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    La citizen science per far rinascere la Posidonia: “Portateci i semi spiaggiati”

    La caccia alle “olive” è partita. E può contribuire a far rifiorire le praterie di Posidonia oceanica nel golfo di Napoli, sensibilmente ridotte dagli ancoraggi selvaggi degli ultimi decenni. Così, per riforestare i fondali di Posillipo, partendo da quel piccolo e prezioso laboratorio che è l’area marina protetta Parco Sommerso di Gaiola, parte un progetto che chiede una mano a tutti, ricorrendo alla citizen science. “Basta raccogliere il frutto della Posidonia, comunemente chiamato ‘oliva di mare’ per la sua somiglianza con le classiche olive, che spesso tende a spiaggiarsi e sarebbe dunque destinato a essiccarsi al sole, e consegnarcelo”, dice Maurizio Simeone, che dell’area marina protetta è il direttore. Già, perché una volta giunto a maturazione il frutto si stacca dalla pianta e sale in superficie, lasciandosi trasportate dalle correnti: una strategia attuata dalla pianta per colonizzare nuove aree, anche a distanza dalla “prateria madre”. Liberandosi della “buccia”, o più propriamente del pericarpo, il frutto libera infatti il seme, che si deposita sul fondale. “Ma questo non avviene, naturalmente, se le olive finiscono lungo le nostre coste”, annota Simeone.

    Biodiversità

    Entro il 2100 potremmo perdere alghe e foreste marine

    di Pasquale Raicaldo

    02 Novembre 2024

    L’idea che ha così animato il progetto PosiFarm è in fondo semplice: raccogliere i semi, con l’aiuto dei cittadini (e di aree marine protette vicine, come il Regno di Nettuno), e farli geminare in laboratorio, per poi piantare le piccole plantule una volta fortificate, sui fondali di Gaiola, dove dal 2023 è peraltro già in corso un altro progetto di riforestazione dei fondali tramite talee. L’obiettivo è di ricreare un hotspot di biodiversità e contribuendo alla salute del pianeta: attraverso la fotosintesi clorofilliana, la Posidonia oceanica genera fino a 20 litri di ossigeno al giorno per metro quadrato, assorbendo enormi quantità di anidride carbonica: un contributo importante per mitigare l’acidificazione degli oceani.

    Dodici vasche da 500 litri
    E per farlo scende in campo, con l’area marina protetta, la Stazione Zoologica Anton Dohrn. Gabriele Procaccini è dirigente di ricerca del dipartimento di Ecologia Marina Integrata: si occupa da decenni di Posidonia oceanica. “Negli ultimi anni – annota – si è registrata una fioritura più frequente delle piante, alle nostre latitudini. C’entra il climate change, ma – a dispetto di come appaia – non è detto che sia una buona notizia: la pianta risponde così agli stress, investendo nella riproduzione e alterando i suoi cicli. Con conseguenze a lungo termine che potrebbero essere negative”. La buona notizia, invece, è che il boom di fioriture, concentrate tra settembre e ottobre, con frutti che si staccano proprio in questo periodo, tra aprile e maggio, ha dato il via libera al progetto. “Proprio così. – annuisce Procaccini – A settembre abbiamo registrato una fioritura imponente nelle isole del golfo di Napoli e lungo la costa flegrea, così come in Puglia, dalle Tremiti in giù, in Sicilia e in Calabria. Questo ci ha suggerito di approfittare della congiuntura favorevole, preparandoci per tempo alla raccolta dei frutti, da cui ricavare plantule destinate alla riforestazione su base sperimentale del posidonieto della Gaiola”.

    Biodiversità

    La polemica sulla posidonia: fa bene alla spiaggia, ma non piace ai bagnanti

    27 Giugno 2024

    I frutti, una volta raccolti dai ricercatori o da cittadini volontari, finiscono nelle dodici vasche nella sede del Dohrn e, in parte, in un laboratorio in fieri nell’area marina protetta: qui, raggiunto un grado di maturità idoneo e un’altezza di circa 15 centimetri, sono destinati alla fase successiva, il trapianto in mare. “Parte delle plantule finiranno nella zona B dell’area marina – annota Simeone – dove è consentita la balneazione. Così tutti potranno, facendo snorkeling, monitorarne la crescita, sempre in ottica di citizen science”.

    “Piante più resistenti al caldo grazie all’evoluzione assistita”
    E il prossimo gennaio parte ufficialmente un altro progetto, Seacovery, direttamente coordinato da Fabio Blanco Murillo, postdoc alla Dohrn, vincitore di un progetto di ricerca Marie Curie presso il laboratorio di Procaccini. “Il nostro obiettivo – dice – sarà quello di sperimentare metodologie diverse per il restauro o il recupero di praterie di Posidonia oceanica e di studiarne le basi scientifiche. In particolare, lavoreremo sull’evoluzione assistita dei semi germinati in laboratori, esponendoli a ondate di calore simulate. L’obiettivo è che sviluppino una maggiore resistenza alle condizioni ambientali del futuro, condizionate dalla crisi climatiche, e si rivelino più resistenti”. Contestualmente, arriveranno nel mare della Gaiola, a Napoli, anche semi provenienti dalla Puglia e dalla Sicilia. “Sì, lavoreremo sui pattern di variabilità genetica, verificando se esistano piante più resilienti alle condizioni che ci attendono”, aggiunge Procaccini.

    Un lavoro che nasce dalle esperienze di un team variegato e che ha già raggiunto importanti risultati in tal senso, fra cui sono presenti le ricercatrici Jessica Pazzaglia, esperta di memoria delle piante e di evoluzione assistita, ed Emanuela Dattolo, esperta di genomica delle piante marine. “E chissà che non prenda forma, in un futuro non troppo lontano, un progetto di riforestazione di Posidonia più ampio, esteso all’intero golfo di Napoli, dove oggi la pianta è praticamente scomparsa a causa di una degradazione delle condizioni ambientali e di un diportismo nautico invasivo, che incide sulle piante attraverso gli ancoraggi”, aggiunge il dirigente di ricerca della Stazione Zoologica Anton Dohrn. Un passo alla volta, oggi si aspettano nuovi semi: trecento sono già arrivati dalle isole di Ischia e Procida, sui canali social degli enti coinvolti è partito l’appello ai cittadini. Basta una passeggiata con sguardo incuriosito lungo spiagge e litorali, in fondo, per contribuire al futuro della biodiversità nel golfo di Napoli. LEGGI TUTTO

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    “Squali scomparsi, pesci più piccoli, sovrapesca”. Ecco “Breath”, il docufilm sulla crisi del mare

    A un certo punto la regista Ilaria Congiu si è sentita “tonno”. Come quelli nelle gabbie che ha osservato con i suoi occhi, “che probabilmente continuavano a girare in tondo senza sapere di essere in trappola e che per loro era finita”. Così ha deciso di far atterrare tutto quello che aveva imparato dalla sua particolare esperienza di vita, compresa la professione del padre, all’interno di un docufilm per raccontare proprio come la natura – ma anche noi stessi – sia finita in una trappola le cui sbarre sono fatte dall’inquinamento, dalla sovrapesca industriale e dalla crisi del clima che l’uomo stesso ha alimentato. Il suo primo film si chiama “Breath” e la giovane regista debutterà nelle sale il 5 maggio con un documentario di 72 minuti prodotto da Mediterraneo Cinematografica, TVCO, Propaganda, TBC Productions e distribuito dalla Mescalito Film col patrocinio di Legambiente Italia e Extinction Rebellion Italia. Nella pellicola ci sono le contraddizioni del “respiro” di un mare che Congiu, nata in Senegal e dopo l’adolescenza passata in Italia, ha visto radicalmente cambiare nei suoi costanti ritorni in Africa. Come, lo racconta a Green&Blue in vista dell’esordio della sua prima opera.

    Come nasce l’idea di Breath?
    “Direi che è stata una semina di più anni. Sono sempre stata educata all’attenzione per l’ambiente: sono cresciuta a contatto con i pescatori e sempre in acqua, vista la passione per il surf e anche per la subacquea, ma solo nel tempo mi sono resa conto della necessità di raccontare i cambiamenti in atto”. LEGGI TUTTO

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    Blackout in Spagna, fra le cause un “raro fenomeno atmosferico”

    A causare il blackout che ha interessato Spagna, Portogallo e parte della Francia potrebbe essere stato “un raro fenomeno atmosferico”. Dunque non gli hacker o il guasto tecnico ma una reazione a dei bruschi cambiamenti di temperatura nel centro della Spagna. Almeno questa è l’ipotesi formulata dall’operatore energetico portoghese REN (Reti nazionali dell’energia) mentre tutta […] LEGGI TUTTO

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    La conservazione della natura voluta dalla Ue non compromette le attività economiche

    Ripristino della natura e produttività economica possono andare di pari passo? Le misure previste dalla tanto contestata Nature Restoration Law rischiano di penalizzale gli agricoltori, gli allevatori e l’industria del legno in Europa? Uno studio pubblicato oggi sulla rivista Nature Ecology & Evolution dà una risposta scientifica: l’ambizioso Regolamento dell’Unione europea, essenziale per raggiungere gli […] LEGGI TUTTO

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    Come ridurre la plastica monouso in casa e in azienda

    Ridurre la plastica è un imperativo assoluto, tenendo conto che questa pervade ormai il nostro Pianeta, rappresentando uno dei problemi ambientali più critici. Milioni di tonnellate di rifiuti di plastica ogni anno inquinano terreni, città e mari, mettendo in serio pericolo la nostra salute, quella degli animali e quella degli ecosistemi: l’uso smodato della plastica e la sua gestione inadeguata sono responsabili di una mole immensa di rifiuti, rendendo questo materiale di per sé prezioso una minaccia. Seppur diffusissima ed eliminarla possa non essere così semplice, con i giusti accorgimenti ridurre la plastica monouso in casa e in azienda è possibile e necessario per combattere l’inquinamento ambientale, tutelando così la Terra ormai invasa dalla sua presenza.

    Perché è importante ridurre l’uso della plastica?
    Entrata nella vita dell’uomo a partire dal XIX secolo, la plastica ha rivoluzionato le nostre esistenze, impattando ogni settore produttivo e la quotidianità di ciascuno di noi, determinando la diffusione di alimenti monoporzione e confezionati, che ci hanno permesso di seguire il ritmo della società odierna sempre più frenetica, veloce e impregnata dalla cultura dell’usa e getta.

    La plastica è un prodotto sintetico formato da polimeri e dalla lunga conservazione: apprezzata per la sua grande versatilità e i suoi innumerevoli usi, si è ampiamente diffusa, tanto che la sua produzione incessante ha oltrepassato la capacità dell’uomo nel gestirla. Negli ultimi decenni la plastica si è trasformata in un problema urgente per via del suo smaltimento, tenendo conto che non è un materiale semplice da riciclare, potendo essere reimpiegato un numero limitato di volte per dare vita ad altre materie plastiche. Malgrado le politiche volte a ridurre l’uso della plastica, secondo le previsioni future la presenza di questo materiale aumenterà nei prossimi 30 anni.

    Il tema della plastica è un’emergenza che non può più essere rimandata: ciascuno di noi può fare la sua parte mettendo in campo azioni finalizzate a ridurre il suo uso sia in casa, che in ufficio. Oltre a rendere la raccolta differenziata un’abitudine quotidiana, separando correttamente la plastica dalla carta e dagli altri rifiuti, ci sono una serie di strategie grazie alle quali ridurre l’uso della plastica.

    Buone pratiche per contenere l’uso della plastica in casa
    Quando si parla di ridurre la plastica un’azione di grande impatto riguarda l’uso delle bottiglie di acqua in plastica, che rappresentano un forte problema per il Pianeta, tenendo conto che la loro decomposizione richiede tempi davvero lunghi e che solo una minima parte riesce a essere riciclata. Proprio per questo, piuttosto che bere l’acqua dalle bottiglie di plastica, è bene idratarsi con l’acqua del rubinetto, potendo microfiltrarla per aumentare le sue qualità organolettiche oppure applicando sistemi di osmosi nell’impianto idrico domestico per depurarla.

    Ridurre l’uso della plastica passa anche dalla scelta di non ricorrere a soluzioni monouso usa e getta, come per esempio posate, piatti, bicchieri in plastica e cannucce che impattano moltissimo sul Pianeta. Se proprio non si può fare a meno di accessori usa e getta è importante impiegare opzioni che siano biodegradabili.

    Altro accorgimento utile consiste nell’evitare la pellicola trasparente, conservando piuttosto gli alimenti in contenitori in vetro oppure acciaio. Le confezioni in plastica monouso andrebbero usate il meno possibile, ma qualora ne fossimo in possesso è bene fare in modo di impiegarle più volte, finché il loro ciclo di vita lo permette, smaltendole così nel lungo periodo ed evitando di usarle solo una volta e buttarle subito.

    Come ridurre la plastica monouso: consigli utili
    Per contenere il consumo della plastica monouso si possono attuare delle strategie per quanto riguarda la spesa. Nel carrello dovrebbero esserci meno prodotti in packaging plastificati, prediligendo bensì opzioni fresche come frutta e verdura, che non solo sono più genuine, ma anche contenute in sacchetti di carta. Inoltre, quando si va al supermercato è importante portare sempre con sé un sacchetto che sia riutilizzabile, come una borsa in tessuto, azione semplice che ci permette di contenere gli sprechi, evitando di ritrovarci con l’ennesimo sacchetto di plastica.

    Altro accorgimento utile è quello di fare una spesa ben pianificata, più grande e con cadenza settimanale, evitando spese piccole e ravvicinate, cosa che ci permette di ridurre significativamente l’acquisto di imballaggi monouso. In questa direzione è bene prediligere prodotti sfusi: per quanto riguarda i detersivi è possibile acquistarli in contenitori riutilizzabili, rifornendosi in supermercati oppure negozi specializzati, ricorrendo alla medesima confezione. Accanto ai prodotti sfusi, altre opzioni con cui contenere la plastica in casa sono per esempio il bagnoschiuma solido, il dentifricio in pastiglie e lo spazzolino in bambù. Quando si è fuori casa si può limitare il consumo della plastica monouso portando con sé una borraccia con dell’acqua del rubinetto.

    Le mosse per ridurre la plastica monouso in azienda
    Anche in ufficio si possono mettere in atto delle azioni virtuose per contenere la plastica monouso. Da parte delle aziende è necessario dotarsi di dispenser dell’acqua, oppure fornire ai dipendenti delle borracce, facendo in modo che l’acqua del rubinetto sia stata pulita con sistemi di depurazione. Inoltre, bisogna evitare piatti, bicchieri e posate in plastica nelle mense, optando per soluzioni riutilizzabili, inserire negli uffici i cestini necessari per la corretta raccolta differenziata e ricorrere a dispenser di sapone ricaricabili nei bagni. In generale, è opportuno contenere quanto più possibile l’uso di materiali di plastica in ufficio, impiegando piuttosto opzioni in cartone riciclato oppure vetro.

    Dal lato dei lavoratori per mettere in atto un approccio più sostenibile sul posto di lavoro è bene tenere in ufficio a portata di mano una tazzina da caffè, per non ricorrere ai bicchieri usa e getta della macchinetta, e per lo spuntino e per il pranzo utilizzare contenitori riutilizzabili e lavabili, evitando quelli in plastica usa e getta. Accanto a tutto questo, è importante eseguire correttamente la raccolta differenziata, gettando la plastica nel recipiente preposto, e preferire l’archiviazione digitale dei documenti per evitare di ricorrere a buste e contenitori in plastica. LEGGI TUTTO

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    Quando il fuoco non è nemico di savane e foreste

    Uno sguardo diverso sul tema del fuoco che lo consideri un alleato dell’ambiente, nella sua relazione con la Terra e nel suo potenziale ecologico, recuperando conoscenze e pratiche tradizionali in chiave inventiva, immaginando l’utilizzo di fonti di energia alternative ai combustibili fossili. È la proposta (controcorrente) di una ventina di scrittori, scienziati, filosofi, registi, architetti, paesaggisti, condensata nel volume Dalla parte del fuoco, edito dalla Fondazione Benetton – istituzione culturale che dal 1987 si occupa di tematiche legate alla cultura del paesaggio, all’etica ambientale, alle questioni ecologiche – e curato da Luigi Latini e Simonetta Zanon. Si dichiara con solide argomentazioni come il fuoco costituisca una presenza costante del nostro ambiente di vita, anche nelle pratiche di gestione e cura del paesaggio, e debba essere riscoperto e valorizzato. La proposta può sembrare una provocazione, ma, in realtà, rappresenta una sfida. D’altra parte, gli incendi più violenti sono spesso causati, paradossalmente, dall’assenza di combustioni, naturali o generate e controllate dall’uomo, alle quali i paesaggi, nel tempo, si erano adattati.

    Simonetta Zanon, responsabile dell’area di ricerca Progetti paesaggio della Fondazione Benetton e curatrice dell’opera, racconta a l’origine e il senso del saggio. “Il libro nasce dall’esperienza delle giornate di studio sul disegno del paesaggio del 2023 e costituisce un passo ulteriore sul tema del fuoco, con il quale ci stiamo confrontando ormai da tre anni. Ammetto che sia difficile affrontare un argomento complesso come questo, anche alla luce del riscaldamento climatico, di incendi sempre più intensi, più spaventosi e di eruzioni vulcaniche distruttive”. Ma, ragiona Zanon, “ci rendiamo conto che la pericolosità del fuoco viene amplificata dal nostro modo di abitare il paesaggio”. La dimensione distruttiva è dovuta anche al degrado ecologico e all’abbandono della cura dell’ambiente: “nei boschi lasciati a loro stessi si accumula una grande quantità di massa infiammabile, gli ambienti urbani si confondono con le foreste, costruiamo interi paesi a ridosso dei vulcani”. Il lavoro della Fondazione illustra numerosi interventi propositivi, nei quali l’utilizzo del fuoco e la prevenzione di incendi devastanti prevale sulla logica militare delle tecniche antincendio. Nella storia dell’uomo, in agricoltura e nella gestione forestale, l’uso sapiente del fuoco è sempre stato una delle pratiche più utili e utilizzate. Simonetta Zanon ce ne ricorda uno, ampiamente praticato anche in Italia: “Nei paesaggi umidi bruciare l’enorme massa vegetale prodotta ogni anno dalle piante, significa consentire la rigenerazione della vegetazione, che altrimenti faticherebbe a germogliare”. Una precisazione necessaria: “tutti gli interventi raccontati nel libro sono assolutamente controllati e a piccola scala”. Ecco alcuni esempi.

    L’intelligenza artificiale “divora” energia con un impatto ambientale insostenibile

    a cura della redazione di Green&Blue

    21 Marzo 2025

    Le savane dell’isola della Réunion
    Serge Briffaud – professore presso l’École Nationale Superieure d’Architecture et de Paysage di Bordeaux e ricercatore del Centre National de la Recherche Scientifique – e Quentin Rivière – geografo e ricercatore – dal 2016 hanno contribuito all’avvio e all’attuazione di una campagna di fuoco controllato nelle savane dell’isola francese della Réunion, nell’Oceano Indiano a est del Madagascar, dove questa tecnica non era mai stata utilizzata prima. L’hanno fatto nell’ambito di un progetto di ricerca e azione a lungo termine, finanziato dal Conservatoire du littoral e dalla Fondation de France. Le savane de La Réunion si estendono tra la costa e un’altitudine di 300-400 metri. Oggi costituiscono un paesaggio e un ambiente a rischio di estinzione, all’interno di un territorio costiero segnato da un forte sviluppo dell’urbanizzazione. Per tre secoli, il desiderio di avere un pascolo permanente ha portato gli allevatori a utilizzare il fuoco. Il suo utilizzo regolare ha permesso il mantenimento di una savana erbosa o leggermente boscosa, ma il restringimento delle aree di savana e il notevole declino dell’allevamento negli ultimi decenni hanno deregolamentato questo sistema, provocando importanti cambiamenti paesaggistici ed ecologici. Il progetto di ricerca ha dimostrato che le aree biologicamente più ricche corrispondono a quelle in cui sono state mantenute in vita le tradizionali pratiche piro-pastorali: con l’utilizzo del fuoco si è riusciti a rinnovare il potere nutritivo delle graminacee, che negli anni va diminuendo. Le fiamme vengono appiccate alla fine della stagione secca, in ottobre o novembre, e l’erba ricresce alle prime piogge, diventando nuovamente appetibile tre o quattro mesi dopo.

    Storie di fuoco nel paesaggio australiano
    Il Progetto Cultivated by Fire, tra disegno del paesaggio e arte, esplora l’antica pratica aborigena di gestione della terra nota come fire-stick farming (l’utilizzo di piccoli incendi controllati). È stato realizzato da Kate Cullity – architetta paesaggista e artista ambientale – e da Marni Elder – artista e designer. Un’installazione artistica, che comprende fiamme vere, è stata allestita in forma permanente a Berlino, tra i “Giardini del mondo” del grande parco nel quartiere Marzahn. Cultivated by Fire nasce dall’immagine satellitare di una mappa termica delle terre d’origine dei Martu, nell’Australia occidentale, che sono state bruciate in maniera selettiva e a bassa intensità dalle popolazioni native, per ridurre il rischio di incendi più grandi e distruttivi, allontanare gli animali e, allo stesso tempo, rigenerare il terreno in vista di una ricrescita. Il disegno crea essenzialmente un mosaico, che ricorda sia ciò che è stato bruciato, sia ciò che si è rigenerato, proprio come nelle aree dell’Australia dove tuttora è in uso questa pratica di gestione degli incendi. Il progetto, tra i numerosi spunti, riconosce l’incredibile capacità degli eucalipti di rigenerarsi dopo un incendio attraverso due strategie di sopravvivenza: la ricrescita dalle radici e la germinazione dei semi. Dopo una distruzione di enorme portata, possono essere generate fino a due milioni e mezzo di nuove giovani piante per ettaro.

    L’intelligenza artificiale “divora” energia con un impatto ambientale insostenibile

    a cura della redazione di Green&Blue

    21 Marzo 2025

    Coltivare il paesaggio mediterraneo
    Nell’ambito di Renaissance, progetto di recupero di un bosco bruciato nel 2019 nel comune di Générac (Francia meridionale, tra Montpellier e la Camargue), naturalisti, forestali, agricoltori, politici, tecnici e associazioni hanno lavorato per pensare al futuro di 80 ettari di terreno comunale tra vigneti e stagni. La coordinatrice, Véronique Mure, botanica e ingegnere agronomo tropicale, scrive che “ricostruire questo bosco ha significato anche condividere con gli abitanti del luogo, bambini e adulti, una certa cultura del fuoco e la comprensione del funzionamento delle piante pirofite e dei piro-paesaggi, in modo tale che il bosco non sia più visto solo come un rischio, ma come uno spazio vitale”. Il lavoro è servito a mettere in luce come molte specie vegetali abbiano sviluppato strategie per sopravvivere al fuoco, o anche per trarne vantaggio. Tra le pirofite mediterranee, sono da considerare, innanzitutto, le piante che ricrescono a svilupparsi rapidamente dopo un incendio grazie a profondi organi sotterranei, come i polloni della quercia spinosa (Quercus coccifera) o il lignotubero del corbezzolo (Arbutus unedo), l’erica (Erica arborea) e la fillirea (Phillyrea angustifolia). Altre piante si proteggono grazie a un’epidermide molto spessa che tiene al riparo dalle fiamme i loro tessuti interni e i vasi conduttori. La quercia da sughero (Quercus suber) è un esempio ben noto. Il pino d’Aleppo (Pinus halepensis) e il cisto (Cistus sp.) si affidano invece a una strategia attiva di ricolonizzazione degli ambienti attraverso i loro semi, subito dopo un incendio. La quiescenza dei loro semi viene infatti interrotta dallo stress termico o dall’effetto chimico della cenere. Oltre alle esperienze progettuali, artistiche, naturalistiche, Dalla parte del fuoco si occupa anche degli aspetti storici, delle ragioni simboliche e dell’importanza del fuoco per l’evoluzione della specie umana. Marco Belpoliti, nell’introduzione, cita l’antico mito di Prometeo nel quale il fuoco è di natura divina, per averlo occorre rubarlo agli dèi, confliggere con loro, e quindi rischiare la vita, e ricorda come l’inizio dell’età del fuoco risalga a 400mila anni fa, quando l’Homo erectus ne faceva uso, ben prima della comparsa dell’Homo sapiens. Con un salto temporale notevole, si arriva a Italo Calvino, affascinato dall’uso del fuoco dopo un viaggio in Persia, dove lo scrittore ligure incontra l’antica religione di Zoroastro, praticata ancora oggi in Iran e nella vicina India da alcune migliaia di fedeli. I parsi custodiscono nel loro sacrario il fuoco che arde da secoli nel tempio dedicato ad Ahura Mazda, la divinità creatrice del mondo, divinità ignea. Calvino, catturato da quelle pratiche religiose, trasferisce il suo sguardo al cosmo e sancisce: “l’universo è un incendio”. LEGGI TUTTO

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    Neve ai minimi storici sull’Himalaya: due miliardi di persone a rischio siccità

    Due miliardi di persone rischiano di restare senza acqua a causa della mancanza di neve. Succede in Nepal, dove le nevicate della catena montuosa Hindu Kush hanno raggiunto il minimo degli ultimi 23 anni, mettendo in pericolo l’approvvigionamento idrico della popolazione che dipende dallo scioglimento della neve. Il significativo calo della persistenza della neve, pari al 23,6% sotto la norma, per il terzo anno consecutivo, fa presagire una potenziale riduzione dei deflussi fluviali, una maggiore dipendenza dalle acque sotterranee e un aumentato rischio di siccità. A denunciarlo, in un rapporto appena pubblicato, lo Hkh Snow Update Report 2025, gli scienziati dello International Center for Integrated Mountain Development (Icimod).

    Come suggerisce il nome, i rapporti dell’Icimod monitorano da anni le anomalie stagionali della neve nella regione Hindu Kush Himalaya, e forniscono un’analisi della persistenza della neve stagionale (novembre-marzo), ovvero la frazione di tempo in cui la neve rimane al suolo dopo una nevicata. Dal momento che lo scioglimento della neve che contribuisce in media a circa un quarto del deflusso annuo totale di dodici importanti bacini fluviali della regione, le anomalie appena registrate influenzano la sicurezza idrica dei quasi due miliardi di persone che dipendono da questi bacini. Il rapporto appena pubblicato evidenzia che il 2025 non è solo stato il terzo anno consecutivo di persistenza della neve inferiore alla norma, ma ha anche toccato un minimo storico degli ultimi 23 anni, raggiungendo per l’appunto quota -23,6% rispetto alla media.

    Clima

    Himalaya, i ghiacciai si sciolgono a una velocità record

    Giacomo Talignani

    20 Dicembre 2021

    Meno neve dappertutto
    Come sottolineato nel documento, quattro dei cinque inverni passati tra il 2020-2021 e il 2024-2025 hanno visto una persistenza della neve inferiore alla norma in tutti e dodici i bacini fluviali interessati, e i declini più importanti sono stati osservati nel bacino del Mekong (-51,9%) e del Salween (-48,3%), seguiti dall’altopiano tibetano (-29,1%), dal Brahmaputra (-27,9%), dallo Yangtze (-26,3%) e dal Gange (-24,1%). Anche i bacini a prevalenza nevosa, come l’Amu Darya (-18,8%) e l’Indo (-16%) hanno contribuito a registrare una riduzione della persistenza della neve.

    Caldo e sete
    “Quest’anno, le nevicate sono iniziate tardi a gennaio”, ha spiegato Sher Muhammad, autore principale del rapporto, “e sono rimaste basse in media durante la stagione invernale”. Diversi paesi della regione hanno già emesso allarmi di siccità, legati al fatto che i prossimi raccolti e l’eccesso all’acqua saranno a rischio per popolazioni già provate da ondate di calore sempre più lunghe, più intense e più frequenti. Un ulteriore deficit di acqua comporterebbe una minore portata dei fiumi nei mesi secchi, il che rende urgente la necessità di mettere a punto strategie di gestione adattativa delle (poche) risorse idriche per mitigare gli impatti della carenza di acqua, specialmente per le comunità a valle che affrontano estati sempre più estreme.

    Agire in fretta
    Per queste ragioni, gli autori del rapporto raccomandano che le autorità competenti si preparino per tempo, mettendo a punto programmi di allocazione ottimizzata dell’acqua e istituendo meccanismi di risposta alla siccità per un soccorso efficace e tempestivo a eventuali emergenze. Alla base di tutto, come al solito, ci sono la crisi climatica e le emissioni di gas climalteranti: “Le emissioni di anidride carbonica”, ha commentato Pema Gyamitsho, direttore generale dell’Icimod, “hanno già innescato una serie irreversibile di anomalie nevose dell’Hindu Kush Himalaya. Bisogna cambiare urgentemente le politiche per affrontare questa situazione nel lungo termine”. LEGGI TUTTO

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    Come riciclare i barattoli di vetro: idee creative

    I barattoli di vetro sono tra gli oggetti più comuni nelle nostre case, ma spesso vengono gettati via senza pensarci due volte. In realtà questi contenitori possono avere una seconda vita, diventando protagonisti di idee creative e utili anche per ridurre lo spreco.
    Vediamo dunque come reinventarli in pochi e semplici passi per evitare di gettarli via e, allo stesso tempo, decorare con creatività la nostra casa. I barattoli di vetro si possono riciclare in tanti modi diversi, tutti molto semplici, creativi e utili per ridurre gli sprechi dando una nuova vita agli oggetti che altrimenti verrebbero buttati.
    Barattoli di vetro come candele fai da te
    Uno dei modi più semplici e belli per riciclare i barattoli di vetro è trasformarli in candele. Puoi facilmente realizzare una candela decorativa utilizzando cera naturale, stoppini e qualche goccia di olio essenziale per un profumo rilassante. Basterà sciogliere la cera, versarla nel barattolo e inserire lo stoppino al centro. Dopo che la cera si è solidificata, avrai una candela originale per aggiungere un tocco di atmosfera alla tua casa.

    Barattoli di vetro come vasi per piante
    I barattoli di vetro possono diventare dei graziosi vasi per piante. Puoi utilizzarli per coltivare piante succulente, piccole erbe aromatiche o anche fiori freschi. Se desideri un effetto più rustico, puoi decorare il barattolo con corde, nastri o pittura acrilica. Inoltre, essendo trasparenti, i barattoli di vetro ti permettono di osservare le radici delle piante mentre crescono, aggiungendo un tocco naturale e affascinante al tuo arredamento. LEGGI TUTTO