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    Aree protette, parchi e riserve naturali alle prese con le sfide del clima

    Parchi nazionali, riserve regionali, riserve statali, aree marine protette e i siti della Rete Natura 2000. L’Italia possiede un complesso sistema di aree protette. Se ne contano 1049, una rete di zone naturali a tutela del grande patrimonio di biodiversità della Penisola. Oltre 5 milioni di ettari di territorio tra montagne, fiumi, laghi, coste, aree umide e vulcani. 24 parchi nazionali, 30 aree marine protette (il santuario Pelagos e 2 parchi sommersi), 149 riserve naturali statali, 149 parchi regionali, 450 riserve regionali e 5 parchi geominerari. A questi vanno aggiunte altre aree protette nazionali e regionali, i siti Natura 2000; le zone umide della lista Ramsar; le riserve Unesco e le zone speciali di conservazione. Un sistema naturale che coinvolge 2.500 comuni e interessa una popolazione di oltre 10 milioni di cittadini.

    Conferenza dell’Onu

    Cop16, nessuna intesa per salvare la biodiversità nei paesi più vulnerabili

    di  Luca Fraioli

    04 Novembre 2024

    Le sfide imposte dal clima
    Ma se è chiaro, che il rafforzamento degli ecosistemi è considerato fondamentale per rendere più resistenti i territori ai disastri naturali, rimangono problemi ancora aperti, come quello di contenere il consumo di suolo nei parchi e riserve. Per questo motivo, operatori, ricercatori e esponenti delle associazioni ambientaliste chiedono la revisione della normativa per renderla più coerente con le esigenze imposte dalle nuove sfide. Come il cambiamento climatico e gli obiettivi posti dalla Nature Restoration Law e la Strategia europea per la Biodiversità che punta al raggiungimento del 30% di aree protette entro il 2030. Di questo e di altro si parla a Roma nella due-giorni (17-18 dicembre) organizzata dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica. Al centro del dibattito degli Stati Generali delle aree protette la modifica della Legge quadro (394 del 1991) che lo scorso 6 dicembre ha compiuto 33 anni. Una norma che ha avuto molti aspetti positivi, soprattutto ha dato la spinta per realizzare quel sistemi di parchi e riserve, sia terrestri che marine che oggi interessa l’11% del territorio nazionale.

    Biodiversità

    Con piste da sci sempre più in quota a rischio gli habitat degli animali d’alta montagna

    di  Pasquale Raicaldo

    12 Dicembre 2024

    Aree al centro della rigenerazione dei territori
    Aree naturali che, rimesse al centro dei percorsi di rigenerazione del territorio, negli anni hanno prodotto un effetto benefico su quei 10 milioni di italiani che ci vivono accanto. Nei parchi nazionali la superficie agricola ammonta a 752.400 (50,9%) ettari con 55 mila occupati e una diffusione di imprese agricole del 21,4%. Un sistema grazie al quale tutelando la biodiversità, ha salvato molte specie dall’estinzione. “L’Italia- ha spiegato Claudio Barbaro, sottosegretario all’ambiente e alla sicurezza energetica, con delega alle aree protette – è uno dei primi paesi al mondo per biodiversità, con un alto numero di aree protette, che non sono mai state messe a sistema: per farlo occorre ripensare alla legge 394 in maniera altrettanto sistemica”.

    Maggiori investimenti
    L’obiettivo degli Stati Generali è quindi di chiedere alle istituzioni maggiori investimenti per le aree protette, sistemi importanti contro i cambiamenti climatici. Il rischio è che la mancanza di investimenti, le aree protette (parchi e riserve) non siano più considerate come laboratori di biodiversità e di sostenibilità. Una prima risposta è arrivata sempre da Claudio Barbaro: “In questi due anni di governo mi sono interfacciato con diversi operatori delle aree protette e se c’è una cosa su cui siamo tutti d’accordo è che la legge quadro sulle aree protette, la 394, va emendata. L’obiettivo per il 2025 non è solo quello di un mero rinnovo e aggiornamento, ma di passare da un sistema di gestione atomizzato, frammentato e diviso, a un sistema di rete”. Le conclusioni il 18 dicembre. LEGGI TUTTO

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    L’uccello più vecchio del mondo torna mamma a 74 anni

    In natura gli albatri hanno un’aspettativa di vita di circa 30 anni. Alcuni, i più fortunati, possono sperare di arrivare a superare i 50 anni. E poi c’è Wisdom, una femmina di albatro di Laysan (Phoebastria immutabilis) che sembra immune allo scorrere del tempo: ad un’età stimata di circa 74 anni, infatti, non solo è l’uccello selvatico più vecchio attualmente vivente, ma è in procinto di diventare nuovamente mamma, nonostante l’età e la perdita del suo compagno di una vita, un evento piuttosto traumatico in una specie solitamente monogama.

    Wisdom è uno dei milioni di uccelli che ogni anno tornano all’atollo di Midway, nei pressi delle Hawaii, per nidificare durante la stagione degli amori. Ed è qui, nel Midway Atoll National Wildlife Refuge, che è stata osservata e “taggata” per la prima volta dai ricercatori dello United States Geological Survey nel 1956. Da quel momento, gli scienziati americani ne hanno seguito gli spostamenti anno dopo anno, studiando le abitudini di questi incredibili uccelli, la cui apertura alare di oltre due metri li rende capaci di compiere viaggi di più di 1.500 chilometri durante le loro battute di caccia alla ricerca di cibo. Nel 1956 venne stabilito che Wisdom doveva avere circa cinque anni, l’età in cui gli albatri di Laysan raggiungono la maturità sessuale. Ed infatti, quella fu la prima di oltre 50 covate effettuate dall’albatro dei record sotto gli occhi attenti dei ricercatori americani. Nel corso di una vita avventurosa, destinata ad entrare nella legenda.

    Dalle stime di Chandler Robbins, l’ornitologo che inanellò Wisdom con la sua prima tag per il monitoraggio (negli anni ne ha cambiate sei), l’uccello ha percorso oltre quattro milioni e ottocentomila chilometri in volo nella sua vita, l’equivalente di circa 120 giri intorno alla Terra. Ed essendo vissuta molto più a lungo di qualunque altro albatro vivente, continuando a deporre e covare uova per quasi 70 anni, ha avuto diversi partner nell’arco dei decenni. Un comportamento veramente raro, visto che questa specie di uccelli è monogama, e solitamente le coppie restano unite a vita.

    Il suo ultimo compagno, Akeakamai, era scomparso nel 2021, e per diversi anni Wisdom si era tenuta sulle sue, lasciando immaginare che avrebbe smesso di riprodursi. Per questo l’avvistamento di quest’anno ha lasciato di stucco i ricercatori del Midway Atoll National Wildlife Refuge: dopo 3 anni di lutto, Wisdom ha trovato un nuovo compagno, e deposto un uovo che, a detta degli specialisti, ha ottime chance di schiudersi. Ed è quindi destinata a stabilire un nuovo record: quello del più vecchio uccello ad essersi mai riprodotto, almeno per quanto è dato sapere LEGGI TUTTO

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    Delle foreste pluviali abitate da animali vertebrati solo il 25% è davvero integro

    L’integrità delle foreste pluviali è un fattore determinante per la conservazione della biodiversità. Al di là dell’estensione delle foreste stesse è infatti importante valutare quali di queste aree sono davvero intatte, ossia non soggette a disboscamento, costruzione di infrastrutture o attività di estrazione, e quindi idonee per la sopravvivenza delle specie che le abitano. Un gruppo di ricercatori e ricercatrici ha provato a rispondere a questa domanda: dai risultati dello studio, pubblicato su PNAS, è emerso che solo il 25% delle foreste pluviali abitate da animali vertebrati è davvero integro, nonostante il 90% degli areali delle specie prese in considerazione sia effettivamente coperto da foreste. Ossia, dai risultati emerge una forte sproporzione fra l’estensione delle foreste e la loro integrità.

    Nel dettaglio, gli autori dello studio hanno valutato la disponibilità a livello globale di foreste pluviali tropicali strutturalmente intatte e indisturbate dalle attività antropiche per oltre 16.000 specie di mammiferi, uccelli, rettili e anfibi. Per farlo hanno utilizzato due indicatori: lo Structural Condition Index (SCI) e il Forest Structural Integrity Index (FSII). Il primo è in sostanza una misura della copertura arborea di un certo areale, che tiene in considerazione anche l’altezza (e quindi indirettamente l’età) delle piante. Il secondo combina lo SCI con il cosiddetto Human Footprint, una misura della pressione antropica esercitata sulle aree naturali di tutta la Terra.

    Biodiversità

    Dove vivete ci sono abbastanza alberi? Per scoprirlo c’è la regola del “3+30+300”

    di  Giacomo Talignani

    19 Novembre 2024

    “Complessivamente, fino al 90% della copertura forestale rimane ancora all’interno degli areali di queste specie, ma solo il 25% è di alta qualità, un fattore critico per ridurre il rischio di estinzione – commenta James Watson, docente presso la School of The Environment dell’Università del Queensland (Australia) e co-autore dello studio – Sapevamo che le foreste pluviali ad alta integrità sono vitali per la biodiversità, ma nessuno aveva quantificato quanto limitati fossero diventati questi habitat chiave”.

    Non solo, un risultato preoccupante emerso dalla ricerca è che l’impatto antropico riguarda soprattutto le specie già a rischio. Per esempio, solo il 9% delle foreste abitate da uccelli considerati a rischio di estinzione è risultato di elevata integrità, rispetto al 26% per quanto riguarda gli areali degli uccelli non minacciati. Analogamente, solo il 6% delle foreste abitate da anfibi con popolazioni in declino è risultato intatto, rispetto al 36% di quelle abitate da anfibi non a rischio.

    Il sondaggio

    Un italiano su tre non sa che gli alberi assorbono CO2 e non solo

    di redazione Green&Blue

    19 Novembre 2024

    “Il semplice fatto di avere una copertura forestale non è sufficiente se la complessità strutturale e il basso livello di disturbo umano necessari per la biodiversità vengono meno – conclude Rajeev Pillay, che ha coordinato lo studio ed è ricercatore presso il Natural Resources and Environmental Studies Institute dell’Università della Northern British Columbia (Canada) – Per proteggere le rimanenti foreste pluviali tropicali ad alta integrità è fondamentale un coordinamento globale per ridurre al minimo il disturbo umano, soprattutto nelle foreste non protette che rimangono vitali per la biodiversità”. LEGGI TUTTO

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    Il bello del cotoneaster tra fiori e bacche: i consigli

    Il cotoneaster – noto anche come cotonastro o cotognastro – è un genere di arbusto che fa parte della famiglia delle rosacee. Il cotognastro è diffuso in modo particolare in Europa, Asia (soprattutto Cina e area himalayana) e Africa Settentrionale. Il suo habitat ideale è soprattutto negli ambienti boschivi temperati. Vi sono più di 100 specie di cotoneaster che si possono classificare tra erette, striscianti e, infine, alcune orizzontali: in quest’ultimo caso, la pianta si definisce spesso come cotognastro prostrato. Le foglie sono solitamente di forma ovale, lanceolata con disposizione alternata e, nel caso delle specie caducifoglie, assumono una caratteristica colorazione rossa durante l’autunno. Tra le specie più diffuse, possiamo citare:

    il cotoneaster horizontalis salicifolia, sfruttato soprattutto nei giardini con pendii o terreni che tendono a franare;
    il cotoneaster dammeri, apprezzato per realizzare piacevoli bordure, grazie alla sua delicata fioritura bianca e le bacche di tonalità rosso-aranciata.

    Qual è l’esposizione più indicata per la pianta?
    Il cotoneaster è una pianta particolarmente rustica e senza esigenze colturali impegnative, la cui esposizione ideale è in pieno sole o, in alternativa, in penombra. Nel caso delle specie sempreverdi, evitiamo di esporre gli esemplari alle correnti di aria fredda. Le varietà di cotognastro a foglie caduche possono tollerare senza problemi l’esposizione in pieno sole e sopportano temperature minime fino ai -15 gradi.

    Il terreno ideale per la sua coltivazione
    Il cotoneaster è piuttosto versatile per quanto riguarda il terreno in cui coltivarlo. La pianta predilige i terreni mediamente fertili, sebbene sia in grado di crescere anche in quelli calcarei o argillosi. In ogni caso, è molto importante che il terreno sia ben drenante, in modo tale che non vi sia del ristagno di acqua tra le radici. Il momento ideale per trapiantare il cotoneaster è compreso tra il tardo autunno e la prima metà dell’inverno, quando il terreno non è inzuppato, ghiacciato o innevato. Per la messa a dimora, scaviamo una buca profonda tra i 30-50 centimetri, in fondo alla quale sistemiamo della ghiaia per favorire il drenaggio. Per stimolare la crescita del cotognastro, possiamo anche arricchire il terreno con un po’ di concime stagionato. Durante l’operazione di trapianto, prestiamo attenzione a non danneggiare l’apparato radicale: la stessa accortezza adottiamola anche qualora dovessimo rinvasare la pianta. In quest’ultimo caso, scegliamo un contenitore che abbia un diametro di circa 2 centimetri più ampio rispetto al vaso precedente.

    Innaffiatura, concimazione e potatura
    Il cotoneaster richiede un’innaffiatura regolare nel corso del primo anno di vita, soprattutto durante il periodo compreso tra primavera-estate nelle aree climatiche più siccitose. Seppure sia necessario mantenere un buon livello di umidità, è altrettanto importante evitare di inzuppare il terreno, giacché un eventuale ristagno idrico a livello radicale potrebbe essere molto dannoso per la pianta. Per la concimazione del cotoneaster possiamo usare del concime granulare a rilascio lento, a partire dalla fine dell’inverno e sino alla conclusione dell’estate. Le specie a foglia caduca di cotoneaster possono essere potate quando l’inverno è concluso. Nel caso delle varietà sempreverdi, invece, la potatura deve avvenire al più tardi verso metà primavera. In ogni caso, teniamo presente che le varietà di cotoneaster tappezzante richiedono unicamente degli interventi di potatura per rimuovere i rami morti o danneggiati.

    Il periodo di fioritura del cotoneaster
    Il cotoneaster giunge a fioritura nel periodo compreso tra la primavera e l’estate, regalando una miriade di piccoli fiori che possono essere di color bianco o rosa, o con sfumature rosate. Nel corso dell’autunno, invece, la pianta produce dei piccoli frutti, drupe, che nell’aspetto ricordano delle piccole mele di una tonalità cromatica tra il rosso-rosaceo o aranciato. Queste drupe sono particolarmente persistenti e molto gradite agli uccelli.

    Come moltiplicare la pianta
    Possiamo moltiplicare il cotoneaster tramite la semina o la talea. Il momento ideale per seminare il cotognastro è nel periodo autunnale, procurandoci i semi dai frutti e sistemandoli in vasetti con terriccio che facilita la germinazione. In alternativa, possiamo ottenere una talea semi-legnosa durante il periodo primaverile. In entrambi i casi, attendiamo l’anno seguente per trapiantare questo nuovo esemplare di cotoneaster.

    Le malattie e i parassiti più comuni
    Il cotoneaster può essere colpito da diversità avversità, tra le quali, il cosiddetto “colpo di fuoco batterico” è quella più pericolosa. Questa malattia, particolarmente infettiva, è causata dal batterio erwinia amylovora, che può essere trasportato da insetti, uccelli o anche utensili contaminati. Quando il cotoneaster è colpito da questa malattia i fiori diventano scuri e tendono a seccarsi velocemente, mentre i tralci e le foglie dell’arbusto si imbruniscono e si seccano. Se la pianta è colpita da questa avversità, purtroppo non resta altro da fare che rimuoverla. Il cotoneaster può essere inoltre attaccato dalla cocciniglia: in questo caso, le foglie presentano delle macchie marroni. Per eliminare l’avversità, possiamo sfruttare un batuffolo di ovatta imbevuto di alcol. Infine, il cotognastro può essere soggetto al marciume radicale causato dall’armillaria mellea, che provoca un aspetto stentato e l’ingiallimento della pianta. Possiamo contrastare questa avversità con un fungicida a base di rame. LEGGI TUTTO

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    Dai pannelli alle caldaie: aumentano gli impianti finanziati dal “Conto termico”

    Stop ai contributi per l’acquisto delle caldaie a gas e via libera a quelli per i pannelli solari se installati insieme ad un impianto di riscaldamento a pompa di calore. Cambia volto il Conto Termico, la misura che consente di avere il rimborso immediato delle spese per l’efficientamento energetico in alternativa alla detrazione fiscale. La […] LEGGI TUTTO

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    Le città dove il cambiamento climatico ha fatto sparire intere settimane sotto zero

    Ci sono città in Italia dove per effetto della crisi climatica la neve è solo un ricordo. Le nuove temperature globali nel nostro Paese hanno di fatto portato alla perdita di un’intera settimana di temperature invernali sotto lo zero nell’arco della decade 2014-2023. Significa che sempre più realtà stanno sperimentando inverni meno freddi di prima, anche se quello in corso – per via del fenomeno naturale de La Niña che è attualmente in formazione e si farà sentire da inizio 2025 – potrebbe regalare giornate decisamente gelide. A raccontare come la crisi del clima innescata dalle emissioni dell’uomo sta trasformando gli inverni nel mondo è una nuova analisi di Climate Central. All’interno di un report dove vengono analizzati 123 Paesi e 901 città del Pianeta, i ricercatori spiegano come ormai a livello mondiale più di un terzo di tutte le nazioni analizzate e quasi la metà delle città prese in esame sta sperimentando una settimana in più sopra lo zero rispetto al passato, con impatti chiari su ecosistemi, vite, ma anche sport invernali e turismo, accumulo delle risorse idriche, oppure colture e persino su allergie primaverili.

    Meteo

    La Niña potrebbe arrivare presto e portare freddo e neve ma sarà debole e breve

    di  Giacomo Talignani

    12 Dicembre 2024

    All’interno del rapporto diversi dati raccontano anche come sono cambiate le città d’Italia. Nel lungo elenco di oltre novecento metropoli del mondo esaminate ci sono infatti ben tre italiane tra le prime dieci posizioni, con Torino che risulta addirittura la terza città con il maggior numero di giorni sopra lo zero che, di fatto, sono stati “aggiunti” dal riscaldamento globale. Per Torino si parla di ben 30 giorni all’anno in più – sempre sopra lo zero – rispetto al passato. Fra le prime dieci risultano poi anche città come Verona e Brescia e poco dopo, fuori dalla top ten, anche Milano, territori che hanno perso rispettivamente 29, 26 e 22 giorni di temperature sotto lo 0°C. Prima al mondo c’è Fuji in Giappone, seguita da Kujand in Tajikistan. Commentando i risultati riportati nell’analisi, Kristina Dahl vicepresidente di Science Climate Central spiega che “l’Italia fa parte del continente che si riscalda più rapidamente al mondo e il riscaldamento delle città del Paese è evidente: delle 901 città globali che abbiamo analizzato, tre delle prime dieci che hanno perso il maggior numero di giorni invernali di gelo a causa dei cambiamenti climatici sono in Italia. Questa tendenza allarmante dovrebbe servire da campanello d’allarme ai responsabili politici per ridurre rapidamente le emissioni”.

    Giornata internazionale della montagna

    Il 2024 anno difficile e dal segno meno per Alpi, ghiacciai alpini e biodiversità

    11 Dicembre 2024

    Nel ragionare sull’impatto della crisi climatica in Italia, gli esperti di Climate Central ricordano anche come “il calo dei giorni con temperature sotto lo zero non è solo un inconveniente per gli sciatori: è una crisi ambientale ed economica significativa e le conseguenze sono di vasta portata: interrompono il ciclo idrologico, influenzano l’industria del turismo e minacciano gli sport invernali. Con le prossime Olimpiadi invernali che si svolgeranno in Italia nel 2026, le sfide attuali e future poste dal riscaldamento degli inverni non potrebbero essere più rilevanti”. L’analisi – basata sui dati del sistema Climate Shift Index (CSI) e focalizzata sull’ultimo decennio – indica inoltre come “il cambiamento climatico ha aggiunto più giorni invernali sopra lo zero nei Paesi europei rispetto a quelli di altre regioni”, così come i territori con maggiori aumenti sopra lo zero sono stati “Danimarca, Estonia, Lettonia e Lituania, che hanno registrato, in media, almeno tre settimane in più di giorni invernali sopra lo zero ogni anno a causa del cambiamento climatico”. In Europa in media sono una ventina i Paesi che hanno sperimentato almeno due settimane in più di giorni invernali all’anno sopra lo zero, tra cui Polonia, Bielorussia, Germania e Repubblica Ceca. Venticinque invece le nazioni “tra una e due settimane in più di giorni invernali sopra lo zero” ogni anno per via della crisi climatica, tra cui appunto l’Italia ma anche “Francia, Austria, Spagna e Norvegia in Europa, e Afghanistan, Iran e Giappone in Asia”.

    Come dice Dahl, “la nostra analisi mostra che il cambiamento climatico sta causando inverni significativamente più caldi in tutto l’emisfero settentrionale, con oltre 44 paesi che hanno sperimentato almeno una settimana in più di giorni sopra lo zero nell’ultimo decennio a causa del riscaldamento causato dall’uomo. La neve, il ghiaccio e le temperature fredde che un tempo caratterizzavano la stagione invernale stanno rapidamente scomparendo in molti luoghi, minacciando ecosistemi, economie e tradizioni culturali. I giorni invernali di gelo sono cruciali per sostenere la neve e il ghiaccio necessari per la ricreazione e gli sport invernali, per ricostituire il manto nevoso che alimenta le fonti di acqua dolce e per mantenere i cicli vitali di piante, animali e insetti. Per impedire che gli inverni si riscaldino ulteriormente, è fondamentale eliminare con urgenza i combustibili fossili come petrolio, carbone e gas, che sono i principali responsabili dell’aumento delle temperature globali”. LEGGI TUTTO

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    Il congegno che monitora l’auto e insegna a inquinare meno quando si guida

    Ridurre le emissioni inquinanti dei veicoli per raggiungere l’obiettivo decarbonizzazione è un’urgenza. Ma è possibile farlo, senza dover acquistare un nuovo veicolo elettrico o ibrido? A quanto pare si, secondo uno studio del Politecnico di Milano, che ha sviluppato un apposito sistema di monitoraggio di virtual sensing, in grado di stimare sia le emissioni di anidride carbonica (CO?) sia gli ossidi di azoto (NOx), con estrema precisione, e con una strumentazione molto semplice e low-cost.

    Lo studio, pubblicato sulla rivista Scientific Reports, offre un punto di vista diverso sulla mobilità sostenibile, ma soprattutto rende consapevole ogni automobilista sia dell’impatto ambientale del suo veicolo, che della possibilità di diminuirne l’inquinamento prodotto solo cambiando abitudini di guida. Come? “L’idea è partita dalla volontà di definire un modo più preciso di calcolare le emissioni clima alteranti e ci siamo concentrati sugli ossidi di azoto, il principale prodotto delle emissioni della combustione, particolarmente nocivo in ambiente urbano perché rimane nell’aria e causa molti problemi respiratori”, spiega Silvia Strada, prima autrice dello studio del Polimi, che si è chiesta “perché l’impatto in termini di emissioni delle auto private debba dipendere solo dalla classe euro e non essere centrato invece sul veicolo individuale? Questo metodo permetterebbe di stimare con maggiore accuratezza quello che produce la singola auto”.

    L’aria nelle città

    L’inquinamento sta migliorando ma il rischio per la nostra salute resta

    di Nicolas Lozito

    07 Ottobre 2024

    La tecnologia per consentire questo cambio di paradigma ed un bel passo in avanti di ogni singolo conducente di veicoli è già disponibile, anche perché “in laboratorio o nei test le emissioni delle auto vengono misurate con degli apparati ingombranti che vengono attaccati al tubo di scappamento e misurano con precisione, ma sono costosissimi, quindi non è possibile che ognuno abbia uno strumento di questo tipo” sottolinea Strada, che invece col suo gruppo di ricerca, si è focalizzata su un piccolo dispositivo dotato di GPS per la localizzazione e di unità inerziale per la misura di accelerazioni, che rileva le emissioni basandosi sul modo in cui ciascuno di noi guida. “Si tratta di una piccola black box, che già si usa per scopi assicurativi, che si installa sulla batteria dell’auto, e misura accelerazioni in maniera continua nel tempo e dopo un certo campionamento i dati sono spediti a un server, raccolti e elaborati. La scatola nera misura velocità, chilometri percorsi e stile di guida contando le accelerazioni o decelerazioni brusche, in base a queste informazioni, abbiamo costruito e definito un algoritmo che calcola le emissioni inquinanti”.

    Per lo studio sono stati raccolti i dati, da oltre 8.000 veicoli privati già dotati di black box che sono stati analizzati per oltre 11 milioni di viaggi, dopodiché gli algoritmi hanno calcolato l’impatto ambientale reale di ogni veicolo. Il sistema, infatti, fa riferimento a tre indicatori di performance principali: il consumo di carburante, le emissioni di CO? e le emissioni di ossidi di azoto. E qui c’è un altro tassello interessante dello studio, che si collega ad un altro fattore, “scientificamente provato” che si chiama green speed, una fascia compresa tra i 50 e i 70 chilometri all’ora, in cui si consuma ed inquina meno, mentre al di sopra o al di sotto di questa fascia, avviene esattamente il contrario per una serie di fattori legati all’impatto ed alle forze aerodinamiche”.

    Non basta il motore elettrico: per la mobilità del futuro servono dati e infrastrutture

    di  Dario D’Elia

    27 Settembre 2024

    La pubblicazione del Politecnico di Milano, senza nulla togliere alla certezza che la transizione ecologica richiede dei veicoli con motorizzazioni meno inquinanti, dimostra però, che anche un’auto più datata può avere degli effetti importanti sulla sostenibilità, se guidata rispettando la green speed e per distanze limitate. Sappiamo, infatti, che l’Ue ha fissato obiettivi ambiziosi, concentrandosi sulla riduzione delle emissioni nei trasporti del 90% entro il 2050, come prevede il Green Deal, ma avere già oggi un sistema ecologico ed economico potrebbe comunque fare la sua parte nel contrasto all’inquinamento.

    “Nessuna tecnologia di veicolo è vietata a priori. E’ chiaro che se uno sceglie un veicolo elettrico ha una maggiore libertà di utilizzo rispetto alle emissioni, perché ne emette un decimo considerando tutta la catena di produzione, ma questo sistema pone la responsabilità nell’individuo” spiega ancora Silvia Strada, “ciascuno potrebbe avere una sorta di budget annuale in emissioni di CO2 e NOx spendibili nel tempo. Facendo un esempio, se in un giorno si fanno 5.000 km poi il budget a disposizione è finito”. Il sistema sviluppato dal Politecnico di Milano potrebbe avere numerose applicazioni per le amministrazioni urbane, che potrebbero utilizzarlo per gestire le emissioni nelle strade a traffico limitato, regolando accessi e tariffe di parcheggio in base all’impatto ambientale dei veicoli, ma senza vietare a priori la circolazione a nessuno, mentre si potrebbero premiare con incentivi i conducenti più virtuosi. LEGGI TUTTO

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    Natale green, se non si ricicla non lo compro

    Non si ricicla? Allora non lo compro. Il 51% dei consumatori italiani ha confessato che nel momento dell’acquisto cambia brand se il packaging non è riciclabile. Deviando le proprie scelte sulle confezioni più sostenibili. Sì perché secondo le ultime tendenze evidenziate da una ricerca condotta da Pro Carton, l’associazione europea dei produttori di cartone e cartoncino condotta in cinque paesi (UK, Francia, Germania, Italia e Spagna) “non è solo la differenziata a fare la differenza”, ma le dinamiche legate al riciclo. La parola d’ordine per il Natale 2024 è dunque niente sprechi, ma soprattutto ridurre il più possibile i rifiuti e l’utilizzo delle materie prime. Fatto non secondario, visto che secondo gli analisti i consumatori scelgono di fare acquisti in modo sempre più consapevole, al punto da eliminare dal carrello ciò che finisce nell’indifferenziato. Buone consuetudini che stanno coinvolgendo sempre più famiglie: il 59% degli italiani dichiara infatti di riciclare di più rispetto a 12 mesi fa, posizionando l’Italia al primo posto tra i Paesi europei analizzati. In pratica il motto delle 3R “riduci, riusa, ricicla” sembra stia influenzando in misura crescente i modelli di consumo soprattutto dei più giovani sensibili alla sostenibilità ambientale.

    Ambiente

    Festeggiamo il Natale (tanto paga la Terra)

    di  Fiammetta Cupellaro

    05 Dicembre 2024

    A Natale inquiniamo di più
    A Natale si sa, tra cene, regali e luminarie, inquiniamo di più. Il periodo fino al 7 gennaio è infatti uno dei momenti dell’anno in cui i rifiuti soprattutto quelli costituiti dai packaging raggiungono il picco, tra confezioni regalo, imballaggi alimentari e spedizioni. In due giorni, tra il 25 e il 26 dicembre in Italia vengono prodotti 75 mila tonnellate di carta e cartone. Praticamente la capacità di una discarica di dimensioni medie piccole. Secondo Comieco, il consorzio di recupero e riciclo dei materiali cellulosi, 25 milioni di famiglie produrranno ognuna tra Natale e Santo Stefano più di 3 chilogrammi di rifiuti da imballaggi, confezioni di panettoni, scatole di oggetti arrivati online, regali. Ma a leggere i dati della ricerca di Pro Carton un cambiamento è possibile. I consumatori italiani dimostrano di essere particolarmente attenti all’impatto ambientale delle loro scelte di acquisto e alle dinamiche di riciclo. Quel 59% che ha risposto di riciclare di più rispetto a 12 mesi fa dimostra un impegno crescente verso comportamenti responsabili, ancora più evidente se confrontato con altri Paesi, come la Germania, dove solo il 30% degli intervistati ha incrementato le proprie abitudini di riciclo.

    Ambiente

    Festeggiamo il Natale (tanto paga la Terra)

    di  Fiammetta Cupellaro

    05 Dicembre 2024

    Packaging sostenibile: un impegno per i brand
    Nel mondo del packaging la sostenibilità rappresenta un tema centrale: ogni step nella fase della progettazione deve tener conto dell’impatto ambientale e della scelta dei materiali impiegati. Su questo punto, il 66% degli italiani ritiene che aziende e retailer stiano facendo progressi per introdurre packaging più sostenibili, ma solo il 13% è pienamente convinto di un impegno deciso. Tuttavia c’è ancora spazio di miglioramento, perché il 34% dei consumatori italiani è ancora scettico sulle iniziative attualmente messe in atto dai brand per progettare soluzioni innovative più sostenibili. Infatti, l’80% dei consumatori preferirebbe che i brand sviluppassero packaging biodegradabili in cartone che possano essere riciclati, rispetto al 20% che privilegerebbe materiali plastici riutilizzabili.

    Alla ricerca di prodotti sempre più green
    E se il packaging non riciclabile è il motivo principale per cui il 51% degli italiani sceglie di cambiare brand. Seguono l’uso eccessivo di plastica (42%) e l’imballaggio superfluo (42%). Invece, il motivo che guida i consumatori esteri a scegliere un altro brand o un prodotto è la considerazione che il prodotto sia confezionato con un imballaggio non necessario. Per aziende e retailer, questo significa una possibilità concreta di rafforzare il legame con i clienti attraverso pratiche più sostenibili, come l’adozione di imballaggi riciclabili come il cartone o il cartoncino che nel 2022 ha raggiunto un tasso di riciclo dell’83,2% (dati Eurostat). In questo contesto, gli italiani dimostrano anche una solida conoscenza dei materiali riciclabili: l’87% si sente sicuro di sapere quali tipi di packaging possono essere riciclati, che si declina nella preferenza per materiali come il cartone ondulato (89%) e la carta e il cartone (86%). LEGGI TUTTO