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    Pompa di calore: funzionamento, vantaggi e svantaggi

    La pompa di calore è una tecnologia sempre più utilizzata per riscaldare e raffrescare gli ambienti domestici e aziendali. Ma come funziona, quali sono i suoi vantaggi e quali gli svantaggi? Esploriamo questi aspetti per aiutarti a capire meglio se questo sistema di climatizzazione è adatto alle tue esigenze.

    Cos’è una pompa di calore
    La pompa di calore è un dispositivo che sfrutta l’energia termica presente nell’ambiente (aria, acqua o terra) per riscaldare o raffrescare un ambiente. Funziona in modo simile a un frigorifero, ma al contrario. In inverno, estrae calore dall’aria esterna (anche a basse temperature) e lo trasferisce negli ambienti interni. In estate il processo si inverte, rimuovendo il calore dall’interno per raffreddare l’ambiente.

    Come funziona la pompa di calore
    Il funzionamento della pompa di calore si basa su un ciclo termodinamico creato grazie all’utilizzo di un fluido refrigerante. Il fluido, tramite una serie di passaggi in cui cambia stato (da gas a liquido e viceversa), riesce ad assorbire calore da una fonte esterna e a trasferirlo nell’ambiente interno, o viceversa. Questo processo avviene grazie alla presenza di un compressore, un espansore e uno scambiatore di calore. Esistono diverse tipologie di pompe di calore, a seconda della fonte di energia utilizzata: le pompa di calore aria-aria (utilizzano l’aria esterna per il riscaldamento e il raffreddamento), le pompe di calore aria-acqua (trasferiscono il calore dall’aria all’acqua, sono utili per alimentare impianti di riscaldamento a pavimento o termosifoni) e le pompe di calore geotermiche (sfruttano il calore del terreno, offrendo una soluzione più stabile e ad alte prestazioni).

    Quali sono i vantaggi
    I vantaggi di avere una pompa di calore sono numerosi. Innanzi tutto tali strumenti garantiscono grande efficienza energetica: la pompa di calore è infatti uno dei sistemi più efficienti per riscaldare e raffrescare gli ambienti, potendo produrre fino a 4-5 kWh di calore per ogni kWh di elettricità consumato. Questo la rende una scelta economica a lungo termine e ecologica. Il rispetto per l’ambiente è un altro pro: essendo una tecnologia che sfrutta fonti di energia rinnovabile (aria, acqua, terra), la pompa di calore riduce significativamente le emissioni di CO2 rispetto ai sistemi tradizionali che utilizzano combustibili fossili come il gas. La versatilità è un altro punto forte di tali sistemi: la pompa di calore non solo riscalda, ma può anche raffrescare gli ambienti nei mesi estivi. Questo la rende un sistema ideale per avere comfort tutto l’anno. Per l’acquisto inoltre, in molti Paesi tra cui l’Italia, sono previsti incentivi statali e sgravi fiscali: questo permette di abbattere i costi iniziali di acquisto e di installazione. I costi di manutenzione, poi, sono bassi rispetto ai tradizionali impianti di riscaldamento (come le caldaie a gas): la pompa di calore richiede una manutenzione non solo meno costosa ma anche meno frequente.

    Quali sono gli svantaggi
    Abbiamo parlato di costi di acquisto e di installazione: il costo iniziale elevato è il primo ostacolo che potrebbe far desistere qualcuno dall’acquisto di tale sistema termoregolatore. Una pompa di calore costa di più rispetto ai sistemi di riscaldamento tradizionali. Tuttavia, questo costo viene ammortizzato nel tempo grazie ai risparmi energetici. Un altro fattore da tenere a mente è l’efficacia ridotta a basse temperature: le pompe di calore aria-aria e aria-acqua possono essere meno efficienti in zone con inverni particolarmente rigidi. In questi casi potrebbe essere necessario integrare il sistema con una fonte di calore supplementare, come una caldaia a gas. Le pompe di calore, inoltre, sono ingombranti: per installarle ci vuole spazio. In base al modello, la pompa di calore può richiedere un’area esterna per l’installazione dell’unità esterna (nel caso delle pompe di calore aria-aria) o l’accesso a un sistema geotermico (per le pompe di calore geotermiche). Questo potrebbe non essere pratico in alcuni edifici o in giardini di piccole dimensioni.

    L’ultimo compromesso è il possibile rumore: alcuni modelli di pompe di calore possono emettere suoni, specialmente nelle unità esterne, che potrebbero risultare fastidiosi in ambienti molto silenziosi. È importante dunque valutare bene e scegliere un modello con bassi livelli di rumorosità. La pompa di calore, insomma, rappresenta una soluzione innovativa e vantaggiosa per chi desidera un impianto di riscaldamento e raffreddamento a basso impatto ambientale ed efficiente. Sebbene richieda un investimento iniziale maggiore, i benefici in termini di risparmio energetico e di riduzione delle emissioni di CO2 sono notevoli. Se abiti in una zona con inverni non troppo rigidi o se sei alla ricerca di una tecnologia versatile e duratura, la pompa di calore potrebbe essere la scelta giusta. Se stai valutando di installare una pompa di calore, è sempre consigliabile rivolgersi a un professionista per un’analisi delle tue specifiche esigenze e per scegliere il modello più adatto alla tua casa. LEGGI TUTTO

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    Ambiente, la sfida delle piccole isole italiane: la transizione ecologica va a rilento

    Le isole minori italiane sono davanti a un bivio: laboratori di sostenibilità ambientale e biodiversità o luoghi fragili sempre più esposti ai rischi della crisi climatica e dell’overtourism, oltre che a una crescente antropizzazione? Il punto interrogativo aleggia su arcipelaghi straordinari, dove gli equilibri sono tuttavia sempre più precari: 26 le piccole isole abitate in Italia, vi ricadono 33 Comuni con una popolazione di 188 mila abitanti.Ed emergono più ombre che luci dal rapporto “Isole Sostenibili 2025”, che Legambiente e l’Istituto sull’Inquinamento Atmosferico del Cnr hanno appena presentato a Napoli nell’ambito della fiera “Green Med Expo & Symposium”.

    La sentenza è inequivocabile: la transizione ecologica, in quest’Italia cosiddetta minore, va a rilento. Tanto che l’indice complessivo di sostenibilità – ricavato da variabili come il consumo di suolo, l’uso dell’energia, la gestione dei rifiuti, le risorse idriche e i sistemi di depurazione, la mobilità e la presenza di aree naturali protette – si attesta nel 2025 al 46,8%, con una crescita marginale (+1,3%) in più rispetto al 2024. Quanto basta per auspicare – o meglio, chiedere – “una svolta decisa, valorizzando i progressi fatti – come l’aumento del fotovoltaico e le buone pratiche locali – ma affrontando con urgenza le criticità ancora presenti: dalla dipendenza energetica dai combustibili fossili ai ritardi nella gestione idrica e dei rifiuti, fino alla mobilità”, come sintetizza Francesco Petracchini, direttore del Dipartimento Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente del Cnr.

    “Serve un Piano nazionale integrato, coraggioso e adattabile alle peculiarità insulari, fondato su tre pilastri: energia pulita, tutela delle risorse naturali, innovazione. – sottolinea – Le isole minori possono diventare modelli di sostenibilità per tutto il Mediterraneo”.Ma quali sono le voci più critiche del report? Una su tutte: solo 7 delle 26 isole analizzate interconnesse alla rete elettrica nazionale, con le altre 19 dipendenti ancora da gruppi elettrogeni a gasolio. E non c’è stata l’auspicata crescita nella raccolta differenziata, con una media che nel 2023 si attesta al 58%, appena il 2% rispetto all’anno precedente e dunque ben al di sotto dell’obiettivo europeo del 65%. Non mancano casi virtuosi come Ustica (93%) e Favignana (85%).

    Ci sono poi la questione del consumo di suolo, che tra il 2022 e il 2023 ha raggiunto 7,8 ettari, pari a circa 11 campi da calcio, e il tema delle carenze nella gestione idrica: tra il 2020 e il 2022, secondo Istat, le perdite d’acqua sono salite al 42,3% (11,8 milioni di m³) rispetto al 40,6% di sette anni fa. Segnalati picchi drammatici a Ventotene (77% di dispersione), Capraia (69%), Pantelleria (67%) e ale Pelagie (58%). Ancora: il 22,5% della popolazione delle isole non è ancora servito da rete fognaria, con situazioni critiche a Salina (solo il 2% servito), Ischia (28%) e Pantelleria (45%).

    Ancora troppi veicoli privati, dov’è la mobilità green?
    Ma non v’è dubbio che uno dei temi cruciali per il futuro delle isole sia rappresentato dalla mobilità: ostacolare il processo che trasforma luoghi privilegiati in metropoli in miniatura sarebbe prioritario. Eppure l’uso individuale dell’auto, insieme a una presenza marginale del trasporto pubblico, sembrano ancora predominanti. Secondo i dati Aci sono 186.399 i veicoli privati circolanti, a fronte di circa 188 mila residenti: vuol dire 99 ogni 100 abitanti, un caso limite è Ischia dove il rapporto è addirittura superiore a 1:1. E si parla, generalmente, di un parco auto è obsoleto: in media il 61% dei veicoli è di classe Euro 4 o inferiore, con punte del 73% a Pantelleria e 72% nelle Pelagie e a Salina.

    La ricetta per un futuro sostenibile
    Non mancano esempi virtuosi, però. L’indice di sostenibilità è rassicurante, per esempio, sull’Isola di San Pietro (62%, +8% rispetto al 2024), a Capri (61%, -1%), Sant’Antioco (57%, -3%) e alle Isole Tremiti (55% come nel 2024). E non mancano segnali incoraggianti, in primis il forte incremento del fotovoltaico che, tra il 2021 e il 2023, ha visto crescere la potenza installata del +116% (dati Terna e Legambiente), superando in media il 50% del target fissato dal DM 2017, con casi significativi come Ustica (+153%) e Ventotene (+93%).“Le isole minori italiane sono scrigni di biodiversità e cultura, ma anche territori fragili, esposti agli effetti della crisi climatica e al rischio di spopolamento. – sottolinea Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente – Questa consapevolezza ha guidato il lavoro che portiamo avanti dal 2018 con il nostro Osservatorio Isole Sostenibili, nato per colmare la scarsa attenzione, in termine di dati e politiche dedicate, nei confronti di questi territori unici, che hanno tutte le carte per essere laboratori avanzati di transizione ecologica. Ma per farlo serve una strategia nazionale coraggiosa, concreta e continuativa, che possa adattarsi alle specificità insulari. La transizione energetica – oggi ostacolata da ritardi normativi, vincoli ambientali e carenze infrastrutturali – insieme alla tutela del patrimonio naturale, devono diventare il cuore di un nuovo modello di sviluppo”.

    A margine della presentazione del report, Legambiente e Cnr hanno ribadito così la necessità di un Piano nazionale dedicato alla transizione ecologica insulare, integrato e strutturato. Prevedendo anzitutto azioni specifiche mirate alla transizione energetica (con la connessione alla rete elettrica nazionale per le isole più vicine alla terraferma e microgrid intelligenti per le isole non interconnesse, sviluppo delle rinnovabili, lo sfruttamento di nuove tecnologie come il moto ondoso e la creazione di Comunità Energetiche Rinnovabili).

    Altro tema cruciale, sottolineano, è la gestione sostenibile delle risorse naturali: garantire l’accesso all’acqua potabile e a servizi di depurazione efficienti tutto l’anno, sfruttando per esempio i fondi del Pnrr Isole Verdi; ridurre le perdite delle condutture, implementare i dissalatori per l’approvvigionamento idrico al posto delle navi cisterna e i sistemi di raccolta e riutilizzo delle acque piovane; un impegno concreto per raggiungere l’obiettivo del 30% di territorio tutelato entro il 2030, valorizzando le aree protette già esistenti e i piani di conservazione delle specie endemiche.

    Ancora: innovazione e digitalizzazione e, altro tema caldo, turismo sostenibile. Auspicando “una governance nazionale e regionale, che tenga conto delle specificità insulari, per garantire servizi e collegamenti tutto l’anno; strategie di promozione che valorizzino identità, tradizioni e produzioni locali, attraverso il coinvolgimento attivo di cittadini, operatori e associazioni”. Lo spettro, qui come altrove, è naturalmente nei flussi incontrollati del turismo di massa. Di qui, per esempio, azioni come quelle del Comune di Capri, che sta promuovendo iniziative per limitare gli approdi e intanto guarda con rinnovato interessa alla creazione di un’area marina protetta. LEGGI TUTTO

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    I vestiti di pelle vegana fatta con i funghi

    C’è necessità di materiali sempre più sostenibili. E la pelle derivata dal micelio dei funghi è una delle innovazioni più promettenti ed innovative, presentandosi come un’alternativa etica ed ecologica alla pelle di origine animale e alle pelli sintetiche derivate dal petrolio. Il micelio è la parte vegetativa del fungo, costituita da una rete intricata di filamenti sottili, chiamati ife. Questa struttura è essenzialmente il sistema radicale del fungo, che si estende nel terreno o in altri substrati organici per assorbire nutrienti. La sua composizione gli conferisce resistenza e flessibilità. Il micelio fa parte di quelli che oggi vengono chiamati “living materials”, una frontiera innovativa nel campo della scienza dei materiali, che mira a integrare organismi viventi o componenti biologici in materiali strutturali per conferire loro nuove funzionalità.

    I living materials sono composizioni che contengono, in tutto o in parte, cellule viventi, come batteri, funghi, alghe, cellule vegetali o componenti derivati da sistemi biologici che mantengono una qualche forma di attività o funzione biologica. L’idea centrale è sfruttare la capacità della natura di autorganizzarsi, rigenerarsi e interagire con l’ambiente circostante. Da qui l’idea di una startup coreana, MyThings, che abbiamo incontrato al Gitex Europe di Berlino, la fiera tech e delle startup che da Dubai, dove è nata la manifestazione, ha fatto il suo primo passo nel Vecchio Continente. Nell’area dedicata al green tech, abbiamo incontrato Lee Sang-ho, la Ceo di questa giovane azienda, che sta usando il micelio del fungo per realizzare pelle vegana da usare nel campo dell’abbigliamento e dell’automotive, al posto di materiali sintetici il cui processo produttivo è altamente inquinante. “La nostra pelle si ottiene dalle radici dei funghi, il micelio, un materiale che si distingue per la sua durabilità, con circa il 90% delle caratteristiche della pelle bovina. Per un periodo di dieci giorni coltiviamo le radici del fungo, dopodiché ne rimuoviamo la superficie. Successivamente, da questa base possiamo creare una lastra adatta per la pelle vegana. Il processo prevede diverse fasi di lavorazione per ottenere il prodotto finale, del tutto simile a un tappeto di pelle”, spiega Lee Sang-ho.

    In effetti il processo di produzione della pelle di micelio, ha inizio con la coltivazione in ambienti controllati, spesso su substrati organici come scarti agricoli o biomassa vegetale. La crescita è rapida, impiegando appena pochi giorni. Una volta che la rete di micelio ha raggiunto la densità e lo spessore desiderati, viene raccolta sotto forma di fogli che vengono trattati e compressi. Possono essere essiccati, pressati e a volte sottoposti a processi di concia (anche se con sostanze molto meno tossiche rispetto alla pelle animale) per migliorarne la durabilità, la consistenza e le proprietà superficiali. Infine la pelle può essere tagliata, colorata e rifinita. MyThings, inizialmente impegnata nell’agricoltura di precisione, è specializzata in tecnologia di piattaforma AioT, che combina l’intelligenza artificiale con l’Internet delle Cose per creare sistemi intelligenti e interconnessi. In questo contesto la startup coreana usa questa tecnologia per controllare con precisione le condizioni ambientali per la rapida crescita del micelio e la trasformazione in prodotti innovativi che potrebbero ridefinire il paradigma dell’abbigliamento.

    L’idea, infatti, è di poterla usare sia nella produzione di vestiti che per rivestire gli interni delle auto. “Abbiamo sviluppato specificamente alcune tipologie di funghi che si adattano perfettamente alla trasformazione in pelle. Il micelio è un materiale relativamente nuovo per la pelle vegana, e non siamo i primi ad utilizzarlo. Oggi esistono pelli vegane derivate dalla frutta, tuttavia, il nostro punto di forza è l’aver sviluppato tipologie di funghi specifiche e un processo proprietario per la produzione di pelle vegana, rendendolo un aspetto distintivo della nostra offerta” racconta la Ceo di MyThings. “Il nostro prodotto è estremamente ecologico, ed attualmente, operiamo su scala di laboratorio perché stiamo cercando investitori per espandere la nostra produzione su larga scala”. Inoltre la produzione tradizionale di pelle richiede sostanze chimiche tossiche usate nella concia, contribuendo in modo importante all’inquinamento ambientale. “Anche noi utilizziamo alcuni processi chimici per la trasformazione dal fungo alla pelle, ma siamo riusciti a ridurre le emissioni di carbonio di oltre il 60% rispetto alla produzione tradizionale di pelle animale”. LEGGI TUTTO

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    John Vaillant, lo scrittore nemico del petrolio

    Quando lo scorso gennaio le fiamme hanno divorato più di 10mila edifici nei dintorni di Los Angeles John Vaillant è stato intervistato da tv e giornali di tutto il mondo. Due anni prima aveva pubblicato Fire weather (in Italia uscito nel 2024 con il titoloL’età del fuoco ). Scrittore e giornalista per testate prestigiose come The New Yorker, The Atlantic, National Geographic, Vaillant aveva dedicato sette anni a ricostruire le cause e gli effetti del colossale incendio che nel 2016 devastò le foreste canadesi e la città petrolifera di Fort McMurray. Il risultato è un saggio che si legge come un romanzo. Merito della abilità letteraria di Vaillant, ma anche di un approccio differente rispetto a quello di altri colleghi che si cimentano con la crisi climatica.

    Il programma

    G&B Festival 2025, dal 5 al 7 giugno a Milano: il programma

    20 Maggio 2025

    “Probabilmente sono un pavido, ma ho avuto paura a leggere La sesta estinzione di Elizabeth Kolbert, così come La Terra inabitabile di David Wallace-Wells. Sono grandi scrittori e grandi giornalisti, ma io non riesco a gestire tanta disperazione”, ha spiegato. “Con L’età del fuoco ho tentato una strada diversa, perché ho pensato che molti lettori non vogliono sentirsi dire che tutto sta andando in malora. Per questo ho raccontato le storie di persone e luoghi: dopodiché entrano in scena il fuoco e la scienza del clima. Ma il lettore è coinvolto dalla drammaturgia, dai personaggi, dalla loro lotta per sopravvivere. La vita è già dura anche senza il cambiamento climatico”.

    Vaillant, 63 anni, ha la doppia cittadinanza statunitense e canadese: nato e cresciuto nel Massachusetts, vive a Vancouver dal 1998. La sua è una famiglia di studiosi: è figlio di George Eman Vaillant, psichiatra a Harvard e nipote dell’archeologo George Clapp Vaillant. Sua moglie è la scrittrice e antropologa Nora Walsh. Il successo de L’età del fuoco (finalista al Pulitzer nel 2024) lo ha trasformato in un esperto di incendi. “Ma non farò un libro sul rogo di Los Angeles: tutto quello che so del fuoco l’ho già scritto”, avverte. D’altra parte, prima di dedicarsi al disastro di Fort McMurray, aveva raccontato il mito dell’abete d’oro (The goden spruce) dei nativi americani della British Columbia, la vicenda di una tigre mangiatrice di uomini nell’estremo est della Russia (The tiger),perfino, in un romanzo, la storia di un immigrato messicano intrappolato nella cisterna di un camion abbandonato nel deserto dai trafficanti di esseri umani (The jaguar’s children ).
    Ma le fiamme canadesi e quelle californiane hanno lasciato il segno. “È come se ciascuno di noi fosse chiuso nella sua scatola e non vedesse cosa c’è fuori”, spiega Vaillant. “Non credo sia negazionismo, penso piuttosto che sia una caratteristica della specie umana: siamo in grado di affrontare le cose ci capitano oggi, rimuovendo quelle che non consideriamo minacce immediate”.

    Senza appello il suo atto d’accusa contro i combustibili fossili. “Tutta la nostra civiltà è alimentata dal fuoco e dal petrolio. L’80% della nostra energia viene dai combustibili fossili: una enorme quantità di CO? immessa nell’atmosfera. Ogni incendio sulla Terra è influenzato, in un modo o in un altro, dai cambiamenti climatici provocati dall’immissione in atmosfera di tutta questa anidride carbonica”. Vaillant è preoccupato dalla presidenza Trump e dalla sua inversione di rotta sul clima. Ma è convinto che il cammino verso l’addio ai fossili sia ormai irreversibile: “Trump può anche rilasciare nuove licenze di trivellazione in Alaska o nel Golfo del Messico, può distruggere l’agenzia federale per la protezione dell’ambiente (Epa), può rendere gli Usa e il mondo un posto più pericoloso in cui vivere. Ma non potrà cambiare il mercato dell’energia. E io penso che vedremo un graduale rallentamento nella produzione di petrolio, man mano che proseguirà la transizione energetica verso le rinnovabili”.

    La partecipazione è gratuita previa registrazione. LEGGI TUTTO

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    Non solo scienza: musica e teatro per difendere l’ambiente

    Mario Tozzi il primo ad andare in scena il 5 giugno: geologo, divulgatore e volto noto della tv porterà sul palco la lectio-spettacolo Sapiens sull’orlo di una crisi di nervi in cui smaschera il paradosso della specie umana, dominatrice del pianeta ma al contempo incapace di riconoscere i limiti ecologici del proprio. Il programma G&B […] LEGGI TUTTO

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    Così la crusca e altri scarti alimentari diventano imballaggio compostabile

    Ogni anno in Europa si contano almeno 17 milioni di tonnellate di scarti alimentari, residui che poi finiscono in inceneritori o discariche, con un impatto ambientale e economico non più sostenibile. Allo stesso tempo in Europa si consumano più di 37 milioni di tonnellate di cellulosa per produrre carta: quasi la metà arriva ancora da fibre vergini, e questo significa una cosa sola: deforestazione. Due problemi così distanti trovano soluzione in ReVita, startup milanese fondata nel 2022 da due giovani chimiche, Greta Colombo Dugoni e Monica Ferro, che trasforma gli scarti agroalimentari in fibre con cui produrre carta e imballaggi compostabili. “Food waste is the new packaging” è il loro payoff che racchiude una visione che è tutt’altro che uno slogan. LEGGI TUTTO

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    Avacam, la startup italiana che monitora alluvioni e frane

    L’Italia è uno dei paesi d’Europa con il più alto numero di frane. Se ne contano oltre 620mila fino al 2023, anno in cui l’Ispra ha realizzato un dossier sul dissesto idrogeologico, cercando di mappare i fenomeni franosi sulla penisola. Si stima che gli eventi abbiano interessato un’are enorme: circa 24mila km quadrati, pari a quasi l’8% dell’intero territorio. Ogni anno sono qualche centinaia le frane che si verificano in diverse regioni del paese, nessuna esclusa. E provocano vittime, distruzione di case, quindi di vita, nei casi più gravi. Le frane rappresentano una delle manifestazioni più devastanti del dissesto idrogeologico che affligge l’Italia. Il nostro paese per la sua composizione geologica è intrinsecamente vulnerabile a questi fenomeni, ma sono i cambiamenti climatici e l’azione antropica a complicare la situazione.

    Se la geologia fornisce il “terreno fertile” per le frane, il clima è spesso la scintilla che le innesca. Le piogge intense e prolungate sono la causa più comune. L’acqua si infiltra nel terreno, saturandolo, aumentando il suo peso e, soprattutto, riducendone la coesione. È come se il suolo perdesse la sua “colla” naturale, trasformandosi in una massa fangosa pronta a scivolare.

    Negli ultimi decenni, i cambiamenti climatici stanno esacerbando il problema. Assistiamo a un’intensificazione degli eventi meteorologici estremi: periodi di siccità prolungata seguiti da piogge torrenziali e concentrate. Questo ciclo indebolisce ulteriormente il terreno, rendendolo ancora più vulnerabile. Infine, l’Italia è una zona sismica. I terremoti, con le loro scosse vibratorie, possono destabilizzare masse di terreno già precarie, innescando frane immediate o preparando il terreno per movimenti futuri in caso di successive piogge.

    La deforestazione ad opera dell’uomo o a causa di incendi è uno dei fattori più impattanti, perché priva il terreno della preziosa azione stabilizzatrice delle radici degli alberi. L’urbanizzazione selvaggia e il consumo di suolo contribuiscono pesantemente al problema. Di fronte a un’Italia che sta scivolando, insieme e prima delle azioni da intraprendere a scopo preventivo, serve un monitoraggio continuo e costante nel tempo, nel tentativo di prevenire quello che potrebbe accadere. LEGGI TUTTO

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    All’Elba una nuova “foresta blu” per rigenerare la posidonia oceanica

    Elba. Versante Nord. Porto Cavo, a strapiombo sull’Isolotto dei Topi. A cinque metri di profondità, sorge una nuova prateria di posidonia oceanica che si estende per 100 metri quadrati, dove, solo sei anni fa, c’era un’area che gli esperti definiscono di “matte morta”. Nel fondale, come spiega Stefano Acunto, biologo marino e direttore della International School for Scientific Divings (Issd), erano ancora presenti rizomi della pianta, mentre intorno sorgeva un’altra prateria, ma le mareggiate e l’attività antropica, soprattutto gli ancoraggi, avevano distrutto la vegetazione.

    “Sapevamo con certezza che qui la pianta, un tempo, cresceva”, spiega l’esperto. Il fondale di Cavo è stato così scelto come luogo ideale per tentare di riforestare una delle piante “chiave” dell’ecosistema Mediterraneo. La posidonia è una specie endemica e la sua perdita, a catena, rischia di distruggere tutta la biodiversità associata. “Qui ci sono sperimentazioni per la riforestazione delle praterie già dal 2006. Nel 2019 abbiamo però voluto provare un nuovo metodo di ingegneria naturalistica utilizzato anche con le vegetazioni sulla terraferma, che abbiamo tentato di trasferire sott’acqua”, continua Acunto.

    La tecnica di riforestazione
    Cuore della tecnica, sono le talee. Le posidonie non vengono prelevate da altri siti ma raccolte quando giacciono sul fondale, perché strappate dalle praterie naturali. “Diamo loro un’altra possibilità di sopravvivenza”, racconta il biologo. Queste vengono recuperate per farne, appunto, dei frammenti da reimpiantare. Intanto, sul fondale, i biologi lavorano in immersione per installare delle biostuoie, realizzate con reti di fibra in cocco, sulle quali innestare le talee. Interventi di questo tipo sono state effettuate nell’aria una prima volta nel 2019. Poi nel 2023. “Siamo molti soddisfatti del risultato ottenuto. Con le nostre attività di monitoraggio abbiamo potuto constatare che la percentuale di sopravvivenza si attesta intorno al 70 per cento dopo un anno. È un risultato davvero importante per questo genere di piante, che sono delicate e hanno una crescita molto lenta”, annuncia Acunto.

    Foresta Blu
    Nel 2025, le nuove posidonie reimpiantate sono state 2000, grazie al progetto Foresta Blu, la campagna di Coop per il monitoraggio, il ripristino e la protezione di tratti di praterie di posidonia oceanica nei mari italiani, attiva da due anni. “Oggi viviamo tempi complessi in cui a volte quando si parla di sostenibilità, si ha la sensazione che tutto sia stato già fatto e già detto. È in questi momenti che la natura di un’impresa fa la differenza. Noi anche oggi parliamo di tutela dei mari e dei loro ecosistemi, in tempi in cui l’attenzione sembra guardare altrove”, osserva la presidente di Coop Italia Maura Latini, in occasione della conferenza stampa di presentazione dei risultati che si è tenuta all’Elba, alla presenza di istituzioni locali. LEGGI TUTTO