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    Birra sostenibile, un brevetto del Cnr per produrla con meno emissioni

    Anche la birra può essere più sostenibile. Stiamo parlando del metodo di produzione, finito sotto la lente dell’Istituto per la bioeconomia del Cnr che ha dimostrato l’utilità di una tecnica specifica che eliminerebbe un passaggio centrale nella fase produttiva. La birra, infatti, ha bisogno della bollitura del mosto, uno step che ha dei consumi elevati a livello energetico, e che richiede un tempo standard. Ebbene lo studio italiano, pubblicato sulla rivista Beverages, potrebbe aver trovato una soluzione alternativa alla tradizionale produzione industriale brassicola, per la realizzazione di una delle bevande più consumate e popolari.

    Lo studio ha fatto ricorso ad una tecnica chiamata cavitazione idrodinamica, che consente di scaldare il mosto ad una temperatura di 94°C, quindi al di sotto dei 100 gradi centigradi, che sono quelli in cui il liquido comunemente va in bollitura, e che deve essere mantenuta per un’ora e mezza. La cavitazione idrodinamica è un processo fisico in cui la variazione di pressione nei liquidi genera microbolle di vapore che implodono rilasciando energia. Questo fenomeno è già utilizzato in diversi settori industriali, e sta trovando applicazione anche nella produzione della birra, in particolare nella fase di bollitura del mosto. Dunque, questo passaggio, conserva tutte le caratteristiche chimiche, ma abbattendo consumi e costi. I ricercatori del Cnr di Firenze stimano l’abbattimento di oltre l’80%, ma non è tutto.

    La cavitazione, infatti, elimina il precursore del dimetilsolfuro, lo S-methylmethionine, riducendo il suo tempo fino al 70% senza l’uso di additivi chimici. Inoltre, questa tecnica migliora l’isomerizzazione degli acidi alfa del luppolo, che sono responsabili dell’amaro della birra, anche a temperature inferiori ai 100°C; si tratta di un processo chimico in cui una molecola cambia la sua struttura senza modificare la sua composizione chimica. Con il calore questi acidi (alfa) si trasformano in una forma più solubile che contribuisce al sapore amaro della birra, ma nel caso specifico, il dimetilsolfuro è subito espulso dal mosto della birra e alla fine del processo, l’amaro di luppoli si trasferisce al mosto, modificandone il colore.

    L’esperimento

    A Singapore la birra è fatta con le acque reflue e sa di miele

    Giacomo Talignani

    01 Luglio 2022

    “Soltanto attraverso la cavitazione idrodinamica, che concentra un grande quantitativo di energia, è stato possibile ottenere questi risultati”, sottolinea Francesco Meneguzzo, primo ricercatore del Cnr-Ibe e coordinatore dello studio per la birra sostenibile. Tra i principali vantaggi di questa tecnologia, oltre alla riduzione del consumo energetico, che potrebbe essere implementanto se la produzione fosse alimentata da fonti rinnovabili, c’è anche il miglioramento della qualità della birra, in quanto la tecnologia permette di mantenere intatte le caratteristiche organolettiche del prodotto e inoltre la cavitazione idrodinamica potrebbe essere applicata ad altre bevande vegetali, come succhi di frutta. Dunque si prefigura la possibilità di un utilizzo su scala industriale, che renderebbe la birra sostenibile e più economica. Grazie alla riduzione delle perdite di calore e all’uso efficiente delle risorse, questa tecnologia potrebbe essere adottata dai grandi birrifici che pur essendo radicati nella tradizione, sostengono soluzioni sempre più innovative per una produzione ecologica.

    Ora, la notizia nella notizia, è che questo studio potrebbe essere talmente importante per il settore brassicolo, che già nel 2016 il Cnr ha depositato il brevetto dello studio condotto con la cavitazione idrodinamica, che in questi quasi 10 anni ha continuato a sperimentare e migliorare. “Fin dall’inizio abbiamo sostenuto con convinzione lo sviluppo delle ricerche relative a questo brevetto e i risultati raggiunti ci danno ragione. La possibilità di utilizzare soltanto energia elettrica, potenzialmente generata da fonti rinnovabili, rappresenta una svolta e un impulso concreto alla decarbonizzazione di uno tra i settori alimentari più energivori”, le parole di Maria Carmela Basile, responsabile dell’Unità valorizzazione della ricerca del Cnr, che gestisce e tutela la proprietà intellettuale dell’Ente, mentre il brevetto è stato già acquistato da un’azienda che a suo tempo aveva finanziato le ricerche.

    Restano però, alcune “criticità” da affrontare, tra cui il controllo della schiuma generata dal processo che richiede ulteriori studi per ottimizzare le condizioni operative. Inoltre, la standardizzazione del metodo per garantire una qualità costante della birra è un aspetto cruciale su cui i ricercatori stanno ancora lavorando LEGGI TUTTO

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    Guida alla manutenzione di un’auto elettrica: costi e consigli

    Silenziose, efficienti e sempre più accessibili, le auto elettriche rappresentano una scelta sostenibile per chi vuole ridurre l’impatto ambientale e abbattere i costi del carburante. Tuttavia, la manutenzione di un veicolo elettrico è diversa da quella di un’auto tradizionale. Vediamo quali sono i costi da considerare e i migliori consigli per mantenerla sempre al meglio delle sue funzionalità.
    Quanto costa la manutenzione di un’auto elettrica
    Uno dei principali vantaggi delle auto elettriche è la riduzione dei costi di manutenzione rispetto ai veicoli a combustione interna. Questo avviene per diversi motivi:

    Meno componenti soggetti a usura: le auto elettriche non hanno frizione, cambio manuale, candele o olio motore da sostituire periodicamente. Il loro motore è più semplice e richiede meno interventi di manutenzione.
    Frenata rigenerativa: il sistema di recupero dell’energia cinetica riduce l’usura dei freni, diminuendo la frequenza con cui devono essere sostituiti i dischi e le pastiglie.
    Batteria e sistema di gestione termica: sebbene la batteria sia uno degli elementi più costosi, i produttori garantiscono durate che possono superare anche i 200.000 km. Inoltre, alcuni marchi offrono garanzie fino a 8 anni o 160.000 km.

    Costi medi della manutenzione di un’auto elettrica: un risparmio tangibile
    Secondo alcune stime, la manutenzione di un’auto elettrica può costare fino al 50% in meno rispetto a un veicolo tradizionale. Ad esempio, per il controllo batteria e software, i costi si aggirano dai 50 ai 150 euro per check-up periodici, mentre per la sostituzione dei freni si parla di circa un 30% in meno rispetto a un’automobile a benzine e/o diesel. Da considerare anche la revisione, obbligatoria: qui i costi sono pressoché identici a quelli di un’auto tradizionale; quindi, in Italia la cifra si aggira attorno ai 79/80 euro. Infine, la batteria, ossia il fattore che più “preoccupa” chi si approccia alle auto elettriche per la prima volta. In realtà, la questione è piuttosto semplice: se fuori garanzia, la sostituzione può variare dai 5.000 fino ad arrivare a decine di migliaia di euro a seconda del modello. Tuttavia, il calo dei prezzi sta sicuramente rendendo questo intervento sempre più accessibile.

    Consigli per la manutenzione dell’auto elettrica
    Per garantire una lunga durata e prestazioni ottimali alla propria auto elettrica, sarebbe molto utile seguire alcune semplici regole. La prima da tenere in considerazione riguarda l’ottimizzazione della ricarica della batteria. È importante evitare di scaricare completamente la batteria; sarebbe meglio mantenerla tra il 20% e l’80% della carica per prolungarle la vita. Inoltre, si consiglia (quando è possibile) la ricarica lenta a quella rapida per ridurre lo stress sulle celle.

    Un’altra azione da svolgere con periodicità riguarda il controllo della pressione degli pneumatici. Quelli delle auto elettriche, infatti, tendono a usurarsi molto più rapidamente a causa del peso della batteria e della coppia istantanea del motore. Un controllo regolare della pressione si rivela molto efficace per il miglioramento dell’efficienza e soprattutto per una questione di sicurezza.

    Quanto è importante effettuare gli aggiornamenti del software? Molto, tant’è che diversi produttori rilasciano aggiornamenti software che migliorano le prestazioni del veicolo e ottimizzano il consumo energetico. È necessario verificare a cadenza periodica la disponibilità di nuove versioni: un piccolo promemoria che può davvero rivelarsi essenziale.

    Un altro grande consiglio per la manutenzione dell’auto elettrica concerne la cura del sistema di raffreddamento. Alcune auto elettriche, infatti, utilizzano un liquido di raffreddamento per mantenere la temperatura ottimale della batteria. In questi casi è fondamentale seguire le indicazioni del produttore per eventuali sostituzioni o rabbocchi. Infine, ma non per importanza, tornano utili sia l’attenzione ai cavi e alle prese di carica, sia la pulizia del sistema di frenata rigenerativa.

    Nel primo caso, l’azione da svolgere è molto semplice e prevede il controllo periodico dello stato del cavo di ricarica e delle prese onde evitare danni che possano compromettere la sicurezza e l’efficienza della ricarica. Nel caso del sistema di frenata, invece, sebbene sia meno soggetto a usura, è comunque doveroso controllare periodicamente il funzionamento; questo serve per evitare accumuli di polvere e detriti che potrebbero comprometterne la corretta funzionalità.

    La manutenzione di un’auto elettrica è generalmente più economica e semplice rispetto a quella di un veicolo a combustione interna. Seguendo pochi accorgimenti e pianificando controlli periodici, è possibile prolungare la vita del veicolo e massimizzare i risparmi. Con l’aumento dell’offerta di veicoli elettrici e il miglioramento della tecnologia, il futuro della mobilità sostenibile appare sempre più conveniente e accessibile. LEGGI TUTTO

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    Alla scoperta del “dry garden”, il giardino degli antichi egizi che fioriva anche nel deserto

    Sono oasi parlanti, pietrificate nella memoria polverosa del deserto. Tra sabbia, vento e sole a picco si nascondevano protette da mura piscine con ninfee blu, vigneti e aiuole ornamentali. All’ingresso delle tombe, nelle abitazioni nobiliari o nei templi. Gli antichi Egizi avevano un’autentica vocazione per la botanica e per i giardini che declinavano in tutti gli habitat del regno: dalle sponde del Nilo fino alle aree più aride. Una dimostrazione di Dryland Farming, ovvero di coltivazione in condizioni di siccità costante, valida ancora oggi dopo quattromila anni. Selezionavano le specie più adatte e irrigavano con sistemi che oggi sarebbero definiti sostenibili. Ogni pianta poi aveva più di una funzione: alimentare, estetica, religiosa e non si buttava via niente. Corteccia, fiori, radici venivano riciclate in una versione preistorica dell’economia circolare. Il giardino non aveva mai un unico scopo. Quella tra minerale e vegetale è una simbiosi inedita della civiltà delle piramidi e oggi viene raccontata per la prima volta da Divina Centore, archeologa del Museo egizio di Torino e autrice del volume Faraoni e fiori. La meraviglia dei giardini dell’antico Egitto (il Mulino, 2025).

    “Per risparmiare acqua gli antichi egizi adottavano una tecnica di coltivazione a griglia quadrata, oggi conosciuta come Waffle Garden. – spiega l’egittologa oggi impegnata in una campagna di scavi – Il terreno, di solito composto da limo prelevato dalle rive del Nilo, era diviso in piccoli vasetti all’interno dei quali crescevano piante con esigenze idriche molto diverse. Un esempio di questo genere è il giardino funerario annesso a una tomba nobiliare (1539 a.C. -1292 a.C.) ritrovato nel 2017 da una missione spagnola a Dra Abu el Naga”. L’area, di neanche dieci metri quadrati, precede l’entrata nel sepolcro ed è frazionata in 23 quadrati di 30 centimetri di lato separati da pareti spesse circa otto centimetri. Gli studi archeobotanici hanno rivelato la presenza di piante di coriandolo, fiori simili alle margherite (della famiglia delle Asteraceae) alberi di tamerice e una varietà oggi molto rara di melone verde che sopravvive, nella sua forma moderna, solo più in Sudan.

    Un modello simile di Waffle Garden è ancora praticato oggi sotto forma di agricoltura tradizionale nelle comunità indigene nei deserti del sudovest americano. Mentre riproduzioni dei giardini egizi si trovano nel compresso degli Hamilton Gardens in Nuova Zelanda, al Museo dell’Agricoltura del Cairo e sul rooftop del Museo Egizio di Torino. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, il paesaggista Antonio Perazzi: “Restituiamo strade e piazze alla biodiversità”

    La natura è meravigliosa anche perché dimostra come il nostro sistema economico non abbia niente a che vedere con l’economia dell’ambiente. E il paesaggista spesso si trova a metà strada tra due mondi che parlano linguaggi diversi. Può decidere di piantare alberi, ma questa azione ha un costo molto alto, e poi c’è la manutenzione, che è altrettanto onerosa. Oppure può decidere di assecondare la natura, perché gli offre sempre la possibilità di fare da sola. Innamorato del mondo vegetale, Antonio Perazzi, scrittore, botanico e paesaggista milanese d’origine toscana, teorizza il giardino selvatico, dove le piante sono libere di crescere e riprodursi. Le considera organismi affascinanti e generosi, molto più capaci di adattarsi rispetto agli umani. Noi ragioniamo sempre da individui, mentre le piante ragionano come società e pensano alle generazioni successive.

    Un albero, quando è stressato, produce un’enorme quantità di semi, perché sa che i figli hanno maggiori possibilità di adattarsi, di spostarsi quel poco che gli basta per crescere.

    Ma come si forma un paesaggista? Perazzi, oltre allo studio, ha viaggiato molto, fin da giovanissimo, dall’Alaska al Giappone, dalla Cina all’Himalaya, scoprendo sul campo una varietà straordinaria di ambienti e paesaggi. E poi ha fatto del parco di famiglia, sulle colline del Chianti, il suo laboratorio: “Il mio giardino a Piuca è stato una grandissima fonte di ispirazione e lo è ancora”.

    In uno dei suoi libri – Il paradiso è un giardino selvatico – descrive dettagliatamente ogni istante dell’arrivo nel suo Eden, in una notte di primavera. È È una vera e propria immersione in un mondo altro, dove il silenzio è sovrano. Descrive la purezza della notte stellata, la completa mancanza di luce artificiale, il mantra dei grilli, l’aria saporita, umida e fresca. E poi gli animali selvatici: il ghiro, il capriolo, l’airone, le carpe, le lucciole dove l’erba è alta e i fossi umidi, il cardellino, la lucertola. La professione, però, non è tutta poesia e richiede formazione continua. “Il paesaggista deve coniugare il punto di vista dell’agronomo, che vuole produrre il massimo da ogni terreno; quello dell’architetto, che mira a costruire per dare funzioni; quello del forestale, che ragiona di cicli su scala ecologica”.

    Sostenibilità

    Lavori green, il bioarchitetto: “Costruiamo secondo le leggi della natura”

    di Marco Angelillo

    28 Marzo 2025

    E poi c’è il vento della sensibilità culturale. Molto interessante, a detta di Perazzi, l’attuale passaggio storico: “Fino a ieri c’era ogni buona intenzione di rispettare l’ambiente, di cercare di diminuire l’impatto, di consumare meno terreno, di piantare più alberi. Oggi è scattato qualcosa di opposto: torniamo a trivellare, a estrarre, ci armiamo e chiudiamo i confini. Tutto sta avvenendo con una rapidità straordinaria, da una settimana all’altra”. LEGGI TUTTO

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    “Lasciate crescere l’erba del vostro giardino, il Pianeta vi ringrazierà”

    Kate Bradbury, scrittrice e redattrice inglese di 44 anni, è un’esperta di giardinaggio naturalistico in tutte le sue sfumature: attraverso un’attenta osservazione della sua piccola oasi verde, situata a Portslade, vicino Brighton, sulla costa meridionale dell’Inghilterra, nasce il suo nuovo libro Un giardino per cambiare il mondo (Edizioni Sonda).

    Mrs Kate Bradbury, quando nasce la sua passione per il giardinaggio?
    “Ho iniziato a dedicarmi al giardinaggio quando avevo tre anni. Ero sempre all’aria aperta: osservavo gli uccelli e giocavo con i vermi. Il momento più importante risale a quando, all’età di 24 anni, un calabrone ha creato un nido in un vecchio piumone abbandonato in giardino. I vicini si sono lamentati perciò abbiamo dovuto spostarlo. L’ho portato nel mio orto e me ne sono innamorata. Da allora non mi sono più voltata indietro”.

    Nel suo libro “Un giardino per cambiare il mondo” accompagna il lettore, mese dopo mese, in un viaggio immersivo nella natura attraverso azioni concrete per la sua tutela. Com’è nata l’idea di questo libro?
    “Volevo spiegare quanto delle piccole azioni all’interno dei nostri giardini possano fare davvero la differenza: se tutti contribuissero con dei gesti concreti creeremo delle grandi opportunità a sostegno della natura”.

    Nel suo manoscritto scrive che “le piante non solo decorano, ma agiscono anche come filtri naturali, assorbendo sostanze nocive e rilasciando ossigeno”. Quanto sono importanti gli spazi verdi, seppur piccoli, nella nostra vita quotidiana?
    “Le piante sono tutto. Non potremmo respirare senza le piante. Le piante aiutano ad abbassare le temperature in città e ad assorbire CO2. Prevengono le inondazioni in quanto trattengono l’acqua e possono evitare l’insorgere degli incendi dato che le piante aumentano l’umidità in una determinata area. Creano ombra e forniscono cibo e riparo agli impollinatori, agli uccelli e alle molte altre specie che fanno tutti parte di complessi ecosistemi che mantengono il mondo in vita. Anche noi ci nutriamo di piante, non potremmo letteralmente sopravvivere senza di loro”.

    Nel libro affronta il tema del “giardinaggio naturalistico”? Puoi spiegarne il significato?
    “Il giardinaggio naturalistico è semplicemente un giardinaggio a supporto della natura. Una volta che vedi il tuo giardino non solo come tuo ma come un posto che condividi con la natura, puoi aprire la tua mente alle numerose possibilità che puoi creare grazie al tuo giardino. Penso che sia davvero un luogo speciale”.

    Cosa possiamo fare, nel nostro piccolo, nei nostri balconi, cortili e giardini per coltivare il cambiamento? In che modo possiamo fare la differenza?
    “Dobbiamo sicuramente coltivare più piante e creare degli habitat e delle opportunità per le specie ovunque possiamo: ad esempio sui balconi, attraverso delle erbe aromatiche da condividere con gli impollinatori lasciandole fiorire. Ma nei giardini più grandi possiamo scavare uno stagno, piantare un albero e coltivare delle piante autoctone. Ciò unirà il nostro giardino ad un paesaggio più ampio e migliorerà il destino di migliaia di specie”.

    Puoi dare ai nostri lettori qualche consiglio pratico su come trasformare il proprio giardino, balcone o piccolo spazio verde in un rifugio per la fauna selvatica?
    “Lasciate innanzitutto crescere l’erba: ciò consentirà alle farfalle e alle falene di deporre le uova. Appariranno dei fiori selvatici che nutriranno gli impollinatori, mentre gli uccelli prenderanno i semi dell’erba e le rane, i coleotteri, gli insetti e persino i ricci vi riposeranno. Se avete uno spazio più esteso allora scavate uno stagno: non solo offrirete delle opportunità di riproduzione degli anfibi, ma anche agli uccelli e ai mammiferi nel bere e nel fare il bagno, oltre all’opportunità di far riprodurre molti tipi di insetti, che saranno cibo per gli uccelli e i pipistrelli”.

    Nel suo libro affronta altri temi importanti quali il riciclaggio e il riutilizzo, l’isolamento naturale e la riduzione del consumo energetico, i giardini verticali della biodiversità urbana e il monitoraggio dell’impatto ambientale. Cosa possiamo fare concretamente per tutelare l’ambiente?
    “Come società globale dobbiamo fare di più per la natura e il clima, ma nulla avverrà senza l’impegno pubblico. Come ci impegniamo? Solo se ci connettiamo alla natura. In che modo possiamo farlo? Notando cosa succede nei nostri giardini, balconi e altri spazi verdi. Credo davvero che la connessione sia la chiave per comprendere e poi agire, e questo può iniziare dai nostri giardini, dai patii, dai balconi e persino dai nostri davanzali. Solo così faremmo davvero la differenza che cambierebbe le vite e migliorerebbe la situazione della natura e del clima”. LEGGI TUTTO

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    In arrivo un decreto per limitare l’inquinamento da Pfas dell’acqua potabile

    Una nota pubblicità del passato diceva che “two is megl che uan”, due è meglio di uno, ma non è detto che sia sempre così. Finalmente, dopo anni di discussioni, processi in corso e mappe che mostrano il loro pericolo, la politica italiana ha preso di petto la questione dell’inquinamento da PFAS, le sostanze perfluoroalchiliche, anche dette “sostanze chimiche eterne”. Lo sta facendo come vedremo muovendosi su binari paralleli, il che è un bene ma potrebbe anche generare confusione nel legiferare sul controllo di queste pericolose sostanze. Questo gruppo di quasi cinquemila sostanze impiegate in ambito industriale, dalle pentole anti aderenti alle protesi mediche, così come nei materiali antincendio o dell’edilizia, hanno infatti la caratteristica di essere estremamente durature e resistenti, nonché estremamente inquinanti se finiscono in ambiente dato che sono molto complesse da smaltire nel tempo. Anche se ci sono molti studi in corso è comprovato che possono portare danni importanti per la salute (tra cui il cancro) e di recente una inchiesta di Greenpeace, che ha analizzato i campioni di 235 città italiane, ha mostrato come alcune di questi “forever chemicals” sono presenti nel 79% delle acque potabili del rubinetto italiane prese in esame.

    Inquinamento

    La mappa della contaminazione da PFAS delle acque potabili

    di Pasquale Raicaldo

    22 Gennaio 2025

    All’inchiesta dell’associazione ambientalista diffusa a gennaio sono seguite poi a febbraio e marzo alcune delle ultime tappe a Vicenza di uno dei processi ambientali più grandi della storia italiana che vede imputati alcuni manager della Miteni, azienda chimica, proprio sul diffuso inquinamento da PFAS in Veneto. La vicenda veneta ha al centro i danni da PFOA (acido perfluoroottanoico) sulla popolazione e in questo caso l’avvocato che difende uno dei comitati coinvolti, le Mamme No PFAS, citando uno studio dell’Università di Padova ha parlato di “inquinamento da PFAS come un nuovo Vajont”, sostenendo nella sua arringa che la contaminazione è passata dall’acqua nel sangue di 300mila residenti, ovvero “4mila morti in eccesso in 40 anni nella zona rossa veneta rispetto alla media del resto della regione”.

    Cifre e accuse pesanti che restituiscono il contesto in cui finalmente l’Italia ha deciso di agire mentre anche l’Europa (con in prima linea la Francia) e gli Usa stanno prendendo provvedimenti nei confronti del controllo e della lotta ai PFAS.

    La speranza è però che le due iniziative parallele in corso non si trasformino in un freno, anziché accelerare sulla questione. Per primo, il 13 marzo, all’esame in Parlamento è finito il decreto Legislativo urgente “260” approvato dal Cdm. L’obiettivo è ridurre i livelli di PFAS nelle acque potabili e decretare limiti per limiti per il TFA (acido trifluoroacetico) ed è stato dato il via libera a una mozione di indirizzo per legiferare in materia. Il 26 marzo la Camera dei deputati ha approvato poi un’altra mozione della maggioranza passata con 156 voti favorevoli, 103 voti contrari e 5 astenuti e ha approvato anche alcune parti delle mozioni dei documenti di Avs, M5S e Pd, riformulati dal governo, sempre in materia di PFAS.

    La sovrapposizione di alcuni passaggi, secondo alcuni parlamentari, potrebbe rallentare il processo per arrivare a legiferare in maniera univoca sulla necessità di maggiori controlli e sistemi per ridurre i livelli pericolosi di PFAS nelle acque potabili ma in generale c’è fiducia sul fatto che finalmente qualcosa, nel tentativo di frenare gli inquinanti, si sia mosso.

    Nel frattempo, infatti, chi da tempo porta avanti questa battaglia, come l’associazione ambientalista Greenpeace, parla di primo passo importante, soprattutto perché “per la prima volta sarà fissato un limite nelle acque potabili anche per il TFA . Si tratta di una delle molecole della classe dei PFAS più presenti sul Pianeta e che negli ultimi anni si è diffusa ampiamente anche in Italia”. Con il nuovo decreto legislativo, spiegano da Greenpeace, verrà introdotto “un limite alla presenza di PFAS nelle acque potabili di 4 molecole pari a 20 nanogrammi per litro. Il nuovo valore limite riguarda la “Somma di 4 PFAS”, ovvero molecole (PFOA, PFOS, PFNA e PFHxS) di cui è già nota la pericolosità per la salute umana, tra cui la cancerogenicità per PFOA e PFOS. Il nuovo limite è uguale a quello introdotto in Germania, anche se ben lontano da valori più cautelativi per la salute umana introdotti da altri Paesi come la Danimarca (2 nanogrammi per litro) o la Svezia (4 nanogrammi per litro)”.Motivo per cui l’associazione auspica che “si possa fare di meglio”. Il testo di legge che fisserà per la presenza PFAS il limite di 20 nanogrammi per litro è stato ora trasmesso al Senato e poi dovrà passare al vaglio delle Commissioni parlamentari competenti.Per Greenpeace “se è vero che il provvedimento rappresenta un risultato importante per la tutela della salute di cittadini e cittadine, è indubbio però che debba essere ancora perfezionato. Le forze politiche dovranno al più presto trovare un accordo per ridurre ancora di più i limiti consentiti avvicinandoli all’unica soglia sicura, lo zero tecnico”.Come conclude Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento Greenpeace, è infatti “fondamentale che si arrivi al più presto a una legge che vieti l’uso e la produzione dei PFAS”. In attesa di comprendere gli sviluppi legislativi sulla questione PFAS nel frattempo nei prossimi giorni è attesa anche la sentenza finale sul processo Miteni: i cittadini del Vento chiedono un risarcimento di 15 milioni e mezzo di euro, mentre l’importo richiesto da tutte le parti civili nel loro insieme supera quasi i 240 milioni, cifre che danno il senso di quello che potrebbe essere – creando un precedente – una delle più importanti sentenze italiane di sempre in ambito ambientale. LEGGI TUTTO

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    Quali rischi dalle “miniere” nell’oceano profondo? Per la scienza “impatti anche dopo decadi”

    Oggi si guarda al sopra, domani si punterà al sotto. In tempi in cui Donald Trump mira a prendersi la Groenlandia per le sue risorse fossili e minerali o a stringere accordi per le terre rare dell’Ucraina e mentre altri stati Cina compresa vanno a caccia ovunque di minerali, nella Giamaica di Bob Marley si sta suonando un’altra musica: le nazioni stanno cercando una regola per poter iniziare a prelevare non dalla terra, ma dalle profondità degli oceani. In questi giorni a Kingston è infatti in corso un vertice dell’ISA (International Seabed Authority), autorità che dal 1994 è preposta al controllo e il coordinamento delle attività legate al “deep sea mining”, ovvero l’estrazione mineraria in acque profonde. Da anni si sta cercando un’intesa per regolare le estrazioni e adesso i rappresentanti di 36 Paesi, con visioni differenti, stanno tentando di arrivare tramite negoziato a una sorta di codice per l’estrazione dei minerali dagli abissi. Questo anche perché sempre più compagnie private a caccia di rame, cobalto e minerali di cui sono ricche le profondità, sono pronte a iniziare a scavare e stanno chiedendo i permessi per operare, tanto che alcune società come la canadese The Metals Company hanno dichiarato di voler iniziare ad estrarre ancor prima che venga definito un provvedimento chiaro per tutti. Siamo dunque al nastro di partenza di una nuova corsa che punta ad ottenere minerali rari dagli oceani.

    Al centro del dibattito da sempre c’è però la stessa questione: una parte dei Paesi sostiene che l’estrazione mineraria in acque profonde sia meno dannosa di quella sulla terraferma e chiede un via libera, l’altra invece – sostenuta da associazioni ambientaliste come Greenpeace – sottolinea i potenziali danni ecologici alla salute degli oceani e chiede normative più ferree e chiare per frenare l’attività mineraria in profondità.
    Nel frattempo, in un mondo che punta a cavalcare quella transizione ecologica che richiede grandi quantità di minerali, si studiano le zone dove questi sono più abbondanti, come la frattura di Clarion-Clipperton, nel Pacifico tra Hawaii e Messico, che fa gola a tanti per le sue ricchezze a quasi 6000 metri di profondità. In questo contesto e all’interno del dibattito finora però mancava, sull’impatto a lungo termine del deep-mining, una risposta da parte della scienza, che ora anche se parziale è finalmente arrivata. In una ricerca pubblicata sulla rivista Nature un team internazionale di ricercatori, per la prima volta, ha dato infatti conto di cosa succede all’ecosistema marino profondo decenni dopo le operazioni di deep sea mining. La risposta è che 44 anni dopo l’ estrazione gli ecosistemi e la vita marina non si sono ancora ripresi. L’analisi si è concentrata proprio nella zona di Clarion-Clipperton in un punto che è stato sito di un test di estrazione mineraria in acque profonde avvenuto nel 1979 nel Pacifico settentrionale. Ai tempi, con macchinari sperimentali, per soli quattro giorni da parte di privati fu estratta una quantità sconosciuta di noduli di metalli rari come cobalto, manganese e nichel, quelli usati oggi nei nostri dispositivi elettronici, per esempio.

    Ambiente

    I fondali degli oceani come miniere, a rischio habitat e biodiversità

    Alessandro Petrone

    27 Aprile 2023

    Nel 2023 e nel 2024 i ricercatori del National Oceanography Centre di Southampton, insieme ai colleghi di diverse università britanniche, grazie a sistemi ROV (sottomarini a comando remoto) e telecamere sono tornati in quel sito osservando cosa accadeva nella “pianura abissale” a 5000 metri di profondità per tentare di stabilire così l’impatto ecologico di quei test del passato. La loro conclusione, dopo il confronto con aree limitrofe degli abissi non interessate da estrazione, è che il deep mining in quell’area dove si sono svolti i test ha lasciato “impatti biologici in molti gruppi di organismi, impatti che sono persistenti” anche 44 anni dopo, nonostante alcune specie abbiano iniziato lentamente a riprendersi. Di fatto è una prima prova di cosa succede agli oceani a lungo termine dopo le estrazioni. Gli scienziati spiegano che in quell’area sono ancora visibili i segni fisici del passaggio dei macchinari e sospettano che l’estrazione passata possa aver influenzato la vita marina per esempio a causa della privazione dei noduli, che producono ossigeno, così come per l’esposizione a sedimenti contenuti nel metallo che sono stati sollevati durante i processi di estrazione. Di fatto i noduli, di cui la zona di Clarion-Clipperton è ricchissima (si stimano 21 miliardi di tonnellate), in qualche modo “sostengono le comunità animali e microbiche” dicono gli esperti e la loro estrazione innesca dei cambiamenti.

    Il professor Daniel Jones del National Oceanography Centre, a capo della spedizione, spiega che “quarantaquattro anni dopo le tracce minerarie stesse sembrano molto simili a quando furono realizzate per la prima volta, con una striscia di fondale marino larga 8 metri ripulita dai noduli e due grandi solchi nel fondale marino dove passò la macchina. Il numero di molti animali si è ridotto all’interno delle tracce, ma abbiamo visto anche alcuni dei primi segnali di recupero biologico”. Mentre i leader discutono durante le riunioni ISA su regole che gestiscano le attività minerarie in acque profonde, gli stessi scienziati ammettono che “i nostri risultati non forniscono una risposta definitiva alla domanda se l’estrazione mineraria in acque profonde sia socialmente accettabile, ma forniscono i dati necessari per prendere decisioni politiche più consapevoli, come la creazione e il perfezionamento delle regioni protette e il modo in cui monitoreremo gli impatti futuri”. Ma avvertono anche che dalle prime osservazioni pare che un recupero completo degli ecosistemi dei fondali marini sia “impossibile”.

    Ambiente

    I fondali degli oceani come miniere, a rischio habitat e biodiversità

    Alessandro Petrone

    27 Aprile 2023

    Oltretutto, come noto, la nostra conoscenza delle creature che vivono negli abissi e dei loro servizi ecosistemici decisivi per la salute degli oceani è ancora bassissima: sappiamo pochissimo di cosa vive realmente laggiù. Potremmo dunque definire questa ricerca come un primo grande avvertimento in vista di un futuro dove sempre più nazioni e compagnie punteranno all’estrazione mineraria in acque profonde per ottenere i metalli essenziali richiesti dalle tecnologie, dall’intelligenza artificiale e dalla transizione energetica che mira all’azzeramento delle emissioni climalteranti. Uno studio che ci ricorda, sempre con il tono di avvertenza, anche un altro fatto: quei test del 1979 condotti da privati per capire se fosse fattibile recuperare i metalli erano molto ma molto più piccoli “di quanto sarebbe un vero evento di estrazione mineraria”. LEGGI TUTTO

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    Lo squalo bianco in Sudafrica ha bisogno di aiuto per non sparire

    Cosa succede all’interno di un ecosistema quando all’improvviso scompare un grande predatore? Domanda che potremmo porci anche da noi in Europa dove cresce il dibattito sulla convivenza fra uomini, lupi e orsi, e che trova una preoccupante risposta dall’altra parte del mondo.

    Fino a una decina di anni fa in Sudafrica zone come False Bay erano la patria dei grandi squali bianchi. Davanti a Gansbaai nel Capo occidentale si contavano anche oltre 1000 giganti bianchi. Lo sapevano bene in surfisti, i pescatori, i naturalisti e i fotografi pronti ad immortalare le loro evoluzioni e tutti coloro che lavoravano in un mondo, quello del turismo da squalo, che attirava nel sud del globo migliaia di persone per avvistare il grande bianco.

    Poi all’improvviso, per un mix di condizioni, qualcosa è cambiato: la presenza di squali è iniziata a diminuire talmente tanto che oggi, persino nei paper scientifici, si parla apertamente di “scomparsa” dei grandi squali bianchi dalle coste del Sudafrica, con ripercussioni su economia e turismo ma soprattutto sulla salute degli ecosistemi.

    Una ricerca recente pubblicata su Frontiers in Marine Science, in fase di peer-review e condotta dall’Università di Miami, racconta come questa scomparsa stia infatti avendo effetti a catena all’interno dell’ecosistema nella zona di False Bay.

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    Calo graduale da due decenni
    Per due decenni gli scienziati hanno monitorato il calo graduale degli avvistamenti di squali bianchi indicando come, alla base del declino, ci siano più fattori: prima si sono verificate una serie di catture non sostenibili e accidentali, soprattutto a causa dell’uso di reti, sia quelle dei pescatori sia quelle utilizzate per proteggere i bagnanti, poi sono arrivate le orche.

    Intorno al 2017 sulle coste del Sudafrica sono comparse, sempre di più, carcasse di grandi squali bianchi che però a differenza di altri non presentavano segni di ami o reti: quasi tutti presentavano invece uno squarcio praticamente “chirurgico” poco dietro le branchie e, a molti, mancava il fegato.

    Ben presto i biologi marini indagando hanno scoperto che queste morti erano collegate alla presenza di un pod (gruppo) di orche che cacciava gli squali bianchi. Poi sono arrivati i filmati e i primi avvistamenti dal vivo a comprovare i sistemi di caccia delle orche assassine e ogni volta che si verificava una predazione per i mesi successivi i pochi squali bianchi sopravvissuti, da False Bay a Mossel Bay, abbandonavano la zona. Da allora, in Sudafrica, questi grandi predatori sono praticamente scomparsi, tanto che nel 2024 ci sono state appena una decina di osservazioni confermate.

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    Le conseguenze sull’ecosistema
    Nei mesi, stimano gli esperti, in quell’angolo di mondo è iniziata così quella che viene chiamata cascata trofica, il cambiamento delle catene alimentari che si verifica a cascata quando all’interno di un ecosistema viene a mancare il principale predatore. Nel giro di pochi anni le popolazioni di otarie orsine del Capo, che venivano controllate per numero attraverso le predazioni degli squali, sono aumentate a dismisura. Senza più minacce, le otarie hanno iniziato a predare i pinguini africani, considerati in pericolo critico e potenzialmente soggetti all’estinzione. Non solo: senza più squali le otarie e le foche, cresciute per numero, hanno contribuito alla diffusione di diverse malattie tra cui una epidemia di rabbia nel 2024.

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    Gli effetti sulla salute degli oceani
    Un’altra conseguenza della scomparsa degli squali bianchi è stato il graduale calo dei pesci, predati sia dalle otarie sia da altri squali più piccoli (come il Sharpnose sevengill shark) la cui presenza è aumentata dopo l’addio del grande bianco: per comprovarlo, i ricercatori hanno condotto indagini subacquee sia attraverso telecamere sia con esche remote.
    “La perdita di questo iconico predatore al vertice ha portato a un aumento degli avvistamenti di otarie orsine del Capo e squali sevengill che a loro volta hanno coinciso con un declino delle specie da cui dipendono per il cibo” spiega Neil Hammerschlag, autore principale dello studio. “Questi cambiamenti sono in linea con le consolidate teorie ecologiche che prevedono che la rimozione di un predatore al vertice porti a effetti a cascata sulla rete alimentare marina. Senza questi predatori al vertice che regolano le popolazioni, stiamo assistendo a cambiamenti misurabili che potrebbero avere effetti a lungo termine sulla salute degli oceani” chiosa l’esperto.
    Il grande predatore ha bisogno di aiuto
    I risultati rimarcano l’importanza di uno sforzo globale per la conservazione degli squali: questi animali simbolici, che un tempo nell’immaginario collettivo erano motivo di timore, ora hanno davvero bisogno di aiuto. Da loro dipendono anche le nostre economie: dalla pesca al turismo sino a ciò che mangiamo, perché sono “dottori degli oceani” in grado di curare ed equilibrare biodiversità ed ecosistemi.
    Come noto però, anche a causa delle nostre azioni, li stiamo perdendo: abbiamo già detto addio al 70% delle popolazioni di squali e razze negli ultimi 50 anni e più di un terzo delle specie di squali è oggi considerato a rischio estinzione. Nel frattempo però, continuiamo comunque ad ucciderli: la sovrapesca, spesso per catture accidentali, è responsabile della morte di oltre 100 milioni di squali ogni anno. LEGGI TUTTO