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    Gli alberi e la loro salvezza: il nostro futuro passa da qui

    Le foreste prima di tutto. Passa di qui, senza dubbio, il futuro del Pianeta. Coprono, del resto, un terzo delle terre emerse della Terra. Circa 1,6 miliardi di persone – tra cui oltre duemila culture indigene – ne dipendono direttamente o indirettamente. Custodi di biodiversità, ospitano, attraverso i loro ecosistemi, oltre l’80% delle specie terrestri di animali, piante e insetti. E sarebbero, più di tutto, cruciali nella lotta al cambiamento climatico: potenziali barriere naturali contro eventi climatici estremi, in primis tempeste e inondazioni; fondamentali per l’approvvigionamento idrico, ancor più critico con fenomeni siccitosi in crescita; essenziali, soprattutto, nel sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera.

    Finanza climatica

    Cop30, il piano di Lula per salvare le foreste del mondo

    di Giacomo Talignani

    07 Novembre 2025

    Secondo l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, basterebbe gestirle correttamente per registrare un contributo decisivo alle azioni di mitigazione della crisi climatica, con azioni che riducano o rallentino l’aumento della concentrazione di gas serra in atmosfera. Proprio così: da qui al 2030, le foreste potrebbero infatti arrivare ad assorbire tra 4,1 e 6,5 miliardi di tonnellate di gas serra, ossia tra il 7% e il 10% delle emissioni attuali, svolgendo un ruolo determinante per il raggiungimento degli obiettivi degli Accordi di Parigi del 2015.
    Persi 12 ettari ogni anno

    Ma le foreste non se la passano bene: mediamente, negli ultimi 50 anni, ne abbiamo perso 12 milioni di ettari l’anno. E anche se l’ultimo “Global Forest Resources Assessment”, il report quinquennale della Fao, mostra un rallentamento della deforestazione nell’ultimo decennio (dai 17,6 milioni del periodo 1990-2000 ai 10,9 milioni di ettari all’anno nel periodo 2015-2025), il tasso – che si attesta oggi sui 10,9 milioni di ettari all’anno di foreste perdute – resta ancora troppo elevato. Suggerisce cauto ottimismo, semmai, la percentuale (55%) delle foreste oggi soggette a piani di gestione (+365 milioni di ettari dal 1990). Insomma, un processo virtuoso è in atto e sta andando avanti a livello globale.

    Ma basterà? L’urgenza del tema non può che tradursi in un’attenzione massima all’interno di Cop30, con i riflettori del mondo puntati in particolare sull’Amazzonia: qui risiede il 10% della biodiversità del Pianeta. Un suo “collasso” – rischio concreto alimentato da deforestazione, allevamento intensivo, incendi (oltre 50 mila nel 2024) e agricoltura su larga scala – accelererebbe la crisi climatica in atto su scala globale.

    Gestione delle risorse

    Legambiente, foreste a rischio: bruciati 94 mila ettari. Il doppio rispetto al 2024

    di Fiammetta Cupellaro

    29 Ottobre 2025

    Un miliardo di dollari di investimento
    Anche per questo la Cop30 ha un valore, concreto e simbolico, importantissimo, ancor di più dopo l’annuncio del presidente brasiliano Lula alle Nazioni Unite di un investimento di un miliardo di dollari nel “Fondo foreste tropicali per sempre”, strumento finanziario destinato a sostenere i Paesi che proteggono le loro foreste. “Il Pianeta non può più aspettare: proteggere le foreste è un imperativo morale ed economico”, ha detto Lula, invitando le altre nazioni a fare altrettanto. Ma il Brasile è davvero determinato a invertire il trend della deforestazione?

    Con la presidenza Bolsonaro, la lobby dell’agribusiness, rappresentata dal Frente Parlamentar da Agropecuária, aveva spinto affinché l’intero settore rurale, responsabile di parte consistente della deforestazione, potesse sottrarsi alla procedura di autorizzazione ambientale. Con Lula in molti hanno auspicato un cambio di paradigma, complice la nomina a ministra dell’ambiente di Marina Silva, originaria di un villaggio dell’entroterra amazzonico, icona dell’ambientalismo indigeno.
    Le contraddizioni del Brasile
    E con favore, dal mondo ambientalista, era stato accolto il piano “Amazon Security and Sovereignty Plan”, annunciato nel 2023: tra i pilastri, lo stop alla deforestazione illegale entro il 2030, anche grazie all’introduzione di certificazioni dei prodotti forestali, in particolare richieste dai Paesi esteri, e il recupero delle foreste degradate. Ma la partita è ancora in larga parte da giocare, e non mancano le contraddizioni: il Brasile ha riaffermato l’impegno di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, ma ha poi annunciato la sua entrata nell’OPEC+, il collettivo di Paesi estrattori ed esportatori di petrolio. Al punto che giornalisti come Jonathan Watts del Guardian hanno sottolineato una presunta, crescente vicinanza di Lula “al mondo degli affari e all’estrattivismo capitalista”. Ecco perché la Cop30 ha un significato profondo per le foreste del Sudamerica, e non solo.

    A causa degli incendi cala la capacità di assorbire CO2
    “La verità è che i sistemi forestali sono lontani da una efficace inversione del trend – denuncia Andrea Barbabella, responsabile scientifico di Italy For Climate – A causa della continua deforestazione e degli incendi, a loro volta alimentati dall’aumento delle temperature globali, oggi le foreste invece di assorbire CO2 dall’atmosfera, la stanno aumentando. Sono diventate degli emettitori netti: solo nel 2023 gli incendi hanno emesso circa 6,7 miliardi di tonnellate di CO2, il doppio di tutte le emissioni di gas serra dell’intera Unione Europea. E nello stesso tempo sono stati raccolti circa 4 miliardi di metri cubi di legname, la metà per usi energetici. E anche se i tassi di deforestazione negli ultimi anni si stanno riducendo, la strada per liberare il potenziale di mitigazione della crisi climatica delle foreste è ancora lunga”. Basta, in effetti, studiare le ultime stime del report del Global Carbon Budget: l’anidride carbonica emessa dalla deforestazione è due volte quella assorbita dai sistemi forestali in crescita. Ancora: il bilancio complessivo è di una emissione netta in atmosfera di circa 2 miliardi di tonnellate di CO2 ogni anno, pari al 3-4% delle emissioni mondiali di gas serra. Insomma, qualcosa non va.

    Volontà politica e fondi
    “Se gli impegni presentati dai firmatari dell’Accordo di Parigi venissero rispettati, in attesa di comprendere cosa accadrà a Belém, entro il 2030 potremo invertire la situazione e far sì che i suoli e le foreste di tutto il mondo siano assorbitori netti di gas serra per un miliardo di tonnellate all’anno”, spiega ancora Barbabella. Servono volontà politica e ingenti investimenti. Lo chiarisce lo stesso rapporto dell’Unep, che quantifica in 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 e quasi 500 nel 2050 gli investimenti necessari per salute e tutela delle foreste: andrebbero triplicati quelli attuali, stimati nel 2023 in 84 miliardi. Impensabile? Non proprio. Italy for Climate sottolinea come oggi i sussidi ambientali potenzialmente dannosi all’agricoltura, responsabili della perdita di 2,2 milioni di ettari di foreste ogni anno, superino i 400 miliardi di dollari. E gli scenari geopolitici, complici i dazi Usa, hanno rafforzato l’asse tra Sudamerica e Cina, in particolare nella produzione di soia: dietro l’angolo, il rischio di una nuova intensificazione della deforestazione.

    Riflettori accesi, dunque, sulla Cop: all’esame l’articolo 6 degli Accordi di Parigi, che contiene regole condivise per misurare e commercializzare crediti di carbonio connessi agli assorbimenti forestali. “Serve, e non sarà semplice, un consenso trasversale sulle regole per contabilizzare la CO2 sottratta dall’atmosfera in modo trasparente, verificabile e reale”, dice Barbabella. E occorre anche il contributo del settore privato, sin qui ‘tiepido’ sulla questione: degli 84 miliardi di dollari destinati a iniziative in favore dei boschi, solo 7,5 – il 9% – derivano da finanza privata. Il resto? Fondi pubblici. Nessun dubbio: serve di più per salvare l’Amazzonia e le altre foreste. Ma soprattutto l’intero Pianeta. LEGGI TUTTO

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    Energia rinnovabile: come produrla in casa

    Il tema dell’energia rinnovabile non è più un argomento per addetti ai lavori, ma una questione quotidiana che riguarda milioni di famiglie italiane. Bollette sempre più alte, crisi energetica e attenzione crescente alla sostenibilità hanno spinto molti a chiedersi: come produrre energia rinnovabile in casa? Ecco, la buona notizia è che oggi le tecnologie sono mature e accessibili, ma soprattutto consentono a chiunque voglia di provare ad abbassare i consumi, abbattere i costi e in alcuni casi persino di rendersi completamente autonomi dal punto di vista energetico. In questa breve guida cercheremo di rispondere alle domande più frequenti: quali fonti rinnovabili si possono usare in casa, quali alternative esistono al fotovoltaico e se sia davvero possibile produrre energie elettrica fai da te.

    Come produrre energia rinnovabile in casa
    Produrre energia rinnovabile in casa significa sfruttare le risorse naturali disponibili (quindi sole, vento, acqua, calore del sottosuolo o biomasse) per generare elettricità o calore senza ricorrere ai combustibili fossili. Prima di arrivare alla fase della concretezza, c’è una domanda a cui ogni individuo dovrebbe rispondere: di quanta energia ho bisogno per la mia casa? Ad esempio, una famiglia media in Italia consuma tra i 2.500 e i 3.000 kWh all’anno. In base ai consumi, alla posizione geografica e alle caratteristiche dell’immobile, si può scegliere la soluzione più adatta.
    Tra gli impianti domestici più diffusi:

    Pannelli solari fotovoltaici per produrre energia elettrica;
    Solare termico per acqua calda sanitaria e riscaldamento;
    Mini-eolico per sfruttare il vento;
    Micro-idroelettrico, se si vive vicino a corsi d’acqua;
    Geotermia e pompe di calore;
    Biomasse per riscaldamento a basso impatto ambientale.

    Quali sono le energie rinnovabili da utilizzare in casa
    Appurato l’elenco delle energie rinnovabili potenzialmente usabili all’interno della propria abitazione, proviamo a vederne a una a una e capirne insieme le caratteristiche.

    Fotovoltaico: la soluzione più diffusa
    Il fotovoltaico è la tecnologia più conosciuta e ormai la più installata in Italia. I pannelli catturano l’energia del sole e la trasformano in elettricità. Con un impianto ben dimensionato e dotato di batterie di accumulo, è possibile coprire fino all’80% dei consumi di una famiglia. I vantaggi? Riduzione drastica della bolletta, incentivi fiscali e possibilità di vendere l’energia in eccesso alla rete. Tra le ultime novità, anche tegole fotovoltaiche e pannelli integrati direttamente nei tetti delle abitazioni.

    Solare termico: acqua calda gratis dal sole
    Non solo elettricità: i pannelli solari termici permettono di riscaldare l’acqua sanitaria e contribuire al riscaldamento domestico. Una tecnologia semplice, collaudata e molto diffusa soprattutto nelle regioni del Sud Italia.

    Mini-eolico: il vento in giardino
    Se si vive in zone ventose, il minieolico rappresenta un’alternativa interessante. Le turbine domestiche hanno dimensioni contenute e non richiedono necessariamente spazi enormi. L’energia prodotta può essere usata subito, accumulata o immessa in rete. Un ottimo modo per utilizzare energie rinnovabili nell’ambiente domestico.

    Idroelettrico domestico: solo dove c’è acqua
    Più raro, ma molto efficiente: i sistemi micro-idroelettrici sfruttano la forza dell’acqua di un ruscello o di un canale vicino all’abitazione. L’acqua scorre costantemente e garantisce una produzione continua, spesso superiore a quella del vento o del sole. Chiaramente si tratta di una soluzione fattibile solo per tutti coloro che vivono o in zone di campagna, di collina o comunque non nel centro traffico cittadino. È un ottimo modo per risparmiare.

    Geotermia: il calore della terra
    Sotto i nostri piedi il terreno conserva una temperatura costante; le sonde geotermiche e le pompe di calore permettono di sfruttare questa energia per riscaldare e raffrescare gli ambienti domestici, oltre a produrre acqua calda sanitaria. È una soluzione particolarmente adatta alle nuove costruzioni e alle abitazioni indipendenti.

    Biomasse: dal legno all’energia
    Le biomasse comprendono scarti agricoli, legna, pellet e residui organici. Utilizzati in stufe e caldaie di nuova generazione, permettono di riscaldare gli ambienti con un impatto ambientale contenuto, soprattutto se provenienti da filiere locali.

    Quindi è possibile produrre energia elettrica in proprio?
    La risposta è chiaramente “sì”. Sempre più famiglie oggi in Italia scelgono di diventare “prosumer”, ossia produttori e consumatori di energia. A pensarci, infatti, un impianto domestico ben progettato permette sia di coprire buona parte dei consumi elettrici, di ridurre drasticamente la dipendenza da compagnie energiche, di risparmiare in bolletta fino al 70% e di contribuire alla transizione ecologica. Tuttavia, l’autoproduzione non significa solo isolamento dalla rete elettrica. La maggior parte degli impianti, infatti, è connessa e consente di scambiare energia con il gestore e di accumulare l’elettricità prodotta e/o di venderla.

    Produrre energia rinnovabile a casa: cosa sapere prima di iniziare
    Chi decide di installare un impianto per produrre energia rinnovabile in casa deve mettere in conto non solo l’investimento economico, ma anche (e soprattutto, almeno all’inizio) alcuni passaggi burocratici indispensabili per essere in regola. La procedura può sembrare un po’ complessa, ma seguendo con attenzione l’iter corretto si eviteranno ritardi e/o problemi futuri. Ad esempio, se dovessimo parlare di “step da seguire”, la verifica di fattibilità tecnica starebbe al primo posto. Si parte proprio da qui: si capisce (e si verifica, appunto), l’idoneità del sito, che sia il tetto di una casa o un terreno, e si capisce quale tipologia di impianto risponde meglio alle esigenze energetiche della famiglia.

    Poi c’è tutta la questione che riguarda la richiesta di autorizzazione. In base alla potenza dell’impianto e alla normativa locale possono essere necessarie pratiche come la DIA (Denuncia di Inizio Attività), o la PAS (Procedura Abilitativa Semplificata). Per gli impianti minori, invece, di solito è sufficiente una semplice comunicazione al Comune. Inoltre, è importante da considerare anche la connessione alla rete: l’impianto deve essere collegato alla rete elettrica nazionale, per cui la domanda va presentata al Gestore di Rete, che autorizzerà l’allaccio e disciplinerà i flussi di energia. Ci sono poi l’accesso agli incentivi, il collaudo e l’attivazione e infine, ma non per minore importanza, la manutenzione e il monitoraggio, fondamentali ai fini di una buona riuscita dell’obiettivo.

    Energia rinnovabile a casa: le tendenze del futuro
    Accanto alle soluzioni già diffuse, il settore delle energie rinnovabili in area domestica si sta impegnando ad aggiornarsi, ma soprattutto si sta muovendo verso tecnologie sempre più integrate e invisibili. Infatti, si sta parlando molto di nuove opzioni, come le tegole fotovoltaiche (in Canada già esistono), o come i tetti in vetro trasparente con sistemi di captazione termica (nascono in Svezia). Ci sono anche i moduli solari integrati nei materiali da costruzione e i dispositivi che catturano energia dall’aria o dalle vibrazioni ambientali. L’obiettivo, alla fine, è sempre uno solo: rendere ogni abitazione una piccola centrale energetica, senza però rinunciare all’estetica e riducendo al minimo l’impatto ambientale. LEGGI TUTTO

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    Dal siero di latte i prodotti per la cosmesi

    Nata in Emilia-Romagna la startup Alma Serum trasforma il siero di latte, ‘prezioso’ scarto della lavorazione lattiero-casearia, in sottoprodotti ad alto valore. Grazie a un’innovativa macchina proprietaria di elettrospinning e a una membrana nanotecnologica sviluppata dalla startup, il siero viene filtrato localmente recuperando, da un lato, acqua pulita riutilizzabile nei processi industriali lattiero-caseari e, dall’altro, rotoli di membrana arricchiti con proteine, vitamine e minerali, pronti per essere trasformati in maschere e patch per l’industria cosmetica. Le dimensioni compatte delle macchine consentono l’installazione di mini-linee produttive direttamente negli stabilimenti lattiero-caseari, riducendo sensibilmente i costi di trasporto e le emissioni di CO2, mentre i caseifici possono accedere a nuove fonti di ricavo trasformando quello che era considerato uno scarto in prodotti di valore per due diversi mercati.

    “L’idea di Alma Serum – spiega Antonia Bellina, fondatrice e Ceo di Alma serum – non è nata tra le pareti di un laboratorio, ma da una profonda riflessione sul valore dello spreco. Il mio percorso è legato da sempre all’uso creativo e sostenibile delle risorse: l’esplorazione del potenziale del latte, già trasformato in fibra tessile con il progetto DueDiLatte, ha rappresentato il punto di partenza”. Secondo la manager Alma Serum “è stata una naturale evoluzione, una vera e propria chiamata all’azione. Mi trovavo di fronte al siero di latte, un enorme sottoprodotto dell’industria casearia italiana, spesso confinato al ruolo di ‘rifiuto speciale’ ad alto impatto ambientale. Vedere questa risorsa incredibilmente ricca di proteine e bioattivi naturali – un autentico elisir di benessere biologico – sprecata o, nella migliore delle ipotesi, destinata a complesse lavorazioni estere, era inaccettabile. La nostra missione è stata chiudere questo ciclo, riportando l’eccellenza in Italia e, soprattutto, dimostrando che la salute e la bellezza possono nascere da un processo di economia circolare virtuosa. L’obiettivo primario era trasformare radicalmente un problema di smaltimento in un’opportunità unica per i settori della cosmesi e della nutraceutica”.

    Il siero del latte, risorsa preziosa per la cosmetica innovativa
    La startup è composta da un gruppo di scienziati fondatori: Antonella Bellina (Ceo), Giorgio Iviglia (Cto Chemistry dept.), Stefano Linari (Cto Engineering dept.), e Alessandro Manfredi (Cfo). L’azienda affonda le sue radici operative in Italia, nel cuore della tradizione casearia del Nord (Emilia Romagna), dove il siero di altissima qualità è abbondante. “Alma Serum è stata formalmente fondata a fine giugno del 2025, coronando anni di esperienza nella valorizzazione sostenibile del siero di latte. La nostra eccellenza ingegneristica e il cuore operativo dei macchinari di elettrofilatura hanno trovato la loro culla in Toscana (Pisa). La transizione dal tessile alla biotecnologia applicata al siero di latte riflette la mia convinzione che l’innovazione debba unire etica ambientale e massima efficacia”, dice Bellina. “Il cuore dell’innovazione – continua – non è un prodotto, ma un processo che eleva il siero di latte da scarto a nuova risorsa di valore”. La novità sta nell’utilizzare il siero di latte ‘tal quale’ – ovvero nella sua forma liquida originale e biologicamente attiva – in sostituzione dell’acqua e dei tradizionali ingredienti in polvere liofilizzata. “Sfruttiamo – spiega Bellina – un processo di filtrazione innovativo e brevettato che si svolge a Km Zero, direttamente in prossimità dei caseifici, per intercettare il siero nella sua massima freschezza”.

    Come funziona
    1. Filtrazione Nanotecnologica: Utilizzo di membrane all’avanguardia per filtrare il siero.
    2. Recupero Attivo e Idrico: Le membrane trattengono tutte le preziose sostanze bioattive (proteine, amminoacidi, minerali) necessarie alla cosmesi. Contemporaneamente, il processo rilascia acqua pulita che può essere immediatamente reimmessa nei cicli produttivi aziendali o utilizzata in agricoltura.
    3. Upcycling Estremo: A fine ciclo di filtrazione, le membrane stesse cariche di bioattivi vengono trasformate in veri e propri dispositivi di bellezza, come maschere viso e patch per la skincare avanzata e bio.

    “In sintesi, Alma Serum è la prova tangibile che un ‘refluo’ può diventare una materia prima preziosa, di grande valore e 100% naturale per l’industria del benessere, realizzando una perfetta simbiosi tra natura e nanoscienza” spiega Bellina. Le fasi critiche sono due: “Il siero di latte è per sua natura estremamente deperibile. Il nostro processo è focalizzato su due fasi critiche: raccolta immediata e fresca, interveniamo subito dopo la caseificazione per prelevare il siero nella sua massima integrità biologica. E trattamento avanzato e purificazione, utilizziamo biotecnologie specifiche per abbattere la carica batterica e stabilizzare il siero, mantenendolo rigorosamente in forma liquida. Otteniamo così una base liquida ricchissima di proteine, vitamine e minerali che conserva integralmente la sua bioattività”.

    Poi c’è la trasformazione del prodotto. “Abbiamo – continua Bellina – la filtrazione meccanica avanzata: la base liquida è sottoposta a filtrazione, dove le nostre membrane nanotecnologiche trattengono i principi bioattivi e rilasciano acqua pulita. E infine, la matrice attiva per la cosmesi: questa tecnica ci permette di ottenere una matrice biologica ricca e iper-attiva, ideale per l’impiego cosmetico in prodotti di skincare avanzata come maschere viso e patch, garantendo una veicolazione e un assorbimento eccellenti sulla pelle”. LEGGI TUTTO

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    Enrico Mattea, lo scienziato-alpinista che vuole salvare i ghiacciai in Tagikistan

    In Tagikistan, nel cuore del Pamir, le vette innevate tagliano il cielo. Nell’aria sottile d’alta quota, il campo base sfida un infinito deserto bianco. Scarponi, occhiali antiriflesso, giacche tecniche, zaini carichi di attrezzi. Ogni respiro parla di fatica. Ogni passo, immerso nel silenzio, è calibrato. Un gruppo internazionale composto da 13 scienziati, tra cui anche l’italiano Enrico Mattea, 31 anni, fisico e glaciologo dell’Università di Friburgo, avanza lungo il pendio. Il team è riuscito a estrarre, per la prima volta in questa zona, due carote di ghiaccio complete dalla calotta di Kon Chukurbashi, a 5.800 metri, nella regione di Murghab.

    Il viaggio e il prelievo dei campioni
    L’impresa, che rientra nel progetto Ice Core attivo dal 2022 e finanziato dallo Swiss Polar Institute, con la partecipazione di numerose università svizzere, giapponesi, americane, è durata cinque settimane. Atterrati a Dushanbe, la capitale del Paese, i ricercatori hanno proseguito via terra per oltre mille chilometri su piste sterrate e passi montani a oltre 4mila metri. Poi gli studiosi hanno continuato a piedi, con carichi trasportati da mezzi leggeri e da animali fino a raggiungere l’accampamento. Da qui è partita la missione scientifica verso la sommità del ghiacciaio, che ha richiesto strumenti appositamente progettati per mantenere la catena del freddo e impedire la contaminazione del ghiaccio.

    “I tentativi precedenti sono stati ostacolati da difficoltà di accesso al sito e da una logistica complessa”, spiega Mattea. “Questa campagna è andata a buon fine perché ha superato sfide umane e tecniche, grazie a un meticoloso coordinamento organizzativo e ai più elevati standard di sicurezza”. Alla fine gli esperti hanno prelevato un paio di campioni, lunghi circa 105 metri ciascuno: uno è stato trasferito in Giappone, all’Institute of Low Temperature Science dell’Hokkaido University, dove verrà esaminato dal punto di vista chimico; l’altro sarà, invece, conservato nell’archivio Ice Memory in Antartide, presso la stazione franco-italiana Concordia, per preservare la testimonianza di un’area cruciale del Pianeta.

    Dal passato al futuro
    I nuclei ottenuti contengono informazioni ambientali uniche. “Ogni anno, le nevicate che si accumulano sul ghiacciaio si trasformano in nuovi strati di ghiaccio, uno sopra l’altro, creando una sequenza che conserva tracce di aria, polveri, ossigeno e idrogeno”, chiarisce il giovane glaciologo. “Analizzando la stratificazione, gli scienziati possono ricostruire con precisione le temperature, le precipitazioni e l’atmosfera nell’arco di migliaia di anni, arrivando fino a circa 10mila anni fa nel caso di questo specifico carotaggio”.

    I dati permetteranno di evidenziare il motivo per cui in questa regione, a differenza di gran parte dell’arco himalayano, si osserva una sorprendente stabilità delle distese ghiacciate. Secondo le prime interpretazioni, ciò potrebbe dipendere da un insieme di fattori climatici, atmosferici, geologici: un’ipotesi che dovrà, tuttavia, essere confermata dai ricercatori. Il progetto non guarda, però, solo al passato, ma anche al futuro, cercando di prevedere l’evoluzione dei ghiacciai dell’Asia centrale, da cui dipendono le sorgenti dei grandi fiumi Syr Darya e Amu Darya, risorse vitali per milioni di persone. LEGGI TUTTO

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    La fotinia, come coltivare la pianta che cambia colore

    La fotinia, o photinia, appartiene alla famiglia delle Rosaceae ed è originaria dell’Asia orientale, in particolare della Cina, del Giappone e dell’India. La varietà più diffusa è la photinia fraseri, un ibrido nato dall’incrocio tra photinia glabra e photinia serratifolia, ma la pianta in sé è diventata protagonista di molti giardini italiani: grazie alle sue foglie giovani rosso intenso che virano al verde, e alla sua capacità di trasformarsi in una siepe elegante o in un arbusto d’effetto, conquista chi ama il verde ornamentale (che diventa rosso). Ma come coltivarla nel modo giusto? Quando intervenire con la potatura? Quali sono i costi? Scopriamolo insieme.

    Quando la photinia diventa rossa? Caratteristiche
    La photinia fraseri è un arbusto sempreverde a crescita rapida, con un portamento eretto e ramificato. Può raggiungere un’altezza di 2–4 metri, a seconda della potatura. Le foglie sono ovali, lucide e coriacee, di colore verde scuro con spettacolari nuove vegetazioni rosso acceso in primavera e inizio estate. I fiori, riuniti in pannocchie bianche e profumate, compaiono tra aprile e maggio. In autunno possono comparire piccole bacche rosse non edibili.

    Come coltivarla: esposizione, terreno e messa a dimora
    La photinia prospera in pieno sole o in mezz’ombra: una collocazione luminosa ne esalta il fogliame e favorisce la colorazione rosso-vivace delle foglie più giovani. È preferibile un terreno fertile, ben drenato, evitando quelli troppo compatti o soggetti a ristagni: se il suolo è pesante, è utile mescolare del compost o terriccio leggero al momento della piantagione. La messa a dimora si può effettuare dall’autunno alla primavera, evitando i mesi più caldi o i periodi di gelo. Una volta piantata, la fotinia richiede un’attenzione particolare nel primo anno con annaffiature regolari fino a quando non si sarà ben radicata; in seguito, la sua manutenzione può essere moderata.

    Quando potare la Photinia
    La potatura della fotinia merita un’attenzione particolare: il momento ottimale per intervenire è in tardo inverno o all’inizio della primavera o immediatamente dopo la fioritura, a seconda delle condizioni climatiche e della varietà. Tagliare troppo presto (prima che i nuovi germogli si siano induriti) o troppo tardi (vicino ai primi geli) può ridurre l’effetto estetico della nuova vegetazione o rendere la pianta più vulnerabile. Non è necessario potare drasticamente ogni anno: eliminare rami secchi, ammalati o troppo sporgenti e dare forma al cespuglio è spesso sufficiente. Nel caso di siepi molto fitte, si consiglia una leggera rifinitura, ma evitare tagli radicali in autunno.

    Quanto cresce: dimensioni, ritmo e varianti della photinia
    La Fotinia è sorprendentemente vigorosa. In condizioni favorevoli può arrivare a 3-5 metri d’altezza e simile ampiezza se lasciata libera. Alcune fonti indicano che può superare anche i sei metri in assenza di potature regolari. Se invece viene coltivata come siepe e sottoposta a potature regolari, può essere mantenuta a 2-3 metri d’altezza senza grosse difficoltà. Il ritmo di crescita nel primo periodo è rapido: la chiave è contenere la vegetazione nella forma desiderata fin da subito, per evitare che la pianta diventi troppo legnosa e perda vigore nella base.

    Malattie e parassiti: occorre vigilarla
    Un punto da non sottovalutare riguarda le malattie: la fotinia è soggetta alla leaf spot (maculatura fogliare) soprattutto in condizioni di elevata umidità e cattiva circolazione d’aria, con conseguente perdita di foglie. Per evitare ciò è importante garantire una buona areazione tra le piante, non bagnare ripetutamente la chioma, e se necessario intervenire con trattamenti mirati. Inoltre, mantenere gli strumenti di potatura ben puliti è fondamentale per evitare la diffusione di funghi o batteri. La scelta del momento e dell’angolo del taglio può fare la differenza nella salute della pianta. LEGGI TUTTO

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    Gli scienziati contro Bill Gates: “Il suo memorandum sul clima è pericoloso”

    “Gli scienziati si infuriano per il promemoria di Bill Gates sul clima”. “Gli scienziati criticano gli argomenti fantoccio contenuti nel promemoria sul clima di Bill Gates”. “Perché il promemoria sul clima di Bill Gates viene celebrato dagli scettici mentre frustra gli scienziati”. Sono solo alcuni dei titoli che la stampa internazionale ha dedicato alla polemica scoppiata dopo che la settimana scorsa il fondatore di Microsoft, una delle persone più ricche al mondo, e anche tra le più impegnate in operazioni di aiuto finanziario ai Paesi poveri, ha reso noto un documento di 17 pagine in cui sembra cambiare radicalmente idea rispetto alla crisi climatica.

    Il personaggio

    Le due facce di Bill Gates, il latifondista americano che vuole salvare il Pianeta

    13 Aprile 2021

    Dopo essere stato un paladino (e finanziatore) di iniziative volte a ridurre le emissioni di gas serra, oggi Gates scrive: “Il cambiamento climatico è un problema serio, ma non segnerà la fine della civiltà… L’innovazione scientifica lo arginerà, ed è giunto il momento di una ‘svolta strategica’ nella lotta globale al cambiamento climatico: dal limitare l’aumento delle temperature alla lotta alla povertà e alla prevenzione delle malattie”. Naturalmente i negazionisti (veri e quelli per convenienza) hanno colto la palla al balzo, a cominciare dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump: “Io (NOI!) abbiamo appena vinto la guerra alla bufala del cambiamento climatico. Bill Gates ha finalmente ammesso di essersi completamente SBAGLIATO sulla questione”, ha scritto. Un post che ha irritato lo stesso Gates: “La sua è una gigantesca interpretazione errata del mio promemoria”. Ma devono averla interpretata male anche molti climatologi che, con qualche giorno di ritardo in realtà, stanno contestando le parole del multimiliardario e benefattore.

    Il timore principale degli scienziati è che arrivando a poche ore dall’inizio di Cop30, già indebolita dalla defezione della Casa Bianca, il “dietrofront climatico” di un uomo così ricco e influente possa trasformarsi in una “granata narrativa”, come l’ha definita su The Conversation Ryan M. Katz-Rosene, professore di Geopolitica e ambiente all’Università di Ottawa. Una bomba capace di mandare in pezzi il consenso faticosamente creato nell’opinione pubblica e in parte delle forze politiche sull’urgenza di contrastare l’innalzamento delle temperature.

    C’è chi ha analizzato il testo di Gates parola per parola. E, a detta di molti esperti, non ci sarebbero clamorosi errori tecnici nella descrizione di quanto sta accadendo. Anche se il promemoria sembra minimizzare la gravità del riscaldamento globale osservato fino a oggi, prevedendo un innalzamento delle temperature globali che potrebbe arrivare fino a +2,9 °C in più rispetto all’era preindustriale, un dato considerato fin troppo ottimistico da una parte della comunità scientifica. Ma l’ex patron di Microsoft è anche accusato di riporre troppa fiducia in tecnologie ancora in fase sperimentale e spesso controverse, come i piccoli reattori modulari, la cattura e lo stoccaggio del carbonio e la geoingegneria. Secondo Michael Mann, il decano dei climatologi Usa, questa attenzione alle “soluzioni tecnologiche per il clima … ci condurrà su una strada pericolosa”, perché tali approcci possono distogliere l’attenzione dalle strategie di mitigazione che hanno già dimostrato di funzionare e saranno usate come scusa per continuare a bruciare combustibili fossili.

    Infine, il nodo forse centrale: mettere in competizione l’azione contro la crisi climatica e la lotta alla povertà e alla fame. Secondo Gates, visto che il global warming “non porterà all’estinzione dell’umanità”, occorre dirottare energie e denaro sulle emergenze sanitarie ed alimentari che affliggono il Sud del mondo. L’obiezione è che i due interventi (su clima e povertà) non vanno raccontati come alternativi. E soprattutto che gli effetti del cambiamento climatico, se non mitigati, faranno diventare i poveri ancora più poveri e affamati. In definitiva questa conferma che “gli scienziati del clima continuano e continueranno ad affrontare il difficile compito di comunicare il rischio climatico, l’urgenza e l’incertezza, in un contesto politico poco incline alle sfumature e alla complessità”, scrive il professor Katz-Rosene. “Il promemoria di Bill Gates non cambia la scienza. Ma rivela quanto la politica climatica sia sensibile al contesto. E come lo stesso messaggio possa diventare un’arma usata per perseguire obiettivi anche molto diversi”. LEGGI TUTTO

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    Parigi dice basta alla fast fashion, ma uno dei colossi cinesi apre alle Galeries Lafayette

    Fino a 10 mila capi di abbigliamento caricati ogni giorno sulle piattaforme. È questo il trend di produzione dei due colossi cinesi protagonisti dell’ultra-fast fashion. Uno dei business più inquinanti al mondo: la moda a prezzi stracciati in vendita sui canali online che di sostenibile non hanno nulla. Milioni di lavoratori impiegati nella confezione di capi di abbigliamento, prodotti in condizioni precarie in Bangladesh, India e Vietnam e messi sul mercato a meno dieci euro. I loro salari? Inferiori al minimo vitale. Nel 2024, in media uno stipendio si aggirava sui 90 dollari al mese. Eppure il giro di affari che riguarda la fast-fashion è intorno ai 125 miliardi di dollari all’anno.
    Francia, la prima legge
    Un modello consumistico ed economico che da tempo attira su di se critiche per il forte impatto ambientale e sociale. Soprattutto si discute quali regole imporre ai colossi come Temu e Shein. Non è così semplice, visto che se ne sta occupando anche la Commissione europea con la proposta di riforma del codice doganale. A livello di singoli stati, invece è stata la Francia a muoversi per prima varando una legge anti fast-fashion che introduce una tassa ambientale con l’obiettivo di penalizzare le produzioni inquinanti e le ingiuste condizioni di lavoro; un eco-score per valutare l’impatto dei capi (emissioni, risorse utilizzare, riciclabilità); previsto il divieto di pubblicità delle marche dell’ultra fast-fashion e della promozione tramite influencer per questi brand. Fino alla decisione presa dal Ministero delle Finanze di bloccare l’accesso al sito e-commerce di Shein ritenuto colpevole di aver messo in vendita bambole gonfiabili con sembianze di bambini.

    La sostenibilità ‘sfila’ sulle passerelle di moda

    24 Ottobre 2025

    Il primo negozio permanente Shein nel Marais
    Nonostante le proteste e l’indignazione (sono state raccolte 120 mila firme), il gruppo Shein è riuscito ad aprire ugualmente il suo primo negozio permanente nel cuore di Parigi alle Galeries Lafayette. L’operazione è stata possibile proprio per la partecipazione della Société des grands magasins, che gestisce l’insegna Bhv e in franchising alcuni store delle Galeries. Obiettivo: attirare clienti al centro commerciale.

    Ad assistere all’inaugurazione del suo primo negozio fisico (altre aperture sono previste a Digione, Grenoble, Reims, Limoges e Angers nella Valle della Loira) decine di manifestanti accampati davanti ai grandi magazzini. Proteste che non hanno però scoraggiato la folla di acquirenti. Quindi sito bloccato, ma negozio preso d’assalto da curiosi e fan del marchio che si sono messi in fila per acquistare. Tra loro, molti giovani.

    Sostenibilità

    Un’eco-tassa per Shein e Temu: la battaglia della Francia contro il fast fashion

    di Paola Arosio

    16 Luglio 2025

    Il “Green Gap” dei giovani consumatori
    C’è chi in questo comportamento vede una contraddizione tipica della cosiddetta GenZ, ossia una generazione che se da una parte crede nei valori ecologici, dall’altra non sembra metterli in pratica in modo coerente. Un sondaggio del 2024 lo metteva nero su bianco: il 75% dei giovani europei si diceva preoccupato per il cambiamento climatico, ma solo il 22% dichiarava di aver ridotto concretamente i propri acquisti di moda. Spesso infatti le intenzioni ecologiche si scontrano con le abitudini al consumo e soprattutto le possibilità economiche. Ad esempio, molti considerano che l’alternativa sostenibile di una t-shirt, che nel fast-fashion è in vendita a 7 euro, costi troppo. E poi c’è il mondo dei social che determina “appartenze” e anche gusti. Con il “nuovo ricambio di outfit” e microtrend che spesso durano poche settimane. Forse, ed è l’idea comune degli autori di molte inchieste che riguardano il settore del fashion, è arrivato il momento che il mondo della moda, nella sua globalità, si avvii verso un vero cambiamento strutturale. Diventando certo sostenibile ed etico, ma anche accattivamene e soprattutto economicamente accessibile. LEGGI TUTTO

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    Il premio Nobel Omar Yaghi: “Ecco come catturiamo la CO2 dall’atmosfera”

    Omar Yaghi ha appena vinto il Nobel per la Chimica. Ma il suo è soprattutto un messaggio di pace. Quando gli si chiede una opinione su Gaza, viste le sue origini palestinesi, risponde: “Dobbiamo proteggere la sacralità della vita umana. E rifiutare la violenza, in tutte le sue forme. Per me la scienza è un linguaggio che può superare ogni barriera. È anche per questo che abbiamo bisogno della scienza: per educare le nuove generazioni, per impegnare le persone in attività che favoriscano la loro crescita intellettuale, per dialogare con coloro che percepiamo come avversari”. A lui è successo: la scienza l’ha salvato.

    Nato in Giordania da una famiglia di rifugiati palestinesi, ha avuto una infanzia difficile, è volato negli Stati Uniti che era poco più di un bambino, ha lavorato e studiato duramente, fino a ottenere, a soli 60 anni, il più ambito riconoscimento per chi fa ricerca. La Reale Accademia Svedese lo ha premiato, insieme a Susumu Kitagawa e Richard Robson, per aver sviluppato “strutture metallorganiche” o Mof (Metal-organic framework). Dal 2012 insegna chimica alla Berkeley University, in California, ma i suoi studi lo hanno condotto spesso anche in Italia. “Collaboro da anni con Davide Proserpio dell’Università di Milano”, ricorda. E lo scorso dicembre ha ricevuto al Quirinale, presente Sergio Mattarella, il premio Balzan per lo “sviluppo di materiali nanoporosi per applicazioni ambientali”(l’undicesimo Premiato Balzan a prendere il Nobel). La prossima settimana sarà di nuovo a Roma per l’Apertura dell’Anno accademico ai Licei.

    Professore Yaghi, ci spiega cosa sono i Mof?
    “Materiali nei quali ci sono metalli che collegano tra loro molecole organiche, basate cioè sul carbonio. Le strutture così ottenute hanno spazi al loro interno. E dentro quegli spazi si possono intrappolare altre molecole. E’ possibile realizzare Mof ‘su misura’, a seconda della applicazione che se ne vuole fare, per catturare specifiche molecole. L’acqua presente nell’aria, anche in zone desertiche, per risolvere il problema della sete. La CO2 che è in atmosfera e innalza le temperature. Inquinanti presenti nelle acque di fiumi e mari. O anche sostanze tossiche che contaminano il sangue umano”.

    Tutto questo è teoria o realtà? I dispositivi basati sui Mof sono prototipi o già esistono in commercio?
    “Non parliamo di fiction, ma di realtà: noi possiamo già connettere le molecole ai materiali, ai dispositivi e infine alla società. Ci sono già Mof che sono commercializzati e utilizzati nei cementifici, tra gli impianti industriali con le maggiori emissioni di CO2. Per quanto riguarda il prototipo che abbiamo sperimentato nella Death Valley per catturare acqua dall’aria, esso sarà commercializzato a partire dal prossimo anno”.

    Molta speranza è riposta su questi materiali, proprio per la cattura del carbonio presente in atmosfera. Finora le tecniche di carbon capture si sono rivelate troppo costose. In cosa consiste la novità introdotta dai Mof?
    “Le vecchie tecniche di cattura della CO2 richiedono tantissima energia. Con i Mof in alcuni casi può bastare il calore generato dalla stessa industria che deve catturare la CO2, calore che altrimenti andrebbe disperso. Ma non esiste la soluzione miracolosa e immediata, serve un po’ di tempo. Però da un punto di vista scientifico, noi pensiamo di avere la carta vincente per la cattura della CO2. Tutto il resto è ottimizzazione commercializzazione”.

    Lo sviluppo dei Mof risale alla fine degli anni Novanta. A cosa lavora oggi?
    “Già nel 2005, con il mio team, abbiamo inventato i Cof, i framework organici covalenti. E questi materiali si sono rivelarti essere i migliori in assoluto nella cattura della CO2. Stiamo cercando di renderli meno costosi e di industrializzare il processo in modo da passare da alcuni chili di CO2 catturata a molte tonnellate. Siamo sulla buona strada”.

    Una strada iniziata sessanta anni fa ad Amman…
    “Sì, è lì che sono nato, cresciuto e mi sono innamorato della chimica all’età di dieci anni”.

    Come si è trasferito negli Stati Uniti?
    “Fu mio padre a incoraggiarmi. L’aveva fatto anche con i fratelli maggiori, e in effetti uno di loro già viveva negli Usa. Lo raggiunsi, ma dopo il primo anno dovetti trovare lavoro in un supermercato per mantenermi. Non ho frequentato la high school, ma un community college (una alternativa economica alle università e alle scuole professionali private, ndr). Ero il più piccolo della classe”.

    Con queste premesse, come ha fatto ad arrivare al Nobel?
    “Le avversità dell’ambiente circostante non mi hanno fermato. Mi è stato insegnato che se lavori duro sarai valutato per il tuo lavoro. Quando negli Usa me ne è stata data l’opportunità, ho passato così tanto tempo in laboratorio: era impossibile portarmi via da lì. Penso che sia stata proprio questa passione a permettermi di sopravvivere ai tanti fallimenti e di affrontare comunque grandi sfide. Come creare i Mof: all’epoca tutti pensavano che fosse impossibile realizzarli”.

    Come vive le sue origini palestinesi?
    “I media mondiali hanno alimentato un equivoco e vorrei che Green&Blue e Repubblica mi aiutasse a chiarirlo. In molti resoconti giornalistici è stato detto che sono originario di Gaza, lo riporta anche Wikipedia. E’ sbagliato: la mia famiglia viveva nella ‘vecchia Palestina’, in una città che si chiamava Masmiya, tra Giaffa e Gerusalemme. Poi si sono trasferiti in Giordania nel 1948, con la nascita di Israele. Sono orgoglioso delle mie origini palestinesi, della mia famiglia, dell’essere nato e cresciuto in Giordania, della cittadinanza onoraria saudita, dell’essere un cittadino statunitense”.

    La sua storia può essere di incoraggiamento per il tanti bambini palestinesi che hanno sofferto in questi anni di conflitto? “Avere una infanzia molto faticosa, può produrre grande determinazione. Da bambino per frequentare la scuola dovevo camminare tre chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. E se pioveva stavo con i vestiti bagnati in classe tutto il tempo. Ma considero comunque la mia una vita benedetta”. LEGGI TUTTO