Ci sono miniere dove non è necessario scavare, giacimenti di competenze, ricerca e innovazione, da cui estrarre ciò che non si ha in natura. Una di queste miniere è nascosta in un vecchio capannone industriale lungo l’Autostrada del Sole, a poche centinaia di metri dall’uscita di Frosinone. In un angolo, dell’immenso spazio ora destinato a deposito, un impianto pilota lungo poche decine di metri e fatto di forni, mulini, miscelatori, filtri, presse tubi: a una estremità entrano magneti dismessi, per esempio quelli di hard disk rottamati, dall’altra escono terre rare. Siamo alla Itelyum Regeneration di Ceccano. Lo stabilimento è in realtà una raffineria specializzata nel recupero di oli esausti. Una attività che, pur rientrando a pieno titolo nell’economia circolare, è apparentemente assai distante dal recupero di materie prime critiche contenute in molti dei dispositivi elettronici che utilizziamo e gettiamo.
“Non è così strano”, spiega Francesco Gallo, coordinatore della ricerca e sviluppo di Itelyum. “Per il recupero delle terre rare serve la chimica industriale e noi abbiamo un grande competenza in quel campo”. Il progetto è finanziato da Eit RawMaterial, il più grande consorzio nel settore delle materie prime a livello mondiale e consulente tecnico della Commissione europea per le materie prime critiche. E tra i partner c’è Erion, sistema multi-consortile no profit per la gestione di differenti tipologie di rifiuti e la valorizzazione delle materie prime seconde. L’obiettivo era proprio la costruzione di un impianto pilota capace di ottenere ossidi di terre rare a partire da magneti permanenti. Ma dove trovarle queste tanto ambite terre rare? Tre (neodimio, praseodimio e disprosio) sono usate per fare in modo che i magneti permanenti (presenti negli hard disk come nei motori delle auto elettriche, nelle Tac come nelle pale eoliche o nei condizionatori) accumulino la maggior energia possibile a parità di volume. “Una volta si usavano le classiche calamite fatte di ferite, oggi i magneti sono basati su miscele di neodimio-ferro-boro”, spiega Gallo. Il neodimio usato per i magneti dei nostri dispostivi è estratto in Cina. “E spesso ci ritorna”, sottolinea l’ingegnere chimico della Itelyum. “I dispositivi che lo contengono andrebbero raccolti per recuperarlo. Invece spesso finiscono tra i rifiuti ferrosi e mandati in Cina, dove sanno bene come estrarre il neodimio”. Ora però abbiamo imparato a farlo anche noi. Merito di Francesco Vegliò, professore di Ingegneria chimica all’Università dell’Aquila, che ha sviluppato diversi processi di tipo “idrometallurgico”: si scioglie il materiale e se ne esegue l’estrazione usando composti chimici.
“L’apparato del professor Veglio’ stava sul tavolo di un laboratorio universitario, qui abbiamo realizzato un vero prototipo industriale e abbiamo il know how per salire ancore di scala e farne un impianto con quattro linee produttive”, conferma Jacopo Jirillo, direttore dello stabilimento di Ceccano. Ma come si estrae il neodimio dai magneti permanenti? La ricetta è semplice: servono un forno, un frullatore, un setaccio, tanto succo di limone e un altro paio di composti chimici. L’ingegner Gallo arriccia il naso di fronte alla semplificazione del cronista e precisa: “I magneti permanenti, anche se a fine vita, sono difficilissimi da maneggiare, perché si attaccano a tutti gli oggetti ferrosi. Quindi la prima tappa è distruggere il loro campo magnetico interno: lo si fa riscaldandoli per un certo periodo di tempo oltre i 400 gradi. Poi si frammenta e polverizza il materiale all’interno di un contenitore che ruota con dentro biglie di acciaio. Quindi è la volta dell’attacco acido: il professor Vegliò ha proposto di usare l’acido citrico, succo di limone appunto. Una soluzione biologica. E nella reazione si libera idrogeno che noi catturiamo per poi riutilizzarlo, magari per produrre energia. Poi c’è l estrazione vera e propria ottenuta con dei solventi. Infine il liquido ottenuto viene fatto passare in delle filtropresse, come quelle dei frantoi. Poi si aggiungono ossalati o carbonati e si ottiene una sabbia che va essiccata in un forno”. Il 30% di quella sabbia è neodimio puro, pronto per essere usato, magari per produrre nuovi magneti.
A sentirlo raccontare e a vederlo in azione, il processo, per quanto ingegnoso, non pare di difficile implementazione. Il vero ostacolo sembra essere il creare una filiera capace di alimentare gli impianti industriali una volta che saranno varati. “Per sfamare le quattro linee che sono sul progetto ci vorrebbero milioni di hard disk”, dicono gli esperti di Itelyum. Non che di rifiuti elettronici ci sia penuria, il problema è raccoglierli e farli arrivare a infrastrutture specializzate nel recupero delle varie componenti. “In Italia si raccolgono 180mila tonnellate l’anno di Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee, ndr)”, spiega Luca Campedello di Erion. “Per questo progetto si è chiesta l’autorizzazione a ricevere 32mila tonnellate l’anno di Rae, da cui estrarre 2000 tonnellate di magneti permanenti da trattare, per ottenere 600-700 tonnellate l’anno di terre rare. La vera sfida è modificare la filiera e il primo passo è cambiare i consumatori: se tutti svuotassero i cassetti i Raee sarebbero il triplo di oggi”. Tutto perché le terre rare saranno al centro di una lotta per l’accaparramento nei prossimi anni. E la Ue non vuole farsi trovare impreparata. “Questo impianto è stato scelto tra i 47 strategici in Europa per le materie primi critiche. In Italia ce ne sono solo 4”, continua Campedello. Ma il riciclo e il recupero, considerati anche i costi industriali della nuova filiera da attivare, sono competitivi? E basteranno a renderci autonomi dalle importazioni di materie prime critiche? “I costi sono decisamente competitivi”, risponde Gallo. “Immaginiamo di dover creare da zero una miniera… Nel nostro caso, poi, il vantaggio è amplificato dal fatto che le miniere non le abbiamo proprio. E da qui nasce l’impellenza della Ue. Per quanto riguarda la copertura del fabbisogno: anche nella migliore delle ipotesi, con tanti impianti come quello a cui stiamo lavorando noi in funzione, potremmo coprire circa il 25% delle necessità europee di terre rare. Il restante 75 dovremo estrarlo da miniere, quelle vere”. LEGGI TUTTO