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    L’Italia 16esima nella classifica dei Paesi più colpiti dalla crisi del clima

    BELÉM (Brasile) – All’improvviso, proprio mentre stava iniziando la Cop30, in Brasile un tornado è passato sulla città di Rio Bonito e l’ha letteralmente rasa al suolo. Nel frattempo, nelle stanze dei negoziati, i delegati filippini con gli occhi lucidi ricevevano notizie del bilancio mortale del tifone Fung-wong. Il clima uccide, in ogni istante e ovunque. Nessun Paese è risparmiato dall’intensificazione degli eventi meteo estremi causati dalla crisi climatica e l’Italia lo sa bene. Per gli effetti della siccità in Sicilia o Sardegna, le alluvioni dall’Emilia Romagna alle Marche, per le frane e i distacchi dei ghiacciai sulle Alpi l’Italia è oggi al sedicesimo posto nella classifica degli stati del mondo più colpiti dalla crisi climatica nell’ultimo trentennio (1995-2024). Il nostro anno peggiore è stato il 2023, ma anche le ondate di calore del 2024 sono state altamente mortali e in Europa attualmente per impatti siamo dietro soltanto alla Francia (dodicesima).

    Cop30

    Jennifer Morgan: “Sul climate change non ci devono essere divisioni politiche”

    di Luca Fraioli

    10 Novembre 2025

    A rivelarlo è il Climate Risk Index, l’indice realizzato dall’organizzazione umanitaria e ambientale Germanwatch che attraverso i dati storici e accessibili relativi a 9700 fra gli eventi climatici più impattanti degli ultimi trent’anni ha definito il rischio di esposizione delle nazioni davanti agli eventi di quel riscaldamento globale che, ad esclusione di Stati Uniti, San Marino e Myanmar, tutti i delegati del mondo stanno ora provando ad affrontare cercando soluzioni concrete a Belém. Solo relativamente a quasi 10mila eventi meteo estremi avvenuti negli ultimi trent’anni sono morte oltre 830mila persone. La causa principale sono le ondate di calore, seguite da tempeste e alluvioni, fenomeni diventati più intensi e frequenti per le emissioni antropiche e tali da aver causato danni economici per 4500 miliardi di dollari in tre decadi. Ci sono condizioni – come in Italia – in cui sono posizione geografica o fragilità dei territori a rendere gli stati più vulnerabili, ma è soprattutto nel Sud del mondo e nelle aree popolose meno sviluppate dove il clima diventa spesso più letale.

    Finanza climatica

    Cop30, il piano di Lula per salvare le foreste del mondo

    di Giacomo Talignani

    07 Novembre 2025

    Il 40% di tutte le persone del globo vive infatti attualmente negli undici Paesi più duramente colpiti da eventi estremi, quasi sempre realtà meno abbienti. Per esempio in India (9°posto) o Filippine (7°) e al momento sul podio di questa sfortunata classifica in vetta c’è la Dominica seguita da Myanmar e Honduras. Anche le grandi potenze mondiali però sono nella parte alta della lista: la Cina che oggi va a trazione rinnovabile e sta diventando leader nella battaglia climatica è all’11esimo posto, mentre gli Stati Uniti del negazionista Donald Trump, convinto che il global warming sia una “truffa”, sono diciottesimi. Trump non intende affrontare la questione climatica, ma gli stati americani sì: ieri è arrivato a Cop il governatore della California Gavin Newsom per ricordare che l’atteggiamento della Casa Bianca è semplicemente “stupido” e pericoloso. Se ovunque sta avvenendo una intensificazione, alcuni stati sono “colpiti ripetutamente” rileva inoltre il rapporto, come per esempio Haiti “impattato con tale regolarità che intere regioni riescono a malapena a riprendersi dagli impatti fino all’evento successivo” afferma Vera Künzel, coautrice del report.

    E spesso, sono proprio le realtà insulari le più a rischio. L’intero indice fa riferimento a impatti avvenuti poco prima, nel 2024, del superamento di una soglia critica, quella dei famosi +1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Ora che siamo già oltre se non troveremo il modo di fermare le emissioni gli eventi diventeranno più devastanti e toccheremo punti di non ritorno come la perdita delle barriere coralline, lo sconvolgimento di Antartide e Groenlandia, la decaduta della foresta amazzonica. Non a caso, domani, migliaia di indigeni arriveranno a Belém con ogni tipo di imbarcazione: l’obiettivo è ricordarci che la crisi del clima uccide la natura e le persone, a cominciare dall’Amazzonia. LEGGI TUTTO

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    Il bonus fiscale per il fotovoltaico anche per i pannelli da balcone

    Bonus fiscale per il fotovoltaico senza limiti per la dimensione dell’impianto. L’agevolazione è ammessa infatti anche per i pannelli da balcone che oggi stanno diventando sempre più conveniente grazie ai prezzi in calo e alla possibilità di avere la batteria di accumulo direttamente integrata. Con la detrazione del del 50% e il taglio della bolletta l’investimento si recupera in poco più di due anni. Il risparmio in bolletta e la detrazione consentono di rientrare dall’investimento in soli due anni.

    Prezzi in calo e accumulo integrato
    I pannelli da balcone sono sul mercato da un po’ ma la vera novità di questi ultimi mesi è la batteria di accumulo che ormai molti produttori ora integrano nei kit, un vantaggio che si accompagna ai prezzi in calo. Un kit completo da 800W, quello con due pannelli e il microinverter incluso, oggi si trova tra 600 e 900 euro. Qualche mese fa gli stessi sistemi costavano il 30% in più. A spingere verso il basso i listini è stata la crescita della concorrenza e la standardizzazione dei componenti. Le batterie di accumulo con una capacità tra 1,5 e 2 kWh, immagazzinano l’energia prodotta di giorno per renderla disponibile successivamente. Per ottenere il massimo, in sostanza, non è più necessario coordinare il consumo con il momento di massima produzione del pannello, si possono tranquillamente utilizzare gli elettrodomestici anche la sera. La differenza è sostanziale: senza accumulo una famiglia può arrivare ad autoconsumare non più del 75% dell’energia prodotta; con l’accumulo si supera il 90%. I pannelli hanno una durata garantita di 25 anni con una perdita di efficienza inferiore all’1% annuo. Le batterie al litio mantengono l’80% della capacità dopo 3.000 cicli di carica, equivalenti a circa 10 anni di utilizzo quotidiano. Anche sostituendo la batteria dopo un decennio, il vantaggio è evidente.

    Le regole per avere il bonus
    L’agevolazione del 50% rientra tra quelle previste per le ristrutturazioni edilizie. Nell’ambito delle norme l’installazione degli impianti che si basano su fonti di energia rinnovabile sono una categoria a sé. Troviamo quindi anche la possibilità di avere il bonus fotovoltaico che copre tutte le installazioni di pannelli di questo tipo, e delle evitabili batterie di accumulo. Nessuna differenza rispetto agli impianti più grandi. La detrazione, infatti, ha un limite per quel che riguarda la potenza massima, che non può superare i 20 Kw di potenza, ma non ci sono limiti per quanto riguarda le installazioni che garantiscono comunque la produzione di energia ad uso degli impianti domestici. L’unica condizione per l’agevolazione è la certificazione della messa a norma e l’invio della Comunicazione unica, pratica della quale si fa carico l’installatore. Ovviamente anche in questo caso ai fini della detrazione è obbligatorio il pagamento con il bonifico dedicato alle detrazioni fiscali.

    I numeri reali del risparmio
    Un kit da 800W installato con esposizione a Sud produce mediamente 1.100 kWh all’anno. In inverno la produzione scende a 1,4 kWh al giorno, in estate sale a 3 kWh. Con l’accumulo, una famiglia di quattro persone riesce ad autoconsumarne 990 kWh invece dei 825 senza batteria. Con un costo dell’energia di 0,27 euro al kWh (valore medio tutto compreso), i conti sono questi:
    · Produzione annua: 1.100 kWh
    · Autoconsumo con accumulo (90%): 990 kWh
    · Risparmio annuo in bolletta: 267 euro

    A questo si aggiunge la quota annuale della detrazione fiscale: 70 euro all’anno per dieci anni (il 50% di 1.400 euro diviso dieci). Si arriva così ad un risparmio complessivo annuo di 337 euro. Senza accumulo il risparmio annuo scende a 268 euro e il rientro si allunga di qualche mese, ma resta sotto i tre anni. LEGGI TUTTO

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    La Cina e la leadership nella lotta globale alla crisi climatica

    Possono sembrare a prima vista obiettivi modesti, ma risultano passi da gigante se paragonati alla ritirata degli Stati Uniti di Donald Trump. Gli ultimi impegni sul clima Pechino li ha annunciati a settembre alle Nazioni Unite: lo ha fatto direttamente il leader cinese Xi Jinping, lanciando frecciatine nemmeno troppo velate contro l’America. La transizione verso un’economia “verde e a basse emissioni di carbonio” è la “tendenza del nostro tempo” ha detto Xi, criticando poi i Paesi che “agiscono contro” tale transizione. Parole pronunciate all’Onu un giorno dopo quelle scioccanti di Trump, che aveva definito il cambiamento climatico come la “più grande truffa messa in atto da persone stupide”. Il messaggio cinese è chiaro: è Pechino la potenza responsabile pronta a impegnarsi per risolvere le sfide globali come quella del cambiamento climatico appunto, e non gli Stati Uniti, che invece si ritirano dalla lotta.

    È sul vuoto di leadership lasciato dagli Stati Uniti in alcune aree – come le questioni climatiche, con Trump che ha di nuovo ritirato gli Usa dagli Accordi di Parigi – che la Cina punta a intensificare le proprie azioni.La Cina si è prefissata l’obiettivo di ridurre le emissioni nette di gas serra del 7-10% nei prossimi dieci anni rispetto ai livelli massimi. Nel 2021 Xi annunciò che la Cina avrebbe puntato a raggiungere il picco delle emissioni entro questo decennio e arrivare alla neutralità carbonica entro il 2060: gli impegni assunti a settembre all’Onu segnano la prima volta che la Cina fissa obiettivi di riduzione delle emissioni effettivi su tale percorso. Xi si è anche impegnato ad aumentare la quota di combustibili non fossili a oltre il 30% del consumo energetico totale della Cina e ad espandere la capacità installata di energia eolica e solare di oltre sei volte rispetto ai livelli del 2020. Per gli esperti, però, la Cina, il più grande inquinatore al mondo, deve fare di più.

    Pechino è cauta e Xi segue la tradizione di fissare obiettivi climatici relativamente modesti, per poi superarli in seguito. Esempio: la Cina ha superato l’obiettivo fissato per il 2030 di aggiungere 1.200 gigawatt di capacità solare ed eolica con quasi sei anni di anticipo. “La Cina ha spesso promesso poco e mantenuto molto”, ha osservato Andreas Sieber, direttore associato delle politiche e delle campagne dell’associazione ambientalista 350.org. Un’analisi dell’Asia Society Policy Institute afferma che la Cina dovrebbe ridurre le emissioni del 30% entro il 2035 per rendere raggiungibile il suo obiettivo di neutralità carbonica entro il 2060. “Gli obiettivi annunciati sono deludenti, non sono all’altezza della leadership di cui il mondo ha disperatamente bisogno”, afferma Li Shuo, direttore della ricerca sulla Cina e il clima presso l’Asia Society. “Ma il Paese si è anche affermato come superpotenza delle tecnologie pulite, e questo ruolo dominante potrebbe spingerlo ad andare oltre i suoi impegni”. Sebbene gli esperti non siano del tutto soddisfatti degli annunci fatti da Xi alle Nazioni Unite, si vede plasticamente la crescente divisione tra i due maggiori inquinatori mondiali: l’America che sta facendo retromarcia sulle proprie politiche climatiche, la Cina che sta assumendo il ruolo di leader nell’energia verde. Nonostante rimanga il maggiore produttore mondiale di gas serra e le emissioni del suo settore energetico abbiano raggiunto un nuovo picco lo scorso anno, trainate dall’aumento del consumo di carbone, Pechino è ormai da tempo leader nella produzione di tecnologie verdi. La Cina produce e utilizza più pannelli solari, turbine eoliche e veicoli elettrici rispetto al resto del mondo messo insieme.

    Lo scorso anno ha installato 356 gigawatt di energia solare ed eolica, cioè quattro volte e mezzo in più dell’Unione europea nello stesso anno. Le aspettative nei confronti della leadership cinese in materia di clima stanno aumentando in vista della Cop30 che si terrà in Brasile a partire dal 10 novembre. “Non è solo la politica climatica a essere in evoluzione: l’intero ordine internazionale sta subendo una profonda trasformazione. Una questione cruciale è la misura in cui la Cina sta ponendo, e porrà, lo sviluppo a basse emissioni di carbonio al centro di tali sforzi”, sostengono i ricercatori di Chatham House in una recente analisi dal titolo “Si sta formando un nuovo ordine internazionale. La Cina lo renderà ‘verde’?”. È nel suo interesse farlo, sostengono i ricercatori. “La Cina è il principale produttore a livello mondiale nel settore delle tecnologie pulite, con una produzione pari a circa l’80% di tutti i pannelli solari e oltre il 70% di tutti i veicoli elettrici nel 2024, mentre Europa e Stati Uniti sono molto indietro. Le esportazioni cinesi di pannelli solari sono triplicate in cinque anni e la metà è destinata a Paesi non Ocse. La Cina non si limita a esportare prodotti tecnologici puliti all’estero, ma sta anche costruendo fabbriche di tecnologia pulita in altri Paesi. Dal 2022 gli investimenti delle aziende cinesi di tecnologia pulita hanno interessato 54 Paesi in tutte le regioni del mondo, per un totale di almeno 227 miliardi di dollari”. E, concludono: “La transizione globale verso un’economia a basse emissioni di carbonio comporta un probabile aumento della domanda di esportazioni cinesi, a vantaggio dell’economia cinese e della sua influenza geopolitica. Oltre a perseguire la leadership nella produzione di tecnologie pulite, la Cina sta cercando sempre più di plasmare e definire gli standard internazionali relativi all’economia verde”.

    “Con gli Usa che si tirano indietro dalla scena climatica globale, la Cina può fare un passo avanti. In quanto maggiore emettitore mondiale (in termini assoluti, non pro capite) e leader nella produzione di energia pulita, la Cina si trova in una posizione privilegiata per portare avanti lo slancio della transizione verde. Non è solo una questione di responsabilità: è nell’interesse della Cina”, scriveva a maggio in un editoriale per il South China Morning Post l’ex segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. “Le economie in via di sviluppo sono pronte a fare un balzo in avanti verso un futuro basato sull’energia pulita. Tuttavia, non dispongono delle risorse finanziarie e tecnologiche necessarie per farlo in modo rapido e su larga scala. Senza un maggiore sostegno, questi Paesi rischiano di rimanere intrappolati in sistemi ad alta intensità di carbonio proprio mentre il resto del mondo li sta superando. La Cina ha gli strumenti per aiutare a colmare questo divario: una vasta capacità produttiva, un’influenza crescente nelle catene di approvvigionamento di energia pulita e un impegno economico decennale con Paesi in Asia, Africa ed Europa attraverso la Belt and Road Initiative e altri accordi commerciali”. Il leader Xi Jinping ha presentato se stesso – e la Cina – negli ultimi anni come un partner affidabile e costruttivo, in particolare sulla questione climatica. Al meeting dei leader sul clima di aprile disse: “Per quanto il mondo possa cambiare, la Cina non rallenterà le sue azioni a favore del clima, non ridurrà il suo sostegno alla cooperazione internazionale e non cesserà i suoi sforzi per costruire una comunità con un futuro condiviso per l’umanità”. LEGGI TUTTO

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    Il paradosso di Belém: come è alimentata tutta la Cop30? A gasolio

    BELÉM (BRASILE) – Piove sul bagnato a Belém. Ieri, durante l’inizio ufficiale della Cop30 nel cuore dell’Amazzonia, a un certo punto delegati, politici e giornalisti fra le migliaia di persone presenti non riuscivano più nemmeno a parlare. Un temporale tropicale, in una città a 30 gradi e dai tassi di umidità altissimi, si è abbattuto sui grandi tendoni gonfiabili e sulle strutture montate apposta per la Conferenza: il risultato è stato un rumore assordante, con la pioggia che cadeva perfino dentro in alcuni punti. Quel rumore però è diventato impossibile perché mescolato da un altro suono costante di sottofondo: l’aria condizionata che viene sparata senza sosta.

    Il vertice

    Cop30, Cina e Ue tentano l’alleanza contro i combustibili fossili

    di Giacomo Talignani

    10 Novembre 2025

    Il paradosso dei paradossi, nella grande conferenza sul clima che prova a trovare soluzioni per arginare la crisi del clima alimentata dalle emissioni antropiche, è che quell’aria condizionata, così come tutta l’elettricità della Cop30, è alimentata a gasolio. Già, perché nonostante il Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva sia ancora fortemente ancorato ai combustibili fossili – nuove trivellazioni sono appena state autorizzate sul Rio delle Amazzoni – e nonostante le solite polemiche per le emissioni di jet privati e navi giunte a Belém per permettere una migliore logistica ai delegati, si sperava che per la prima, simbolica e storica Conferenza delle parti nel cuore dell’Amazzonia, ci fosse decisamente più attenzione all’ambiente.

    Passi il fatto che i menù – al contrario di quanto chiedeva Sir Paul McCartney non siano affatto vegani (e carissimi) – ma l’idea di alimentare a diesel l’energia di uno spazio grande come 16 campi da calcio è difficile da digerire nella prima Cop che si tiene, dopo tre anni, fuori da petrol-stati. Mentre il “transition away”, l’abbandono graduale delle fonti fossili concordato due anni fa a Dubai, resta un elefante nella stanza, dato che nessuno dei Paesi più industrializzati si sbilancia a chiedere un immediato abbandono del fossile, fuori dai padiglioni della Cop30 i camion cisterna carichi di diesel fanno avanti e indietro per garantire carburante ed elettricità prodotta da 160 generatori. Un paradosso svelato da BBC Brazil che ha visionato i contratti di appalto i quali prevedevano priorità a sistemi alimentati da combustibili differenti al fossile ma che evidentemente, anche per questioni di costi e logistica, non è stato pienamente rispettato. Va detto che sebbene larga parte del carburante sia diesel di Petrobas è prevista una parte di biocombustibile e l’azienda sostiene che il gasolio ha un contenuto “da fonti rinnovabili” di circa il 25% (ma doveva essere almeno biodiesel al 100%).

    Eppure, nello stato del Parà dove si trova Belém, ci sono alcune delle centrali (come quella di Belo Monte) idroelettriche più grandi del Brasile, per cui si pensava a formule alternative per la Conferenza o per lo meno più green. Oppure si ipotizzava un uso più diffuso di biocarburanti o addirittura di energie rinnovabili come il solare, soprattutto perché per i trasporti cittadini – per esempio – proprio per questa Cop30 sono stati sfoderati nuovi bus e auto elettriche. Lula stesso, in apertura di Cop30, ha ribadito la necessità della transizione energetica e della decarbonizzazione ma ha comunque sempre giustificato i combustibili fossili come tramite per poterla finanziare. In sostanza, fa capire, “ci servono ancora”. Ma mentre Lula è impegnato a contrattaccare contro l’altro grande elefante nella stanza, quel Donald Trump che è assente, che definisce “truffa” la crisi del clima e che ieri ha attaccato il Brasile che “deforesta l’Amazzonia per la Cop”, il peso di una scelta come quella di una Cop a tutto diesel sembra riflettere il modo stesso in cui questa conferenza intende affrontare il problema principale del cambiamento climatico, le emissioni dei combustibili fossili. Più che parlare di questo, il presidente brasiliano ieri si è limitato a dire di voler portare una “sconfitta per i negazionisti” (leggasi Trump) e che è molto più economico finanziare la battaglia al global warming anziché le guerre. Non è sfuggito però il fatto che la “transizione dai combustibili fossili” sia passata sotto traccia anche nell’agenda, quella che bisogna approvare e concordare a inizio Cop30.

    Il summit

    Crisi climatica, dalla “flotilla indigena” a Trump: al via la Cop30

    di Giacomo Talignani

    10 Novembre 2025

    Ieri, dopo scontri iniziali, l’agenda finale è stata adottata ma alcuni punti chiave tra cui la finanza climatica o i sistemi per rimanere entro il limite di +1,5 gradi e anche le discussioni sulla transizione dal fossile sono fuori dall’agenda formale e spostate in quella “d’azione”, un gruppo sperato che potrebbe essere portato avanti a rilento, un po’ come se fosse in secondo piano. Contraddizioni, come quelle di una Cop30 a gasolio nella verde Amazzonia, che tendono a sfiduciare le aspettative e a indirizzare il vertice ad essere, anziché una Conferenza “d’azione”, un altro summit di parole. LEGGI TUTTO

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    Alle Galápagos c’è un problema: le rane hanno invaso l’arcipelago

    Qui, un tempo, non c’erano anfibi. Ora le isole Galápagos devono invece fare i conti con la silenziosa invasione delle rane. Centinaia di migliaia, abbastanza – sostengono i ricercatori – per interrogarsi sui loro effetti sugli equilibri, già fragili, dell’ecosistema dell’arcipelago. L’indiziata è una raganella di colore marrone, ventre color crema, con un segno scuro triangolare sul capo: Scinax quinquefasciatus il nome scientifico. Sulle isole sarebbe arrivata alla fine degli anni ’90, viaggiando come “clandestina” sulle navi cargo dall’Ecuador continentale: una dinamica classica, per le specie aliene. Ed è bastato poco perché si insediasse sulle isole Isabela e Santa Cruz. O meglio: proliferasse. Già, perché le popolazioni stanno crescendo talmente rapidamente che gli scienziati faticano a tenerne traccia: si parla di popolazioni nell’ordine delle centinaia di migliaia su ogni isola, nelle aree urbane e agricole, ma anche nel Parco nazionale protetto delle Galápagos.

    Crisi climatica

    Pesci alieni nel Mediterraneo, Coldiretti: sono quasi un centinaio

    di Fiammetta Cupellaro

    13 Marzo 2025

    Il loro gracidio rappresenta così un sottofondo musicale potente. “Al punto che durante la stagione delle piogge, i loro richiami arrivano dappertutto”, racconta al Guardian Jadira Larrea Saltos, coltivatrice di caffè a Santa Cruz. Confessando che prima, qui, delle rane non c’era traccia. “Esatto, all’inizio è stata una sorpresa vederle, ora siamo circondati”.Il rumore, naturalmente, non è il problema principale: si studia, in particolare, il loro impatto sugli ecosistemi terrestri e acquatici dell’arcipelago. Qui, del resto, non ci sono predatori naturali. E la dinamica non è certo nuova, qui come altrove: sulle Galápagos sono stimate infatti 1.645 specie invasive, molte delle quali stanno seriamente compromettendo la sopravvivenza stessa delle specie endemiche. Due casi emblematici: le invasive mosche vampiro aviarie (Philornis downsi) stanno minacciando sempre più i nidi di uccelli, mentre gli arbusti di more, particolarmente resistenti, hanno già invaso le foreste di Scalesia, endemismo iconico dell’arcipelago.

    E dunque le raganelle vanno tenute d’occhio, e le loro popolazioni opportunamente controllate, con strategie più efficaci di quelle – fatalmente naufragate – adottate nei primi anni 2000: del resto uno studio del 2020 documenta la loro voracità nel nutrirsi di insetti, comprese specie endemiche considerate rare, e dunque da proteggere, e ipotizza una minaccia crescente, in termini di concorrenza, anche per gli stessi uccelli. Di più: nutrendosi anche di farfalle, temono i ricercatori, le rane invasive potrebbero persino influenzare l’impollinazione sulle isole. Invasive e, a quanto pare, resilienti: sono in grado di vivere in acqua salmastra, caratteristica insolita per gli anfibi, e hanno un processo di metamorfosi particolarmente variabile, con alcuni girini che si trasformano in rane molto rapidamente e altri che, viceversa, impiegano molto tempo.

    La storia

    Francesco Broccolo: “Quando le piante sono stronze”

    di Fabio Marzano

    29 Agosto 2025

    E allora, cosa fare per interrompere l’avanzata di Scinax quinquefasciatus nell’arcipelago? Nel corso degli anni, le guardie forestali hanno provato a catturarne, a mano, grandi quantità ma anche ad aumentare gradualmente la salinità delle lagune. Modesti i risultati. Potrebbe essere d’aiuto, spiegano i ricercatori, spruzzare caffè – sostanza altamente tossica per le rane – La ricerca suggerisce che spruzzare caffè – altamente tossico per le rane – o ricorrere alle scosse elettriche: metodi, questi, considerati poco prudenti per altre specie delle Galápagos. Occorrono finanziamenti (ed è più semplice sostenere la conservazione di una specie, piuttosto che la sua eradicazione, annotazione i ricercatori), ma anche nuovi studi. Prima che sia troppo tardi, naturalmente. LEGGI TUTTO

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    Shefflera, come coltivare la “pianta dell’ombrello”

    Pianta sempreverde appartenente alla famiglia delle Araliacee, la schefflera è originaria delle aree tropicali del Sud Africa e delle isole del Pacifico. Il suo aspetto è elegante, la sua coltivazione semplice, il che la rende una pianta perfetta per spazi interni, come appartamenti e uffici. Non importa essere pollici verdi di eccellenza: la Schefflera non richiederà troppe attenzioni. Andiamo alla scoperta della “pianta ombrello”.

    Schefflera: la pianta d’appartamento più elegante
    Ne esistono oltre 900 specie, sempreverdi e perenni, dal portamento soprattutto arbustivo. Pochi i casi di specie arboree o rampicanti. La schefflera è una pianta dall’estetica semplice, ma bellissima. Le sue foglie, di solito di un numero che va dalle 5 alle 9, sono portate da un picciolo da cui si dispongono a raggiera. Sono di forma ovato-oblunga e il loro aspetto è coriaceo. Il colore? Di solito verde brillante, ma alcune varietà potrebbero presentare macchie bianche o gialle mixate al fondo verde.

    Le varietà di schefflera più diffuse
    Resistente, elegante e dalla crescita rigogliosa, la schefflera si presenta in diverse varietà. Tra quelle più coltivate in Italia spiccano due specie: la schefflera actinophylla, maestosa e scenografica, e la schefflera arboricola, più compatta e adatta agli interni.

    Schefflera actinophylla: la pianta dell’ombrello
    Conosciuta anche come “pianta dell’ombrello” o “albero dell’ombrello”, la schefflera actinophylla è originaria delle foreste pluviali dell’Australia settentrionale. In natura può raggiungere anche i dieci metri di altezza, con una chioma ampia e ordinata che ricorda proprio la forma di un ombrello. Le sue foglie lucide, ovali e di un verde intenso si dispongono elegantemente intorno a un fusto centrale. In primavera e all’inizio dell’estate produce spighe di fiori cremisi, lunghi e sottili, che emergono sulla sommità della pianta. Queste infiorescenze, in tonalità di rosso, bianco o rosa, attirano uccelli e pappagalli, rendendo la pianta un piccolo ecosistema tropicale. La schefflera actinophylla cresce meglio all’aperto, in climi miti e umidi, ma non sopporta il gelo intenso. È quindi più adatta a terrazze, giardini o verande luminose delle regioni costiere e meridionali.

    Schefflera arboricola: la versione “mini” perfetta per interni
    Più compatta ma altrettanto elegante, la schefflera arboricola (conosciuta anche come schefflera nana) è la varietà più comune negli appartamenti. Le sue foglie più piccole e lucide, talvolta variegate con sfumature crema o giallo chiaro, la rendono una scelta raffinata per ambienti interni e spazi di lavoro. Pur crescendo più lentamente rispetto alla sorella maggiore, mantiene la stessa struttura armoniosa e la resistenza tipica della specie. È una pianta che si adatta facilmente alla vita in vaso, richiedendo solo una buona esposizione alla luce diffusa e qualche nebulizzazione nei mesi più secchi.

    Coltivazione della schefflera: terreno e rinvaso
    Il terreno ideale per la schefflera deve essere ricco e ben drenato, capace di evitare ristagni idrici che potrebbero provocare marciumi radicali. L’ideale è un mix composto per l’80% da terriccio torboso per piante d’appartamento e terra di foglie o d’erica, con un 20% di sabbia silicea per favorire il drenaggio. Ogni 4-5 anni la pianta può necessitare di un rinvaso, preferibilmente in primavera o estate, quando è più attiva. In alternativa, si può rinnovare lo strato superficiale del terriccio ogni due anni. Il vaso in terracotta resta la scelta migliore: favorisce la traspirazione e mantiene stabile il microclima delle radici.

    Concimazione: il giusto apporto di nutrienti
    La schefflera non è particolarmente esigente, ma una concimazione regolare aiuta a mantenerla vigorosa. Si consiglia un fertilizzante liquido per piante sempreverdi da interno, ricco di azoto, da somministrare due o tre volte in primavera e una in autunno. Questo stimola la produzione di nuove foglie e rafforza la pianta contro eventuali stress ambientali.

    Esposizione alla luce: calore, ma senza sole diretto
    Originaria delle zone tropicali, la schefflera ama la luce diffusa e le temperature miti, tra 22 e 25 °C. In casa trova facilmente il suo habitat ideale, purché non sia esposta alla luce solare diretta o a correnti fredde. Durante la stagione invernale, l’aria secca dei riscaldamenti domestici potrebbe stressare la pianta: meglio nebulizzare le foglie di tanto in tanto per mantenere la giusta umidità. Temperature inferiori ai 13 °C risultano letali, e i primi sintomi da freddo si notano con l’ingiallimento e il ripiegamento delle foglie. Un consiglio? Avere un occhio di riguardo abituale alle foglie, per capire come e quando agire. In estate, invece, la schefflera può essere collocata all’aperto in mezz’ombra, a patto di rinfrescare il fogliame quotidianamente con nebulizzazioni leggere.

    Innaffiatura: il segreto è l’equilibrio
    L’acqua per la Schefflera è essenziale, ma non deve essere eccessiva. Nei mesi caldi, ad esempio, il terriccio deve restare uniformemente umido nei primi 4-5 cm; in autunno e inverno, invece, le innaffiature vanno ridotte della metà. Attenzione sempre ai ristagni nei sottovasi, tra le principali cause di marciume e malattie fungine. Anche in questo caso, un controllo a cadenza settimanale di quanto il terreno sia umido va fatto.

    Potatura: pochi interventi, mirati
    La potatura della schefflera è minima. Basta rimuovere i rami secchi o danneggiati, preferibilmente in autunno. Se la pianta cresce troppo in altezza, si possono effettuare tagli di contenimento per riequilibrarne la forma e stimolare la produzione di nuove foglie.

    Malattie e parassiti della Schefflera
    Rustica e tenace, la schefflera resiste bene ai parassiti, ma non è immune. Può essere attaccata da cocciniglie cotonose, che spesso favoriscono la comparsa di fumaggine, un fungo che si sviluppa sulla melata prodotta dagli insetti. Altri nemici frequenti sono afidi e tripidi, piccoli insetti che colpiscono le foglie: vanno trattati con insetticidi specifici e, nei casi gravi, eliminando le parti infestate. Nei periodi caldi e secchi, possono comparire anche i ragnetti rossi, facilmente contrastabili mantenendo il terreno umido e nebulizzando l’acqua sul fogliame. Le malattie fungine più comuni, come macchie fogliari o marciumi del colletto, sono quasi sempre conseguenza di un’innaffiatura eccessiva. Prevenire significa bagnare con moderazione, migliorare l’aerazione e non eccedere con i fertilizzanti azotati. A volte pensando di “fare del bene” alla pianta, si rischia di ottenere l’effetto contrario. LEGGI TUTTO

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    Il lago “bollente” di Tefé: così siccità e caldo uccidono l’Amazzonia

    Un evento climatico estremo e catastrofico, l’ennesimo, appena documentato nel cuore dell’Amazzonia. Durante la siccità e l’ondata di calore senza precedenti del 2023, le acque di numerosi laghi amazzonici hanno raggiunto temperature mai viste prima: in alcuni bacini, addirittura, l’acqua ha superato la temperatura di 41°C, trasformando così l’habitat in una trappola mortale per le specie che vi dimorano. Ad attestarlo uno studio appena pubblicato sulla rivista Science, condotto dai ricercatori dell’Instituto de Densevolvimento Sustentável Mamirauá in Brasile (e di decine di altri istituti), che oltre a raccontare la moria di massa di pesci e delfini di fiume in seguito al surriscaldamento delle acque, ne ha identificato le cause principali (acqua bassa, sole e soprattutto assenza di vento, condizioni che hanno creato una “tempesta perfetta”) e ha lanciato l’allarme sulla drammatica vulnerabilità degli ecosistemi tropicali rispetto alla crisi climatica: i laghi amazzonici, in particolare si stanno riscaldando a un ritmo doppio rispetto alla media globale.

    Il lago Tefé, epicentro della catastrofe
    Nel complesso, i ricercatori hanno monitorato dieci laghi della regione, osservando come le acque di cinque di essi abbiano superato i 37°C; quello più colpito è stato il lago Tefé, un bacino lungo circa 60 chilometri nello stato brasiliano di Amazonas, le cui acque, il 18 ottobre 2023, hanno toccato la temperatura record di 41°C. Per di più, non si è trattato di un riscaldamento solo superficiale: le misurazioni hanno confermato che colonne d’acqua fino a due metri di profondità avevano raggiunto uniformemente temperature estreme, il che ha impedito agli animali di trovare rifugio in profondità; nel lago si sono registrati sbalzi termici molto significativi, con variazioni diurne (tra giorno e notte) fino a 13,3°C. Queste condizioni così estreme sono durate parecchio: per 19 giorni nel solo mese di ottobre, scrivono i ricercatori, le acque del lago hanno stabilmente superato i 37°C durante il pomeriggio, e in questo scenario – cui ha contribuito la siccità, che aveva già ridotto del 75% la superficie del lago – le acque sono diventate praticamente inabitabili per molte delle forme di vita che vi nuotavano.

    Strage di delfini e pesci
    Le conseguenze sulla fauna, purtroppo, sono state immediate e devastanti. Lo studio documenta, testuali parole degli autori, una “mortalità massiccia e senza precedenti” di delfini di fiume amazzonici (Inia geoffrensis) e tucuxi (Sotalia fluvialitis): tra la fine di settembre e l’ottobre 2023, nel solo lago Tefé sono state recuperate oltre duecento carcasse di delfini, con un picco di 70 carcasse recuperate in un singolo giorno, il 28 settembre, quando la temperatura dell’acqua ha raggiunto per la prima volta i 39,5°C. Una “febbre” fatale, insomma: come se non bastasse, la moria ha colpito anche i pesci e l’acquacoltura locale, con un caso di 3mila pesci morti in un singolo stagno.

    “Gli animali tropicali come i pesci amazzonici”, scrivono i ricercatori, “si sono evoluti in ambienti stabili, e hanno intervalli di tolleranza termica molto ristretti: diversi studi di laboratorio avevano già mostrato che la sopravvivenza della maggior parte delle specie è compromessa da esposizioni prolungate a temperature superiori ai 33°C, e sappiamo che l’acqua calda trattiene meno ossigeno, portando alla morte per ipossia”, e le osservazioni sperimentali sono state la tragica conferma di queste considerazioni. Come se non bastasse, l’impatto si è esteso anche agli esseri umani: migliaia di persone che vivono lungo i fiumi sono rimaste isolate e senza accesso a cibo, acqua potabile e medicine proprio a causa dei livelli minimi dei corsi d’acqua, diventati non più navigabili.

    Una “tempesta perfetta”
    I modelli idrodinamici sviluppati dai ricercatori hanno evidenziato che l’evento estremo del 2023 è stato il risultato di una “tempesta perfetta” di fattori, tutti legati alla siccità e alle condizioni meteorologiche: acqua bassa (dovuta alla siccità) e torbida (la sospensione dei sedimenti ha causato un maggior assorbimento del calore), alta radiazione solare (la regione è stata colpita da una sequenza anomala di 11 giorni consecutivi senza nuvole) e bassa velocità del vento. Quest’ultimo elemento, in particolare, sembra essere stato quello cruciale: solitamente, il vento sulla superficie dell’acqua aiuta a raffreddarla tramite l’evaporazione, e l’assenza di vento di fine 2023 ha impedito questo processo di raffreddamento notturno.

    Le simulazioni al computer hanno confermato che, con venti deboli, le temperature dell’acqua potevano facilmente salire oltre i 40°C. In ogni caso, gli scienziati sottolineano che l’evento osservato non è da considerarsi “straordinario”, ma purtroppo inserito in un trend allarmante: analizzando i dati satellitari di 24 grandi laghi amazzonici, lo studio ha rivelato che nell’ultimo trentennio (1990-2020) la temperatura media delle acque superficiali della regione è aumentata di oltre mezzo grado per decennio, un tasso che è quasi il doppio rispetto alla media globale di riscaldamento dei laghi, stimata in 0,34°C per decennio. “È assolutamente necessario e urgente”, concludono i ricercatori, “implementare sistemi di monitoraggio a lungo termine, perché i sistemi tropicali, finora poco studiati, si stanno rivelando tra i più vulnerabili. Le conseguenze sulla biodiversità e sulle popolazioni umane potrebbero essere ancora più gravi negli anni a venire”. LEGGI TUTTO

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    Jennifer Morgan: “Sul climate change non ci devono essere divisioni politiche”

    Dal 1995 a oggi, non ne ha persa una. Le prime 26 Cop le ha vissute da attivista, molte nel ruolo di direttrice di Greenpeace International. Le ultime tre come inviato speciale per il clima del governo tedesco. Pochi nel panorama internazionale hanno l’esperienza di Jennifer Morgan, 59 anni da Ridgewood, New Jersey, in fatto di Conferenze Onu sul clima. “Sarò anche a Belém, come ricercatrice senior della Fletcher School, istituto di relazioni internazionali all’interno della Tuft University, poco lontano da Boston“.

    Nonostante la fine dell’incarico a Berlino, dopo le elezioni che hanno relegato i Verdi all’opposizione, Morgan continua nel suo impegno. Le parliamo mentre è in attesa di un volo per Pechino: “Vado per partecipare all’incontro Amici dell’Accordo di Parigi. Un meeting che per molti anni è stato organizzato dallo storico inviato speciale cinese per il clima Xie Zhenhua. Qualche settimana prima della Cop riunisce molte delle persone che parteciparono ai negoziati di Parigi, perché si confrontino su come ottenere il miglior risultato possibile“.

    Jennifer Morgan, come ottenere il miglior risultato possibile alla Cop30 di Belém?
    “In Brasile non ci saranno grandi decisioni da prendere, come è stato per il fondo per il loss and damage nel 2022 a Sharm o per la transition away dai combustibili fossili nel 2023 a Dubai. Questa volta si tratterà soprattutto di accelerare l’attuazione delle decisioni prese in passato e di capire come colmare il gap tra gli Ndc presentati dai Paesi e i tagli alle emissioni necessari per essere in linea con l’Accordo di Parigi e il limite di 1,5 °C di riscaldamento“.

    Glielo chiedo in un altro modo: cosa deve accadere a Belém perché si possa considerare Cop30 un successo?
    “Per le ragioni che ho esposto, sarà una Cop sfidante soprattutto per la politica. Cop30 sarà un successo se ci saranno dichiarazioni forti da parte dei leader, che riaffermeranno l’impegno a rispettare l’Accordo di Parigi, accelerandone l’implementazione. E poi se ci saranno decisioni e azioni importanti che confermino questo impegno“.

    Che tipo di azioni?
    “Per esempio il Brasile ha proposto un dialogo tra consumatori e produttori per una effettiva e giusta transition away dai combustibili fossili. Molti Paesi stanno cercando di lavorare insieme per rimuovere le barriere che ostacolano la diffusione delle rinnovabili, per esempio per quanto riguarda le reti elettriche e gli accumuli. E poi naturalmente la finanza, con la riduzione del costo del denaro per la realizzazione di impianti rinnovabili in Africa“.

    Sarà la sua trentesima Cop. Qual è stata la più importante?
    “Quella di Parigi nel 2015. Perché riuscì a creare un accordo legalmente vincolante tra tutti i Paesi. Un accordo che poi è stato ratificato rapidamente ed è entrato in vigore. Prima c’era stato il protocollo di Kyoto, ma non era accettabile da abbastanza nazioni perché potesse avere un vero impatto“.

    Però in questi 10 anni molto è cambiato nella lotta alla crisi climatica…
    “È vero, ma non solo in senso negativo. La crescita delle temperature c’è, ma ha rallentato la sua corsa: le misure di decarbonizzazione prese dalle nazioni, pur insufficienti, hanno modificato verso il basso la traiettoria del riscaldamento. Le energie rinnovabili sono esplose, a un livello che non era nemmeno immaginabile dieci anni fa. E il loro successo è soprattutto dovuto a fattori economici: costano meno“.

    E cosa è cambiato in negativo da Parigi a Belém?
    “Il riscaldamento globale ha mostrato i suoi effetti in modo più rapido e intenso. Stiamo vedendo i costi enormi che la crisi climatica comporta in tutto il mondo, inclusa l’Europa: solo l’estate scorsa, eventi estremi legati al clima, come ondate di calore e alluvioni, sono costati all’economia europea 43 miliardi di euro. Ma la cosa più negativa di questi anni è che il clima ha iniziato a essere usato dai partiti di destra per polarizzare le opinioni pubbliche. Le persone dovrebbero essere preoccupate per il clima così come lo sono per l’inflazione o per il costo dell’elettricità, e invece stiamo assistendo al deliberato tentativo della lobby dei combustibili fossili di rallentare il declino del loro business. Il risultato è appunto una polarizzazione della discussione sul clima in alcuni Paesi“.

    Una polarizzazione che avrà ripercussioni su Cop30?
    “A differenza delle altre volte in cui gli Usa sono usciti dalle trattative sul clima, in questo caso Washington sta mettendo in atto una serie di misure di contrasto. L’amministrazione Trump sta agendo in modo da rallentare il declino dei combustibili fossili per conto delle compagnie petrolifere americane. Per fortuna ci sono altre voci negli Stati Uniti, che io spero di sentire a Belém. Mi riferisco ad alcuni governatori, a rappresentanti del mondo del business: il 60% dell’economia Usa è ancora dentro l’Accordo di Parigi. E poi ci sono le altre nazioni, anche se la tattica di Trump è di mettere in difficoltà chi punta a rinunciare ai combustibili fossili americani».

    Aldilà delle politiche Usa, c’è chi sostiene che sia il modello delle Cop a non essere più adeguato, con decisioni troppo lente rispetto all’emergenza.
    “Ha fatto bene Simon Stiell, segretario esecutivo dell’Unfccc, a iniziare un lavoro sulle riforme che si potrebbero attuare, d’altra parte sono passati 30 anni dalla prima Cop. Detto questo, non penso che le Cop siano in crisi. Le decisioni sono state prese in questi anni. E c’è un gran bisogno di queste conferenze multilaterali, perché sono l’unica occasione in cui i più piccoli e vulnerabili, come gli Stati insulari, siedono al tavolo dei negoziati. Ma in effetti i meccanismi di voto potrebbero essere più efficienti. E dovrebbe essere più efficace la trasformazione in azioni concrete dei tanti impegni presi“.

    Pensa che l’Ue possa ancora ambire a riempire il vuoto lasciato dagli Usa come leader climatico?
    “Potrebbe certamente farlo. La proposta di tagliare del 90% le emissioni entro il 2040 era un chiaro segnale all’industria europea e andava in quella direzione. Inoltre, l’Europa continua a lavorare con i Paesi più vulnerabili per trovare strumenti finanziari da dedicare all’adattamento. Un’altra possibilità per la Ue è stringere collaborazioni sempre più strette con le economie emergenti“.

    E la Cina?
    “Pechino ha indicato chiaramente che vede il suo futuro nella energia pulita, nei veicoli elettrici, nella decarbonizzazione. Gli Ndc cinesi annunciati da Xi Jinping all’Onu sono da un lato molto importanti perché mettono un vero limite alle emissioni, però dall’altro non consentono a Pechino di assumere la leadership che potrebbe avere. La Cina deve dimostrare a Cop30 che davvero sta spingendo per l’addio ai combustibili fossili e che vuole contribuire finanziariamente all’adattamento ai cambiamenti climatici. Ma sono certa che a Belém vedremo anche molti Paesi in via di sviluppo spingere su Brasile, Indonesia, India, perché aumentino la loro ambizione“.

    Dunque resta ottimista, nonostante i diversi segnali di disimpegno da parte di governi, banche, imprese?
    “La transizione energetica è inevitabile e non c’è possibilità di dietrofront. Esiste però un problema di velocità nell’attuazione e di scala. A Dubai ci si impegnò a triplicare le rinnovabili e l’efficienza energetica. E non è successo. Ma succederà, fosse anche solo perché conviene dal punto di vista economico“. LEGGI TUTTO