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    Se la benzina “verde” si produce direttamente dall’aria

    Immaginiamo una macchina grande quanto un frigorifero modulare in grado di trasformare aria e acqua in benzina. È l’ultima invenzione di una startup. Si chiama Aircela, con sede a New York, è stata fondata nel 2019 dai coniugi Eric e Mia Dahlgren, e mediante un processo di reazioni chimiche e processi fisici, riesce a produrre combustibile direttamente dall’ambiente. Alla base di tutto c’è l’utilizzo di un sistema di cattura della CO2 presente nell’aria, combinata con acqua e trasformata attraverso vari passaggi in carburante verde. La startup a fine maggio 2025 ha fatto la sua prima dimostrazione pubblica sui tetti del Garment District di Manhattan, segando un momento storico: per la prima volta negli Stati Uniti, è stata prodotta benzina sintetica in tempo reale, partendo dall’aria urbana. Il risultato è un carburante purissimo, privo di zolfo, metalli pesanti ed etanolo, compatibile al 100% con qualsiasi motore a benzina. “La parte migliore? – affermano i fondatori – Non è necessario cambiare l’auto o il sistema di alimentazione: funziona con quello che abbiamo già”.

    Come funziona: il processo di elettrolisi
    Mia e Eric Dahlgren, fondatori di Aircela, hanno trascorso anni di test per perfezionare questo processo, basandosi sulle ricerche pioneristiche di Klaus Lackner, il fisico che nei primi anni 2000 propose per primo la cattura diretta dell’aria. Lackner stesso ha partecipato all’evento dimostrativo dello scorso maggio, spiegando le basi scientifiche del processo di cattura del carbonio. La tecnologia di Aircela si basa sui suoi vent’anni di ricerca presso il Center for Negative Carbon Emissions dell’Arizona State University, dove ha sviluppato i concetti di base per la cattura passiva dell’anidride carbonica. La macchina Aircela utilizza solo aria, acqua ed elettricità rinnovabile. Gli ingegneri hanno progettato la struttura a nido d’ape completamente modulare, per essere facilmente trasportata. Il vantaggio competitivo – e unico nel suo genere – è quello di produrre e-fuel ovunque, anche off-grid. Il carburante prodotto è utilizzabile nei motori a benzina senza modifiche, e privo di zolfo o metalli pesanti.

    Il dispositivo integra tre processi: cattura diretta della CO2 (con la tecnologia DAC, Direct-Air-Capture), elettrolisi dell’acqua per ottenere idrogeno, e sintesi catalitica in carburante liquido. La CO2 viene assorbita tramite un solvente a base di KOH (idrossido di potassio), una sostanza fortemente alcalina che reagisce con l’anidride carbonica atmosferica formando carbonati. Un trattamento elettrochimico successivo rigenera il KOH e rilascia CO2 pura, pronta per essere utilizzata nella sintesi. L’idrogeno ottenuto per elettrolisi dell’acqua viene poi combinato con la CO2 per produrre metanolo, successivamente trasformato in benzina secondo il processo MTG (Methanol-to-Gasoline) sviluppato dalla metà degli anni 70. “Per produrre gas da aria e acqua, la macchina utilizza l’elettrolisi – spiega Dahlgren -. Processo che scompone l’acqua in idrogeno e ossigeno. Questo idrogeno rappresenta una delle componenti fondamentali nel successivo processo di produzione della benzina. Innovazioni nell’elettrolisi avanzata sono necessarie per migliorare l’efficienza di produzione dell’idrogeno, riducendo al contempo il consumo energetico necessitato. Gli sviluppi continuano a rendere questo processo economicamente ed energicamente sostenibile, con l’obiettivo di minimizzare perdite e di massimizzare la resistenza operativa nel lungo termine, rendendo l’idrogeno prodotto una risorsa affidabile e conveniente per la generazione di carburante”.

    A fine procedura, l’utente estrae la pompa situata lateralmente alla macchina e versa il gas – privo di combustibili fossili – in un contenitore pronto per l’uso. Dahlgren precisa, inoltre, che per ogni gallone (3,8 litri) di e-fuel prodotto con questo sistema sono necessarie circa 10 kg di CO2. L’innovazione di Aircela punta su casi d’uso specifici: luoghi remoti, ambienti militari o aree senza infrastrutture. L’azienda prevede di avviare la produzione su larga scala alla fine del 2025 “Migliaia di sistemi Aircela prodotti in serie opereranno insieme come server farm per carburante verde”. LEGGI TUTTO

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    Cactus: tutto quello che c’è da sapere

    Resistenti, affascinanti e straordinariamente adattabili: i cactus sono piante grasse che conquistano per la loro estetica esotica e la facilità di coltivazione. Perfetti per chi desidera un tocco di verde senza impegni eccessivi, i cactus si rivelano alleati ideali sia per giardini assolati, sia per appartamenti luminosi. Ecco tutto quello che c’è da sapere su queste straordinarie piante.

    Le caratteristiche dei cactus: tipi e varietà principali
    Quando si parla di cactus, ci si riferisce a una famiglia botanica, le Cactaceae, che conta circa 3.000 specie suddivise in oltre 100 generi. Originari delle zone aride dell’America e dell’Africa, questi vegetali hanno sviluppato nel tempo incredibili strategie di sopravvivenza, diventando veri e propri campioni di adattabilità.

    Il loro elemento distintivo è il fusto succulento, capace di immagazzinare acqua e svolgere la fotosintesi in assenza di foglie vere e proprie. Al posto di queste ultime, infatti, i cactus sono spesso dotati di spine, una soluzione evolutiva che riduce la dispersione d’acqua e li protegge dai predatori. Alcune specie presentano una lanugine biancastra che aiuta a schermare i raggi solari, mentre altre sviluppano fiori spettacolari, spesso effimeri ma incredibilmente scenografici.

    La fioritura, che varia a seconda della specie, regala tonalità vivaci che vanno dal bianco puro al rosso acceso, dal giallo brillante al rosa intenso. In alcuni casi, come per il fico d’India, dal fiore si sviluppano frutti commestibili, apprezzati sia per il loro sapore dolce, sia per le proprietà nutrizionali.

    Quali sono i tipi di cactus più diffusi e quali i suoi frutti
    Tra le tipologie di cactus più conosciute sono da menzionare:

    Echinocactus grusonii: conosciuto come “cuscino della suocera”, ha una forma sferica e spine dorate;
    Opuntia ficus-indica: il classico fico d’India, con pale piatte e frutti commestibili;
    Mammillaria: piccoli cactus con spine morbide e fiori colorati;
    Schlumbergera: il cactus di Natale, che fiorisce in inverno;
    Astrophytum: caratterizzato da una forma geometrica e una crescita lenta.

    Ogni varietà ha esigenze specifiche, ma tutte condividono la necessità di un substrato drenante e un’esposizione alla luce adeguata.
    Molte persone non sanno che alcuni cactus producono anche frutti commestibili. Tra i più noti, troviamo: il Fico d’India, la Pitaya e la Pereskia aculeata. Apprezzati per il loro sapore esotico e le loro proprietà, i frutti del cactus sono spesso utilizzati anche in cosmetica e in molti integratori alimentari.

    Come coltivare il cactus all’aperto
    Se il clima lo consente, la coltivazione in giardino o su un terrazzo soleggiato è la soluzione ideale per i cactus. In particolare, nelle regioni del Sud Italia queste piante riescono a prosperare senza problemi anche durante l’inverno, grazie alle temperature miti. Nelle aree più fredde, invece, è consigliabile optare per la coltivazione in vaso, così da poter spostare le piante al riparo nei mesi più rigidi.
    L’esposizione è un fattore cruciale: il cactus ha bisogno di molta luce per crescere sano e forte. L’ideale è collocarlo in un punto ben illuminato e riparato dai venti freddi. Anche il substrato gioca un ruolo fondamentale: il terreno deve essere specifico per piante grasse, caratterizzato da una miscela di sabbia e torba per garantire un ottimo drenaggio. I ristagni d’acqua, infatti, rappresentano una delle principali minacce per la sopravvivenza di queste piante, causando rapidamente marciumi radicali.

    Cactus: irrigazione e concimazione all’aperto
    L’irrigazione deve essere moderata e calibrata in base alla stagione: in estate, un’annaffiatura ogni due settimane è sufficiente, mentre in inverno è bene ridurre drasticamente le somministrazioni, arrivando a bagnare la pianta al massimo una volta al mese.
    Un altro aspetto da considerare è la concimazione. Se coltivato in vaso, il cactus può beneficiare di un fertilizzante specifico per piante grasse durante i mesi estivi, mentre se piantato in piena terra spesso riesce a trarre da solo i nutrienti necessari.
    Per garantire uno sviluppo armonioso, è consigliabile effettuare il rinvaso ogni primavera, scegliendo un contenitore leggermente più grande del precedente. Se alla base della pianta madre compaiono nuovi germogli, questi possono essere separati con cura e piantati in nuovi vasi, dando così vita a nuove piante.

    Come coltivare il cactus in appartamento
    Anche chi non dispone di uno spazio esterno può godere della bellezza di un cactus. Queste piante si adattano infatti perfettamente alla vita in appartamento, purché si rispettino alcune semplici accortezze.
    La luminosità resta il fattore chiave: il cactus va posizionato vicino a finestre esposte a sud o a ovest, dove possa ricevere il massimo della luce naturale. Durante l’inverno, è fondamentale evitare di collocarlo vicino a fonti di calore come termosifoni o camini, mentre in estate, se l’ambiente è climatizzato, è meglio spostarlo all’esterno per qualche ora al giorno.

    Irrigazione e concimazione in appartamento
    Le regole per il substrato e l’irrigazione restano le stesse della coltivazione all’aperto: terriccio ben drenante e annaffiature sporadiche, soprattutto nella stagione fredda. Anche la concimazione segue un ritmo stagionale, con apporti di fertilizzante nei mesi caldi e un periodo di riposo vegetativo in inverno.

    La fioritura, generalmente, avviene attorno al terzo anno di vita e rappresenta una gratificazione straordinaria per chi ha seguito con costanza e attenzione la crescita della pianta. Alcune specie, come l’Echinopsis, producono fiori spettacolari che si aprono di notte e durano solo poche ore, rendendo l’attesa ancora più affascinante.

    Cactus da interno: quali scegliere
    Sebbene siano amanti delle zone all’aperto, i cactus sono perfetti anche per gli interni. Questo è dovuto alla loro grande capacità di adattarsi agli ambienti domestici. Ma quali scegliere per un appartamento? Di seguito alcune opzioni particolarmente apprezzate:
    Haworthia: piccola e facile da curare, ideale per scrivanie e mensole;
    Sansevieria cylindrica: purifica l’aria e resiste a condizioni di scarsa illuminazione;
    Schlumbergera: adatta per ambienti con luce indiretta, fiorisce in inverno;
    Echinopsis: dalle fioriture spettacolari, necessita di molta luce.

    Prezzo dei cactus: quanto costano in media?
    Il prezzo di un cactus varia ovviamente a seconda della specie, della dimensione e del punto vendita in cui lo si acquista. Indicativamente e per avere una panoramica più o meno fissa, possiamo dire che i piccoli cactus da interno possono andare dai 3 ai 15 euro, mentre i cactus medi dai 15 ai 50 euro. Per gli esemplari grandi e rari, infine, le cifre si alzano e possono oltrepassare anche i 200 euro.

    Capaci di prosperare dove altre specie fallirebbero, i cactus non sono solo piante ornamentali. Longevi, resistenti, dallo spirito di adattamento formidabile, queste piante sono perfette per tutti coloro che desiderano un angolo di natura senza troppo impegno. LEGGI TUTTO

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    Barba di Giove: coltivazione e fioritura

    La barba di Giove è una pianta ornamentale che si presenta con una cascata di fiori di colore dal rosa al fucsia. Con il suo aspetto sembra quasi voler richiamare quello di una folta barba. Scopriamo la sua coltivazione per ottenere una splendida fioritura.

    La coltivazione della pianta perenne
    La barba di Giove o drosanthemum hispidum è classificata come una pianta perenne che si adatta facilmente alla coltivazione in diversi ambienti. È un esemplare che appartiene alla famiglia delle aizoaceae ed è originaria del sud Africa. Le aree mediterranee sono senz’altro quelle migliori per la sua coltivazione, dove può crescere bene, specie durante i periodi più caldi dell’anno.

    La barba di Giove si presenta con foglie di colore verde e fiori che possono ricordare per qualche verso quelli delle margherite. La differenza sta nel fatto che crescono molto vicini tra di loro, sono rosa-violetto e che possono creare una vera e propria cascata floreale o un tappeto fiorito. È importante preparare il terreno per la coltivazione della pianta, selezionando un terriccio ad hoc. Infatti, la barba di Giove ama terreni non eccessivamente fertili, ma soprattutto drenati. È importante selezionare un terreno con un pH compreso tra 6 e 7 per offrire il meglio a questa pianta perenne. Suggeriamo un tipo di terreno pensato per le piante succulenti, con un po’ di sabbia che aiuta a preparare un substrato drenante.

    Barba di Giove in balcone
    È una pianta perfetta da coltivare in vaso e sistemare in un angolo del balcone o sulla ringhiera della stessa. L’effetto scenografico dei fiori consente di creare uno spazio davvero molto colorato e allegro. Inoltre, la barba di Giove attira anche molto le farfalle e gli insetti impollinatori come le api.

    L’esposizione giusta
    Per una buona coltivazione della barba di Giove è necessario esporre la pianta in aree soleggiate. Questa pianta gradisce molto il sole, tanto che produce grandi quantità di fiori. La temperatura migliore per fiorire in quantità deve essere compresa tra i 15°C e i 30°C. Per quanto riguarda la temperatura minima, la barba di Giove tollera fino ai -5°C. È importante munirsi delle corrette protezioni nel caso in cui la pianta dovesse essere sottoposta a temperature ancora più rigide. In alternativa, se si coltiva in vaso, la si può spostare in serra, dove sarà al riparo dalle temperature estreme.

    Quando fiorisce?
    La fioritura della barba di Giove è abbastanza lunga se gode di diverse ore con luce solare diretta e può variare a seconda delle aree in cui viene coltivata. Di solito, è possibile collocare questo momento dalla primavera e può arrivare sino all’autunno. In questa maniera, si ha un giardino o un balcone sempre colorato. Il fiore della barba di Giove è ideale anche per realizzare delle splendide aiuole, bordure o nei terreni rocciosi. È necessario tenere a mente che la fioritura di questa pianta perenne può essere compromessa se è posta in un luogo molto ventilato. Infatti, il vento può disturbare i fiori.

    La potatura
    Di solito questa pianta non richiede una potatura, ma in realtà la si può fare nel caso in cui si volesse mantenere in ordine la crescita. Inoltre, si possono togliere le parti secche o danneggiate, per esempio, da una grandinata. È importante effettuare la potatura alla fine della fioritura, evitando così di compromettere la comparsa di altri fiori della barba di Giove.

    La concimazione corretta
    Per fertilizzare correttamente la barba di Giove è necessario selezionare proprio un prodotto suggerito per le piante succulente. Si può selezionare un concime liquido da miscelare con l’acqua delle innaffiature. È importante dare il concime ogni 2-3 mesi, specie nel periodo in cui è prevista la crescita della pianta e la fioritura.

    Quando annaffiare la pianta?
    La barba di Giove non richiede molta acqua e, proprio per questo, è spesso suggerita per quei giardini dove è difficile annaffiare. Con estremo calore, però, anche questa pianta ha bisogno di innaffiature regolari, evitando così i classici problemi delle piante senza la giusta idratazione.

    Barba di Giove secca in estate: che cosa fare?
    In estate la barba di Giove può trovarsi in difficoltà, specie se le temperature iniziano ad essere estreme. In caso di barba di Giove secca in estate si possono notare foglie appassite e un rallentamento dello sviluppo. In questa circostanza, è di vitale importanza intervenire offrendo più irrigazioni frequenti. Solo in questo modo la pianta potrà tornare in forma e non mostrarsi più secca. Va comunque tenuto presente che non bisogna esagerare, poiché la barba di Giove non ama i terreni zuppi d’acqua.

    Malattie e i parassiti che possono attaccare la pianta
    La barba di Giove è una pianta molto resistente e difficilmente incorre in malattie o attacchi da parte di parassiti. L’unica accortezza da tenere sempre a mente riguarda proprio l’irrigazione. Essendo una pianta che non gradisce elevata umidità, è importante fare molta attenzione ai ristagni idrici. In casi rari, può essere attaccato da cocciniglia e da afidi che richiedono l’utilizzo di spray per la loro eliminazione. LEGGI TUTTO

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    Bici rubate addio: a Milano arriva il “maggiordomo” delle due ruote

    Milano ha un problema con le biciclette. Non solo quelle che vengono rubate – quasi un cittadino su due ha subito un furto negli ultimi anni – ma anche quelle che non trovano dove essere parcheggiate in sicurezza durante i grandi eventi. La soluzione arriva da un’idea tanto semplice quanto innovativa: il valet parking per le due ruote.

    Si chiama Dottò ed è il primo servizio di valet bike parking in Italia, nato dalla mente di Scintilla Cicloprogetti, un’associazione di promozione sociale fondata appena un anno fa da un gruppo di ciclisti appassionati guidati da Luigi Costanzo. Il nome è un gioco di parole che strizza l’occhio al dialetto milanese: “Dottò la lascia a noi”, come si dice quando si affida l’auto al parcheggiatore di un ristorante.

    Un servizio pensato per chi pedala
    L’idea è nata dall’esperienza diretta di chi usa la bicicletta quotidianamente. “Quando arrivi a un grande evento in bici, i posti finiscono subito – spiega Tommaso Stefanelli, uno dei fondatori durante una dimostrazione del servizio -. La gente lega al primo palo, poi al secondo, al terzo. Alla quarta bicicletta devi già camminare per centinaia di metri per trovare un posto”.

    Il servizio funziona come un guardaroba: area recintata, check-in all’arrivo, sorveglianza durante l’evento e check-out al ritorno. I ciclisti possono lasciare non solo la bici ma anche accessori come caschi, borse e luci, senza rischi di furto – un altro problema sentito da chi pedala in città.

    Debutto al MI AMI Festival
    Dottò ha fatto il suo esordio al Miami Festival poche settimane fa, gestendo oltre 300 biciclette all’Idroscalo. Il successo della prima sperimentazione ha convinto Nilox, brand italiano di tecnologia per lo sport, a sostenere il progetto. Il servizio è attualmente gratuito per gli utenti: “I tempi non sono anche maturi in Italia per un parcheggio a pagamento per biciclette – ammette il team – ma ci sosteniamo grazie agli sponsor che vedono nell’iniziativa un’opportunità di visibilità presso un pubblico attento alla sostenibilità”. LEGGI TUTTO

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    Scoperti in un suolo veneto batteri mangia-Pfas, gli inquinanti eterni

    Alcuni batteri isolabili dal suolo potrebbero mettere KO gli ‘inquinanti eterni’, sostanze che, una volta disperse nell’ambiente, non si degradano e minacciano la salute dell’uomo e del pianeta, le sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS), presenti in una vasta gamma di prodotti, dai cosmetici agli incarti per alimenti, dagli utensili da cucina ai detergenti: infatti un gruppo di ricerca dell’Università Cattolica, campus di Piacenza, ha isolato da un terreno veneto contaminato da PFAS circa 20 specie di batteri in grado di degradarli, ovvero di utilizzarli come fonte di energia (come fonte unica di Carbonio).

    Coordinato dal professor Edoardo Puglisi della Facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari ed Ambientali dell’Università Cattolica, campus di Piacenza, il lavoro è stato svolto in collaborazione con il gruppo del Prof. Giancarlo Renella dell’Università di Padova e presentato al convegno europeo della SETAC, il 35/imo meeting annuale della Società mondiale di Chimica e Tossicologia Ambientale che si è tenuto lo scorso Maggio a Vienna. Il lavoro sarà presto oggetto di pubblicazione su una rivista scientifica di settore.

    L’aumento della contaminazione del suolo e delle acque sotterranee da sostanze PFAS rappresenta una sfida ambientale significativa, a causa della loro persistenza, mobilità e degli effetti nocivi associati. L’elevata forza del legame chimico tra carbonio e fluoro in queste molecole rende i PFAS difficilmente biodegradabili nell’ambiente, da cui la definizione di “inquinanti eterni”.

    I PFAS sono una famiglia di composti chimici molto eterogenea prodotti a livello industriale sin dagli anni ’40 del secolo scorso per le loro proprietà idrorepellenti ed oleorepellenti. Queste caratteristiche, da un lato ne hanno determinato l’ampio utilizzo in tessuti, rivestimenti, cosmetici ed imballaggi, dall’altro sono la causa della loro recalcitranza, della loro capacità di accumularsi nell’ambiente e nelle cellule, dei loro effetti tossici sull’uomo. I PFAS sono stati associati, infatti, al rischio di diverse malattie come il diabete o di disfunzioni ormonali.

    Nello specifico, nella zona oggetto di indagine nella provincia di Vicenza una contaminazione industriale probabilmente dovuta ad una fabbrica locale ha portato ad una contaminazione diffusa in falde acquifere, suoli, colture sino alle acque potabili, con concentrazioni sino a più di 1000 ng/L.

    Salute e ambiente

    Pfas nel vino 100 volte superiori rispetto all’acqua potabile

    di Paola Arosio

    30 Maggio 2025

    Lo studio
    Gli esperti della Cattolica hanno voluto isolare e identificare microrganismi promettenti in grado di degradare i PFAS, prelevati da siti contaminati; a tale scopo hanno analizzato la diversità microbica nei suoli contenenti PFAS campionati in aree inquinate del Nord Italia, specificatamente nei siti altamente contaminati della Regione Veneto nelle provincie di Vicenza e Padova. Gli esperti hanno unito tecniche di microbiologia classica per l’isolamento di batteri di interesse al metabarcoding, una tecnica di biologia molecolare, basata sul sequenziamento di tutto il Dna presente in un campione ambientale, usata per identificare rapidamente le specie presenti, fornendo indicazioni sul potenziale di biorisanamento dei PFAS.

    “Abbiamo ottenuto questi batteri mangia-PFAS con un processo detto “di arricchimento”, che prevede il farli crescere in terreni dove hanno a disposizione solo PFAS per nutrirsi. Abbiamo già i genomi completi di questi 20 ceppi mangia-PFAS – continua l’esperto – ed informazioni sulle percentuali di degradazione di cui ciascuno è capace”. In collaborazione con il gruppo di chimica del nostro Dipartimento abbiamo misurato l’efficienza di degradazione dei PFAS, arrivando in alcuni casi a valori superiori al 30%, un valore molto alto per questa classe di composti. Sono ora in corso prove su diversi PFAS, cui seguiranno primi esperimenti in vaso per verificare in condizioni più rappresentative le capacità di risanamento.

    Pfas: che cosa sono e perché sono pericolosi per la salute

    21 Maggio 2025

    “Sul lato genomico stiamo studiando meglio questi ceppi, che appartengono a generi conosciuti nell’ambito del biorisanamento quali Micrococcus, Rhodanobacter, Pseudoxanthomonas e Achromobacter – spiega Puglisi. Si tratta di batteri facilmente coltivabili in laboratorio e solitamente non nocivi per l’uomo. Non è escluso inoltre che l’analisi del genoma possa portare alla scoperta di geni coinvolti nella biodegradazione in futuro sfruttabili a livello biotecnologico”, sottolinea l’esperto.

    Questa ricerca offrirà nuove conoscenze sulla degradazione dei PFAS e potrà contribuire allo sviluppo di strategie sostenibili di biorisanamento per ambienti contaminati da queste sostanze. LEGGI TUTTO

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    Terraforma Exo, a Milano l’ecologia sonora partecipativa tra musica e performance

    Il 28 e 29 giugno torna a Milano Terraforma Exo, evento dedicato a ripensare il rapporto tra essere umano e ambiente. Parco Sempione si trasformerà in un ecosistema attivo e mutevole, in cui l’interazione tra corpo, spazio e suono diventa chiave di lettura per decifrare la complessità del presente e concepire nuove forme di coesistenza. […] LEGGI TUTTO

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    Rane e salamandre a rischio sopravvivenza con ondate di calore e siccità

    Il futuro per gli anfibi non promette nulla di buono, tutt’altro: lo dicono le previsioni da un lato e i fatti dall’altro. Per le prime: sappiamo che gli eventi estremi sono sempre più intensi e destinati ad aumentare. Al tempo stesso, afferma oggi uno studio sulle pagine di Conservation Biology, gli eventi estremi già avvenuti in passato hanno segnato, in peggio, la salute degli anfibi. Non può essere solo un’associazione, quanto osservato e ribadito dai ricercatori della Goethe University di Francoforte, che parlano chiaramente di un aumento situazioni sempre più critiche per la sopravvivenza di diverse specie all’indomani di ondate di siccità o calore eccessive. E’ ragionevole credere che ci sia infatti una relazione di tipo causale, spiegano gli esperti. Perché? Presto detto, con le parole di Evan Twomey dalla Goethe University, primo autore dello studio: “La dipendenza degli anfibi dalle zone umide temporanee per la riproduzione li rende particolarmente vulnerabili alla siccità e agli sbalzi di temperatura che causano la prematura essiccazione delle loro aree di riproduzione”. Twomey e colleghi si sono occupati di indagare meglio proprio le relazioni tra questi eventi estremi e lo stato di conservazione degli anfibi. Se infatti è noto che la crisi climatica mette a rischio la sopravvivenza di questa classe di animali (e non solo), meno è noto che impatto hanno avuto e potrebbero avere gli estremi di temperatura e siccità, che pure sono una declinazione dei cambiamenti climatici, scrivono gli autori.

    I temi

    Valeria Barbi: “Un milione di specie a rischio estinzione e ci stiamo abituando”

    di Pasquale Raicaldo

    02 Giugno 2025

    Per questo gli scienziati hanno passato in rassegna la storia degli eventi climatici estremi degli ultimi 40 anni e l’hanno quindi confrontata con lo stato di conservazione di 7200 specie di anfibi. La domanda era: quando il tempo è impazzito, cosa è successo agli anfibi che vivevano nelle aree interessate da questi estremi? Per le loro analisi, si legge nello studio, i ricercatori hanno considerato come esposte ad eventi estremi le specie che avevano almeno metà delle loro aree battute soggette a caldo, freddo o siccità da record. I risultati hanno mostrato diversi aspetti della questione. Punto primo: le diverse specie di anfibi subiscono un’esposizione diversa a differenti eventi estremi, in virtù della loro distribuzione, in luoghi più o meno interessati da questi fenomeni. Qualche esempio? Le rane sono state più esposte ad ondate di calore, soprattutto perché si concentrano in aree più colpite, come l’Amazzonia e il Madagascar, mentre le salamandre lo sono meno, perché più concentrate in aree meno colpite da questi estremi, come il Centroamerica (dove però pagano di più il peso della siccità, come in Europa e nel sud della Cina). Sempre le rane, ma insieme ai cecilidi (quegli anfibi che assomigliano a dei serpenti) sono gli anfibi più colpiti dagli eventi di siccità. Le rane, di nuovo, sono anche quelle più esposte alle ondate di freddo, specialmente nel Sudamerica.

    Secondo aspetto emerso dallo studio: poco meno del 10% delle specie sono esposte a due o più tipologie di eventi estremi, soprattutto siccità e oscillazioni di temperatura. Infine, uno dei dati più preoccupanti è l’osservazione che all’aumentare dell’esposizione agli eventi estremi per siccità e temperatura è peggiorata la classificazione sul loro stato di conservazione per il periodo tra il 2004 e il 2022, quando verosimilmente hanno cominciato a sentire di più gli effetti dei cambiamenti climatici, spiegano gli autori. E non ci sono solo questi a pesare sul futuro degli anfibi. La conclusione degli esperti è che per combattere almeno questi, possano essere messe in campo strategie come la creazione di piccolo stagni, di zone protette e lo sviluppo di rifugi umidi, non necessariamente acquosi. La speranza è che possano aiutare questa già provata classe di vertebrati ad affrontare il prossimo futuro. LEGGI TUTTO

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    Energia solare anche al buio, la startup che sfida l’oscurità

    Sfruttare la luce del Sole per produrre energia quando è buio, è la soluzione proposta dalla startup di Santa Monica (in California) Reflect Orbital, che utilizza una costellazione di satelliti dotati di specchi riflettenti, capaci di intercettare la luce solare nello spazio e reindirizzarla verso la Terra anche durante la notte. In questo modo, i parchi solari esistenti potrebbero continuare a produrre energia anche dopo il tramonto, prolungando le ore operative e migliorando l’efficienza complessiva degli impianti fotovoltaici.
    Un’idea semplice ma potente
    Orientare grandi specchi installati su satelliti in orbita per riflettere la luce solare su aree specifiche del pianeta. “Stiamo sviluppando una costellazione di satelliti rivoluzionari per vendere la luce del Sole a migliaia di parchi solari dopo il tramonto. Pensiamo che la luce solare sia il nuovo petrolio e che lo spazio sia pronto a supportare le infrastrutture energetiche”, ha dichiarato il fondatore e amministratore delegato di Reflect Orbital Ben Nowack.
    La sua costellazione di riflettori spaziali posizionati a 595 chilometri d’altitudine sarà in grado di reindirizzare la luce solare esattamente quando e dove serve. Il primo modello di satellite fotoriflettente sarà lanciato in orbita nella primavera del 2026.

    Le aziende

    Ricerca e competenza per le rinnovabili

    di Luigi dell’Olio

    06 Giugno 2025

    Specchi orbitali: come funzionano
    “La luce del Sole contiene 24 trilioni di volte più energia di quanta ne consumi oggi l’umanità. È una fonte inesauribile di energia. La nostra azienda cattura l’energia solare e la riporta sulla Terra, utilizzando degli specchi orbitali nello spazio”. L’obiettivo della startup californiana è proprio quello di garantire una fornitura continua di luce ai grandi impianti dei tradizionali pannelli solari, che continuerebbero a generare energia pulita senza necessità di modifiche strutturali.
    La costellazione a regime potrà contare su 57 satelliti in orbita eliosincrona, così che sorvolino lo stesso punto della superficie terrestre sempre alla stessa ora solare locale, effettuando due passaggi ogni giorno. Tale costellazione sarà in grado di fornire 30 minuti in più di sole alle centrali terrestri, secondo quanto previsto dal fondatore Nowack.Ciascun satellite pesa 16 chilogrammi ed integra specchi in mylar (materiale plastico utilizzato nelle coperte spaziali) di dimensione 10 metri per 10 metri che vengono dispiegati quando i satelliti raggiungono l’orbita. Gli specchi concentrano la luce in un fascio luminoso ristretto che può essere orientato secondo le necessità: il suo funzionamento è semplice, basta infatti che l’operatore si colleghi alla piattaforma ed indichi le coordinate GPS dell’area che vuole illuminare. Tra l’altro questo sistema non genererebbe alcun tipo di inquinamento luminoso, a detta dall’azienda.

    Le aziende

    L’energia fotovoltaica nella cava dismessa

    di Jessica Muller Castagliuolo

    06 Giugno 2025

    Quali benefici
    Se implementata con successo, questa tecnologia innovativa potrebbe portare numerosi benefici: continuità energetica: produzione solare estesa alle ore notturne, riducendo la dipendenza da fonti fossili; riduzione dei costi energetici: una fornitura più costante aiuterebbe a stabilizzare i prezzi, a vantaggio di consumatori e industrie; massima resa degli impianti esistenti: sfruttare al massimo i parchi solari già installati, senza espandere la superficie occupata.
    Lo scorso maggio la startup californiana ha chiuso un raccolto un finanziamento da 20 milioni di dollari con l’obiettivo di accelerare lo sviluppo della sua costellazione satellitare. L’aumento di capitale sarà utilizzato per sostenere la crescita del team, l’espansione delle operazioni e le prime missioni spaziali dell’azienda. Ad oggi sono già 260 mila le richieste da parte di clienti in 157 Paesi per ricevere luce solare riflessa dai satelliti. L’obiettivo è di fornire illuminazione on-demand per operazioni remote, difesa, infrastrutture civili e produzione di energia. LEGGI TUTTO