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    Legambiente lancia l’agrivoltaico: “Fa bene all’ambiente e all’agricoltura”

    Legambiente è certa: la svolta energetica per l’agricoltura arriverà puntando sul potenziale dell’agrivoltaico, quel sistema integrato per produrre energia solare. Almeno guardando i numeri, tra progetti approvati, fondi stanziati e benefici ambientali ed economici, messi in fila da Legambiente in occasione del primo Forum Nazionale sull’Agrivoltaico organizzato a Roma. Su 304 pareri di VIA rilasciati nel 2024 dalla Commissione Pnrr-Pniec del ministero dell’ambiente e della Sicurezza Energetica, 153 erano relativi a progetti di agrivoltaico (50,3% del totale), 76 riguardavano parchi fotovoltaici a terra e 46 impianti eolici. Per il 78% dei progetti di agrivoltaico presentati il parere della Commissione è stato positivo, mentre il 22% dei progetti ha ricevuto lo stop del Ministero.

    L’impatto sulla produzione
    “Si tratta, quindi, della tecnologia impiantistica più presente tra i pareri rilasciati dalla Commissione del Mase lo scorso anno”, tengono a precisare gli esponenti di Legambiente. Un dato che, secondo l’associazione ambientalista, segna un passo decisivo per accelerare la diffusione del fotovoltaico nei terreni agricoli italiani convinti che questa tecnologia “permette di produrre energia pulita sfruttando le superfici coltivate, migliorare le rese agricole grazie all’effetto ombreggiante, ridurre il fabbisogno idrico, promuovere un modello di agricoltura a zero emissioni in grado di contrastare gli impatti della crisi climatica e offrire nuove opportunità di integrazione del reddito per le aziende agricole”.

    Agricoltura sostenibile

    Legambiente sfida la normativa e presenta pannelli solari in mezzo a campi coltivati

    08 Agosto 2024

    La svolta energetica per arginare la crisi climatica
    Sempre secondo Legambiente, che ribadisce la necessità di realizzare una svolta per arginare la crisi climatica e accelerare la transizione energetica, l’unica strada è il fotovoltaico. “Studi sperimentali, si legge in un documento presentato al Forum nazionale – confermano che la produttività della vite coltivata sotto impianti agrivoltaici è aumentata del 15-30%, quella dell’insalata del 10%, mentre per il pomodoro si è osservata una riduzione dei consumi idrici fino al 65%. Le colture foraggere hanno registrato incrementi di resa fino al 40%”. LEGGI TUTTO

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    Ora Musk vuole privatizzare un “habitat da proteggere”, protestano gli ambientalisti

    Nella piccola spiaggia di Boca Chica, in Texas, gli uccelli migratori fanno sosta prima di ripartire mentre dietro di loro, lungo le dune, cartelli segnalano come l’intera area sia un “habitat da proteggere”. Ma Boca Chica non è una spiaggia come le altre: è un angolo di mondo conteso da chi lo vorrebbe tutto per sé, mentre si allena a portare l’umanità su Marte, e chi invece chiede che rimanga pubblico e protetto. Boca Chica è la spiaggia che vuole Elon Musk. Al confine tra Texas e Messico questa spiaggia è accanto alla base della struttura di SpaceX, di proprietà del multimiliardario americano, a poca distanza da Brownsville dove sorge una statua con il busto di Musk che proprio qualche giorno fa è stata nuovamente sfregiata e vandalizzata. Attorno alla spiaggia ci sono invece edifici e uffici dove SpaceX prepara il lancio di Starship per portare le persone su Marte, rampe di lancio per i test aerospaziali e una grande infrastruttura di proprietà privata che garantisce lavoro a centinaia di dipendenti che vivono nell’area.

    Se questa zona è tutta di proprietà di Musk, la spiaggia di Boca Chica – come sancito dalla Costituzione e dalle leggi del Texas – non lo è: si tratta infatti di un bene pubblico aperto a tutti e amministrato dalla contea. Quando però avvengono le prove, i test e i lanci da parte di SpaceX, per un comune accordo la spiaggia per motivi di sicurezza e di privacy viene chiusa: nessuno può accedervi e finora questa chiusura, concordata con l’azienda, veniva attuata direttamente dalle amministrazioni locali. Solo che ora, in vista di sempre più lanci e missioni spaziali per accelerare l’obiettivo Marte, Musk ha dichiarato di voler essere lui ad amministrare e gestire la spiaggia, come se fosse il proprietario anche di questo rifugio naturale di molte specie. Ben presto i lanci potrebbero infatti aumentare anche di cinque volte, raccontano i media texani, e per questo Musk – senza dover passare per autorizzazioni e ok della contea – vorrebbe poter chiudere la spiaggia a suo piacimento quando avvengono le partenze dei razzi. Al suo fianco, pronti ad assecondare la sua richiesta, ci sono già alcuni politici repubblicani, ma dall’altra parte i responsabili delle comunità locali insieme ad ambientalisti ed ecologisti si oppongono, chiedendo che la spiaggia rimanga pubblica e che si aumenti la protezione per le specie di fauna e flora che la popolano. A breve, raccontano media locali come Kut News, l’area dove sorge la base di SpaceX potrebbe diventare una vera e propria città indipendente. Qui, nella contea di Cameron, sono presenti infatti strutture tutte collegate alle attività di Musk e dei dipendenti: una scuola, un bar, un ambulatorio e altri spazi comuni. Il 3 maggio le 500 persone che vivono nella zona o nelle vicinanze voteranno per rendere Starbase una città indipendente e questo potrebbe agevolare la richiesta di Musk di diventare, di fatto, gestore della spiaggia di Boca Chica, un litorale finora frequentato anche da altre persone, un luogo selvaggio dove si pesca, si passa tempo in spiaggia o si campeggia e, come detto, anche una importante area naturale.

    Questa spiaggia è infatti ritenuta un prezioso ecosistema per gli uccelli migratori e per specie autoctone che, in alcuni casi, sono stati minacciato proprio dalla presenza di SpaceX tanto che qualche mese fa il governo federale ha multato l’azienda per circa 150.000 dollari per presunte violazioni ambientali. Vicino alla spiaggia attualmente è in costruzione anche una seconda rampa di lancio che potrebbe ulteriormente impattare sulla salute dell’area. L’idea di Musk è ottenere la gestione della spiaggia sfruttando un disegno di legge già approvato da repubblicani di Donald Trump (ma non ancora passato per la Camera del Texas) che darebbe il potere alla futura amministrazione di Starbase di chiudere la spiaggia prima di ogni lancio o test, praticamente in ogni momento durante la settimana ma non nei weekend (quando resterebbe gestita dalla contea). Ma se alcune persone del luogo sostengono l’iniziativa – anche visti gli investimenti economici e i posti di lavoro creati dall’azienda di Musk – altri invece temono che questa sorta di privatizzazione possa impattare ulteriormente sul futuro di Boca Chica. Per esempio il gruppo ambientalista Save Rgv si batte per la protezione, anche se dopo anni di lotta ha il timore che alla fine Musk sarà in grado di “modificare la Costituzione” e ottenere quel che vuole. Il problema però resta e non è solo una questione di aperture o chiusure della spiaggia, ma anche di detriti legati ai lanci che impattano su oceano ed ecosistemi. Lo raccontano per esempio alcuni biologi nel documentario “Shifting Baselines” girato proprio a Boca Chica e che narra la vita intorno alla base di SpaceX dove i ricercatori, mentre turisti e curiosi cercano pezzi di razzi sulla spiaggia, spiegano come le attività per andare su Marte possano portare tra rifiuti e inquinamento acustico gravi danni ecologici, tra cui la scomparsa di numerose specie rare di uccelli e di altri animali. LEGGI TUTTO

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    Clima, smog, eventi estremi: i tanti alleati delle allergie da polline

    Per dieci milioni di italiani è davvero una “maledetta primavera”. Sono adulti e bambini che secondo la società italiana di allergologia e immunologia clinica (Siaaic) soffrono di allergie da polline, manifestando appena calano le temperature i classici sintomi: rinite, tosse, starnuti e perfino asma. Fin qui niente di nuovo. A catturare nuovamente l’attenzione dei ricercatori è l’intreccio tra questa patologia respiratoria e il cambiamento climatico con tutte le sue implicazioni. LEGGI TUTTO

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    Nautica da diporto: incentivi e agevolazioni per passare al motore elettrico

    Incentivi e agevolazioni per passare dai carburanti fossili all’elettrico non solo per la mobilità su terra, ma anche anche per la nautica. Per i proprietari di imbarcazioni da diporto che decidono di rottamare i motori alimentati a benzina o diesel e passare all’elettrico è infatti a disposizione un bonus fino al 50% del costo di acquisto del nuovo motore, sotto forma di contributo a fondo perduto. L’incentivo è gestito da Invitalia e promosso dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy. A disposizione un fondo di tre milioni di euro. Le domande debbono essere presentate entro il prossimo 8 maggio sul sito di Invitalia.

    Proprietari e imbarcazioni
    L’obiettivo del nuovo bonus è favorire la transizione ecologica nel settore della nautica da diporto tramite la sostituzione di motori endotermici alimentati da carburanti fossili con motori ad alimentazione elettrica. Le agevolazioni sono rivolte sia alle persone fisiche che alle imprese proprietarie di unità da diporto utilizzate per:
    navigazione da diporto effettuata in acque marittime ed interne a scopi sportivi o ricreativi e senza fine di lucro;
    fini commerciali; nautica sociale. Ai fini dell’accesso alle agevolazioni le persone fisiche devono essere residenti o stabiliti nel territorio dello Stato. Le imprese, invece, alla data di presentazione della domanda devono risultare attive, regolarmente costituite e iscritte al Registro delle imprese.

    Ambiente

    Il trasporto via nave responsabile del 3% delle emissioni globali di CO2

    a cura della redazione di Green&Blue

    01 Aprile 2025

    L’importo del bonus
    Il bonus consiste in un contributo a fondo perduto fino al 50% delle spese ammissibili per l’acquisto di motori elettrici di potenza non inferiore a 0,5 Kw e fino a 12 Kw. Il motore deve essere conforme allo standard UNI EN 16315; le batterie al litio debbono rispettare lo standard ISO/TS 23625:2021; le altre batterie le disposizioni del regolamento (UE) 2023/1542 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2023. Il contributo è riconosciuto su una spesa massima di: 2.000 euro per motori elettrici fuoribordo (FB) dotati di batteria integrata; 10.000 euro per i motori elettrici fuoribordo (FB) con batteria esterna e per i motori elettrici entrobordo (EB), entrofuoribordo (EFB) o POD di propulsione, dotati di batteria esterna.

    Fisco verde

    In arrivo il Conto termico 3.0: le novità sull’incentivo per riscaldamento e climatizzatori

    di Antonella Donati

    26 Febbraio 2025

    È possibile presentare una sola domanda di agevolazione, ma questa può essere relativa anche all’acquisto di più motori. In particolare nel caso in cui il richiedente sia una persona fisica la domanda di agevolazione può riguardare un massimo di due motori e può essere concesso un contributo massimo di 8.000 euro. Nel caso delle imprese, invece, la domanda di agevolazione può riguardare l’acquisto di più motori fino a un importo massimo di contributo di 50.000 euro.Per ottenere l’agevolazione le spese di acquisto di motore e batterie devono essere sostenute successivamente alla data di pubblicazione del provvedimento di concessione.

    Biodiversità

    Quali rischi dalle “miniere” nell’oceano profondo? Per la scienza “impatti anche dopo decadi”

    di Giacomo Talignani

    28 Marzo 2025

    Le domande
    Per accedere all’agevolazione occorre presentare una domanda on line sul sito di Invitalia. Nella domanda occorre riportante l’indicazione della matricola del motore endotermico da rottamare e un preventivo di spesa attestante il costo della sostituzione del motore endotermico alimentato da carburanti fossili con un motore ad alimentazione elettrica conforme ai requisiti indicati, nonché il costo dell’acquisto dell’eventuale pacco batterie.
    Le domande debbono essere presentate sul sito di Ivitalia all’interno della propria riservata: necessario essere in possesso di un’identità digitale (SPID, CNS, CIE), disporre di una firma digitale e di un indirizzo di posta elettronica certificata (PEC). Il bonus è riconosciuto sulla base dell’ordine cronologico di presentazione delle istanze fino all’importo disponibile. LEGGI TUTTO

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    Viaggio nell’impianto che estrae terre rare dai dispositivi elettronici che buttiamo

    Ci sono miniere dove non è necessario scavare, giacimenti di competenze, ricerca e innovazione, da cui estrarre ciò che non si ha in natura. Una di queste miniere è nascosta in un vecchio capannone industriale lungo l’Autostrada del Sole, a poche centinaia di metri dall’uscita di Frosinone. In un angolo, dell’immenso spazio ora destinato a deposito, un impianto pilota lungo poche decine di metri e fatto di forni, mulini, miscelatori, filtri, presse tubi: a una estremità entrano magneti dismessi, per esempio quelli di hard disk rottamati, dall’altra escono terre rare. Siamo alla Itelyum Regeneration di Ceccano. Lo stabilimento è in realtà una raffineria specializzata nel recupero di oli esausti. Una attività che, pur rientrando a pieno titolo nell’economia circolare, è apparentemente assai distante dal recupero di materie prime critiche contenute in molti dei dispositivi elettronici che utilizziamo e gettiamo.

    “Non è così strano”, spiega Francesco Gallo, coordinatore della ricerca e sviluppo di Itelyum. “Per il recupero delle terre rare serve la chimica industriale e noi abbiamo un grande competenza in quel campo”. Il progetto è finanziato da Eit RawMaterial, il più grande consorzio nel settore delle materie prime a livello mondiale e consulente tecnico della Commissione europea per le materie prime critiche. E tra i partner c’è Erion, sistema multi-consortile no profit per la gestione di differenti tipologie di rifiuti e la valorizzazione delle materie prime seconde. L’obiettivo era proprio la costruzione di un impianto pilota capace di ottenere ossidi di terre rare a partire da magneti permanenti. Ma dove trovarle queste tanto ambite terre rare? Tre (neodimio, praseodimio e disprosio) sono usate per fare in modo che i magneti permanenti (presenti negli hard disk come nei motori delle auto elettriche, nelle Tac come nelle pale eoliche o nei condizionatori) accumulino la maggior energia possibile a parità di volume. “Una volta si usavano le classiche calamite fatte di ferite, oggi i magneti sono basati su miscele di neodimio-ferro-boro”, spiega Gallo. Il neodimio usato per i magneti dei nostri dispostivi è estratto in Cina. “E spesso ci ritorna”, sottolinea l’ingegnere chimico della Itelyum. “I dispositivi che lo contengono andrebbero raccolti per recuperarlo. Invece spesso finiscono tra i rifiuti ferrosi e mandati in Cina, dove sanno bene come estrarre il neodimio”. Ora però abbiamo imparato a farlo anche noi. Merito di Francesco Vegliò, professore di Ingegneria chimica all’Università dell’Aquila, che ha sviluppato diversi processi di tipo “idrometallurgico”: si scioglie il materiale e se ne esegue l’estrazione usando composti chimici.

    “L’apparato del professor Veglio’ stava sul tavolo di un laboratorio universitario, qui abbiamo realizzato un vero prototipo industriale e abbiamo il know how per salire ancore di scala e farne un impianto con quattro linee produttive”, conferma Jacopo Jirillo, direttore dello stabilimento di Ceccano. Ma come si estrae il neodimio dai magneti permanenti? La ricetta è semplice: servono un forno, un frullatore, un setaccio, tanto succo di limone e un altro paio di composti chimici. L’ingegner Gallo arriccia il naso di fronte alla semplificazione del cronista e precisa: “I magneti permanenti, anche se a fine vita, sono difficilissimi da maneggiare, perché si attaccano a tutti gli oggetti ferrosi. Quindi la prima tappa è distruggere il loro campo magnetico interno: lo si fa riscaldandoli per un certo periodo di tempo oltre i 400 gradi. Poi si frammenta e polverizza il materiale all’interno di un contenitore che ruota con dentro biglie di acciaio. Quindi è la volta dell’attacco acido: il professor Vegliò ha proposto di usare l’acido citrico, succo di limone appunto. Una soluzione biologica. E nella reazione si libera idrogeno che noi catturiamo per poi riutilizzarlo, magari per produrre energia. Poi c’è l estrazione vera e propria ottenuta con dei solventi. Infine il liquido ottenuto viene fatto passare in delle filtropresse, come quelle dei frantoi. Poi si aggiungono ossalati o carbonati e si ottiene una sabbia che va essiccata in un forno”. Il 30% di quella sabbia è neodimio puro, pronto per essere usato, magari per produrre nuovi magneti.

    A sentirlo raccontare e a vederlo in azione, il processo, per quanto ingegnoso, non pare di difficile implementazione. Il vero ostacolo sembra essere il creare una filiera capace di alimentare gli impianti industriali una volta che saranno varati. “Per sfamare le quattro linee che sono sul progetto ci vorrebbero milioni di hard disk”, dicono gli esperti di Itelyum. Non che di rifiuti elettronici ci sia penuria, il problema è raccoglierli e farli arrivare a infrastrutture specializzate nel recupero delle varie componenti. “In Italia si raccolgono 180mila tonnellate l’anno di Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee, ndr)”, spiega Luca Campedello di Erion. “Per questo progetto si è chiesta l’autorizzazione a ricevere 32mila tonnellate l’anno di Rae, da cui estrarre 2000 tonnellate di magneti permanenti da trattare, per ottenere 600-700 tonnellate l’anno di terre rare. La vera sfida è modificare la filiera e il primo passo è cambiare i consumatori: se tutti svuotassero i cassetti i Raee sarebbero il triplo di oggi”. Tutto perché le terre rare saranno al centro di una lotta per l’accaparramento nei prossimi anni. E la Ue non vuole farsi trovare impreparata. “Questo impianto è stato scelto tra i 47 strategici in Europa per le materie primi critiche. In Italia ce ne sono solo 4”, continua Campedello. Ma il riciclo e il recupero, considerati anche i costi industriali della nuova filiera da attivare, sono competitivi? E basteranno a renderci autonomi dalle importazioni di materie prime critiche? “I costi sono decisamente competitivi”, risponde Gallo. “Immaginiamo di dover creare da zero una miniera… Nel nostro caso, poi, il vantaggio è amplificato dal fatto che le miniere non le abbiamo proprio. E da qui nasce l’impellenza della Ue. Per quanto riguarda la copertura del fabbisogno: anche nella migliore delle ipotesi, con tanti impianti come quello a cui stiamo lavorando noi in funzione, potremmo coprire circa il 25% delle necessità europee di terre rare. Il restante 75 dovremo estrarlo da miniere, quelle vere”. LEGGI TUTTO

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    Dazi, il vero nemico di Trump è il Green Deal europeo

    Il braccio di ferro sui dazi tra Stati Uniti ed Europa rischia di indebolire ulteriormente le politiche climatiche della Ue? E’ lecito chiederselo alla vigilia dell’incontro tra la premier italiana Giorgia Meloni e l’inquilino della Casa Bianca Donald Trump. E’ stato proprio il presidente Usa a mettere sul tavolo la questione la settimana scorsa: “Abbiamo un deficit di 350 miliardi di dollari con l’Unione europea e scomparirà rapidamente”, ha detto Trump ai giornalisti. “Uno dei modi in cui questo deficit può scomparire facilmente e rapidamente è che dovranno acquistare la energia da noi… possono comprarla, e noi possiamo tagliare 350 miliardi di dollari in una settimana. Devono acquistare e impegnarsi ad acquistare una quantità di energia equivalente”. Su questa premessa si sono cimentati gli analisti di Ecco, il think tank italiano per il clima, cercando di capire quali impatti potrebbe avere per l’Europa lo shopping di prodotti fossili made in Usa.

    “Già oggi il 50% del gas naturale liquefatto europeo proviene dagli Stati Uniti: l’Europa autonomamente si è rivolta agli Usa per la sostituzione del gas russo”, ricordano Giulia Signorelli e Matteo Leonardi. E allora: “Perché questa imposizione da parte dell’Amministrazione americana?”, si chiedono. “Non bastava lasciare che il mercato, già propenso agli acquisti di gnl oltreoceano, definisse nell’interesse delle parti quantità e prezzi?”. La ragione potrebbe essere strategica: fermare una volta per tutte il Green Deal europeo e la transizione energetica del Vecchio Continente, percepiti come un pericolo da certi settori dell’economia americana. “Più del 50% dell’export commerciale americano in Europa consiste in prodotti fossili, di combustibili o tecnologie di uso finale: petrolio greggio, prodotti petroliferi, motori, aviazione e gas. Settori fortemente esposti alla transizione climatica sostenuta dagli accordi globali siglati a Parigi e da cui l’amministrazione repubblicana si vuole chiamare fuori”, fanno notare Signorelli e Leonardi. Dunque “il Green Deal rappresenta una seria minaccia alle realtà americane che più esportano in Europa e che hanno sostenuto la campagna elettorale di Trump. Attraverso il Green Deal, l’Europa, grazie alla disponibilità di nuove tecnologie pulite e in particolare delle rinnovabili, sta costruendo la propria indipendenza, sicurezza energetica e competitività attraverso la progressiva sostituzione della dipendenza dalle fonti fossili”.

    Stati Uniti

    Trump rilancia l’estrazione del carbone, necessità o propaganda?

    di Luca Fraioli

    09 Aprile 2025

    Lo dicono chiaramente i numeri: se nel 2019 l’Unione Europea copriva circa il 60% del proprio fabbisogno energetico attraverso le importazioni, negli ultimi anni si è registrata una progressiva riduzione della dipendenza, scesa al 58% nel 2024, grazie alla crescita delle energie rinnovabili. L’obiettivo di Trump, ipotizzano quindi gli studiosi di Ecco, non sarebbe solo quello di “vendere il gas per ridurre lo sbilancio commerciale” ma imporre di acquistarlo nel lungo periodo impedendo così all’Europa di costruire la propria indipendenza energetica e competitività, anche rivolgendosi a nuovi fornitori sui mercati globali. Lo stesso vale per le tecnologie finali di uso delle fossili, come, ad esempio, per il settore auto… Gli obiettivi di decarbonizzazione del settore, infatti, escludono progressivamente le auto tradizionali e spostano il mercato europeo dell’auto elettrica da un prodotto di lusso, in cui Tesla è leader, a un prodotto di massa in cui gli Usa sono più deboli sia rispetto alla Cina sia all’industria europea sostenuta dalle politiche dell’Unione”. Ma ha senso importare ancora più gas, impegnandosi con contratti a lungo termine come auspica la Casa Bianca? Il rischio è duplice: legarsi a un fornitore (gli Usa) che non sta esitando ad usare la guerra commerciale come strumento di confronto geopolitico e continuare a investire in infrastrutture fossili (i rigassificatori, per esempio) i cui costi andranno ammortizzati in decenni di utilizzo, scoraggiando così un rapido passaggio a forme pulite di energia. Senza contare che la domanda di gas in Europa e in Italia si è ridotta del 18% negli ultimi 3 anni, passando da un totale annuo di circa 76 miliardi di metri cubi nel 2021 a meno di 62 nel 2024. In questo contesto Meloni vedrà Trump. “Sarà importante osservare quanto l’Italia vorrà difendere gli interessi del Green Deal quale metro dell’autonomia europea e delle politiche climatiche”, osservano da Ecco. LEGGI TUTTO

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    Nel 2024 record di caldo, alluvioni e notti tropicali: la crisi del clima fa male all’Europa

    A leggere i rapporti delle istituzioni scientifiche sul clima si rischia il déjà vu, l’assuefazione e infine l’indifferenza. Ma i periodici allarmi lanciati da chi studia il riscaldamento globale e i suoi effetti sono fondamentali per controbattere a chi, tra i decisori politici, sottovaluta o ignora il problema. A quei leader che fanno risalire le […] LEGGI TUTTO

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    Le bombe di semi rigenerano i prati ma sono un rischio per le piante autoctone

    Zero fatica e lunghe fioriture. Le bombe di semi hanno quell’effetto istantaneo che azzera i gradi di separazione tra un presunto pollice verde e uno nero. Senza ricorrere a sofisticate tecniche di coltivazione, in poche settimane, un prato degradato in città o un’aiuola in giardino diventano un tappeto vegetale colorato. Questi mix nascono come prodotti […] LEGGI TUTTO