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    Oceani sempre meno verdi, negli ultimi 20 anni è diminuito il fitoplancton

    Per la maggior parte blu, ma a volte, a tratti in maniera più o meno apprezzabile, anche verde. Parliamo dei colori di mari e oceani, dove vivono, tra gli altri, piccolissimi e preziosi organismi complessivamente noti come fitoplancton, come alghe e batteri fotosintetici, alla base della catena alimentare marina. Ma a viverci sono sempre meno: […] LEGGI TUTTO

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    Le scienziate: “Catturiamo le emissioni delle navi per aiutare gli oceani”

    Accompagnata dal ruggito dei motori, una portacontainer attraversa il Mediterraneo lasciando dietro di sé fumi inquinanti, che contribuiscono all’acidificazione degli oceani e al riscaldamento globale. Oggi il trasporto marittimo è, infatti, responsabile di circa il 2-3% delle emissioni di gas serra, una percentuale da ridurre con urgenza. A cimentarsi in questo ambizioso obiettivo sono due giovani scienziate: Alisha Fredriksson, laureata in business e scienze ambientali alla Minerva University, e Roujia Wen, con una laurea all’Università di Cambridge, nel Regno Unito, cui è seguito un master in fisica teorica. Insieme hanno fondato nel 2021, a Londra, la startup Seabound, ricoprendo rispettivamente i ruoli di amministratore delegato e di consulente tecnica.

    All’interno dell’azienda si è sviluppato il sistema chiamato Onboard Carbon Capture, una tecnologia basata sul principio del calcium looping, cioè su un ciclo chimico di assorbimento e rigenerazione del carbonio.

    Come funziona il sistema
    In pratica, i vapori di combustione prodotti dal motore della nave vengono convogliati in un contenitore riempito di piccole pietre bianche di calce viva, che reagiscono con l’anidride carbonica presente negli scarichi trasformandola in calcare, una sostanza solida sotto forma di minuscoli sassolini, facilmente stivabili a bordo. LEGGI TUTTO

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    Per salvarci dal riscaldamento globale dobbiamo “cambiare approccio”

    Mentre tutto cambia, fuori dalle finestre delle aule dell’Isola di San Servolo – dove studiano i giovani della Venice International University – si intravede un promemoria che ricorda a tutti una tendenza che non muta affatto: il livello del mare, qui, continua a crescere. In Laguna il livello del mare aumenta ogni anno, secondo uno studio dell’INGV, di quasi 0,59 centimetri: di questo passo gli esperti temono che entro il 2150 un’area di 139 chilometri quadrati della città di Venezia finirà per essere sommersa. Per questo, non a caso, proprio nel cuore della Laguna – davanti a San Marco e sull’isola di San Servolo – da giovedì centinaia di studenti, professori, esperti, policy makers, politici e rappresentanti del mondo dell’industria si sono dati appuntamento per la quarta Dolomite Conference “Global Governance del Climate Change and Sustainability – Venice Edition”, un appuntamento organizzato dal think tank Vision che mira a prendere di petto la questione climatica. L’idea base della conferenza è quella di mettere a confronto giovani ed esperti e trovare soluzioni pragmatiche da indicare e discutere in vista della COP30, la grande conferenza delle parti sul Clima che inizierà a novembre a Belem, nel cuore dell’Amazzonia.

    Oltre 100 i partecipanti a confronto: il 43% ha meno di 35 anni e più di un terzo è rappresentato da donne. In sostanza, agli stessi giovani di università quali Bocconi, Polimi, Ca’ Foscari e LUISS, tutti preoccupati per il loro futuro che sarà inevitabilmente condizionato dalla crisi del clima, viene offerta la possibilità di misurarsi con il mondo delle aziende e della politica per indicare in maniera concreta le scelte necessarie “non tanto per salvare il Pianeta, ma più che altro l’umanità” ricorda il professor Francesco Grillo, direttore di Vision. Chiusi nelle stanze di San Servolo, all’interno di quelli che vengono chiamati PSGG, i giovani lavorano così per elaborare soluzioni che verranno poi inserite nel Manifesto delle Dolomiti, documento che sarà presentato direttamente alla COP30. Per esempio si ragiona – grazie a un caso studio fatto sulle città di Barcellona e Atene – su quali strumenti di finanza pubblica e privata siano necessari per migliorare l’adattamento delle persone nelle città che si riscaldano e restano senz’acqua, suggerendo come un maggior coinvolgimento della finanza privata possa portare a benefici per i cittadini. Oppure, parlando di rifiuti, ci si interroga come possano le città andare oltre la differenziazione per migliorare la circolarità e la trasparenza lungo l’intera filiera o ancora come dovrebbero essere ridisegnate e riprogettate le città in grado da poter ospitare al meglio l’evoluzione dei veicoli a guida autonoma che, in futuro, saranno un modo per “per spostare persone e merci in modo più sostenibile”.

    L’evento

    Verso Cop30, a Venezia la Dolomite Conference sul clima

    di Giacomo Talignani

    07 Ottobre 2025

    E quali incentivi servirebbero – per esempio per rendere le città più green – per riuscire a coinvolgere di più i cittadini sia nel processo della transizione energetica sia nel ristrutturare abitazioni e infrastrutture energivore e fortemente emissive che oggi peggiorano la crisi del clima?. Sono tutte domande che gli studenti si pongono, e a cui tentano di trovare risposte, dopo un periodo estremamente difficile in cui il mondo sembra aver perso fiducia (e investimenti) nella lotta alla crisi del clima necessaria proprio per scongiurare scenari drammatici come quelli dell’innalzamento dei mari a Venezia, per esempio. Se ci pensiamo bene, ricorda Oliver Morton di The Economist, negli ultimi “tre anni è cambiato tutto. Prima il mondo ha imparato a uscire da una pandemia devastante, poi ci sono state le elezioni di Donald Trump. Nel mezzo due conflitti, l’imminente crescita dell’intelligenza artificiale e un’economia stravolta. Però una cosa non è cambiata: la tendenza delle temperature a salire, tanto che gli ultimi tre anni sono stati nuovamente fra i più caldi della storia”. E allora, chiede il giornalista scientifico ad una serie di relatori della Dolomites Conference, come possiamo fare a rimettere la questione climatica al centro?. La risposta, per tutti, è che bisogna cambiare, ripartire da come il nuovo mondo è stato ridisegnato negli ultimi tre anni e trovare dunque nuove soluzioni. Per l’ex ministro dell’Ambiente del Brasile, Izabella Teixeira, il cambiamento in atto ha portato attualmente a comandare nelle stanze “la politica, e non la politica climatica, quella che servirebbe ripristinare. Se vogliamo soluzioni al problema delle emissioni climalteranti dobbiamo partire dalle differenze: ogni Paese, e soprattutto quelli inquinatori, deve impegnarsi di più nei suoi NDC (i piani climatici) e renderli fattibili. Ma ci vuole anche più ambizione e cambiare approccio, un approccio che oggi deve mettere al centro le nuove sfide, che non sono più quelle di ieri, ma sono diverse, come per esempio la corsa ai minerali critici e alle risorse naturali che si sta verificando”.

    Che “qualcosa è cambiato”, parafrasando il titolo di un famoso film, è evidente anche per Carlo Carraro, ex rettore della Ca’ Foscari che ha lavorato ai rapporti dell’IPCC (Gruppo intergovernativo cambiamenti climatici). “Fra tante cattive notizie ci sono anche segnali incoraggianti – dice – come il fatto che in alcune aree, in Europa o Giappone o Gran Bretagna ad esempio, le emissioni stanno scendendo. Il problema è che la velocità a cui scendono, rispetto a quella con cui avanza il riscaldamento, è insufficiente. Però a mio parere per continuare a ridurle, per investire su questo cambiamento, abbiamo bisogno di cambiare e modificare i target, rivedendoli in maniera più realistica, dato che quello dei +1,5 gradi ad esempio ormai non lo è più. Rivedendo i target possiamo poi ripartire con nuovi obiettivi dai nuovi paesi industrializzati con strategie più concrete e fattibili. E poi, quello che servirebbe, è trovare un modo per ridistribuire i flussi di investimento: oggi sono spesso diretti verso la mitigazione, ma serviranno sempre di più per qualcosa di meno profittevole, come l’adattamento, perché la crisi del clima possiamo ridurla, ma non eliminarla”.

    Infine, aggiunge l’ex ministro Enrico Giovannini, direttore dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, per trovare nuovi strumenti nella lotta alla crisi climatica bisogna anche “cambiare linguaggio, usare nuove parole e concetti che colpiscano in maniera più diretta le persone. Negli ultimi tre anni abbiamo perso una cosa molto importante: i giovani nelle strade, come quelli di Fridays for Future, che ci ricordavano l’importanza di agire. Nel frattempo a livello internazionale tendiamo a cooperare sempre meno e competere di più e in questo contesto i cittadini si sono allontanati dalla questione climatica, spesso anche perché certi aspetti appaiono poco visibili. Se però, come ha fatto l’ex governatore Arnold Schwarzenegger, si parla direttamente di danni alla salute per inquinamento, le persone allora tendono ad ascoltare e ad unirsi alla battaglia”. Perché quindi – chiede Giovannini in una Venezia che soffre proprio di inquinamento – non parlare per esempio sempre di più di come smog e crisi del clima portano a 300mila morti premature ogni anno in Europa? Forse ci aiuterebbe a cambiare”. LEGGI TUTTO

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    Il frutto della discordia: l’olio di palma e la forza delle nostre scelte

    C’è un filo invisibile che collega le foreste pluviali del Borneo agli scaffali dei nostri supermercati. È la storia dell’olio di palma: il grasso vegetale più economico, versatile e controverso del Pianeta. Una storia che parla di deforestazione, biodiversità in pericolo, salute pubblica e, sorprendentemente, del potere dei consumatori. Quello nostre scelte.
    Ma facciamo un passo indietro.

    L’ascesa dell’ingrediente “perfetto”
    Sono gli anni ’90 quando l’industria alimentare scopre nell’olio di palma l’ingrediente perfetto: un prodotto che rimane semi-solido a temperatura ambiente, insapore, capace di garantire una lunga conservazione dei prodotti, facile da lavorare ed economico. La domanda esplode, il suo impiego diversifica e l’olio di palma diventa un ingrediente chiave in ambiti disparati. Si trova in biscotti, gelati, crackers ma anche saponi, cosmetici, e persino come componente dei biocarburanti.

    Il Fuoco e l’inizio della crisi globale
    Le prime immagini satellitari, però, iniziano a rivelare un impatto devastante: ettari di foresta primaria tropicale in Indonesia e Malesia scompaiono fra le fiamme, sostituiti da immense distese di monocolture di palma da olio. Tra il 2001 e il 2015, le piantagioni di palma da olio crescono di 22 milioni di ettari, con un incremento dell’impronta del 167% a livello globale. Le province di Kalimantan, Riau e Sarawak, situate tra Indonesia e Malesia, si affermano come epicentri di questa espansione, dove oltre la metà delle foreste naturali viene sostituita dalle coltivazioni Anche nel Borneo, caratterizzato da una biodiversità unica e straordinaria, il 50% della perdita di foreste tra il 2005 e il 2015 è direttamente legato alla diffusione della palma da olio. di biodiversità. Alla deforestazione si aggiungono altri impatti devastanti: la distruzione delle torbiere, l’aumento degli incendi, l’inquinamento dell’aria e delle acque e le crescenti emissioni di gas serra. Tutto ciò minaccia gravemente sia la biodiversità sia i mezzi di sussistenza delle comunità locali. Le prime denunce delle organizzazioni ambientaliste cercano di portare alla luce questo enorme disastro, senza grandi risultati.

    Biodiversità sotto assedio
    Secondo l’IUCN, almeno 193 specie rischiano l’estinzione a causa della conversione delle foreste in piantagioni, tra cui tutte e tre le specie di orango, la tigre e il rinoceronte di Sumatra, oltre a gibboni, tapiri malesi, pangolini e macachi. Molti uccelli hanno perso fino all’80% del loro habitat e alberi e piante endemiche sono state cancellate nel momento in cui le foreste pluviali sono diventate vaste monoculture. L’orango è il volto internazionale della lotta contro la deforestazione da olio di palma, ma la crisi non è solo ecologica: intere popolazioni indigene vengono cacciate dalle loro terre, private dei mezzi di sussistenza e dei loro diritti tradizionali. L’olio di palma diventa così il simbolo di uno sviluppo insostenibile, il volto oscuro della nostra domanda di cibo (e non solo) a basso costo. L’allarme del movimento ambientalista resta però a lungo inascoltato.

    Il risveglio dei consumatori
    Nel 2016, come nel miglior colpo di scena, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) lancia l’allarme: durante i processi di raffinazione ad alte temperature (oltre i 200°C) a cui è sottoposto l’olio di palma, si formano contaminanti potenzialmente cancerogeni, e altri rischiosi per reni e fertilità maschile. I livelli di esposizione, soprattutto per bambini e adolescenti, sono stati giudicati motivo di “grave preoccupazione per la salute”, poiché possono superare le dosi giornaliere raccomandate. L’allarme sanitario si aggiunge a quello ambientale creando un cocktail esplosivo di paura. L’Italia reagisce con forza e si intensifica la già iniziata “palm oil-free mania”: migliaia di consumatori armati di smartphone, blog, inchieste televisive, campagne social e app scandagliano etichette e codici a barre. La scelta di non mettere nel carrello un prodotto con olio di palma diventa una rivoluzione silenziosa guidata dai consumatori, che spinge l’industria alimentare italiana a rivedere le proprie ricette e a rimuovere in poco tempo un ingrediente che sembrava insostituibile.

    La via sostenibile
    Oggi, grazie al materiale scientifico a disposizione, la vera questione non è se usare l’olio di palma, bensì come viene prodotto. Bandirlo completamente, sposterebbe la domanda verso colture alternative potenzialmente anche più impattanti. La palma da olio, infatti, è la coltura oleaginosa più efficiente al mondo, in grado di produrre fino a cinque volte più olio per ettaro rispetto alla soia, alla colza o al girasole. La sfida è promuovere una produzione di olio di palma sostenibile, certificata e trasparente, guidando il mercato verso pratiche responsabili che proteggano foreste, biodiversità e comunità locali senza sostituirlo con colture non necessariamente più sostenibili ì. La risposta a questa sfida sono le certificazioni come l’RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), che il WWF sostiene e sollecita a migliorare continuamente, affinché garantisca davvero il rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. E invita i cittadini a fare scelte informate, anche nei settori meno visibili, dove il business dell’olio “non certificato” continua a prosperare in tantissimi prodotti quotidiani (come shampoo, detersivi, dentifrici e candele).

    La lezione del frutto della discordia
    La storia dell’olio di palma ci insegna che non esistono soluzioni facili a problemi complessi, né scorciatoie quando si parla di sostenibilità. Il vero problema qui non è una singola coltura, ma il modello di agricoltura industriale che privilegia il profitto all’ambiente. La consapevolezza è il nostro potere: conoscere le certificazioni e la provenienza dei prodotti è la chiave per scelte davvero responsabili. La deforestazione continua, infatti, senza sosta nelle foreste tropicali e l’EUDR, il regolamento europeo contro la deforestazione importata, tarda a entrare pienamente in vigore. Ma i cittadini possono agire. Ogni gesto quotidiano può trasformarsi in un atto di responsabilità ambientale, ricordandoci che ogni decisione, per piccola che sembri, può cambiare il destino del Pianeta.
    La salute del Pianeta inizia da quello che decidiamo oggi.

    Costruire un futuro sicuro a partire dal nostro presente è necessario e possibile, soprattutto facendo tesoro delle esperienze collettive già vissute.

    “Storie di sostenibilità” è la nuova rubrica del WWF nell’ambito della campagna Our Future
    *Eva Alessi è responsabile sostenibilità WWF Italia LEGGI TUTTO

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    Dopo la carne, sulle nostre tavole anche il pesce coltivato in laboratorio

    Fra un paio d’anni – questa è la speranza dei produttori – sulle tavole europee potrebbe arrivare un prodotto decisamente innovativo e controverso: il pesce coltivato in laboratorio. Una frontiera, quella del pesce creato dall’uomo grazie a cellule animali, che ha un grande vantaggio rispetto alla già discussa carne “sintetica”: lo potremmo ottenere con un dispendio energetico molto più basso e i prodotti, almeno teoricamente, saranno privi di inquinamento da microplastiche o metalli pesanti. Per comprendere perché l’idea della carne di pesce nata in laboratorio sta prendendo piede nel mondo e punta a un commercio anche in Europa, dopo che i primi salmoni nati in vitro sono già stati venduti nei ristoranti Usa, bisogna fare un piccolo passo indietro.

    Alimentazione

    Negli Usa il salmone coltivato in laboratorio servito al ristorante, ma non ovunque

    di Paolo Travisi

    26 Settembre 2025

    Oggi, nel Pianeta, le proteine del pesce e dei frutti di mare sono alla base della dieta di circa il 20% della popolazione, soprattutto in mercati come l’Asia. Allo stesso tempo però, nei mari che soffrono per il riscaldamento globale, l’acidificazione, la perdita di barriere coralline e l’inquinamento da plastica, con la grande complicità della sovrapesca moltissimi degli stock ittici nelle ultime decadi si sono ridotti e impoveriti. C’è meno pesce e, talvolta, anche di minore qualità. In un mondo dove nel 2050 potremmo arrivare a 10 miliardi di persone e siamo costretti a un maggiore impegno per la tutela della natura se non vogliamo rimanere senza risorse. Servono dunque nuovi equilibri che passino anche per tecnologia e innovazione. Così è stato per esempio per la carne coltivata in laboratorio, già consumata in varie parti del mondo anche se in Italia – vedi le drastiche posizioni del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida – la produzione e il commercio dal 2023 sono vietate per legge. Anche se mancano ancora approvazioni per il commercio di carne di pesce coltivata in laboratorio in una Europa apparsa recentemente sempre più conservatrice rispetto ai nuovi prodotti del mercato (vedi la recente bocciatura di uso di nomi animali su cibi vegetali, come i burger veg) proprio all’interno del Vecchio Continente, come in Belgio o in Germania, ci sono già aziende che stanno sperimentando la coltivazione del pesce.

    Queste aziende, come la tedesca Bluu Seafoods o i belgi di Fishway e altri, usando vari metodi – tra cui cellule staminali e cellule muscolari, ma anche strategie di fabbricazione che passano per stampe 3D – per provare ad ottenere il miglioramento della crescita cellulare e dei tessuti, il tutto al fine di produrre una carne di pesce coltivata in grado di ridurre significativamente la pesca eccessiva, le emissioni di gas serra e di offrire una via praticabile verso la sicurezza alimentare globale. Con lo sfruttamento globale di oltre un terzo di tutti gli stock ittici negli ultimi anni c’è stata una forte ascesa dell’acquacoltura (gli allevamenti di pesce) che è stata fondamentale per garantire una fonte alternativa, alla pesca classica, di proteine ittiche. La produzione di pesci attraverso acquacoltura secondo alcune stime raddoppierà nei prossimi 25 anni ma questo metodo non è esente, oggi, da preoccupazione per uso di risorse, inquinamento e impatti su ecosistemi ed habitat, oltre all’uso di antibiotici e fitosanitari che possono portare a rischi ambientali. Viste queste criticità l’idea di produrre pesce in laboratorio è cresciuta negli ultimi cinque anni ma ha almeno tre grandi sfide davanti: la prima è quella di ottenere una carne con consistenza, sapori e composizioni nutrizionali simili a quella del pesce selvatico, poi deve superare l’approvazione delle leggi a livello globale e infine, fattore decisivo, deve essere accettata dai consumatori.

    Un’abitudine che, dagli Usa ad alcune realtà dell’Asia, comincia a prendere piede, tanto che i produttori di pesce coltivato hanno raccontato di recente a Euractiv di puntare sul fatto che entro il 2030, forse con regole già accettate nel 2027, il pesce nato in laboratorio possa arrivare sulle tavole degli europei. Il prossimo anno, dicono per esempio gli scienziati di Bluu Seafoods, a Singapore verrà lanciato il primo “caviale” nato in laboratorio. Poi sarà la volta di anguille, spigole e via dicendo. Secondo il think tank Good Food Institute Europe questo mercato globale ha il potenziale di mercato di 510 miliardi di euro entro il 2050 se l’Asia trainerà i consumi. Uno degli aspetti che rendono più sostenibile questo processo secondo i produttori è anche un dispendio energetico minore: a differenza della carne per coltivare il pesce servono infatti minori temperature da raggiungere durante la crescita. Sia Bluu che Fisheway, nella speranza di vedere i loro prodotti commercializzabili nell’Ue a breve, spiegano inoltre di non essere contrari a pesca tradizione e acquacoltura, ma di proporsi come alternativa che aiuti a colmare il divario fra domanda e offerta del futuro.

    Per ora, anche le lobby della pesca sembrano accettare questa visione: Daniel Voces, direttore di Europêche, ha raccontato a Euractiv come “il pesce coltivato in laboratorio non rappresenta una minaccia per il settore: al massimo, potrebbe diventare una fonte complementare, come l’acquacoltura, per soddisfare la crescente domanda globale di alimenti blu in futuro e la pesca tradizionale avrà sempre il suo posto e un forte riconoscimento sul mercato come fonte di proteine naturale, sana e a basse emissioni di carbonio”. Uno dei possibili mercati di sviluppo del pesce coltivato in laboratorio è quello del sushi e di formati pronti al consumo: determinate specie sotto pressione, come i salmoni ad esempio, potrebbero essere selezionati proprio per questo tipo di commercio. Alcuni paesi, come Singapore, Nuova Zelanda o Australia, sembrano voler aprire le porte a questa opportunità anche se lo sviluppo del pesce in vitro su larga scala è ancora lontano per ora. Le aziende europee già attive nel settore però ci credono ma il punto è: lo accetteranno, anche in nome della sostenibilità e dell’ambiente, i consumatori? LEGGI TUTTO

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    La banana tech che non annerisce è tra le migliori invenzioni del 2025 dal Time

    Il Time l’ha appena inserita nella lista delle Best Inventions 2025, stiamo parlando della banana innovativa che non annerisce dopo il taglio, sviluppata dalla startup britannica Tropic Biosciences, questa speciale varietà di banane rimane gialla, soda e gustosa anche dopo essere stata sbucciata. Il merito è di una modifica che spegne il gene responsabile della polifenolossidasi, l’enzima che fa scurire la frutta. “Niente DNA estraneo, niente organismi geneticamente modificati nel senso classico del termine: solo un interruttore biologico disattivato con la tecnologia CRISPR” – che sta per Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats, ovvero sequenze geniche che si ripetono a intervalli regolari.

    I co-fondatori di Tropic Biosciences, Eyal Maori e Gilad Gershon  LEGGI TUTTO

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    Carbon credit, la grande illusione: “Non riducono il riscaldamento globale”

    Altro che crediti di carbonio. Il meccanismo “premiale” usato da aziende e governi per dichiararsi neutrali rispetto alle emissioni sembra essere molto meno efficiente di quanto si pensasse, o si sperasse. A renderlo inefficace, secondo una revisione della letteratura scientifica sul tema appena pubblicata sulla Annual Review of Environment and Resources, sarebbero “problemi sistemici irrisolvibili” – ossia criticità intrinseche al meccanismo e non responsabilità di poche “mele marce” – che rischiano di minare l’impegno per il contrasto alla crisi climatica e gettano un’ombra scura su un mercato, il cosiddetto Voluntary Carbon Market (Vcm) che nel 2022 ha raggiunto il valore di 2 miliardi di dollari. Nel loro studio, gli autori, tre esperti della University of Pennsylvania, della University of California, Berkeley, della University of Oxford e della University of Sussex, hanno analizzato decenni di ricerche e dati, concludendo che la maggior parte dei programmi di compensazione del carbonio più diffusi “continua a sovrastimare enormemente il proprio probabile impatto climatico, spesso di un fattore da cinque a dieci o più”.

    In teoria, il meccanismo del carbon credit, o crediti di carbonio, è semplice. Un’azienda o un governo che emette gas serra può “compensare” le proprie emissioni acquistando crediti, per l’appunto, generati da progetti che riducono, evitano o rimuovono la CO2 dall’atmosfera in un altro luogo. Ogni credito dovrebbe corrispondere a una tonnellata di CO2 equivalente (CO2e) non emessa o rimossa: esempi tipici di questi progetti sono la prevenzione della deforestazione, la costruzione di impianti di energia rinnovabile o la cattura dei gas dalle discariche. A fronte dell’acquisto di questi crediti, le aziende si fregiano infine dell’etichetta di net-zero o carbon neutral, che applicano sui loro prodotti o servizi. A quanto pare, però, non è tutto oro quel che luccica. La ricerca appena pubblicata, infatti, ha evidenziato diversi difetti strutturali che hanno afflitto il mercato dei crediti di carbonio fin dalla sua nascita, nonostante i ripetuti tentativi di riforma, e hanno reso la pratica pressoché inefficace, o comunque molto meno efficace delle aspettative (e delle dichiarazioni). Il primo problema, e il più critico, sta nella cosiddetta addizionalità: un progetto, dicono gli esperti, è “addizionale” solo se non si sarebbe realizzato senza i finanziamenti derivanti dalla vendita dei crediti di carbonio. Ma molti studi hanno dimostrato che un’enorme quantità di crediti è stata generata da progetti, come impianti eolici o idroelettrici, che sarebbero comunque stati costruiti perché già redditizi. E che quindi non rappresentano un vero “valore aggiunto”, anche perché, scrivono gli autori, “è impossibile sapere con certezza cosa sarebbe successo senza il meccanismo dei crediti di carbonio”.

    Focus

    Cop29, primo accordo sui crediti di carbonio: cosa cambia davvero?

    di Nicolas Lozito

    13 Novembre 2024

    Un altro problema è la sovrastima (overcrediting): le analisi hanno evidenziato che i programmi di compensazione sovrastimano sistematicamente le riduzioni di emissioni. Un meta-studio del 2024, citato nel lavoro appena pubblicato, ha stimato in particolare che meno di un credito su sei, tra tutti quelli studiati, rappresentava un una reale riduzione delle emissioni. Maglia nera per i progetti per la gestione forestale migliorata o per la prevenzione della deforestazione, per cui i tassi di sovrastima si sono rivelati particolarmente alta: nei casi peggiori i crediti “fantasma” sono in un rapporto di 12 a 1 rispetto ai benefici reali. E ancora: la questione delle perdite, un fenomeno che si verifica quando per esempio la protezione di un’area forestale sposta semplicemente altrove la deforestazione: se si paga un proprietario terriero per non tagliare i suoi alberi (acquistando così un certo credito di carbonio), le aziende che producono legname possono semplicemente acquistare un terreno vicino e proseguire la propria attività, annullando il beneficio climatico. E infine, ultimo ma non meno importante, il problema legato alla permanenza del carbonio: la CO2 legata ai combustibili fossili rimane in atmosfera per secoli, e i progetti di compensazione, specie (ancora una volta) quelli relativi alle foreste, non possono garantire una durata comparabile. Incendi, siccità, parassiti o cambiamenti nell’uso del suolo possono rilasciare nuovamente il carbonio immagazzinato, vanificando, e rendendo “impermanente” il beneficio nel tempo.

    Facendo riferimento a una delle più banali leggi del mercato, quella del rapporto tra domanda e offerta, gli autori dello studio individuano nella domanda persistente di crediti di carbonio a basso costo una delle cause principali di scarsa qualità del mercato. Sostanzialmente, spiegano, dal momento che ogni credito ha un valore nominale di una tonnellata di CO2e, gli acquirenti sono incentivati a scegliere i crediti più economici, che tendono a essere quelli di qualità inferiore: si crea così una “corsa al ribasso” in cui gli sviluppatori di progetti competono sul prezzo anziché sulla qualità. A fronte di uno scenario così sconfortante, la raccomandazione principale degli autori del lavoro è drastica: bisogna abbandonare l’approccio basato sulla compensazione per la maggior parte dei progetti e concentrarsi solo su due direttrici: anzitutto, finanziare soltanto progetti di alta integrità, ossia addizionali, permanenti e senza perdite (per esempio alcuni progetti di ricattura dei gas delle discariche o di fornitura di cucine pulite ed efficienti); e poi passare da un modello di “acquisto” a uno di “contributo”: in altre parole, le aziende dovrebbero finanziare progetti senza illudersi di annullare le proprie emissioni, ossia “assumersi la responsabilità delle emissioni senza compensarle”. Possibile? Certamente. Probabile? Un po’ meno. LEGGI TUTTO

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    Ecco come rimuoviamo la CO2 dall’atmosfera risparmiando energia

    Ha inventato una tecnologia che aspira la C02 dal cielo. L’ha trattata come un rifiuto industriale da gestire e smaltire in sicurezza. Ha aperto così la strada a un nuovo settore ad altissima innovazione. È un astrofisico: Giuliano Antoniciello, founder di CarpeCarbon, la prima azienda italiana che sviluppa e commercializza sistemi di rimozione della CO2 […] LEGGI TUTTO