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    Movopack, la startup degli imballaggi per l’ecommerce da riusare 20 volte

    “Movopack nasce da una mia idea. Dopo la laurea in ingegneria al politecnico di Milano, ho lavorato per circa quattro anni in Ambienta, società Europea di Private Equity dedicata agli investimenti in sostenibilità ambientale. Anni durante i quali ho compreso quanto il mercato del packaging per l’ecommerce avesse bisogno di una svolta sostenibile. Così durante l’MBA al Columbia Business School inizio a lavorare al progetto d’impresa. Coinvolgendo sin da subito Alberto e Andrea, amici dai tempi del liceo. Da quel momento è incominciata la nostra avventura nel mondo dell’innovazione ecosostenibile”.

    L’idea del packaging riutilizzabile
    A parlare è Tomaso Torriani (CEO) che nel 2021, insieme a Alberto Cisco (CCO) e Andrea Cipollone (COO), fonda a Milano Movopack startup innovativa che fornisce alle piattaforme di e-commerce imballaggi riutilizzabili e sostenibili. I suoi fondatori hanno studiato e analizzato l’impatto ambientale degli imballaggi monouso per il commercio elettronico e la mancanza di alternative sostenibili e accessibili. “La soluzione di imballaggio Movopack abbraccia i principi dell’economia circolare. Invece di essere prodotti e scartati dopo ogni utilizzo, i nostri imballaggi possono essere riutilizzati fino a 20 volte, riducendo significativamente le emissioni di carbonio, l’energia e la produzione di rifiuti. Non solo, dopo il disimballo, i clienti possono consegnare l’imballaggio in qualsiasi cassetta postale in Europa. L’imballaggio torna a Movopack e viene igienizzato prima di essere utilizzato per la consegna successiva”, ci raccontano.
    Gli imballaggi green di Movopack
    Gli imballaggi di Movopack, realizzati con bottiglie di plastica riciclata (rPET) e polipropilene riciclato intrecciato (PP), sono progettati per sostenere alla logistica postale e possono essere riutilizzati dai rivenditori fino a 20 volte. Rispetto agli imballaggi standard per e-commerce, che in genere sono scatole di cartone monouso con un contenuto riciclato del 70%, ogni imballaggio Movopack, se riutilizzato 20 volte, offre notevoli vantaggi per l’ambiente. Questa alternativa sostenibile riduce le emissioni di CO2 dell’84%, il consumo di energia dell’80% e quello di acqua del 76%, secondo una valutazione del ciclo di vita condotta da Life Cycle Engineering.

    “Oltre a essere la soluzione più sostenibile disponibile sul mercato, l’imballaggio di Movopack funge da potente strumento di marketing per le aziende partner. Le confezioni sono completamente personalizzabili nelle dimensioni e nel design e consentono ai marchi di esprimere la propria identità e di trasmettere messaggi ai clienti, rafforzando al contempo la propria posizione sul mercato come marchio impegnato nella sostenibilità”, continua il Ceo Torriani. “I sistemi di imballaggio riutilizzabili sono chiaramente il futuro di un mercato da 1 trilione di dollari che vede ancora pochi operatori impegnati in questo settore. Oltre all’enorme opportunità di business, è l’unica soluzione concreta per tagliare la produzione di rifiuti e ridurre drasticamente le emissioni di CO2”.
    L’imballaggio usato va nella cassetta postale
    La missione di Movopack è proporre un’alternativa agli imballaggi monouso, stabilendo un nuovo standard nel consumo di imballaggi. La startup offre un sistema di imballaggio riutilizzabile e sostenibile per il commercio elettronico. La soluzione si basa su quattro innovazioni principali: una gamma di imballaggi riutilizzabili e completamente personalizzabili, un efficiente sistema di logistica inversa attivo in tutta Europa, sistemi di ricondizionamento che garantiscono un tasso di riutilizzabilità del 98%, e un insieme di tecnologie che innovano il modo in cui gli imballaggi vengono forniti ai clienti finali.

    L’impresa ha appena chiuso un round di finanziamento di 2,3 milioni di euro guidato dal fondo italo-francese 360 Capital, a cui hanno partecipato anche gli austriaci di Greiner Innoventures e l’incubatore statunitense Techstars. L’operazione consentirà la prima espansione dell’azienda al di fuori dell’Italia, contribuendo ad affrontare la crisi legata alla crescita dei rifiuti da imballaggio, dove si stima che ogni settimana vengano gettati 1,7 miliardi di componenti in plastica.

    La normativa sul packaging riutilizzabile
    Mentre l’Ue introduce una legislazione che prevede che il 10% degli imballaggi per ecommerce sia riutilizzabile entro il 2030 (salendo al 50% entro il 2040), Movopack offre al mondo del ecommerce soluzioni di imballaggio economiche, restituibili e personalizzabili.

    “L’espansione nel Regno Unito segna una tappa importante, in quanto i brand britannici stanno danno sempre più attenzione ad approcci che siano in linea con la crescente domanda dei consumatori di soluzioni sostenibili. Per questo anche siamo particolarmente entusiasti del round, perché ci consente di lanciare la nostra soluzione nel Regno Unito in un momento in cui la domanda di soluzioni sostenibili è molto forte ed in crescita. I consumatori e i brand sono alla ricerca di soluzioni efficaci per contribuire ad un mondo in cui si possa crescere e prosperare senza compromettere l’ambiente. Noi di Movopack lavoriamo per soddisfare questa esigenza e per rendere la sostenibilità non solo un’opzione, ma uno standard nell’e-commerce”, conclude Torriani. Il lancio di Movopack nel Regno Unito consentirà ai consumatori di restituire facilmente gli imballaggi attraverso l’esteso sistema postale Royal Mail, che offre accesso a 115 mila cassette postali in tutto il Paese, consentendo un facile riutilizzo degli imballaggi. Oggi Movopack lavora con oltre 100 brand e gestisce circa 200 mila imballaggi. LEGGI TUTTO

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    GrapheneBreathe, la startup che cattura le emissioni degli allevamenti

    Si chiama GrapheneBreathe ed è la startup che al Premio Nazionale Innovazione 2024, ha vinto la menzione speciale Green&Blue del Gruppo GEDI, come miglior progetto di impresa ad impatto sul cambiamento climatico. GrapheneBreathe è una startup innovativa di tecnologia ambientale focalizzata sulla cattura e la trasformazione delle emissioni di gas serra dagli allevamenti di bestiame. Grazie all’implementazione di avanzati sistemi di filtrazione a base di grafene, GrapheneBreathe non solo riduce le emissioni agricole, ma crea anche sottoprodotti preziosi come gas industriali, fertilizzanti a base di urea e crediti di carbonio. Puntando sia all’impatto ambientale che all’efficienza degli agricoltori. La soluzione tecnologica proposta è il risultato dell’attività di ricerca svolta presso l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale in collaborazione con altre istituzioni di ricerca e un partner industriale. Il team è composto da: Pierluigi Simeone, Salvatore Cosmo Di Schino, Nadia Spinelli, Thi Ha Le e Francesco Siconolfi.

    Nel dettaglio, la startup sfrutta una soluzione completa per la cattura delle emissioni, il trattamento dei gas e la reportistica ambientale, rivolgendosi ad agricoltori, acquirenti di gas industriali e aziende alla ricerca di compensazioni di carbonio. Gli allevatori beneficiano della riduzione delle emissioni e di potenziali flussi di entrate attraverso la monetizzazione del gas e i crediti di carbonio, mentre le industrie ottengono accesso a forniture di gas sostenibili e compensazioni di carbonio verificate.

    La tecnologia di filtrazione
    Il vantaggio competitivo di GrapheneBreathe deriva dalla sua tecnologia di filtrazione proprietaria a base di grafene, che fornisce una soluzione versatile ed efficiente per catturare più gas (CO?, metano, ammoniaca) direttamente dalle emissioni agricole. Questo vantaggio di ‘primo utilizzatore’ nella cattura delle emissioni dagli allevamenti pone l’azienda all’avanguardia rispetto ai tradizionali additivi per il mangime e ad altri metodi indiretti di riduzione delle emissioni. Nel dettaglio, il sistema avanzato di filtrazione a ossido di grafene offre un’elevata efficienza di adsorbimento, garantendo una cattura efficace delle emissioni e producendo gas che possono essere ulteriormente utilizzati economicamente, ad esempio come fertilizzante o per applicazioni industriali.

    La startup si è dotata tre soluzioni chiave da proporre alle aziende agricole per ridurre la propria impronta ambientale:

    Sistema di filtrazione modulare: le unità di filtrazione a base di grafene sono progettate per un’installazione modulare nelle aziende agricole, fornendo soluzioni scalabili con costi iniziali minimi per gli agricoltori.
    Flussi di ricavi diversificati: GrapheneBreathe ha una strategia di ricavi diversificata, che include vendita e manutenzione dei sistemi di filtrazione, vendita diretta di gas industriali (CO2, metano, ammoniaca), vendita di crediti di carbonio ad organizzazioni alla ricerca di compensazioni verificate, e produzione di urea, rispondendo alla crescente domanda di fertilizzanti ecologici.
    Partnership per l’estensione del mercato: Collaborazioni chiave con distributori di gas industriali, enti certificatori di crediti di carbonio e associazioni di agricoltori regionali. LEGGI TUTTO

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    Bonsai pino: come prendersene cura

    I bonsai pino si differenziano dalle altre conifere principalmente per gli aghi a sezione triangolare. Di tipologie ne esistono diverse e a seconda di ognuna può cambiare il colore e la lunghezza. Anche la forma può diversificarsi, ma in linea di massima i bonsai pino si riconoscono perché conici e piramidali.

    I tipi di bonsai bino: come riconoscerli
    I bonsai di pino rientrano tra le specie classiche di bonsai e hanno un ruolo centrale nella progettazione dei giardini giapponesi. Le specie di pino più gettonate, ma soprattutto più semplici da reperire come bonsai, sono il Pinus thunbergii (o Pino nero) e il Pinus pentaphylla (Pino a cinque aghi).

    Pinus thunbergii e Pinus pentaphylla
    Il bonsai Pinus thunbergii, meglio conosciuto come Pino nero è una pianta che, anche come bonsai, può vivere per moltissimi anni. Con il passare del tempo il bonsai pino nero assume caratteristiche nuove; la sua corteccia, ad esempio, tende a fessurarsi e a diventare molto più interessante, così come la vegetazione, che si arricchisce. Affascinante e longevo, il bonsai di pino nero rimane una delle specie più amate in Giappone, e non solo.

    Il bonsai pino a cinque aghi (Pinus pentaphylla) è un’altra varietà molto conosciuta e apprezzata nel meraviglioso mondo dei bonsai. Il nome della pianta, è scontato, viene proprio dalla caratteristica peculiare della specie, che a differenza degli altri pini che hanno gli aghi a coppie, si presenta con mazzetti da cinque aghi. Questi sono corti e tinti di un verde-azzurrognolo molto delicato. Anche questo, come il Pino nero, non teme le avversità climatiche, ma teme invece le cure sbagliate. Ecco, quindi, che per prendersi cura di questa varietà bisogna essere realmente esperti.

    Bonsai pino: come prendersene cura
    Prendersi cura dei bonsai pino non è difficile, ma ci sono certe accortezze che è sempre bene seguire affinché viva bene e a lungo, più di quanto già non faccia. Prima di acquistarne uno, quindi, sarebbe meglio avere chiaro che cosa fare e come, partendo dalle basi. Esposizione, irrigazione, potatura e concimazione sono sempre i capisaldi da tenere a mente: scopriamoli nel dettaglio.

    Esposizione del bonsai pino
    Si parta dal presupposto che i Pini amano le posizioni soleggiate e ben ventilate. Data questa premessa importante, per far sì che il bonsai pino selezionato cresca in salute, sarebbe meglio esporli (e lasciarli) all’esterno. L’esposizione in pieno sole favorisce la resistenza della pianta, ma bisogna ricordarsi di proteggerli durante la stagione invernale, specialmente se sono in vaso. Come per tutte le conifere, anche il bonsai pino ama la rugiada, motivo per il quale l’esposizione a cielo aperto è sempre la più apprezzata. In questo modo durante la notte la chioma sarà inumidita nelle giuste quantità e la salute della pianta garantita. Nel caso in cui i vasi siano particolarmente piccoli, sarebbe meglio proteggere il bonsai pino dai freddi invernali (venti compresi) capaci di gelare il terreno e le sue radici.

    Che cosa fare, invece, in estate? Per evitare disagi e danni alla salute del bonsai pino, si consiglia sempre di esporre la pianta sotto una rete ombreggiante durante le ore più calde del giorno, assicurandosi poi di riporli all’esterno ogni singola sera. In questo modo saranno protetti dal caldo estremo durante il giorno ma potranno poi godere della rugiada notturna, migliore amica della loro salute.

    Bonsai pino: potatura
    Come per la maggior parte dei bonsai, anche la potatura del bonsai pino andrebbe fatta in inverno. In questo periodo dell’anno, infatti, l’albero è in riposo vegetativo e la pressione della linfa ai minimi storici; perciò, si eviterà la comparsa di resina, tamponabile con pasta cicatrizzante. Per eseguire una corretta potatura si consiglia sempre di togliere le candele della pianta in salute da inizio a metà estate, assicurandosi di lasciare solo un piccolo moncone di circa 5mm (da eliminar definitivamente l’anno successivo) più qualche coppia di aghi. Inoltre, è consigliabile tagliare la punta delle gemme dormienti: questo servirà per sollecitarne la crescita. Dopo la maturazione della seconda cacciata, presumibilmente in autunno, si dovranno eliminare tutte le crescite in eccesso. Infine, ma non per importanza, è bene eliminare tutti gli aghi vecchi in eccesso per donare equilibro alla crescita della pianta.

    Il taglio dei rami si deve sempre effettuare utilizzando la tronchese concava; in questo modo si eviteranno tagli drastici e si lascerà sempre un piccolo ciuffo di vegetazione in cima ai rami tagliati, così che possano continuare a vivere nonostante il ritiro di linfa.

    Pinzatura
    Un altro grande accorgimento da tenere in considerazione per avere sempre un bonsai pino con rami e aghi corti e folti è la pinzatura. Si tratta di un’azione da svolgere in primavera, quando i nuovi germogli (tecnicamente “candele”) hanno raggiunto la lunghezza di 3 cm e hanno bisogno di essere accorciati a 1 cm. Questo procedimento si può fare o direttamente utilizzando le mani, oppure, per essere più precisi, utilizzando la forbice adatta. Una volta svolto questo passaggio, si aspetta che arrivi l’estate; in questa stagione si può effettuare la pinzatura sui germogli deboli, gli stessi che si sono aperti dopo l’accorciamento delle candele.

    Bonsai pino: annaffiatura
    Prima regola per la cura del bonsai pino: non esagerare con l’acqua. L’annaffiatura di questa meravigliosa pianta deve essere adeguata e soprattutto dosata. Il bonsai pino, infatti, non ama la troppa umidità; quindi, bisogna aspettare sempre che sia asciutto prima di annaffiare di nuovo. In generale, se si lascia asciugare in modo adeguato la terra tra un’irrigazione e l’altra, il fogliame del bonsai assumerà un aspetto molto più compatto. In caso di piogge frequenti ed eccessive, proteggere la pianta con grande cura; senza questa attenzione gli aghi del bonsai si allungheranno più del dovuto.
    Infine, è importante tenere a mente che dall’inizio della stagione estiva fino a tutto l’autunno, non ci si deve dimenticare di nebulizzare gli aghi del bonsai e di farlo a fine giornata.

    Rinvaso, concimazione e malattie del bonsai pino
    È possibile rinvasare il bonsai pino ma è un passaggio da fare preferibilmente in primavera. Di solito, i bonsai pino giovani si trapiantano ogni tre anni circa, mentre gli esemplari più maturi ogni cinque o sette anni. Una volta effettuato il rinvaso bisogna bagnare molto bene il terreno e si deve posizionare il bonsai all’ombra, avendo cura di nebulizzare gli aghi almeno due volte al giorno. Quando gli aghi saranno completamente aperti, allora si potrà porre il bonsai pino a cielo aperto in pieno sole.

    La concimazione rientra tra le azioni da svolgere per prendersi cura del proprio bonsai pino. Per ottenere una pianta rigogliosa e in salute, si consiglia sempre di non abbondare con la frequenza ma di essere costanti, specialmente nel periodo vegetativo della pianta. Si parla quindi dei mesi che vanno da marzo a giugno e da metà agosto e metà ottobre. Data questa premessa, si predilige sempre un fertilizzante a lenta cessione.

    Prendersi cura del bonsai pino significa anche difenderlo da eventuali attacchi di parassiti e/o malattie. I nemici più comuni di questa varietà di bonsai sono gli afidi, gli acari e la cocciniglia. Per evitare che questi attacchino la pianta, si può pensare di effettuare alcuni trattamenti preventivi a cadenza regolare (quindicinale). Per evitare invece il tanto temuto marciume radicale, basterà eseguire un normale trattamento ad hoc e farlo almeno due volte all’anno. LEGGI TUTTO

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    L’Islanda autorizza la caccia alle balene fino al 2029

    Altri cinque anni di caccia alle balene. L’Islanda e decine di associazioni ambientaliste da tempo stavano aspettando una notizia che avrebbe potuto mettere fine alla caccia alle balene nel Paese: il primo ministro Bjarni Benediktsson però, che ricopriva anche la carica ad interim di ministro per l’Alimentazione, agricoltura e pesca, anziché negare le licenze di […] LEGGI TUTTO

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    Con l’aumento delle temperature di 2 gradi potremmo perdere un terzo delle specie animali

    Si stima che dagli anni ’60 a oggi, ossia da quando le temperature hanno iniziato ad aumentare rispetto al periodo pre-industriale, la quota di specie estinte a causa del cambiamento climatico sia aumentata del 4% ogni dieci anni. Secondo una meta-analisi appena pubblicata su Science, nel peggiore degli scenari dal punto di vista delle emissioni potremmo addirittura perdere un terzo delle specie animali note.

    Quelle più a rischio sarebbero quelle che vivono in Australia, Nuova Zelanda e Sud America, in aree montuose, insulari o in ecosistemi di acqua dolce. Lo studio è stato effettuato da Mark Urban, docente di ecologia e biologia dell’evoluzione presso l’Università del Connecticut (Stati Uniti), che ha analizzato i risultati di 485 studi effettuati negli ultimi 30 anni, riguardanti le previsioni (o, in gergo, proiezioni) sullo stato di conservazione della maggior parte delle specie animali conosciute.

    Dalla meta-analisi è emerso che nella situazione attuale di circa +1.3°C rispetto alle temperature dell’epoca pre-industriale si prevede l’estinzione dell’1.6% delle specie esistenti. Superando la soglia dei +1.5°C, presa come riferimento nell’Accordo di Parigi del 2015, e raggiungendo i +2°C, il rischio salirebbe al 2.7%. Ma, si legge nella pubblicazione, stando agli attuali impegni internazionali in termini di riduzioni delle emissioni, in futuro potremmo raggiungere i +2.7°C rispetto alle temperature pre-industriali, il che metterebbe a rischio di estinzione una specie ogni 20 di quelle attualmente note. Oltre questa soglia il rischio subirebbe poi un’ulteriore rapida impennata, balzando al 14.9% a +4.3°C e addirittura al 29.7% a +5.4°C. Ossia, nel peggiore scenario dal punto di vista delle emissioni di gas serra e quindi dell’aumento delle temperature globali, circa una specie su tre sarebbe a rischio di estinzione.

    Come anticipato, le specie che vivono in Australia, Nuova Zelanda e Sud America sono quelle che corrono un rischio maggiore. Per quanto riguarda i primi due paesi, il rischio particolarmente elevato sarebbe legato al fatto che le specie terrestri che li abitano hanno una possibilità di spostamento limitata prima di dover fare i conti con l’oceano. Nel caso del Sud America, spiega Urban, il rischio probabilmente riflette il fatto che questa zona sia caratterizzata da un’incredibile biodiversità e da specie che vivono in areali ristretti e in nicchie ecologiche particolarmente specializzate.

    Entrando poi nello specifico dei gruppi tassonomici e dei vari ecosistemi esistenti, dalla meta-analisi emerge che gli anfibi e gli animali che vivono in montagna, sulle isole e all’interno di ecosistemi di acqua dolce sono quelli maggiormente a rischio. Tendenzialmente, spiega Urban, perché queste specie si possono spostare di meno o perché l’ecosistema all’interno del quale vivono è di per sé più soggetto a cambiamenti climatici o all’invasione da parte di specie aliene.

    Anche i dati storici confermano questa previsione: la maggior parte delle estinzioni avvenute in passato e attribuite ai cambiamenti climatici avrebbero riguardato proprio specie che vivono in montagna, sulle isole o negli ecosistemi di acqua dolce. Un esempio è la Melomys rubicola, una specie di roditore originaria di una minuscola isola situata fra l’Australia e la Nuova Guinea, classificata come estinta nel 2015 probabilmente a causa dell’innalzamento del livello dell’oceano.

    Secondo Urban, tra l’altro, il numero di specie estinte a causa dell’aumento delle temperature globali è in realtà sottostimato. Questo perché tendiamo a focalizzare la nostra attenzione sui vertebrati, lasciando in secondo piano le miriadi di altre specie, magari più piccole o meno carismatiche. Senza considerare che possiamo tenere traccia solo di quelle che conosciamo, ma le specie esistenti sono molte di più. LEGGI TUTTO

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    In America Centrale è tornata la mosca assassina. L’esperto: “Colpa del traffico di bovini”

    La verità su Cochliomyia hominivorax. Il nome scientifico, nato a seguito di una serie di epidemie nell’800, non fa sconti: la mosca assassina del Nuovo Mondo ha larve voraci e carnivore, responsabili delle ‘miasi’, infestazioni dei tessuti che colpiscono i capi da bestiame e non risparmiano l’uomo. In Costa Rica è, dall’inizio del 2024, una vera e propria emergenza nazionale, la prima dagli anni ’90: qui la popolazione di mosche ha registrato un brusco incremento. E un caso di contagio a Catazaja, piccola città stato del Chiapas, Messico, ha innalzato il livello di allerta anche negli Stati Uniti, che hanno sospeso le importazioni di bestiame dal paese confinante.

    Già, perché le infezioni più rilevanti colpiscono bovini e ovini: le uova vengono deposte all’interno di una ferita, individuare i capi infetti e isolarli per tempo – priva ovvero dello sviluppo di una potenziale epidemia – è difficile. Per questo, è dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso che la comunità scientifica si adopera nel tentativo di eradicare la specie, o ridimensionarne la popolazione. Dal 1994 lo fa, in particolare, la Copeg, acronimo di Comisión Panamá – Estados Unidos para la Erradicación y Prevención del Gusano Barrenador del Ganado: nata a seguito di un accordo tra il ministero dello Sviluppo Agricolo di Panama e il dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, riconosciuta come missione internazionale, mira proprio “a sradicare e prevenire la sua reinfestazione nella Repubblica di Panama, senza causare danni all’ambiente”. LEGGI TUTTO

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    Google (e non solo): le promesse dell’intelligenza artificiale per prevenire il meteo estremo

    “Un nuovo modello di intelligenza artificiale migliora la precisione delle previsioni meteorologiche e dei rischi connessi agli eventi meteo estremi, offrendo previsioni più rapide e accurate fino a 15 giorni in anticipo”. La rivendicazione è di Google DeepMind, uno dei colossi dell’hi-tech che si sta cimentando col lo sviluppo e le possibili applicazioni della AI. L’annuncio fa seguito alla pubblicazione sulla prestigiosa Nature di un articolo in cui viene presentato GenCast, “il nostro nuovo modello di ensemble AI, che fornisce previsioni migliori sia del meteo giornaliero che degli eventi estremi rispetto al sistema operativo principale quello dello European Centre for Medium-Range Weather Forecasts (ECMWF), fino a 15 giorni in anticipo. Google spiega che GenCast è stato addestrato e allenato fornendogli “quattro decenni di dati meteorologici storici dall’archivio ERA5 dell’ECMWF. Questi dati includono variabili come temperatura, velocità del vento e pressione a varie altitudini. Il modello ha appreso modelli meteorologici globali…”.

    Che l’intelligenza artificiale possa essere il futuro delle previsioni meteo lo ammette anche Carlo Buontempo, direttore del programma europeo Copernicus, al quale Green&Blue ha chiesto un commento. “Lo sviluppo di GenCast, un modello di previsione meteorologica basato sull’intelligenza artificiale (Machine Learning Weather Predictions MLWP nel suo acronimo inglese), segna una pietra miliare significativa nell’evoluzione delle previsioni meteorologiche”, conferma Buontempo. Che però precisa come quello messo a punto da Google non sia una novità assoluta. “GenCast è uno degli ultimi modelli di machine learning esaminati in una serie di articoli scientifici di alto profilo, che evidenziano la continua evoluzione (e rivoluzione) nelle previsioni meteorologiche”.

    Lo stesso ECMWF, di cui Copernicus è una emanazione, ci lavora da tempo. “Abbiamo abbracciato questa rivoluzione integrando il nostro modello basato sulla fisica, l’Integrated Forecasting System (IFS), basandoci sulla scienza del machine Learning applicata al meteo e sviluppando l’Artificial Intelligence Forecasting System, AIFS, il nostro MLWP che adesso funziona in modo operativo”, continua Buontempo. Alcune componenti chiave dell’approccio di GenCast sono state integrate in una versione dell’AIFS: “Già dal giugno scorso, gli utenti possono vedere previsioni di ensemble live utilizzando AIFS che sfrutta alcune delle tecniche chiave sviluppate nel lavoro GenCast, in combinazione con la nuova ricerca dell’ECMWF”, spiega infatti Buontempo. Sul sito dell’ECMWF si trovano una serie di carte meteo e alcune (“sperimentali”, si sottolinea) sono ottenute con il modello di intelligenza artificiale AIFS.

    Ricerca

    Il Cmcc apre Dataclime cards, mappe per il futuro clima dell’Italia

    di Cristina Nadotti

    06 Marzo 2024

    L’annuncio era stato dato poco più di un anno fa da Florence Rabier, direttrice generale dell’Agenzia meteo europea: “Abbiamo deciso di lanciare l’AIFS sulla scia delle iniziative di diverse aziende per produrre previsioni meteo basate su metodi di apprendimento automatico. Tra queste, FourCastNet di Nvidia, Pangu-Weather di Huawei e il modello di Google DeepMind. Abbiamo reso disponibili questi sistemi sulle pagine pubbliche dei grafici dell’ECMWF, in base alle nostre condizioni iniziali. L’AIFS è stato ora aggiunto a quelle pagine”.

    Google rivendica la sua supremazia: una risoluzione più alta (vale a dire un reticolo in cui è divisa la superficie terrestre le cui maglie sono più fitte), un ampio margine di preavviso (15 giorni) e in generale risultati migliori di quelli forniti dalle previsioni tradizionali di ECMWF. “Ci sono domande e discussioni aperte su quello che può essere l’equilibrio ottimale tra i sistemi di previsione basati di machine learning e quelli tradizionali”, fa però notare Buontempo. “Un’ampia comunità scientifica, tra cui l’ECMWF, sta attivamente esplorando questo aspetto. GenCast presenta una buona scienza dal punto di vista del machine learning, ma questi miglioramenti devono essere testati su quanto bene si comportano in eventi meteorologici estremi per apprezzarne appieno il valore”. LEGGI TUTTO

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    Così il polistirolo uccide i pesci: l’impatto delle nanoplastiche nel mare

    Le nanoplastiche di polistirene (polistirolo) sono in grado di provocare la morte delle cellule degli animali marini. È quanto ha dimostrato lo studio ENEA su modelli in vitro di orata e trota iridea, condotto in collaborazione con Cnr e Università della Tuscia (Viterbo) e pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment.

    Dallo studio emerge che nanoparticelle di polistirene da 20 nanometri – cento volte più piccole di un granello di polvere – hanno causato un danno alle cellule maggiore rispetto a quelle da 80 nanometri. Inoltre, le cellule di orata sono risultate circa quattro volte più sensibili alle nanoplastiche rispetto a quelle di trota.

    Inquinamento

    I solventi che purificano l’acqua dalle nanoplastiche

    di Anna Lisa Bonfanceschi

    28 Agosto 2024

    “Le particelle di plastica si sono attaccate alle membrane delle cellule, causando cambiamenti visibili nella loro forma e struttura, con tracce già evidenti dopo 30 minuti di esposizione. Solo le nanoplastiche da 20 nanometri hanno danneggiato gravemente le cellule nel tempo, portandole a una morte cellulare programmata (per apoptosi). E i primi segni evidenti di questo processo includevano il restringimento della cellula, la formazione di protuberanze sulla membrana, l’esposizione della fosfatidilserina (una molecola essenziale per il funzionamento della cellula) sulla superficie esterna della membrana, chiaro segnale di ‘agonia’ della cellula, fino alla frammentazione del DNA”, spiega Paolo Roberto Saraceni, ricercatore del Laboratorio ENEA Biotecnologie RED e coautore dello studio.

    “I risultati ottenuti – sottolinea Saraceni – evidenziano che la salute degli ecosistemi acquatici e terrestri, con il loro relativo impatto sulla salute umana, è strettamente interconnessa e può venire drammaticamente compromessa dalla diffusione dell’inquinamento da nanoplastiche se non affrontato con la dovuta tempestività”.

    La ricerca

    Riciclare il polistirolo ora potrebbe essere possibile

    di Sara Carmignani

    18 Giugno 2024

    Grazie a questo studio i ricercatori hanno identificato i possibili meccanismi alla base del danno ai tessuti biologici causato dalle nanoplastiche, attraverso l’applicazione di sistemi biotecnologici innovativi e lo sviluppo di modelli sperimentali animal free avanzati. Tali modelli si sono rivelati cruciali per ampliare la comprensione dell’impatto dei rifiuti plastici sulla salute degli ecosistemi, permettendo di ottenere dati riproducibili e di condurre studi su larga scala.

    Le nanoparticelle di plastica (visibili solo al microscopio e con dimensioni inferiori a 1000 nanometri, ossia circa 50-100 volte più piccole del diametro di un capello) hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica per la capacità di attraversare membrane biologiche come quella intestinale e la barriera emato-encefalica, aumentando la loro tossicità potenziale verso gli organismi marini.

    “Le nanoparticelle possono causare effetti come tossicità cellulare, neurotossicità, genotossicità, stress ossidativo, alterazioni metaboliche, infiammazioni e malformazioni nello sviluppo delle specie marine, ma i meccanismi cellulari e molecolari alla base di questi impatti non sono ancora completamente compresi”, sottolinea Saraceni.

    Inquinamento

    Microplastiche e polistirolo, cibo per pesci e molluschi alla foce del Tevere

    di Paolo Travisi

    11 Marzo 2024

    La contaminazione degli ambienti marini e di acqua dolce da parte delle nanoplastiche è considerata una minaccia globale per gli organismi viventi che li popolano. La produzione di plastica nel mondo è stata di oltre 400 milioni di tonnellate nel 2022 e le stime più recenti prevedono che raddoppierà nei prossimi 20 anni fino a triplicare entro il 2060. La maggior parte dei rifiuti plastici non viene gestita correttamente: solo il 9% è riciclato, il 19% incenerito e il resto finisce in discariche o siti di smaltimento non controllati. Questo contribuisce all’accumulo di plastica nell’ambiente e sono soprattutto gli ecosistemi marini a subire l’impatto maggiore: si stima che più di 171 trilioni di particelle di plastica si accumulino nell’ambiente marino, degradandosi in frammenti più piccoli: il polistirene è una delle materie plastiche non biodegradabili più comuni e contribuisce significativamente all’inquinamento plastico ambientale. Tra le più frequentemente trovate negli organismi marini, presenta una tossicità significativamente maggiore rispetto ad altri polimeri testati. La sua potenziale tossicità per gli organismi acquatici e gli ecosistemi rimane una preoccupazione e, per questo, servono ulteriori ricerche per indagare su scala più ampia gli effetti a lungo termine”, conclude Saraceni. LEGGI TUTTO