercussioni sarebbero di natura “globale” e non locale. La causa principale della perdita e dello scioglimento è, come noto, legata alle emissioni climalteranti create dalle attività dell’uomo, quelle che contribuiscono al riscaldamento globale: anche se oggi facessimo un immediato passo indietro sulle emissioni di gas serra, i processi che porteranno l’Artico a trasformarsi in un “oceano blu” sono già avviati e molto probabilmente ciò si verificherà “entro nove o vent’anni dal 2023”, con proiezioni estreme che parlano appunto di una scomparsa già entro soli tre anni.

    Riscaldamento globale

    Danni irreversibili alla criosfera, lo scioglimento dei ghiacciai non è più sostenibile

    di  Pasquale Raicaldo

    13 Novembre 2024

    “Il primo giorno senza ghiaccio nell’Artico non cambierà subito le cose in modo radicale ma mostrerà che abbiamo fondamentalmente alterato una delle caratteristiche distintive dell’ambiente naturale nell’Oceano Artico, ovvero che è coperto da ghiaccio marino e neve tutto l’anno, attraverso le emissioni di gas serra” ha spiegato la coautrice dello studio Alexandra Jahn. Nell’Artico che oggi si sta riscaldando quattro volte più velocemente rispetto ad altre zone del mondo, il passaggio da bianco a blu potrebbe inoltre significare la perdita dell’effetto albedo, dato che superfici più scure riflettono meno la radiazione solare. Lo studio, che si basa su dati e osservazioni satellitari, oltre che su 11 modelli climatici e algoritmi elaborati dalle ricercatrici, indica come l’impatto della crisi del clima potrebbe portare diverse aree dell’Artico oltre il limite di ghiaccio di 0,3 milioni di miglia quadrate, cifra che viene considerata per definire un’area libera dai ghiacci. Rispetto al periodo tra il 1979 e il 1992, quando si contava una estensione di ghiaccio di almeno 2,6 milioni di miglia quadrate, ora siamo già passati a 1,6 milioni e il declino è costante. Nove delle simulazioni (su 366 totali) effettuate dalle ricercatrici stimano che se i tassi attuali di perdita peggioreranno, cosa possibile dato che anche il 2024 è stato un nuovo anno da record per temperature medie globali elevate, allora il primo giorno di “Artico senza ghiaccio” potrebbe arrivare già “tra tre e sei anni”. Dunque prima o poi, entro il 2030, questo giorno arriverà ma, stimano gli esperti, non tutto è perduto. Lavorare a livello planetario sulla riduzione delle emissioni infatti “contribuirebbe a preservare il ghiaccio marino” sostiene Jahn. Parallelamente, proprio nel tentativo di preservare i ghiacci, un gruppo di scienziati e imprenditori sta anche sperimentando nell’Artico candese un nuovo sistema per provare a pompare acqua marina sottostante e congelarla in superficie.

    Crisi climatica

    La fusione dello strato di ghiaccio sull’Artico potrebbe influenzare le correnti oceaniche

    di Sara Carmignani

    01 Novembre 2024

    Nella zona di Nunavut sta operando infatti la start-up britannica Real Ice e, con l’obiettivo di rallentare o addirittura invertire la perdita di ghiaccio estiva e primaverile il gruppo punta – anche se con metodi criticati perché secondo alcuni non potrebbero funzionare su larga scala – a congelare sempre più acqua estratta per invertire quella rotta che ha portato dagli anni Ottanta ad oggi a ridurre la quantità di ghiaccio spesso di quasi il 95%. Per ora, come ha raccontato l’italiano Andrea Ceccolini, che è co-Ceo di Real Ice, si tratta di un tentativo arduo ma “possibile” per “lasciare un mondo migliore ai miei figli” anche se altri scienziati criticano la possibilità che questo metodo possa funzionare appunto su larga scala. L’unica certezza, osservando i modelli attuali, resta purtroppo l’attesa di un giorno: quello da passaggio da “bianco a blu” che appare sempre più vicino. LEGGI TUTTO

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    La pianta che resiste da 60mila anni

    È una delle specie più rare di Angiosperme, la più grande divisione di piante oggi presenti sul nostro pianeta. Sono quelle che fioriscono e si riproducono grazie agli impollinatori. Ma non in questo caso. I semi di Andryala laevitomentosa sono quasi tutti sterili. Tanto che ne rimangono poco più di tremila esemplari su un solo […] LEGGI TUTTO

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    Più turbolenze nei nostri cieli, così il cambiamento climatico cambia il nostro modo di volare

    Tra le conseguenze del cambiamento climatico potrebbe esserci anche l’incremento dei rischi sulle rotte aeree. Proprio così: i cambiamenti della circolazione atmosferica e i suoi effetti sulla turbolenza aerea nei cieli europei, inclusi quelli italiani, sono strettamente legati al climate change. E’ il risultato di uno studio condotto da un team di ricerca dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, recentemente pubblicato su “Geophysical Research Letters”, che sottolinea come potrebbero esserci “diverse implicazioni per la sicurezza dei voli”. La ricerca esamina gli episodi di turbolenza moderata o forte registrati negli ultimi 44 anni: il trend in aumento è evidente nei cieli del Regno Unito, dell’Europa settentrionale e nell’intera regione mediterranea, Stivale compreso.

    In particolare, insieme con gli episodi di turbolenza convettiva – fenomeno causato dai moti verticali dell’aria dovuti a un intenso riscaldamento della superficie terrestre, spesso associato alla formazione di nuvole cumuliformi e fenomeni temporaleschi – crescono anche gli episodi di turbolenza d’aria chiara (l’acronimo è CAT). Un fenomeno, quest’ultimo, che si verifica in assenza di segnali visibili, quindi imprevedibile sia ai radar che agli occhi dei piloti, ed è provocato dalle forti variazioni verticali nella velocità del vento, generalmente legate all’attraversamento delle correnti a getto. “Un fenomeno particolarmente pericoloso – spiega Tommaso Alberti, ricercatore Ingv – poiché difficile da individuare e da prevedere e che può rappresentare un rischio per piloti e passeggeri”. Nessuna psicosi, certo. Ma lo studio sottolinea come la turbolenza moderata o forte possa causare bruschi cambiamenti di altitudine o rotta, “mettendo in pericolo la sicurezza e il comfort dei passeggeri, aumentando anche il rischio di danni strutturali agli aeromobili”, annota Alberti.

    Il caso del Golfo del Myanmar e i rischi per chi viaggia
    Tra gli esempi citati, quello dello 20 maggio scorso, quando il volo SQ381 Singapore Airlines, mentre sorvolava il Golfo del Myanmar, si è imbattuto in “una improvvisa e importante turbolenza”, con il bilancio di un morto e 85 feriti. Ma anche il recente volo della Scandinavian Airlines SK957 che è stato costretto ad invertire la sua rotta e atterrare all’aeroporto di Copenaghen dopo aver attraversato una zona di forte turbolenza vicino alla Groenlandia. “Le variazioni nei movimenti e nella direzione delle masse d’aria a causa del cambiamento climatico generano diversi impatti su diversi settori, inclusa l’aviazione, che si ritrova ad affrontare sia un aumento della probabilità di eventi di turbolenza ma anche della loro intensità, soprattutto nelle vicinanze delle correnti a getto”, spiega il ricercatore. Un incremento che si è accompagnato inoltre ad una maggiore estensione delle aree interessate dalla turbolenza, “con episodi distribuiti praticamente quasi su tutto lo spazio aereo europeo, seppur con diversa frequenza”.

    “Indiziata” numero uno per le nostre regioni è la corrente a getto subtropicale, nelle cui vicinanze le probabilità di una turbolenza moderata o forte passano dall’1,5% al 4%: è a quella che dobbiamo guardare, in particolare, nelle regioni meridionali dello spazio aereo europeo. “La corrente a getto subpolare è invece responsabile degli eventi di turbolenza MOG (acronimo di turbolenza moderata o forte, ndr) vicino al Regno Unito e nelle aree del Nord Europa”. Ma l’ampliamento delle zone a rischio è evidente ai ricercatori: “Tipicamente ci si aspetta di incontrare maggiori turbolenze quando si sorvolano gli oceani, specialmente l’Atlantico e l’Indiano, o quando si attraversano le regioni tropicali. Il nostro studio invece sottolinea che anche quando voliamo entro i confini dell’Europa è possibile incontrare eventi di turbolenza MOG, su una potenziale regione di incidenza che va dall’Atlantico settentrionale alle regioni scandinave, fino al Mediterraneo centrale e meridionale, con l’interessamento anche dell’Italia. – rileva lo studio – Gli effetti variano a seconda della stagione, più intensi d’inverno, soprattutto nella nostra regione, e più tenui durante il periodo estivo, con una quasi assenza di episodi di turbolenza MOG”.

    Cosa possiamo fare?
    Già, ma cosa fare allora? Insieme con il contrasto al riscaldamento globale, occorre – spiega la ricerca – sviluppare nuove tecniche di previsione e strategie di mitigazione, al fine di migliorare la sicurezza e il comfort dei passeggeri, riducendo così anche i costi operativi delle compagnie aeree. E i viaggiatori, cosa possono fare? “Tenere sempre tenere allacciate le cinture di sicurezza anche quando il segnale viene spento, la CAT non avvisa e la bravura dei piloti ad oggi non basta per evitarla”, suggerisce Alberti. Anche perché “l’incremento della frequenza e dell’intensità della turbolenza continua ad avere un impatto economico rilevante, ed in futuro le spese potrebbero aumentare ulteriormente”. Senza contare, naturalmente, l’esigenza di un futuro più sicuro e sostenibile per l’aviazione. LEGGI TUTTO

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    Letizia Palmisano: “A Natale possiamo regalare un sorriso ai bambini con un rigiocattolo”

    Letizia Palmisano, giornalista ambientale, saggista e divulgatrice televisiva, nel suo ultimo libro Il Rigiocattolo, edito da Città Nuova e illustrato da Anna Curti, narra una fiaba ecologista ispirata ai principi dell’economia circolare. I protagonisti della storia sono giocattoli un po’ malconci, ai quali il destino però riserva una straordinaria seconda opportunità. “Questo libro – racconta Palmisano – ha preso vita inconsapevolmente due anni fa, mentre stavo lavorando al saggio Sette vite come i gatti, una raccolta che esplora storie di economia circolare e di eroi dell’ambiente spesso poco conosciuti. Avevo dedicato il secondo capitolo di questo libro ai giocattoli perché, avendo all’epoca un figlio di nove anni, come capita a molti genitori, mi sono trovata a gestire un’incredibile quantità di giochi, spesso superiore a quella realmente utilizzabile e che, in alcuni casi, non potevano essere regalati o venduti perché danneggiati. Mi sono quindi chiesta se esistessero realtà che si dedicavano alla riparazione dei giocattoli. Questa riflessione mi ha spinto a cercare, all’interno di un gruppo social focalizzato sull’economia circolare e del quale sono amministratrice, se ci fossero realtà che si occupavano della riparazione dei giocattoli. È così che sono entrata in contatto con Daniele Leo e con il team di volontari di Rigiocattolo di Campobasso, scoprendo una meravigliosa realtà. Questo gruppo ha recentemente celebrato dieci anni di attività nel corso della quale sono stati riparati circa 20 mila giocattoli, salvandoli dalla discarica e rendendo felici molti bambini. Così ho pensato che fosse arrivato il momento di scrivere una fiaba gioiosa che avesse come “colonna sonora” di sottofondo l’economia circolare”.L’autrice narra infatti, con testi e immagini adatte ai bambini, le vicende di tre giochi ovvero l’orsetto di peluche Bruno, la pianola giocattolo color arcobaleno Nola e il coraggioso Tuffolino. Guidati dal robot Milo, un veterano del luogo, i tre protagonisti scopriranno che l’arrivo al laboratorio di Rigiocattolo non sarà per loro la fine, ma l’inizio di una nuova avventura. “Il Rigiocattolo – continua Palmisano – è dedicato ai bambini dai 5 anni in su, ma, in maniera nemmeno troppo ironica, ritengo che sia adatto fino ai 199 anni. È un libro che può essere letto attraverso le parole e vissuto grazie ai meravigliosi disegni di Anna Curti. È una fiaba davvero per tutti con un messaggio che spero aiuti a far capire quanto sia importante guardare il mondo intorno a noi attraverso lenti verdi, ma anche quanto siano fondamentali realtà come Rigiocattolo che, ad oggi in Italia, sono davvero troppo poche e dovrebbero invece essere prese a modello. Riuso e riparazione sono concetti fondamentali dell’economia circolare e dovrebbero essere attuabili in ogni settore. Parliamo spesso dell’importanza dell’educazione ambientale, ma talvolta abbiamo difficoltà a trasmettere questi valori ai nostri figli attraverso gli oggetti che più amano e che fanno parte del loro quotidiano”.

    Letizia Palmisano  LEGGI TUTTO

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    Un prof di Princeton ha costruito la sua casa green al 100%

    Il professor Forrest Meggers è talmente convinto che con una buona progettazione si possano costruire edifici davvero amici dell’ambiente che ha deciso di sperimentare la sua teoria trasformando la sua casa in una abitazione davvero “green” completamente da solo. Tre anni fa, questo professore di ingegneria e architettura che insegna alla Princeton University, ha dato via a un progetto per realizzare, in piena Princeton, una casa in grado di impattare con pochissime emissioni.

    Meggers, 43 anni, sposato e con quattro figlie, per iniziare a dar vita alla sua visione due anni fa ha iniziato a scavare nel cortile della sua proprietà di Princeton nel New Jersey (Usa). L’obiettivo era trovare l’acqua: grazie alle falde, poteva infatti installare un sistema di riscaldamento e raffreddamento geotermico per la sua casa, una base di partenza per rendere tutto più efficiente ed autonomo. Tenendo un corso chiamato “Progettare sistemi sostenibili” il professore di Princeton voleva infatti passare dalla realtà alla pratica e dimostrare anche ai suoi studenti come poter migliorare l’efficienza energetica di una abitazione. LEGGI TUTTO

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    Trivelle più facili e più vicine alle coste: il decreto Ambiente 2024 diventa legge

    Trivellazioni più facili. Il decreto Ambiente, varato a ottobre dal governo Meloni, è definitivamente legge. La Camera il 10 dicembre lo ha approvato (con 141 voti a favore, 81 contrari, tre astenuti) mentre il Senato lo aveva fatto pochi giorni fa. Il provvedimento contiene diverse novità: introduce infatti modifiche al Testo Unico sull’Ambiente del 2006, e prevede la controversa riduzione delle distanze di protezione dalle coste per le trivellazioni marine, che passano da da 12 a 9 miglia. In particolare, si vietano i nuovi permessi di ricerca ed estrazione di gas e petrolio, ma per quelli già esistenti, si abbassa la distanza minima dalle coste. Sbloccata, inoltre, la corsia preferenziale per le valutazioni ambientali relative a progetti di ”preminente interesse strategico nazionale”, tra cui rientrano anche gli impianti di stoccaggio, cattura e trasporto di anidride carbonica. Il dl affronta anche il tema delle energie rinnovabili, dell’economia circolare e del dissesto idrogeologico, ma, secondo le opposizioni, si tratta di “un’occasione mancata”.

    Governo

    Via libera al decreto Ambiente: non solo eolico e fotovoltaico, per la transizione anche nucleare e idrogeno

    di  Luca Fraioli

    10 Ottobre 2024

    Le opposizioni “così si ostacolano le rinnovabili”
    Per la deputata Luana Zanella (Europa Verde): “In questo modo il governo ostacola la diffusione di fonti energetiche rinnovabili” ed “esalta quelle fossili dando il via libera alle trivellazione delle coste entro addirittura le nove miglia”. Secondo il ministro per l’Ambiente, Gilberto Pichetto-Fratin, invece l’approvazione del decreto costituisce un “risultato importante per il Paese, nella direzione di semplificare e razionalizzare settori decisivi per la nostra economia”.
    Dal testo è saltato un emendamento che era stato presentato da Forza Italia e che avrebbe aperto alla privatizzazione dell’acqua. La proposta era di permettere alle aziende private di entrare nelle società in house – pubbliche – che gestiscono l’acqua. Il tema, ha fatto sapere il governo Meloni, potrebbe rientrare comunque nella manovra 2025.

    I dati

    L’Italia migliora ma di poco: è 43esima nella classifica per la lotta alla crisi climatica

    di  Luca Fraioli

    20 Novembre 2024

    Tema caro al governo
    Quello di rilanciare le trivellazioni è un tema molto caro al governo Meloni, per il quale sarebbe una possibilità per aumentare l’autonomia energetica del Paese. Nonostante solo qualche giorno fa il TAR del Lazio ha accolto il ricorso presentato dalle associazioni ambientaliste contro il progetto di trivellazione Teodorico, che prevedeva lo sfruttamento di un giacimento al largo del Delta del Po. Tra le varie criticità, i giudici hanno rilevato in particolare numerose carenze nelle Valutazioni di Impatto Ambientale (VIA) – proprio quelle che il decreto legge appena approvato punta a velocizzare e semplificare – e il danno ambientale. Una delle ragioni dello “stop” dei magistrati era stato motivato proprio in ragione della protezione degli ecosistemi marini e costieri. Nonostante il limite di distanza minima di 12 miglia nautiche delle trivelle dalla costa, fissato per arginare le conseguenze di alcuni rischi delle attività estrattive, come lo sversamento in mare di petrolio. Oggi però quella distanza scende a 9 miglia. Una distanza considerata dal ministero dell’Ambiente, Pichetto Fratin in grado di garantire “un elevato grado di sicurezza”.

    Le novità controverse: autorizzazioni ambientali più veloci
    Oltre la semplificazione delle procedure di Via viene data la priorità alla realizzazione di alcuni progetti, tra i quali quelli di stoccaggio, cattura e trasporto della CO2. Il primo progetto di questo tipo in Italia è nato a Ravenna e prevede di captare almeno il 90% della CO2 prodotta dall’impianto – stimata in circa 25 mila tonnellate l’anno – e trasportarla fino alla piattaforma offshore Porto Corsini Mare Ovest, per poi depositarla in un giacimento di gas esaurito a 3 mila metri di profondità.
    Il decreto Ambiente contiene anche norme sulle procedure di valutazione e autorizzazione ambientale da parte delle commissioni Via-Vas e Pnrr-Pniec, che si occupano di dare il via libera dal punto di vista dell’impatto sull’ambiente. In particolare, si dovrebbero velocizzare le pratiche per i progetti del valore di oltre 25 milioni di euro che hanno un “preminente interesse strategico” e che possono aiutare a ridurre la quantità di carbonio nell’atmosfera. Ma anche quelli che rispettano i criteri di affidabilità e sostenibilità tecnica ed economica, oltre agli interventi legati al Pnrr.

    Le priorità
    Saranno considerati una priorità, ad esempio, gli impianti per l’accumulo di energia idroelettrica tramite pompaggio puro, che prevedono un aumento della quantità di acqua immagazzinabile. Lo stesso vale per gli impianti di stoccaggio geologico, cioè quelli dove viene stipata CO2 in forma liquida, spesso iniettata in rocce porose, in zone molto profonde o in vecchi giacimenti ormai esauriti di idrocarburi. E anche per gli impianti con cui si cattura la CO2, quelli che vengono convertiti in bioraffinerie (che trasformano le biomasse, come rifiuti, legno o altro in biocarburanti).
    Sul tema del dissesto idrogeologico, la legge permette ai presidenti di Regione (o meglio, i commissari per il dissesto) di avere maggiori poteri; i fondi che vengono assegnati potranno essere ritirati se i lavori non vanno avanti, e le banche dati sulla tutela dei territori saranno collegate per dare più informazioni. Infine, alcune norme riguardano l’economia circolare. Ad esempio, si promuove il riutilizzo delle acque reflue raffinate, che possono essere usate per irrigare. LEGGI TUTTO

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    Il chiurlo dal becco sottile è stato dichiarato estinto

    Non lo potranno ammirare più, gli appassionati di birdwatching, mentre volteggia nel cielo. Dovranno accontentarsi di osservarlo in qualche illustrazione o in qualche foto, magari sbiadita dal tempo. Il chiurlo dal becco sottile o chiurlottello (Numenius tenuirostris), un uccello migratore costiero, alto una quarantina di centimetri, con collo chiaro e macchie scure rotondeggianti su petto e fianchi, è stato dichiarato quasi certamente estinto (la probabilità è del 96%). Lo ha reso noto un recente studio pubblicato sulla rivista Ibis e condotto da scienziati della Royal society for the protection of birds, del Bird life international, del Naturalis biodiversity center e del Natural history museum di Londra. Il volatile, intercettato l’ultima volta a metà degli anni Novanta, era solito riprodursi in Asia centrale e Siberia meridionale, attraversare l’Europa orientale e centrale, per poi svernare nelle zone umide attorno al bacino del Mediterraneo.

    Dall’espansione agricola alla caccia
    Come sottolineano gli autori della ricerca, è probabile che il declino del chiurlottello sia attribuibile a vari fattori. Tra questi, l’espansione agricola che ha ridotto l’habitat nei luoghi di riproduzione e nei siti di sosta, le bonifiche estensive delle aree con elevata umidità, la lentezza riproduttiva che ha reso difficile il recupero della loro popolazione. A ciò si sarebbero poi sommati inquinamento, malattie, predatori, cambiamenti climatici. Tuttavia, determinante per l’estinzione è stata la caccia, che in Italia si è concentrata soprattutto in Puglia e in Toscana, favorita dal fatto che il chiurlo non temeva gli umani ed era pertanto avvicinabile con facilità. “è probabile che, con la rarefazione della specie, sia aumentata la richiesta di pelli da collezione, che ha aggravato la pressione. In pratica, più il chiurlottello andava in crisi, più diventava appetibile per le doppiette dei cacciatori, con ulteriore aggravio della situazione, fino al tracollo”, spiega Danilo Selvaggi, presidente della Lega italiana protezione uccelli (Lipu).

    Biodiversità

    Un albero su tre è a rischio estinzione, come l’abete delle Madonie

    di  Fabio Marzano

    04 Novembre 2024

    Un declino annunciato
    Al di là delle molteplici, possibili cause, il declino della specie era evidente già all’inizio del secolo scorso. Un rapporto del 1912 metteva in luce il calo della popolazione, diventata gradualmente così esigua da far temere l’estinzione negli anni Quaranta. Nel 1988 il chiurlottello è stato classificato come minacciato. Gli ultimi esemplari sono stati avvistati nel 1995 nella laguna di Merja Zerga, in Marocco. Un anno dopo, nel 1996, è stato sviluppato un piano d’azione per la conservazione del chiurlo. Troppo tardi. Inutili gli sforzi compiuti dagli esperti per rintracciarlo, come racconta Alex Bond, responsabile del settore uccelli del Natural history museum: “Quando l’uccello ha smesso di tornare al suo principale sito di svernamento, si è cercato di localizzarlo nelle aree di riproduzione. Tante spedizioni, molte ricerche per centinaia di migliaia di chilometri. Purtroppo, nessun risultato”.

    Altri uccelli minacciati
    La perdita del chiurlo dal becco sottile suona come un cupo avvertimento: nessun uccello è immune dall’estinzione. Secondo la Lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (International union for the conservation of nature, Iucn), a livello globale dal Cinquecento a oggi si sono estinti 164 uccelli. Tra quelli attualmente minacciati si annoverano quattro delle sette specie di chiurlo rimaste, i piovanelli (Caldris alpina) e i pivieri pancianera (Pluvialis squatarola). Il chiurlo eschimese (Numenius borealis) è in pericolo critico (probabilmente estinto).

    Inquinamento

    Dal fegato allo stomaco, microplastiche nel 66% delle gazze marine trovate morte nel Tirreno

    di  Pasquale Raicaldo

    02 Ottobre 2024

    Una cattiva notizia per una buona azione
    L’auspicio è che le cattive notizie come questa possano innescare buone azioni, improntate alla conservazione delle specie più a rischio. “Gli uccelli migratori collegano le nazioni”, sottolinea Nicola Crockford, ricercatrice della Royal society for the protection of birds. “I provvedimenti di alcuni Paesi per conservare una specie possono essere indeboliti dalle azioni dannose di altri. Come la quantità di carbonio nell’atmosfera è indice dell’impegno internazionale per combattere il cambiamento climatico, lo stato delle specie migratorie rappresenta un indicatore degli sforzi globali per conservare la biodiversità. L’estinzione del chiurlo dal becco sottile costituisce un appello ad agire urgentemente in favore della natura, così come inondazioni, incendi, siccità sono appelli per un’azione a favore del clima”. Selvaggi conclude: “La morte del chiurlottello è per le società umane un fallimento. È una piccola morte del mondo, che fa male a tutti”. LEGGI TUTTO

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    Tutte le varietà del castagno e come coltivarlo

    Il castagno è un albero che si colloca generalmente tra i 200 e 900 metri di altitudine, tra collina e montagna. Questa pianta della famiglia delle Fagaceae si presenta con caratteristiche uniche e può essere coltivata nei boschi con estrema cura.

    Le caratteristiche del castagno
    Quando si pensa al castagno non si può fare a meno di menzionare una pianta alta e imponente: infatti, parlando proprio di caratteristiche del castagno, possiamo dire che questo albero è in grado di raggiungere dai 10 ai 30 metri di altezza. Si tratta di una pianta anemocora, ovvero che viene impollinata grazie all’azione svolta dal vento, che è in grado di offrire in autunno dei deliziosi frutti. Guardando il fusto del castagno, è possibile notare che la corteccia è liscia e lucida, di un colore tra il grigio e bruno.

    Le foglie del castagno sono alterne e si presentano con una consistenza coriacea e lucida. I fiori della pianta, visibili in giugno, sono unisessuali e sono diversi tra di loro: gli esemplari maschi sono piccoli e sono formati da ameni eretti, lunghi tra i 5 e 15 centimetri. I fiori femmina spesso sono raggruppati in 2-3, anche se a volte ve ne sono alcuni isolati. I frutti di questa pianta, cioè le castagne, si presentano come un achenio con un pericarpo di colore marrone, lucido all’interno.

    La castagna ha un lato piatto e un lato convesso che sono definiti pancia e dorso. Al termine del frutto vi è un piccolo ciuffo chiamato torcia, mentre la parte opposta di colore chiaro è detto ilo. Questi frutti sono custoditi all’interno di un involucro pieno di spine (il riccio) che, a maturità corretta, cade dalla pianta lasciando a vista i frutti. I frutti si possono raccogliere tra settembre e ottobre. Per quanto riguarda la temperatura gradita dal castagno, possiamo dire che l’albero sopporta bene il freddo (fino a -25°C), ma con temperature troppo elevate, superiori ai 32°, si possono verificare dei problemi come una caduta eccessiva delle foglie. Nei casi peggiori, la pianta può addirittura morire.

    Le varietà del castagno
    Esistono veramente tante varietà di castagno e, prima di acquistare quella che si desidera, è necessario tenere a mente i quattro gruppi varietali: castagne, marroni, ibridi euro-giapponesi e giapponesi. Ecco le caratteristiche principali di questi gruppi varietali:

    Castagne: questo gruppo contempla tantissime varietà e derivano tutte dal castagno europeo. I frutti che sono proposti sul mercato si presentano di pezzatura diversa e tra le varietà più note ci sono: castagna della Madonna di Canale d’Alba, Bracalla, Garrone rosso, Pistoiese…
    Marroni: anche questo gruppo è possibile trovare diverse varietà che danno origine poi a piante con frutti differenti di dimensione medio-grossa. Tra le più diffuse citiamo le seguenti: Marrone di Viterbo, Marrone di Marradi, Marrone di Castel del Rio, Marrone di Susa, Marrone di S. Mauro di Saline…
    Ibrido Euro-Giapponese: si tratta di un incrocio ottenuto tra la pianta europea del castanea sativa e quella giapponese castanea creanata. Si possono trovare anche nel nostro paese, poiché importanti negli anni ’70. Alcune di queste varietà sono molto resistenti a malattie come il cancro della corteccia. Lo sviluppo è ridotto e consente di avere terreni con più piante. La raccolta dei frutti inizia a settembre, prima delle castagne e dei merrani.
    Giapponese: il Tanzawa e Ginyose sono sicuramente le varietà più note di questo gruppo. Lo sviluppo di queste piante è ridotto e l’attività di produzione dei frutti va dal terzo anno dall’impianto. La raccolta di questi frutti avviene tra agosto e i primi del mese di settembre.

    La coltivazione in vaso
    La coltivazione del castagno in vaso, in realtà, non è per sempre: infatti, le fasi in cui è possibile prendersi cura di questa pianta direttamente in un contenitore di questo tipo è al momento della semina. Successivamente, quando l’alberello inizia a crescere e si ottiene un piccolo arbusto è necessario occuparsi della piantumazione. Solo in questo modo il castagno riesce a dare il meglio di sé, fiorendo e offrendo frutti nella giusta quantità.

    La piantumazione e il terreno ideale
    Se si dispone di piccoli arbusti si può procedere con la piantumazione del castagno in aree adatte. La prima cosa da tenere a mente è che le piante devono essere collocate distanti tra di loro di circa 10-15 centimetri. Lo sviluppo degli arbusti avverrà senza alcun impedimento e le fronde avranno anche la possibilità di crescere e far passare tra le foglie il giusto quantitativo di aria. Il terreno dovrà essere sciolto, ma al tempo stesso ricco di sostanze nutritive; per quanto riguarda l’irrigazione, sarà importante occuparsene attentamente fino a quando lo sviluppo non sarà completo. Inoltre, è importante potare le piante in maniera regolare.

    La coltivazione e la cura dell’albero
    Occuparsi della coltivazione e della cura corretta del castagno significa considerare alcuni aspetti importanti come l’irrigazione e la concimazione. Iniziamo dicendo che le annaffiature di questa pianta devono essere periodiche, specie durante l’estate e quando le temperature salgono in maniera importante. Per quanto riguarda la concimazione, invece, è possibile utilizzare dei prodotti indicati proprio per gli arbusti con frutti oppure preparare degli infusi o decotti ricchi di potassio e fosforo. Questi due elementi sono importanti per la pianta, dato che permettono uno sviluppo corretto. Sono suggeriti anche il compost di letame e stallatico maturo. Un altro aspetto rilevante per la cura del castagno riguarda la potatura. È fondamentale eseguirla con frequenza, giacché in questo modo si possono tenere sotto controllo le fronde, alleggerendo i rami e favorendo la fioritura.

    Malattie e parassiti
    Tra le malattie più comuni in cui l’albero di castagno può incorrere vi sono quelle caratterizzate dall’attacco dei funghi. Il castagno è soggetto all’oidio, al cancro della corteccia, alla ruggine e al marciume del colletto. Alcuni parassiti, invece, possono far sorgere altri problemi come il cancro nero, le carie del legno, il corineo e il marciume della polpa dei frutti. Il ragnetto rosso è senz’altro uno tra i parassiti più pericolosi per un castagno: è fondamentale occuparsi accuratamente della pulizia del bosco dove è stato collocata la pianta, così da evitare la proliferazione di insetti dannosi per il castagno e per i suoi frutti. LEGGI TUTTO