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    Dal 2000 ad oggi gli Stati Uniti hanno perso un quinto delle loro farfalle

    Qualcuno salvi le farfalle. Le loro popolazioni sono sempre più a rischio a causa della perdita progressiva degli habitat, degli effetti dei pesticidi e del cambiamento climatico. E l’ultimo allarme arriva dagli Stati Uniti, dove una specie su tre ha registrato un grave declino negli ultimi venti anni, con una complessiva riduzione di oltre un quinto delle popolazioni.La “fotografia” arriva da una ricerca della Binghamton University di New York, i cui esiti – appena pubblicati sulla rivista Science – lasciano in dote l’urgenza dell’adozione di nuove misure di conservazione.

    In particolare, 20 specie sarebbero protagoniste di un declino particolarmente rapido: tra queste la Danaus eresimus, comunemente detta farfalla soldato, e la Julia’s Skipper (Nastra julia il nome scientifico), che nel periodo preso in esame – compreso tra il 2000 e il 2020 – ha perso oltre il 90% delle sue popolazioni. Né sembra andare meglio alla West Virginia White (Pieris virginiensis il nome scientifico), delicate ali traslucide dalla colorazione biancastra, leggero accenno di venature: popola, o meglio popolava, le aree boschive. Dove la sua presenza è diminuita del 98%.

    Biodiversità

    La pianta dalla doppia fioritura che resiste al caldo

    di Fabio Marzano

    04 Marzo 2025

    I ricercatori hanno esaminato 12,6 milioni di avvistamenti di farfalle nell’ambito di 76.000 indagini divise in 35 differenti programmi di monitoraggio, alcuni dei quali legati a programmi di citizen science. Grazie anche all’utilizzo di modelli statistici, hanno così stimato le tendenze in atto per 342 specie differenti: il 33% ha mostrato un declino significativo, le popolazioni di 107 specie sono diminuite di oltre il 50%.“Risultati in linea con le tendenze globali, ma avere conferma dell’entità del declino delle popolazioni in un’area così ampia è stato sconfortante”, commenta Eliza Grames, professoressa associata di Scienze biologiche alla Binghamton University.

    Una vera e propria Caporetto che coinvolge anche la Lycaena hermes e la sgargiante Eurema proterpia, color arancione: rischiano di diventare introvabili, o quasi. E con loro Vanessa annabella, che in America è conosciuta come West Coast lady: un tempo era una comune farfalla da cortile, oggi è diminuita dell’80%. “Una storia ancor più allarmante, la sua, perché suggerisce che anche le farfalle comuni non sono al sicuro”, annota Grames.

    Biodiversità

    Pochi fondi per la conservazione degli animali “brutti”

    di Sara Carmignani

    28 Febbraio 2025

    Pochi i dubbi sulle cause comuni del declino, così come sulle conseguenze per la salute degli ecosistemi, che dal ruolo centrale delle farfalle dipendono, eccome: la scomparsa, più meno graduale, di impollinatori cruciali avrebbe ricadute negative sulla produzione alimentare e sull’equilibrio degli ecosistemi, con effetti a cascata sulle altre specie.

    La ricerca evidenzia, peraltro, le aree più colpite dal fenomeno: quella più toccata è la zona del sud-ovest degli Stati Uniti, tra le regioni più calde e secche. Anche per questo l’indice dei ricercatori è puntato sulla siccità, tra le concause principali del declino delle popolazioni di farfalle, anche perché – annota Grames – “rappresenta una doppia minaccia, danneggiando direttamente le farfalle e colpendo anche il loro cibo e le piante ospiti”.

    E ora? I risultati dello studio suggeriscono, come evidenziato dai ricercatori “importanti sforzi di conservazione, in particolare dando priorità alle specie già segnalate dall’Iucn e dall’Endangered Species Act. Ma non tutto è perduto, nonostante le evidenze. “Già, le farfalle possono riprendersi rapidamente perché hanno tempi di generazione brevi. – prosegue Grames – Anche piccole azioni, come piantare fiori selvatici, ridurre l’uso di pesticidi o persino lasciare una parte di un cortile non falciato, possono migliorare significativamente le loro chances di sopravvivenza. Il tutto – conclude – in attesa naturalmente di strategie di conservazioni concrete da parte dei decisori politici”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, l’avvocato che difende l’ambiente: “Tante battaglie per il bene di tutti”

    Per natura, difensore della natura. Angelo Calzone è cresciuto negli anni Settanta immerso nelle campagne calabresi. Da piccolo si è riempito gli occhi di verde e i polmoni del mare poco distante dalla sua Ionadi, piccolo comune in provincia di Vibo Valentia: respiro dopo respiro si è innamorato talmente tanto dell’ambiente che da grande ha scelto di usare ogni strumento in suo possesso, soprattutto quelli offerti dalla legge, per difendere ciò che amava. La sua è la storia di un avvocato che ha dedicato una vita alla tutela dell’ambiente, trasformando la sua carriera da civilista in quella di legale specializzato in reati ambientali.

    “Ho iniziato questo cammino per un amore viscerale della natura. Volevo dare un contributo e ho pensato di poterlo fare attraverso lo studio della legge perché, come ricorda Fulco Pratesi, salva più natura un avvocato che dieci naturalisti”. Dopo il praticantato e le prime esperienze in tribunale decide di specializzarsi nelle leggi ambientali. “Sono andato a Roma a studiare, poi ho fatto un corso a Reggio Calabria con i migliori avvocati che allora si occupavano di ambiente e da lì non ho mai smesso di aggiornarmi”.

    Non solo una scelta di amore, ma anche “di professione” spiega Calzone, perché “mentre facevo il volontario del WWF ho iniziato a comprendere come servissero esperti di legge in questo settore, quello dei diritti ambientali, un filone che poteva essere un campo con potenziali sviluppi futuri”.

    Ci vede lungo: “Oggi è una professione che sta crescendo, siamo sempre di più i legali che si impegnano nelle battaglie ambientali. In questo lavoro siamo impegnati sia a difendere, sia ad essere di ausilio, per esempio per associazioni, cittadini o imprese che tentano di districarsi fra le norme. Mi chiamano spesso perché questo è un settore molto ampio, che abbraccia più ambiti: pensiamo alle diatribe su rifiuti, acqua, bonifiche, discariche, impianti, terreni, oppure alla salvaguardia di parchi e territori o all’attuale boom delle energie rinnovabili”. Quest’ultimo, il mondo degli impianti eolici e solari, attualmente è quello che lo vede coinvolto più spesso. “Come per altre questioni, c’è ancora poca conoscenza delle norme. Autorizzazioni, incarichi, permessi, valutazioni ambientali: ci vogliono competenze sia per aiutare chi si oppone, sia per chi vuole svilupparle. credo che le rinnovabili servano alla transizione ma bisogna sempre valutare caso per caso. Ci sono anche esempi di impianti che possono creare danni all’ambiente”.
    Ne ricorda uno in particolare: “Nel 2006 fu approvato un impianto eolico con turbine alte 150 metri da installare in un bosco, in un percorso famoso di trekking chiamato coast to coast che attraversa le PreSerre calabre. Fu approvato senza nemmeno valutazione ambientale e con autorizzazioni scadute. Prevedeva il taglio di centinaia di alberi. con Lipu e Regione Calabria ci siamo battuti per fermarlo e ora credo si possa dire che è stata messa una pietra tombale sull’idea di svilupparlo”.Dalla Calabria alla Basilicata sono decine le cause che Calzone ha portato avanti, “a volte per difendere le ragioni dei cittadini», altre per opporsi “ad abusi di multinazionali energetiche, per esempio relative all’interramento illegale di rifiuti”, altre ancora relative a progetti di bonifica, a discariche, oppure alla salvaguardia delle acque. Ha evitato che venissero realizzate centrali a biomasse ai confini del Parco della Sila, ha portato a condanna dirigenti di imprese che smaltivano rifiuti in maniera illecita, smascherato operazioni in cui c’era l’ombra della criminalità organizzata e soprattutto si è occupato di una marea di ricorsi per conto di associazioni ambientaliste o comitati, con decine di cause e ricorsi al Tar. In tanti casi è decisivo il tempismo. Ricorda ancora “quando riuscimmo ad annullare il calendario venatorio regionale, fatto male e troppo pericoloso per molte specie. l’atto fu depositato la mattina stessa dell’inizio della stagione e quel giorno mi chiamò un amico cacciatore: era stato fermato dai carabinieri proprio perché era scattato immediatamente il divieto. Mi disse: cosa hai combinato? Ci ridemmo su e per me fu una vittoria per la tutela delle specie”.Tempismo e impegno che ora spera possano portare avanti le nuove leve, i legali ambientali del futuro. “Consiglio loro di metterci passione, studiare, formarsi e soprattutto insistere, non scoraggiarsi mai. Perché questa professione offrirà sicuramente tante opportunità, direi doppie: sia di avere soddisfazione nel lavoro, sia di contribuire davvero a difendere la natura”. LEGGI TUTTO

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    Raccolta differenziata: gli errori che (quasi) tutti facciamo

    I cocci del vaso di cristallo nel vetro, il Tetra pak dei succhi di frutta nell’indifferenziato, gli occhiali da sole nella plastica: può capitare a tutti di sbagliare bidone nella raccolta differenziata. Il problema è che, purtroppo, anche un piccolo errore può ostacolare il processo di riciclo di tanti oggetti e imballaggi, con danni all’economia circolare e all’ambiente. Di seguito una rassegna degli sbagli più diffusi. Per evitarli.

    Gettare gli scontrini fiscali nella raccolta della carta
    Gli scontrini (che vanno sempre richiesti al commerciante o al professionista) non sono riciclabili. Risultano, infatti, costituiti da un’apposita carta termica, con un lato semilucido, ricoperto da un’emulsione formata da un colorante e un agente reattivo, che ha l’obiettivo di conservare il più a lungo possibile la stampa dei dati. Per questo, devono sempre essere messi nel cassonetto dell’indifferenziato.

    Far finire il cartone della pizza sporco nella carta
    Pizza con gli amici? Al termine della serata, quando è il momento di riassettare, occorre ricordarsi che il cartone unto o intriso di pomodoro va ripiegato su sé stesso in modo da ridurne l’ingombro e conferito nell’indifferenziato oppure, se compostabile, nell’umido. È corretto metterlo nella carta solo se è pulito. Eventuali residui di cibo devono, invece, essere messi nella raccolta dell’umido.

    Buttare gli oli vegetali esausti nell’organico
    Una volta utilizzato in cucina, l’olio diventa un rifiuto altamente inquinante per il sottosuolo e per l’acqua. Perciò non va versato né negli scarichi né nell’umido. Una volta che si sarà raffreddato, deve essere raccolto in taniche o in appositi contenitori. Questi recipienti devono poi essere portati, ben chiusi, nei punti di raccolta presenti sul territorio comunale.

    Economia circolare

    Raccolta differenziata, la lampadina non si getta nel vetro: gli errori più comuni che facciamo

    Cristina Nadotti

    18 Marzo 2024

    Conferire le lampadine nella raccolta del vetro
    Molti credono, erroneamente, che le lampadine vadano buttate nella raccolta del vetro: sbagliato. La maggior parte contiene, infatti, sostanze nocive per l’ambiente e per la salute e deve per questo essere conferita nei cassonetti dei Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee).
    Solo le lampadine alogene o le vecchie lampadine a incandescenza possono essere gettate nell’indifferenziato.

    Mettere i gusci di cozze e vongole nell’umido
    I gusci di cozze e vongole sono costituiti soprattutto da calcio e altri minerali, che non solo non sono biodegradabili, ma hanno anche tempi di smaltimento lunghissimi. Per questo devono essere buttati nell’indifferenziato e non nell’umido, anche se sono di origine animale. Una regola che vale pure per i gusci di ostriche, gamberi, aragoste, scampi.

    Gettare i contenitori in Tetra pak nell’indifferenziato
    Le confezioni in Tetra pak, come per esempio quelle del latte o del vino, sono composte da un materiale misto, formato da carta, alluminio, plastica. Poiché non esiste una regola unica, nazionale o regionale, che chiarisca dove vada buttato, è opportuno controllare le indicazioni dei singoli Comuni. Infatti, in alcune località questo genere di imballaggi va conferito nel bidone della plastica, in altre la destinazione corretta è la carta.

    Buttare gli oggetti di plastica nella plastica
    Attenzione: in Italia vengono riciclati solo gli imballaggi di plastica, ovvero ciò che viene utilizzato per contenere e proteggere un prodotto. Quindi gli oggetti, anche se di plastica, non vanno messi nella relativa raccolta. Devono perciò finire nell’indifferenziato, per esempio, bicchierini per caffè, penne, palloni, giocattoli, occhiali da sole, borracce, catini, confezioni per pastiglie, custodie di cd, piatti per pic-nic, piscine per bambini, portacenere, posate, profumatore per ambienti, scolapasta, sottovasi per piante, spazzolini da denti.

    Conferire cristallo e ceramica nel vetro
    Malauguratamente si rompe una tazzina, un piatto, un vaso, una pirofila. I cocci di cristallo o di ceramica, una volta raccolti, vanno messi nell’indifferenziato. Basta, infatti, un solo frammento di ceramica mescolato al vetro pronto per il forno per mandare all’aria il processo di riciclo. Per smaltire, invece, le lastre di vetro (per esempio, porte interne, finestre da sostituire…) ci si può rivolgere all’isola ecologica più vicina. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, l’ideatore di piste ciclabili per la città sostenibile

    “Faccio piste ciclabili”. Se glielo chiedi a bruciapelo, magari mentre sta attraversando Milano in bicicletta dopo una giornata di lavoro, è questa la risposta di Edoardo Repetto, 28 anni, alla domanda: che lavoro fai? A chi ne vuole sapere di più Repetto spiega: “Il mio lavoro consiste nel fare la pianificazione delle reti in cui integrare le piste ciclabili. Una volta sarebbe stato il ruolo dell’urbanista, che però oggi si chiama pianificatore territoriale. I campi in cui sono più specializzato sono la mobilità ciclistica e la logistica urbana, tutto ciò che non riguarda porti, interporti, aeroporti, ma che viene consegnato a casa. Mi concentro sull’ultimo miglio, l’ultimo segmento della consegna: la parte convertibile a un trasporto urbano in bicicletta”.Di origini liguri, cresciuto a Roma, professionalmente milanese, Repetto ha i pedali nel DNA. A soli 16 anni attraversò mezza Italia in bici, dalla capitale a Sanremo, per andare a trovare il padre. “Amo la bicicletta, ma non sono un fanatico”, ci tiene però a precisare. È comunque riuscito a far diventare le due ruote una parte preponderante del suo lavoro, seguendo un percorso di formazione davvero originale. A cominciare dalla laurea triennale in Scienze politiche: con una tesi sulla ciclologistica che era tutto un programma. “Poi ho trascorso un anno poi in Danimarca, nello studio Copenhagenize. E ho preso un master a Londra in Ambiente e Sviluppo sostenibile, che però non è riconosciuto in Italia. E così ho studiato per una laurea magistrale da pianificatore territoriale, con una tesi sulla progettazione delle ciclabili nelle città metropolitane”. LEGGI TUTTO

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    La mimosa, come curare la pianta simbolo della Festa della donna

    La mimosa è una pianta appartenente alla famiglia delle fabaceae ed è nota anche con il nome di acacia dealbata. Diamo uno sguardo a questa guida per capire come prendersene cura: in questo modo, si potrà ammirare la fioritura della pianta riconosciuta come simbolo della Festa della Donna.

    L’albero della mimosa
    L’albero della mimosa è una pianta tipica dell’Australia sud-orientale, che è stata importata in Europa nel XIX secolo. In Italia è possibile trovare facilmente questo alberello, specie in quelle regioni dove il clima è particolarmente mite, ma anche lungo le coste dei laghi dell’area settentrionale.
    Il clima temperato è ideale per questo arbusto, poiché teme gli inverni rigidi con temperature sotto lo zero. Dunque, se sono previste delle discese anomale della temperatura è meglio prevedere l’utilizzo di tessuto non tessuto o di altri materiali che permettono di creare una condizione di comfort per la pianta. Con l’arrivo della stagione estiva, la temperatura massima sopportata è di 38°C circa, poiché con caldo eccessivo il suo fogliame inizia ad arricciarsi e danneggiarsi, mostrando delle scottature da sole. Questa è una pianta che si può coltivare in piena terra ma anche in vaso. La coltivazione in vaso consente di ottenere esemplari alti fino a 2 metri, mentre in piena terra può addirittura arrivare a 15 metri di altezza.

    Tipi di mimosa: le varietà più comuni in vendita
    Questa pianta decorativa la si può trovare in vendita in diverse varietà, di cui alcune sono suggerite per la coltivazione in giardino, mentre altre sono da prediligere per la cura tra le mura domestiche. Qui di seguito ecco le varietà di mimosa che si possono acquistare in negozio:
    · Acacia Baileyana (Mimosa da serra): si tratta di un esemplare che ha foglie grigio-verdi e fioritura a grappoli con fiori sferici gialli. È suggerita per la coltivazione in serra o, comunque, in quelle aree dell’Italia in cui fa più caldo. I suoi fiori davvero particolari possono conferire un aspetto elegante ed esotico al giardino.
    · Acacia Retinodes (mimosa del Giappone): anche questa sempreverde è suggerita per i climi più caldi. I suoi fiori sono di colore giallo-oro e si possono ammirare tra l’inverno e la primavera in giardino.
    · Mimosa tenuiflora: questa pianta, nota anche come albero della pelle, è una sempreverde molto simile all’esemplare comune, ma ha una fioritura differente. I suoi fiori sono di colore bianco crema e profumano il giardino.
    · Acacia Saligna: conosciuta anche come mimosa selvatica è un esemplare a foglie strette e infiorescenze con fiorellini gialli poco profumati con capolini di forma sferica da 1 cm di diametro.
    · Mimosa pudica: questa pianta, nota anche con il nome di mimosa sensibile, ha foglie piccole che al tocco si chiudono. Si tratta di una pianta ideale per la coltivazione in casa, all’interno di un vaso.
    · Acacia Podalyriifolia: tra le altre piante da interno da considerare vi è questa, nota anche come mimosa di Natale. Le foglie sono di colore verde scuro, mentre i fiori giallo brillante.

    Il fiore e le foglie dell’arbusto
    Per ammirare la fioritura della mimosa è necessario attendere i mesi di febbraio-marzo. I fiori della mimosa si presentano di colore giallo intenso e sono riuniti in capolini di forma sferica che emanano un buon profumo. I fiori, raccolti in racemi da massimo 10 centimetri, compaiono in seguito all’ascesa delle foglie. Queste, invece, si presentano come delle sempreverdi con un colore verde-argento. Le foglie si trovano perpendicolari al rametto e sono tra le 8 e le 20 paia; queste, a loro volta, hanno 20-30 paia di foglie di dimensioni ridotte e perpendicolari alla nervatura principale.

    Il terreno e la posizione migliore per il sempreverde
    La mimosa è una pianta particolarmente delicata ed è necessario porre molta attenzione nella scelta del terreno migliore. Predilige terreni freschi, ma allo stesso tempo ben drenati, meglio se con pH acido, poiché questa caratteristica favorisce la fioritura. I terreni basici non sono tollerati da questa pianta, anche se gli esemplari innestati riescono a sopportare anche questa condizione. Per quanto riguarda l’esposizione migliore per questo albero, è necessario tenere presente che deve essere riparata dalle correnti d’aria e, nelle località dove la temperatura estiva è calda, non deve ricevere il sole diretto. Quindi, ama le zone luminose, ma è meglio sistemare la pianta in un punto in cui le foglie siano protette dal sole estivo di mezzogiorno.

    Le annaffiature della pianta
    Questa sempreverde non ama troppa acqua: infatti, è in grado di sopportare la siccità. Va detto, però, che gli esemplari più giovani di mimosa devono comunque ricevere acqua in maniera regolare.

    La concimazione
    La concimazione della mimosa deve essere fatta a fine inverno: è possibile spargere sul terreno del concime organico maturo oppure concime a lenta cessione, dopo aver zappato di poco il substrato superiore del terreno. Nel caso in cui la mimosa fosse coltivata in vaso, è possibile selezionare un terriccio nutriente con una buona presenza di torba. Questa caratteristica consente alla pianta di trovare tutti i nutrienti necessari per crescere e svilupparsi al meglio.

    La moltiplicazione dell’acacia dealbata
    Per ottenere nuove piantine di mimosa è possibile ricorrere alla talea da un rametto oppure per semi. Per riprodurre questa pianta per talea è utile recuperare diversi rami da un mazzo di circa 10 centimetri: dovrà essere tagliato sotto una gemma, attraverso taglio obliquo. Dopodiché si asportano le foglioline per almeno 2/3 della lunghezza, lasciando solo quelle in cima. A questo punto, è possibile sistemare il rametto in terra soffice e leggera, con una parte di torba. Le talee devono essere esposte in un luogo al riparo dal freddo e dal vento, ma comunque ben luminoso. Quando sarà presente l’apparato radicale della pianta si potrà passare alla fase successiva del rinvaso oppure della messa in dimora in piena terra.

    Il rinvaso e la potatura
    Coloro che coltivano questo alberello in un contenitore devono occuparsi del rinvaso ogni 2 anni. Per una cura della mimosa corretta è importante selezionare dei contenitori non eccessivamente grandi. In questo modo, la crescita della pianta avviene in maniera equilibrata, con un apparato radicale e quello aereo sviluppati bene. Sul fondo del vaso è necessario sistemare del materiale che rende più drenante il terreno: si può utilizzare dell’argilla espansa da unire a terriccio universale e torba. La mimosa è una pianta che cresce in maniera veloce e non necessità di chissà quali potature. Le uniche potature che si possono fare sono per ripristinare una forma gradevole e contenere le dimensioni, giacché spesso i rami tendono a diventare abbastanza lunghi. È importante effettuare la potatura solo in seguito alla fioritura.

    I problemi in cui può andare incontro la pianta
    Anche la mimosa può andare incontro a delle piccole avversità: tra i parassiti che la possono attaccare, vi sono la cocciniglia e le metcalfe. È importante in entrambi i casi dosare correttamente l’acqua e offrire alla pianta l’esposizione migliore per la sua crescita. La clorosi fogliare è un altro dei problemi in cui può andare incontro la mimosa: si verifica soprattutto con quegli esemplari che non sono innestati e per quelli che vivono in terreni con pH neutro. Attraverso una cura di ferro e solfato è possibile porre rimedio. LEGGI TUTTO

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    Il lichene “inatteso” scoperto nella Pianura Padana

    La Pianura Padana è considerata come uno dei luoghi più inquinati d’Europa, eppure anche qui esistono delle “isole verdi” in cui la biodiversità riesce a prosperare. Lo dimostra la recente scoperta di una nuova specie di lichene tra Lombardia e Piemonte, nella valle del Ticino. Il ritrovamento è frutto del lavoro di Gabriele Gheza, ricercatore al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna. La specie è stata poi analizzata nel dettaglio da un gruppo internazionale di ricercatori e ricercatrici, e i risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica The Lichenologist.

    “La scoperta è avvenuta per caso, durante il lavoro di campo per lo studio di un gruppo di licheni crostosi particolarmente complicati da classificare, dato che presentano caratteristiche morfologiche comuni a molte specie diverse”, racconta Gheza a Green&Blue. “In quell’occasione ho raccolto diversi campioni di una specie che però ad un’accurata analisi in laboratorio non ha trovato corrispondenze con nessuna tra quelle già note”. Gli studiosi dell’Università di Bologna hanno quindi avviato una serie di analisi genetiche, svolte in collaborazione con colleghi lichenologi delle Università di Graz (Austria) e Praga (Repubblica Ceca). E i risultati hanno confermato il sospetto iniziale: quei campioni appartenevano a una specie mai descritta prima.

    Crisi climatica

    Nell’Artico trovata una pianta che normalmente cresce in ambienti più caldi

    27 Febbraio 2025

    Ma facciamo un passo indietro: che cosa sono esattamente i licheni? Si tratta di organismi formati principalmente dalla simbiosi tra un fungo macroscopico e un organismo fotosintetico (un’alga o un cianobatterio), che svolgono funzioni ecosistemiche importanti in molti habitat terrestri. “Per esempio, i licheni che crescono su terreni particolarmente aridi hanno un’importanza fondamentale nel limitare l’erosione del suolo dovuta al vento o alla pioggia – spiega Gheza – Inoltre, i licheni svolgono un ruolo importante nei cicli dei nutrienti. L’organismo fotosintetico che vive in simbiosi col fungo, infatti, è in grado di fissare il carbonio e, quando si tratta di un cianobatterio, anche l’azoto presente in atmosfera. In questo modo, i due elementi possono entrare nella rete trofica e diventare quindi nutrimento per altri organismi”.

    Il lichene appena scoperto è stato chiamato “inexpectatum”, racconta il ricercatore, per rimarcare la sorpresa di scoprire una specie mai descritta in precedenza in quella che è una delle aree più modificate dall’essere umano e più inquinate di tutta Europa, ossia la Pianura Padana: “Non è certo il luogo in cui ci aspetteremmo di trovare nuove specie di licheni, che sono notoriamente organismi molto sensibili non solo all’inquinamento, ma in generale alle alterazioni ambientali causate dagli esseri umani”. Questa elevata sensibilità, continua Gheza, è dovuta al fatto che i licheni assumono praticamente tutte le sostanze di cui hanno bisogno dall’aria, senza però avere modo di selezionare quali assorbire e quali no. Ciò significa che dall’atmosfera che li circonda assorbono vapore acqueo, sostanze allo stato gassoso che servono per il loro sostentamento, ma anche agenti inquinanti. Inoltre, a differenza delle piante caducifoglie, che scartano i “rifiuti” attraverso le foglie che perdono, i licheni non hanno alcun sistema per eliminare le sostanze nocive. Di conseguenza, se si trovano in contesti particolarmente inquinati tendono a morire.

    Biodiversità

    Dieci piante appena scoperte che rischiano di scomparire

    12 Gennaio 2024

    In questo senso, la scoperta della nuova specie di lichene è una buona notizia: “La valle fluviale del Ticino – aggiunge Gheza -, tutelata da due parchi regionali istituiti negli anni ’70 e caratterizzata da aree boscate che si sviluppano praticamente lungo tutto il corso del fiume, probabilmente fa da tampone per gli inquinanti che vengono dalle zone circostanti. Proprio per questo è un importantissimo serbatoio di biodiversità e corridoio ecologico”.

    Solo in Italia, ad oggi, sono segnalate oltre 2.800 specie di licheni, ma come dimostra l’inatteso ritrovamento nella valle del Ticino, non li conosciamo ancora abbastanza. “Questo potrebbe dipendere in parte da ragioni storiche – spiega Gheza – I naturalisti del passato si sono inizialmente concentrati su specie più appariscenti e lo studio dei licheni è iniziato quindi più tardi. E poi c’è anche un circolo vizioso che si autoalimenta: dato che sono meno conosciuti, anche gli studenti e le studentesse che intendono approfondire lo studio dei licheni sono di meno rispetto a quelli che scelgono invece di dedicarsi allo studio dei grandi vertebrati o delle piante vascolari”.

    Dopo il primo, inaspettato incontro, il nuovo lichene è stato individuato anche in altri luoghi, in val Camonica e sui colli pistoiesi: ulteriori indizi di quanto lavoro ci sia ancora da fare per raggiungere una conoscenza soddisfacente della diversità biologica complessiva che ci circonda. “È una missione di fondamentale importanza – conclude Gheza – Solamente conoscendo più a fondo la diversità biologica saremo in grado di sviluppare strategie per tutelarla in modo appropriato”. LEGGI TUTTO

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    Rinnovabili, l’Italia bocciata: “Ritardo di otto anni sugli obiettivi di decarbonizzazione”

    L’Italia che oggi rincorre il nucleare alla ricerca di più energia e di un sistema per abbassare le sue emissioni, a che punto è che con l’obiettivo delle rinnovabili? In ritardo, dicono due report paralleli usciti in queste ore sia da parte di Bankitalia, che riconosce gli sforzi fatti ma parla di misure insufficienti, sia di Legambiente che alla Fiera Key – The Energy Transition Expo di Rimini ha presentato il rapporto “Scacco matto alle rinnovabili 2025” (qui il .pdf) analizzando il percorso italiano verso gli obiettivi green europei.Entrambi i rapporti partono da un dato: gli obiettivi di decarbonizzazione europei nel ridurre le emissioni di gas serra che alimentano il riscaldamento globale prevedono che entro il 2030 si arrivi a una diminuzione del 55% di emissioni rispetto ai livelli del 1990 per poi arrivare al cosiddetto net zero, la neutralità carbonica, nel 2050. Tenendo conto che oggi la maggior parte delle emissioni climalteranti sono legate ai consumi energetici (rappresentano quasi l’80% delle emissioni) è dunque fondamentale, come ha riconosciuto anche il governo, ampliare la quota di rinnovabili nel nostro mix di approvvigionamento. La stiamo ampliando? Sì, ricorda Bankitalia, dato che come capacità produttiva di elettricità da fonti rinnovabili siamo passati da un quarto (nei primi anni Duemila) a quasi la metà di oggi, anche grazie ai costi di generazione diminuiti nel tempo.

    Uno sforzo fondamentale quello in atto, soprattutto nel fotovoltaico, ma che sempre secondo la Banca però è ancora sufficiente a raggiungere gli obiettivi europei e nel 2024 “l’aumento della capacità rinnovabile complessiva è stato ancora inferiore, di circa un decimo, rispetto a quello che si stima essere necessario per il raggiungimento degli obiettivi fissati dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (Pniec)”, questo anche per via di una modesta crescita dell’eolico.

    Il report di Legambiente, presentato oggi, va nella stessa direzione e quantifica in più il reale ritardo: si parla di almeno 8 anni in più, a questi ritmi, necessari per centrare gli obiettivi di decarbonizzazione. Per l’associazione ambientalista, che nell’occasione ha anche diffuso il nuovo Osservatorio Aree Idonee e Regioni, raggiungeremo gli 80.000 Mw necessari alla transizione solo nel 2038, se non ci sarà la dovuta accelerazione.Una spinta che è quantificabile: negli ultimi 4 anni abbiamo installato in media ogni anno 4500 Mw di nuovi impianti “ma nei prossimi 6 dovremo accelerare, arrivando a oltre 10.000 MW all’anno”.

    Rinnovabili, a che punto siamo
    Nel bocciare la tabella di marcia italiana sullo sviluppo delle rinnovabili fissato dal Decreto Aree Idonee, Legambiente riconosce i risultati “parziali e positivi” di questi ultimi anni, spiegando come dal 2021 al 2024 siano stati installati per esempio quasi 18mila megawatt, numero che corrisponde al 22% dell’obiettivo necessario per centrare i patti europei. “Mancano all’appello 62.284 Mw da realizzare nei prossimi sei anni, pari a 10.380,6 all’anno, ma la strada da percorre è tutta in salita, sia a livello nazionale sia a livello regionale e comunale, anche a causa di decreti e leggi sbagliate, ritardi, ostacoli burocratici e opposizioni locali” sostiene l’associazione nella sua fotografia, consultabile online con una mappa interattiva.

    Le regioni più in ritardo
    Spesso, a frenare l’ascesa delle rinnovabili, sono iter burocratici, lentezza amministrativa, ma anche opposizioni e ostacoli a livello regionale. In particolare cinque regioni, più di altre, sono oggi indietro, con ritardi “stimati tra i 45 e i 20 anni” rispetto agli obiettivi fissati nel 2030. Al primo posto nella classifica dei ritardatari c’è la Valle d’Aosta “che impiegherà 45 anni per raggiungere l’obiettivo 2030 pari a 328 MW (ad oggi ha raggiunto solo il 7%)”. Seguono poi il Molise che “viaggerà sui 29 anni di ritardo (ad oggi ha raggiunto solo il 10% dei 1.003 MW richiesti al 2030), la Calabria che impiegherà 23 anni di ritardo (ad oggi ha raggiunto solo il 12% dei 3.173 MW al 2030), la Sardegna 21 anni di ritardo (ha raggiunto appena il 13% rispetto ai 6.264 MW al 2030) e l’Umbria 20 anni di ritardo (ha centrato solo il 13% dell’obiettivo di 1.756 MW al 2030)”. Anche in terre dove sono in atto importanti investimenti sulle fonti energetiche pulite bisogna accelerare: la Sicilia per esempio, ottava in classifica, raggiungerà i 10.485 MW al 2030 con oltre 13 anni di ritardo, ad oggi ne ha realizzati appena il 17%. Ci sono però anche esempi virtuosi di chi è sulla buona strada: il Lazio, se si osserva quanto realizzato negli ultimi quattro anni, è in linea con gli obiettivi e Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige sono abbastanza vicini al traguardo, anche se con “due anni di ritardo stimati”.

    Quasi 100 casi di “blocchi alle rinnovabilI”
    Lo abbiamo visto con le opposizioni e le manifestazioni in Sardegna dove il 99% del territorio è stato dichiarato non idoneo per nuovi impianti rinnovabili, così come in molti comuni dello Stivale: la crescita degli impianti eolici e fotovoltaici è spesso ostacolata, tramite ricorsi in tribunale e non solo, dai cittadini, dalle soprintendenze e in alcuni casi dagli stessi Comuni e dalle Regioni, spaventate dagli impatti paesaggistici e turistici e da ciò che i cantieri possono comportare.Secondo la mappa di Legambiente solo negli ultimi tre anni si contano quasi 92 casi di storie di “blocchi”.

    Lo studio

    L’Italia è il Paese più dipendente dall’estero per il fabbisogno energetico

    a cura di Luca Fraioli

    28 Gennaio 2025

    In Veneto per esempio è noto “il caso dell’impianto agrivoltaico a Mogliano Veneto (TV), un progetto fatto bene e già approvato dalla Regione, che ha ricevuto forti opposizioni da parte del Sindaco, alla Toscana dove a Capalbio e Badia Tedalda, tra il grossetano e l’aretino, la Giunta Regionale sembra aver cambiato la propria opinione da positiva a negativa sul progetto dopo il clamore generato da partiti e comitati”.

    In Calabria invece “ad Acri (CS) Regione e Comune si scontrano sulle aree disponibili alla costruzione di impianti eolici con pareri opposti, per arrivare al prolungamento di moratorie (bocciate dalla Corte per incostituzionalità)”, lo stesso vale per il Lazio che ha recentemente “bloccato l’autorizzazione di impianti eolici e fotovoltaici”. A questo va aggiunta la questione “stalli”, ovvero quei progetti in via di valutazione ancora fermi: sono 2.109 quelli avviati a valutazione e non atterrati tra il 2015 e l’inizio del 2025.Di questi “115 i progetti sono in attesa della determina da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 85 quelli che hanno ricevuto il parere della Commissione Tecnica VIA PNRR-PNIEC ma che rimangono in attesa del parere del Ministero della Cultura (MIC), 1.367, pari all’79% del totale, quelli in fase di istruttoria tecnica da parte del Comitato PNRR-PNIEC (con 44 progetti risalenti al 2021, 367 al 2022, 505 al 2023 e 451 al 2024).

    Fisco Verde

    Detrazioni al 50% per chi vuole rinnovare o ampliare l’impianto fotovoltaico

    di Antonella Donati

    04 Febbraio 2025

    Tra i progetti che avrebbero già dovuto concludere l’iter autorizzativo ma che sono ancora in attesa di una decisione, il più datato è un piano di reblading in Campania che prevede la sostituzione delle pale dei 60 aerogeneratori del parco eolico situato nei comuni di Lacedonia (AV) e Monteverde (AV). Nell’agosto 2020 aveva ottenuto un parere favorevole preliminare sulla compatibilità ambientale da parte del MIC; ma che ad oggi, a quasi cinque anni di distanza, è ancora bloccato nella fase di istruttoria tecnica presso la CTVIA” si legge nel report.

    Ritardi sulla definizione delle aree idonee
    Per centrare la decarbonizzazione necessaria e implementare le energie rinnovabili in Italia un passaggio fondamentale è l’iter, da parte delle regioni, per definire le aree idonee dove realizzare gli impianti. La mappa di Legambiente svela però, anche in questo caso, ritardi e situazioni di stallo: solo la Lombardia, anche se il suo iter non è concluso, è promossa per gli sforzi fatti finora. Undici regioni (Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Marche, Lazio, Liguria, Molise, Trentino e Alto-Adige, Umbria, Valle d’Aosta, Veneto) ad oggi invece “non hanno ancora avviato, almeno pubblicamente, l’iter di definizione delle Aree Idonee” e in quattro si riscontra invece forte opposizione, come ad esempio in Sardegna, Toscana, Friuli Venezia Giulia e Abruzzo, che Legambiente boccia.

    Fisco verde

    Fotovoltaico gratis in base all’ISEE: come funziona il reddito energetico

    di Antonella Donati

    18 Febbraio 2025

    Parallelamente, però, in alcuni casi si registrano anche buone pratiche ed esempi positivi: in Toscana “nel Mugello, sono iniziati i lavori per l’eolico al Giogo di Villore” oppure “in Campania nel Comune di San Bartolomeo in Galdo (BV) verranno autorizzati 3 parchi eolici, dopo che per oltre 20 anni si è autodefinito de-eolicizzato”, così come in Basilicata “con apposita delibera della Giunta regionale nel 28 ottobre 2024, è stato approvato il processo di semplificazione per l’autorizzazione di progetti a fonti rinnovabili con valutazione d’impatto ambientale”.

    Dieci proposte per accelerare l’energia pulita
    Come fare dunque a cambiare rotta? Per Legambiente sono fondamentali 10 passaggi: snellire gli iter autorizzativi, rafforzare il personale tecnico, rivedere il Decreto Aree Idonee dando indicazioni univoche e meno ideologiche, lavorare sui sistemi di accumulo, rivedere il Decreto Agricoltura con più attenzione all’agrovoltaico, rendere obbligatoria l’installazione di impianti fotovoltaici nei parcheggi di superficie superiori a 1.500 metri quadrati come fanno in Francia, garantire il completamento dei percorsi avviati, agevolare una maggiore partecipazione attiva dei territori, accorciare i tempi di connessione degli impianti e infine sviluppare campagne informative.Come commenta Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, “per rendere indipendente l’Italia e per aiutare famiglie e imprese, facendo diminuire la bolletta, occorre accelerare la diffusione delle rinnovabili, lo sviluppo delle reti e la realizzazione degli accumuli anche in vista del passaggio dal Prezzo Unico Nazionale dell’elettricità a quelli zonali, che porteranno maggiori vantaggi proprio alle Regioni con una maggiore produzione di energia da fonti rinnovabili”. LEGGI TUTTO

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    A caccia delle piante che attirano zanzare: la nuova strategia contro parassiti e virus

    Ci sono le zanzariere, gli insetticidi, i repellenti e alcune volte servono addirittura dei farmaci per proteggerci dalle zanzare e dalle malattie che trasmettono. Eppure sono sistemi che cominciano a non bastare più: questi insetti continuano a essere gli animali più pericolosi del pianeta e, secondo gli esperti, stanno sviluppando delle resistenze. Per questo bisogna trovare nuove strategie di intervento che ci aiutino a eliminarli o almeno a contenerli. Una nuova via, riferiscono i ricercatori del Royal Botanic Gardens di Kew (Londra) sulle pagine di Scientific Reports, potrebbe essere quella di identificare le piante preferite dalle zanzare e di ridurne la diffusione, eliminandole almeno nei pressi dei centri abitati. Ma come individuarle?

    Gli animali più pericolosi del pianeta
    Difficile che qualcuno ne sia ancora all’oscuro, ma ribadiamolo: molte specie di zanzare sono vettori di malattie. Significa che, mordendoci per succhiare il nostro sangue, trasmettono parassiti e virus responsabili di condizioni come malaria, dengue, Zika e altre ancora, che ogni anno fanno centinaia di migliaia di morti. Basti pensare alla malaria: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel solo 2022 le persone che sono state infettate dal plasmodio responsabile della malattia sono state 249 milioni e sono stati segnalati 608 mila decessi in 85 Paesi.

    Salute e ambiente

    Filippine, una taglia sulle zanzare: la ricompensa a chi le prende “vive o morte”

    di Giacomo Talignani

    19 Febbraio 2025

    Un grave problema di salute pubblica, dunque, che rischia di aggravarsi perché sembra che le zanzare stiano evolvendo resistenze ai sistemi tradizionali di repellenza che usiamo per difenderci. Insomma, servono nuove strategie di contenimento.

    Togliere il cibo alle zanzare
    Come spiegano i ricercatori del Royal Botanic Gardens di Kew, le zanzare hanno un fabbisogno energetico molto elevato, che non soddisfano nutrendosi solo di sangue. Anzi, buona parte della loro dieta è costituita dal nettare delle piante, da cui traggono gli zuccheri necessari al loro sostentamento e alla produzione delle uova. Precedenti ricerche hanno mostrato anche delle preferenze dietetiche, identificando alcune specie vegetali di cui le zanzare vanno ghiotte. Da qui l’idea: capire i gusti delle zanzare e togliere loro il cibo, così da diminuire le popolazioni e i tassi di infezione.

    Biodiversità

    Animali autostoppisti all’interno delle piante ornamentali. Così aumentano i rischi di “invasione”

    di Giacomo Talignani

    21 Gennaio 2025

    Quali piante mangiano le zanzare?
    Individuare le specie di piante più succulente per questi piccoli insetti, però, non è affatto semplice. Il metodo utilizzato finora consiste nella ricerca di DNA nel materiale vegetale ingerito, ma i campioni così ottenuti spesso non sono sufficienti per l’identificazione.

    Per questo gli autori della nuova ricerca hanno sviluppato un sistema alternativo: sono andati alla ricerca dei metaboliti secondari del nettare, una sorta di impronta unica per le diverse specie vegetali, che si è dimostrata efficace per distinguere fonti differenti di zuccheri. La tecnica è stata validata con tre specie precedentemente identificate tra le favorite dalle zanzare, cioè la salvia gialla (Lantana camera), la pianta di ricino (Ricinus communis) e l’oleandro giallo (Cascabela thevetia) – che sono, tra l’altro,molto diffuse nelle regioni tropicali del pianeta.

    “In questo lavoro abbiamo sviluppato un modo per identificare quali piante da fiore preferiscono le zanzare, così da poterle rimuovere dalle case delle persone e ridurre l’abbondanza delle zanzare e la trasmissione delle malattie che trasmettono”, ha spiegato Phil Stevenson del Royal Botanic Gardens di Kew. “Pensiamo che potrebbe anche essere utilizzato per comprendere e influenzare le dinamiche dell’infezione in altre importanti malattie trasmesse dalle zanzare, tra cui la dengue, il virus Zika e il virus del Nilo occidentale”.

    “L’unico modo per ridurre l’impatto delle malattie trasmesse dalle zanzare è trovare nuove vie per colpire i vettori – ha concluso Amanda Cooper, tra gli autori della ricerca – Gli interventi su piante ospiti note potrebbero essere la soluzione di cui abbiamo bisogno”. LEGGI TUTTO