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    Tutto sull’uva spina: come coltivarla

    Appartenente alla famiglia delle Sassifragaceae, l’uva spina è una pianta che produce le bacche esattamente come i ribes, ma molto più grandi e con un sapore del tutto differente. Il suo nome tecnico è, non a caso, Ribes Grossulariacee e può raggiungere un’altezza di circa due metri. Le sue foglie sono colorate di un verde intenso e i suoi margini sono dentati, mentre i rami hanno le spine; quindi, si riconosce proprio a livello visivo con estrema facilità.
    Inoltre, l’uva spina può essere coltivata tranquillamente in vaso e regalare frutti gustosi. Il periodo ideale della sua fioritura? La stagione primaverile, mentre per i frutti bisognerà aspettare il mese di giugno e oltre.

    Uva spina: coltivazione, terreno, esposizione
    L’uva spina si può coltivare sia in giardino, sia in orto, sia in vaso; l’importante è seguirla nei primi anni dopo la messa a dimora, questo perché così crescerà sana e rigogliosa. Superato il primo periodo, basterà prestare attenzione alla potatura e alla raccolta dei suoi gustosissimi frutti.

    Il terreno ideale per coltivare l’uva spina è di medio impasto, ricco di sostanza organica e abbastanza profondo. Anche chi vive in zone a prevalenza argillosa e calcarea può provare a coltivarla, visto che la pianta si adatta abbastanza bene a queste condizioni. Il pH ottimale si aggira intorno a 6,5, con un livello di umidità molto alto e un’irrigazione abbondante, soprattutto durante la fioritura e la maturazione del frutto, fasi in cui la pianta va mantenuta costantemente idratata. L’uva spina predilige un’esposizione semi-soleggiata in un luogo riparato dalle intemperie. La pianta è resistente anche al freddo invernale, sopportando temperature fino a -15 gradi durante il periodo di dormienza, ma un eventuale gelo intenso potrebbe causarle danni significativi.

    Potatura dell’uva spina: come effettuarla e quando
    Nei primi quattro anni di vita, l’uva spina richiede una potatura di allevamento per rafforzare la pianta e costruire la sua struttura. Nella prima primavera si spuntano i rami a 30 cm da terra, mentre l’anno successivo si eliminano tutti tranne 4-5 rami robusti che formeranno il cespuglio principale. Nella terza e quarta primavera si mantengono solo questi rami, fino a quando la pianta è pronta a fruttificare.

    Dopo i quattro anni iniziali, l’uva spina entra nella fase produttiva e necessita di una potatura mirata: in primavera si eliminano i brindilli in eccesso, cioè i rami corti con molte gemme, e si accorciano le branche più vecchie di 5 anni. Ogni anno si sostituiscono i rami vecchi con quelli giovani per mantenere la pianta sempre produttiva.

    Quando raccogliere i frutti di uva spina
    La raccolta avviene in estate, quando i frutti sono maturi, simili a piccoli acini d’uva e si staccano facilmente. È importante indossare guanti resistenti per proteggersi dalle spine e maneggiare con cura i frutti, riponendoli delicatamente nei cesti per evitare di danneggiarli.

    Uva spina: varietà
    L’uva spina si distingue principalmente in due grandi famiglie: la bianca e la rossa. Tra le varietà bianche, spiccano la Careless, originaria dell’Inghilterra, con bacche grandi e verdi, e la White Smith, simile ma con frutti più gialli. C’è poi la Leveller e la Pax, quest’ultima apprezzata per la resistenza all’oidio, l’assenza di spine e la qualità del frutto. Sul versante rosso, invece, troviamo la Poorman, una specie americana con frutti grandi spesso usati nell’industria per prodotti sciroppati. Dall’Inghilterra arriva la Winham Industry, caratterizzata da bacche oblunghe e di grandi dimensioni dal colore violaceo, mentre la Josta, coltivata in Olanda, presenta frutti simili per colore. L’uva spina rossa, però, è più sensibile all’oidio e richiede trattamenti specifici per proteggerla da questa malattia.

    Le malattie dell’uva spina: cosa sapere
    Tra le principali minacce per l’uva spina c’è l’oidio, una malattia fungina causata dal genere Uncinula, noto anche come “mal bianco”. Questo fungo si manifesta con una caratteristica muffa grigio-biancastra che ricopre foglie, fusti e fiori, provocando macchie pulverulente. Le foglie colpite si ingialliscono, si accartocciano e poi si seccano, mentre i rami possono deformarsi compromettendo la salute generale della pianta.

    L’oidio si sviluppa grazie a micelio che cresce sulla superficie delle parti verdi, penetrando nelle cellule con strutture speciali chiamate austori. Il fungo si conserva da una stagione all’altra tramite spore che resistono al gelo o come micelio negli organi infetti. A differenza di molte altre malattie, l’oidio non richiede condizioni di umidità particolari per prosperare e può attivarsi già a basse temperature, sopportando anche il caldo intenso. Questo lo rende un nemico difficile da debellare, in grado di colpire una vasta gamma di piante, dall’erbacee agli alberi. Dunque, per chi coltiva uva spina, la prevenzione e il controllo tempestivo con prodotti specifici sono fondamentali per limitare i danni e mantenere la pianta sana e produttiva. LEGGI TUTTO

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    Le sorelle Mashouf: “Così trasformiamo l’anidride carbonica in tessuti”

    Un abito acquistato online per pochi euro, un paio di sneakers super scontate recapitate a casa in un paio di giorni, una cintura che costa come un caffè. Dietro la fast fashion, alimentata soprattutto da colossi come Shein e Temu, si nasconde un costo ben più alto di quello indicato sullo scontrino. A pagare il prezzo è soprattutto il Pianeta: l’industria tessile risulta, infatti, tra le più inquinanti del mondo, responsabile, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (United Nations Environment Programme, Unep), di circa l’8% delle emissioni di anidride carbonica, più di tutti i voli internazionali e le spedizioni navali messi insieme. A trasformare questa minaccia in una risorsa sono due giovani scienziate statunitensi, Neeka e Leila Mashouf, titolari di Rubi Laboratories, startup biotecnologica attiva proprio nell’industria dei materiali per la moda sostenibile.

    La passione per la scienza
    Una storia, questa, che va raccontata dal principio. Le gemelle, cresciute nella Baia di San Francisco, in California, in una famiglia di imprenditori, si sono cimentate fin da ragazzine in ricerche sulla fotosintesi artificiale e sulle terapie contro il cancro. Un inizio precoce e straordinario, che ha avviato un percorso di ricerca scientifica e innovazione. Su questa scia, anni dopo Neeka si è laureata in ingegneria dei materiali ed economia aziendale all’Università di Berkeley, mentre Leila ha studiato medicina e neuroscienze alla Hopkins University e poi a Harvard.

    Un’avventura imprenditoriale iniziata nel 2020
    Già durante il loro percorso universitario, le sorelle restarono colpite dall’enorme impatto ambientale del settore tessile. Di fronte a ciò, Neeka pensò di mettere a frutto le proprie competenze cercando di ideare strategie in grado di arginare, almeno in parte, il problema. Così, dopo varie esperienze lavorative, nel 2020 ha fondato Rubi, diventandone amministratore delegato l’anno successivo. Leila si è unita poco dopo in qualità di chief technology officer. Entrambe hanno progettato una nuova tecnologia finalizzata alla creazione di fibre eco-friendly. Un metodo che ha attirato l’attenzione degli investitori, che nel 2022 ne hanno sostenuto lo sviluppo con circa 3,3 milioni di sterline.

    Come funziona il procedimento
    Il processo messo a punto dalle imprenditrici parte dall’anidride carbonica, che funge da materia prima. In un reattore chimico di base, grazie all’azione di enzimi — catalizzatori biologici paragonabili a piccoli Pac-Man che inglobano le molecole e le rilasciano in una nuova forma — si avviano reazioni a catena che generano fogli di polpa di cellulosa. Questa sostanza, un polimero filamentoso, viene poi trattata fino a ottenere un materiale simile al cotone o ad altre fibre naturali, a seconda delle fasi di lavorazione successive. “Il nostro procedimento si ispira al meccanismo con cui gli alberi fissano l’anidride carbonica per produrre energia e tessuti vegetali”, spiega Neeka. “Abbiamo dimostrato che questo gas può essere una risorsa preziosa anziché un prodotto di scarto nocivo”.

    Un metodo sostenibile
    A differenza delle tecnologie convenzionali di conversione del carbonio, basate su processi termochimici o fermentativi, che richiedono energia, cospicui finanziamenti, attrezzature specializzate, il nuovo metodo è scalabile e a basso impatto. Secondo le sorelle, il loro procedimento richiederebbe dieci volte meno fabbisogno energetico rispetto a quelli tradizionali, preservando acqua, territori, foreste. “Stiamo creando un paradigma in cui la manifattura tessile può prosperare, rispettando, però, le risorse naturali e promuovendo gli obiettivi climatici”, aggiunge Leila.

    L’azienda sta già sperimentando i suoi materiali con Walmart, Patagonia e H&M. “I nostri sistemi possono essere integrati nelle catene di approvvigionamento tessili esistenti, aiutando i marchi a ridurre la propria impronta di carbonio senza dover riconfigurare l’infrastruttura”, evidenzia Neeka.

    Oltre il settore tessile
    Proprio in ragione di questi risultati, le due scienziate si sono collocate tra i primi dieci innovatori del Premio Giovani Inventori, assegnato dall’Ufficio europeo dei brevetti nel giugno 2025 agli under 30 che hanno utilizzato la tecnologia per contribuire agli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.
    L’idea pionieristica delle sorelle può, tra l’altro, essere utile anche in ambiti che esulano dal settore tessile, tra cui imballaggi, farmaci, cosmetici, materiali da costruzione, applicazioni alimentari. Concedendo in licenza il processo, Neeka e Leila mirano ad accelerarne l’adozione e a generare un impatto positivo su larga scala. LEGGI TUTTO

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    Pompa di calore o caldaia a condensazione, quale conviene di più?

    Nel momento in cui si ristruttura un immobile ci si trova ad affrontare molteplici scelte, che possono avere un impatto molto significativo sia sul comfort abitativo, che sui consumi domestici e di conseguenza sulle bollette. Nell’ambito degli aspetti da tenere in considerazione un peso rilevante è ricoperto dal sistema di riscaldamento, dovendo decidere se optare per la pompa di calore oppure per la caldaia a condensazione, tecnologie molto differenti tra loro.
    Trattandosi di un intervento impegnativo e a lungo termine, quando si sceglie il sistema di riscaldamento da installare è importante tenere in considerazione tutti i vantaggi e gli svantaggi di questi due sistemi, individuando la soluzione più adatta alla propria abitazione e alle singole necessità.

    Caldaia a condensazione: i pro e i contro
    Che si stia ristrutturando un immobile o si debba semplicemente rinnovare il sistema di riscaldamento di casa, bisogna decidere quale sia l’impianto di riscaldamento migliore da installare, potendo scegliere tra la pompa di calore oppure la caldaia a condensazione. Quest’ultima rappresenta una tecnologia all’avanguardia che ricorre al gas per la produzione del calore, recuperando l’energia dei fumi di scarico e del vapore di combustione, nelle caldaie tradizionali invece dispersi, migliorando così l’efficienza energetica.

    Si tratta di un sistema dagli innumerevoli vantaggi, tra cui rientra l’elevata efficienza termodinamica, tenendo conto che raggiunge livelli di rendimento oltre il 90%. A questo si aggiunge il fatto che rappresenta una soluzione ecologica, grazie alla quale ridurre l’inquinamento prodotto: evoluzione alle caldaie tradizionali, il suo funzionamento ottimizza il calore generato e contiene anche il consumo di gas metano. Inoltre, la caldaia a condensazione è molto versatile e si adatta agli ambienti più disparati, trovandosi in modelli differenti come per esempio le caldaie a condensazione da interno, che sono semplici da installare, compatte, dal basso impatto estetico e dalle potenze differenti, quelle da esterno, ideali per balconi e terrazzi, o ancora quelle da incasso, opzioni discrete consistenti in un’unità esterna nascosta.

    Fisco verde

    Stufa o caldaia, cambiarla ora conviene: ecco perché

    di Antonella Donati

    10 Settembre 2025

    Nonostante i significativi vantaggi della caldaia a condensazione, questo sistema non è esente da contro. In particolare, per recuperare in maniera efficiente l’energia dai fumi di scarico necessita di lavorare a temperature più basse rispetto alle caldaie a gas tradizionali. Questo non rappresenta un problema se è presente un impianto di riscaldamento a pavimento, che funziona in modo ottimale a una temperatura di mandata bassa, ma potrebbe non essere sempre conveniente nel caso di termosifoni e questo vale soprattutto per i modelli più datati e dalla superficie ridotta. Un altro contro della caldaia a condensazione è lo smaltimento della condensa, che potrebbe comportare interventi per predisporre la sua corretta gestione nello scarico.

    Quali sono i vantaggi e gli svantaggi della pompa di calore
    Altro sistema di riscaldamento all’avanguardia è la pompa di calore, che ricorre all’energia presente nell’ambiente impiegandola per riscaldare l’abitazione. Questa soluzione innovativa ed ecologica mette in atto un ciclo termodinamico avanzato che offre riscaldamento, raffreddamento e acqua calda, rispondendo così a molteplici esigenze. La pompa di calore sfrutta il calore di fonti naturali quali suolo, aria e acqua: attraverso un sistema simile a quello del frigo, ma inverso, per ottenere l’acqua calda e il riscaldamento invernale estrae il calore dall’esterno e lo trasporta all’interno. In estate, invece, segue lo stesso principio del frigorifero, attraverso l’inversione del ciclo, estraendo calore dall’interno per poi espellerlo all’esterno.

    Per quanto riguarda i vantaggi della pompa di calore questo sistema consente di risparmiare in modo considerevole, tenendo conto che consuma molta meno energia rispetto alle caldaie tradizionali, alleggerendo così le bollette. Inoltre, qualora venga combinata un impianto fotovoltaico, l’energia solare prodotta la alimenta, diminuendo ulteriormente i consumi. Tra i vantaggi della pompa di calore spicca anche il fatto che non produce emissioni di anidride carbonica, visto che non brucia combustibili fossili, rappresentando un sistema ecologico: inoltre, i suoi livelli di efficienza energetica elevati permettono di consumare meno e di conseguenza ridurre l’inquinamento generato.

    Oltre che sostenibile, questo strumento non è esteticamente invasivo, visto che non necessita di canne fumarie dell’unità abitativa, e permette di ricorrere a un unico sistema per il riscaldamento, il raffreddamento e l’acqua calda sanitaria. Un altro pregio di questa soluzione è il fatto che permette di non usare il gas, aumentando la sicurezza domestica. Installare una pompa di calore è una soluzione ricca di vantaggi, tenendo conto che sono anche previsti incentivi e detrazioni fiscali per questo intervento, come per esempio l’Ecobonus e il Bonus casa.

    Per quanto riguarda i contro della pompa di calore bisogna tenere conto come questo sistema generi rumore, dovendo cercare modelli da esterno oppure silenziosi. Inoltre, è necessario considerare come bisogna possedere un sistema di accumulo di acqua calda sanitaria e il fatto che la temperatura dell’acqua prodotta è più bassa rispetto a quella delle caldaie a gas.

    Quale conviene di più?
    Entrambe soluzioni dall’alta efficienza energetica, nella scelta tra la pompa di calore e la caldaia a condensazione entrano in gioco una serie di fattori. Tra questi spiccano il clima e le temperature esterne, tenendo conto che la pompa di calore riduce la sua efficienza nelle zone in cui si scende sotto i 3 gradi, luoghi in cui è meglio optare per la caldaia a condensazione. Quest’ultima è poi la soluzione su cui puntare qualora si desideri sostituire una vecchia caldaia, senza dover modificare così tutto l’impianto esistente, e anche in caso di poco spazio, visto che il suo ingombro è minore. Inoltre, questo sistema comporta costi solitamente inferiori rispetto alla pompa di calore.

    La pompa di calore risulta invece particolarmente vantaggiosa per far fronte alle costanti variazioni dei prezzi del gas ed è più conveniente in quelle abitazioni dotate di impianto fotovoltaico, in quanto se usata in sinergia con questo si riducono i consumi e le bollette, incrementano l’indipendenza a livello energetico. Questa soluzione è maggiormente ecologica, in quanto non produce emissioni di anidride carbonica, richiede una manutenzione più bassa rispetto alla caldaia a condensazione, avendo meno elementi soggetti all’usura, e non necessita del controllo dei fumi. Oltre a tutto questo, la pompa di calore può essere sfruttata anche in estate, fungendo da climatizzatore. Esistono casi in cui si possono usare entrambe le soluzioni, ricorrendo alla caldaia a condensazione nei momenti più freddi, mentre alla pompa di calore nei mesi più miti, sfruttando tutti i vantaggi di questi strumenti all’avanguardia. LEGGI TUTTO

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    Maurizio Nichetti: “Sono un eco-ottimista, anche un po’ pessimista”

    È sempre difficile dare una definizione ad un artista. Se, poi, si tratta di Maurizio Nichetti è ancora più complesso: regista, sceneggiatore, attore, mimo, fumettista ma anche docente all’università IULM di Milano e direttore di festival. A queste potremmo oggi aggiungerne una, almeno a giudicare dal nuovo film “Amiche Mai”, quella di ecologista.

    Tornato alla regia dopo 23 anni nella nuova opera “Amiche mai”, infatti, svela tutta la sua attenzione (e la preoccupazione) per il green. Una sensibilità “verde” che in realtà ha attraversato tutta la sua carriera, iniziata proprio nei primi anni Settanta quando nel mondo si affermava una nuova eco-coscienza con gli studi di Barry Commoner e Gregory Bateson o i grandi movimenti di massa come l’Earth Day.

    “Avevo poco più di venti anni – spiega Nichetti – quando ho iniziato a lavorare nella società di Bruno Bozzetto e devo confessare che del fermento che attraversava il mondo sui temi dell’ambiente avevo solo echi fiochi e lontani. Devo però anche dire che ho percepito subito da parte di Bruno Bozzetto una grande attenzione ad alcuni aspetti come quelli dell’inquinamento, del traffico, del consumismo. In un cortometraggio di Bruno del 1971, che si chiamava “Sottaceti”, uno dei personaggi apriva il rubinetto della vasca da bagno e ne uscivano, invece dell’acqua, ogni sorta di rifiuto e questo in un’epoca in cui sicuramente non si parlava ancora di differenziata. Anche in “Allegro non troppo”, di qualche anno successivo, troviamo tanti altri elementi di allarme. Potremmo dire – continua Nichetti – che non avevamo una chiara coscienza ecologica ma percepivamo che stavano per arrivare situazioni di degrado che ci avrebbero rovinato la vita.”

    Anche nei tuoi primi film troviamo passaggi che rivelano la tua considerazione al green. Come ad esempio in “Ratataplan”, del 79, dove, in una delle scene iniziali, il protagonista – il neolaureato ingegnere Colombo (da te interpretato) – partecipa ad una selezione di lavoro nella quale gli viene richiesto di disegnare un albero e risulta essere l’unico scartato, perché ha raffigurato un albero bellissimo, ricchissimo di rami e foglie a differenza degli altri che si erano limitati a tracciare delle linee. Una previsione di come l’uomo si sarebbe comportato negli anni successivi con l’ambiente naturale?
    “Nel ‘68 avevo esattamente 20 anni e quindi posso dire di aver fatto parte di una generazione che rivendicava una indipendenza dal mercato. Ci vestivamo tutti, ad esempio, con l’usato. Tutto questo rifiuto del consumismo in “Ratataplan” è raccontato ma non come atto di denuncia. Era semplicemente la fotografia di una realtà. La scena della selezione l’ho inserita molto semplicemente perché nei miei primi rapporti professionali ho lavorato per una multinazionale che utilizzava questo test psicologico per la selezione del personale e mi sembrava assurdo che ad essere esclusi fossero proprio quelli che dimostravano più fantasia e ricchezza espressiva. Devo ammettere, comunque, che questa scena oggi si presta ad esser letta in molti modi ed è anche rappresentativa del fatto che rispetto alla scelta di un mondo fatto di natura, colori, alberi, animali la società del tempio sia andata in un’altra direzione facendo scelte penalizzanti per l’ambiente.”

    Maurizio Nichetti sul set di “Amiche mai” (foto: Pietro Rizzato)  LEGGI TUTTO

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    I carrelli della spesa abbandonati inquinano. Ecco perchè

    Gesti all’apparenza innocui, a volte, possono avere un’enorme impatto sul pianeta. Come un carrello della spesa abbandonato al bordo della strada o in un parcheggio. Un’immagine relativamente consueta in molte città in tutto il mondo. Sinonimo di degrado, sì, ma non di catastrofe climatica. Eppure, sommando le emissioni necessarie per recuperare, restaurare o sostituire i carrelli abbandonati ogni giorno, il loro impatto climatico si fa sostanziale e insostenibile. È la conclusione a cui è giunto un gruppo di ricercatori dell’Università di Warwick, in uno studio pubblicato di recente sulla rivista Sustainability.

    Non è spazzatura
    Nel Regno Unito, su cui si basa la simulazione dei ricercatori dell’Università di Warwick, si stima che ogni anno siano circa 520mila le segnalazioni di carrelli della spesa abbandonati. Un numero consistente, quindi, che descrive un problema non solo inglese: le cifre sono in fatti in linea con quelle riportate in altre regioni del mondo, dall’Australia al Sud Africa. Per l’Italia non esistono dati o stime del genere. Ma basta guardare al fenomeno, simile, dell’abbandono di monopattini e delle bici elettriche che ha interessato, in passato, diverse città italiane, per comprendere che probabilmente il tema ci riguarda un po’ tutti.
    “Migliaia di carrelli della spesa vengono segnalati come abbandonati ogni anno”, spiega Neill Raath, ricercatore dell’Università di Warwich che ha collaborato al nuovo studio. “Quando moltiplichi le emissioni necessarie per recuperarli tutti, il fenomeno diventa significativo, e preoccupante”. Quanto, esattamente, lo rivela la ricerca.

    La tappa più inquinante resta la produzione
    I calcoli di Raath e colleghi sono basati sulla città di Coventry, dove vengono recuperati circa 30 carrelli della spesa al giorno, e un centinaio l’anno vengono riparati per tornare in servizio nei supermercati locali. L’analisi rivela che l’intero ciclo di vita di un carrello, dalla sua produzione a quando entra in servizio, ha un’impronta climatica pari a 64,15 chili di Co2. Le operazioni di recupero, una volta abbandonato nell’ambiente, aggiungono circa altri 0,69 chili di Co2, mentre con il trasporto e il restauro si sale di altri 5 chili e mezzo.
    È evidente quindi che la produzione dei carrelli è la tappa più inquinante. E quindi recuperarli e sistemarli ove possibile è comunque la soluzione più green, rispetto a costruirne di nuovi. Ma se si evitasse l’abbandono, il risparmio in termini di impatto ambientale sarebbe comunque notevole. A livello nazionale, solo le operazioni di recupero del mezzo milione di carrelli della spesa abbandonati nel Regno Unito produce emissioni paragonabili a quello di un parco auto di 80 veicoli a benzina nell’arco di un intero anno. Emissioni che raddoppiano se anche solo il 10% di questi viene poi restaurato per rientrare in servizio.

    Le buone abitudine
    E ovviamente, i pericoli legati all’abbandono di carrelli della spesa non riguardano solo il clima: questi rifiuti ingombranti rappresentano un pericolo per autisti e pedoni, contribuiscono al degrado delle aree urbane e suburbane, inquinano il suolo e i corsi di acqua. “Non pensiamo di poter far sparire il problema dei carrelli abbandonati – ammette Raath – ma speriamo almeno che la prossima volta che qualcuno vedrà un carrello in un vicolo o in un cespuglio, si troverà a riflettere anche sull’impatto ambientale che deriva dal lasciarli lì, inutilizzati”. LEGGI TUTTO

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    I Pfas sono contenuti nel 95% delle birre prodotte negli Stati Uniti

    I Pfas, anche noti come sostanze chimiche eterne, non risparmiano neanche la birra. A lanciare l’allarme è stato un’analisi coordinata dai ricercatori dell’American Chemical Society che ha mostrato come il 95% delle birre prese in esame e prodotte in diverse aree degli Stati Uniti contengano questi inquinanti, con le concentrazioni più elevate riscontrate nelle aree in cui è noto ci sia una contaminazione delle acque. I risultati, apparsi sulla rivista Environmental Science & Technology dell’Acs, evidenziano quindi come l’inquinamento delle risorse idriche possa infiltrarsi in prodotti, anche quelli più comuni, sollevando preoccupazioni sia per i consumatori che per i produttori di birra.

    Salute e ambiente

    Pfas nel vino 100 volte superiori rispetto all’acqua potabile

    di Paola Arosio

    30 Maggio 2025

    Gli inquinanti eterni
    Acronimo inglese di sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche, i Pfas sono una categoria di sostanze chimiche artificiali note per la loro resistenza ambientale e per essere potenzialmente legate a diverse condizioni di salute. Per la loro elevata resistenza al calore, all’acqua e ai grassi, sono presenti in molti oggetti di uso quotidiano come per esempio padelle antiaderenti, vernici e cosmetici. E dato che impiegano migliaia di anni per decomporsi, sono stati soprannominati sostanze chimiche eterne e riscontrati già in analisi precedenti nelle acque superficiali, nelle falde acquifere e nelle reti idriche in molte parti del mondo. Oltre all’inquinamento, i Pfas sono potenzialmente legati a diversi rischi per la nostra salute, e in particolare per il sistema immunitario ed endocrino, la fertilità e l’incidenza di alcune neoplasie.

    Le birre con i Pfas
    Sebbene i birrifici generalmente dispongano di sistemi di filtraggio e trattamento dell’acqua, questi non sono progettati per rimuovere i Pfas. Circa il 18% dei birrifici statunitensi si trova in arre in cui è rilevabile la presenza di Pfas nell’acqua potabile comunale”, si legge nello studio. Da qui, i ricercatori del nuovo studio hanno modificato il metodo usato dall’Agenzia per la Protezione Ambientale (Epa) degli Stati Uniti per misurare i livelli di Pfas nell’acqua potabile, con il quale hanno poi testato un totale di 23 birre provenienti da birrifici statunitensi in aree con contaminazione documentata del sistema idrico, oltre a birre conosciute, nazionali e internazionali, prodotte da aziende più grandi con fonti idriche sconosciute. Dalle loro analisi è emerso che il 95% delle birre testate (sebbene gli autori non abbiano fatto nomi) conteneva Pfas, tra cui il perfluorottano solfonato (Pfos) e l’acido perfluoroottanoico (Pfoa).

    Salute

    Acqua, più tutele contro i Pfas: scattano le nuove regole

    di Cristina Bellon

    18 Luglio 2025

    La contaminazione
    I risultati dello studio, inoltre, hanno suggerito una forte correlazione tra le concentrazioni di Pfas nell’acqua potabile comunale e i livelli di questi inquinanti nella birra prodotta localmente. Ad esempio, è emerso che le birre prodotte vicino al bacino del fiume Cape Fear, nella Carolina del Nord, un’area con conclamato inquinamento da Pfas, presentavano i livelli più elevati e la più diversificata combinazione di sostanze chimiche eterne. Oltre a confermare ancora una volta come la contaminazione da Pfas si una problema che necessita di essere affrontato al più preso, i dati dello studio suggeriscono la necessità di aggiornare i metodi di trattamento delle acque negli stabilimenti di produzione e nei sistemi idrici.

    Inquinamento

    Pfas e altri contaminanti nei pesci selvatici: l’allarme dell’Ue

    di Cristina Bellon

    09 Settembre 2025

    “Essendo io stessa una bevitrice di birra occasionale, mi sono chiesta se i Pfas presenti nelle riserve idriche stessero arrivando alle nostre pinte”, ha concluso Jennifer Hoponick Redmon, tra gli autori dello studio. “Spero che queste scoperte ispirino strategie e politiche di trattamento delle acque e che contribuiscano a ridurre la probabilità di presenza di Pfas nelle future birre”. LEGGI TUTTO

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    Alaska, il ghiacciaio si scioglie e emerge una nuova isola

    Il ritiro dei ghiacciai ridefinisce la geografia. Una nuova isola di 5 chilometri quadrati si è formata nell’Alaska sud orientale, si chiama Prow Knob e fino a poche settimane fa era una semplice altura inglobata nel ghiacciaio Alsek. Ora dalle immagini satellitari compare completamente circondata dall’acqua. Immagini che hanno fatto il giro del mondo e […] LEGGI TUTTO

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    Uva fragola: coltivazione, esposizione, potatura della pianta “americana”

    L’uva fragola, conosciuta anche come uva americana, è una varietà di vite apprezzata in tutta Italia per la sua rusticità, il gusto dolce dei suoi acini e la facilità di coltivazione. Pur essendo meno indicata per la vinificazione, questa vite da tavola regala frutti succosi e profumati, ideali per il consumo fresco, gelatine e dolci casalinghi. Scopriamo come coltivarla al meglio, dalle tecniche di impianto alla raccolta, passando per esposizione, irrigazione e potatura.

    Caratteristiche dell’uva fragola
    L’uva fragola appartiene al genere Vitis labrusca, parente della più nota Vitis vinifera, e si distingue per un aroma che ricorda la fragola di bosco, penetrante e dolce. Esistono due principali varietà: nera e bianca. La prima è più diffusa e apprezzata per il sapore intenso, la seconda leggermente più acidula, ma entrambe producono acini piccoli, tondeggianti e succosi, perfetti per il consumo fresco.

    Tra le caratteristiche riconoscibili dell’uva fragola, ci sono:

    Portamento: rampicante, può arrivare fino a 12 metri se lasciata crescere senza vincoli;
    Fogliame: foglie ampie, di forma pentagonale e colore verde brillante;
    Fioritura: avviene a giugno, con impollinazione anemofila (ad opera del vento);
    Frutti: maturano tra fine agosto e inizio settembre, a seconda del clima, e sono ricchi di vitamine.
    Questa vite da tavola è molto vigorosa, con una produzione costante e grappoli di dimensioni medio-piccole (80-150 grammi), ideali per chi desidera un raccolto abbondante senza troppa manutenzione.

    Trapianto e messa a dimora dell’uva fragola
    Trapiantare correttamente l’uva fragola è il primo passo per garantirne una crescita sana e produttiva. La piantina, solitamente acquistata in vaso con un anno di vita, deve essere interrata leggermente al di sotto del livello del terreno in un foro della stessa dimensione del vaso.

    Consigli per la messa a dimora

    Scegliere un terreno ben drenato, libero da sassi e detriti;
    Arricchire il suolo con concimi organici come letame maturo e terriccio a medio impasto;
    Posizionare la pianta in pieno sole o mezz’ombra, proteggendola dalle correnti fredde;
    Se coltivata in pieno campo, mantenere una distanza di 70-90 cm tra le piante per favorire lo sviluppo verticale o a pergola.

    Questa vite si adatta perfettamente anche alla coltivazione in vaso, un’opzione ideale per balconi e terrazzi. In questo caso, scegliere contenitori di almeno 30 cm di diametro e riempirli con terriccio a medio impasto.

    Uva fragola: esposizione e luce
    L’uva fragola ama il sole, per questo una buona esposizione è fondamentale per ottenere acini dolci e succosi. La luce diretta favorisce la fotosintesi e accelera la maturazione dei grappoli, che in regioni calde come Sicilia e Puglia può avvenire già a fine agosto. Il pieno sole è dunque ideale per grappoli zuccherini e polpa soda, mentre la mezz’ombra è possibile in zone con estati molto calde, purché la vite sia protetta dal vento.

    Il posizionamento corretto influisce anche sulla resistenza alle malattie, limitando problemi legati a umidità e muffe.

    Irrigazione e gestione dell’acqua
    L’uva fragola non richiede irrigazioni frequenti, ma un apporto idrico regolare è utile, soprattutto nei mesi estivi e per le coltivazioni intensive. Si consiglia un tipo di irrigazione “a goccia” per fiori e colture massive. Questa permette di fornire acqua direttamente alle radici senza bagnare né le foglie, né i grappoli. L’annaffiatura in vaso, invece, va effettuata seguendo un paio di dritte: controllare il substrato e irrigare quando il terreno è asciutto in profondità, evitando come sempre ristagni idrici, nocivi per la salute della pianta. Questa gestione aiuta a mantenere gli acini succosi e a prevenire la caduta prematura dei frutti.

    Terreno ideale e concimazione dell’uva fragola
    L’uva fragola predilige terreni mediamente fertili, ben drenati e arricchiti con sostanza organica. Prima del trapianto è consigliato eliminare sassi e detriti e incorporare concimi naturali come letame o compost maturo. Fatta la prima concimazione, quelle successive (ogni anno in primavera) dovranno essere effettuate apportando fertilizzante bilanciato per stimolare la vegetazione e la formazione dei grappoli. Piccola postilla: il pH dovrebbe essere preferibilmente neutro o leggermente acido.
    Uva fragola: potatura e gestione della chioma
    La potatura dell’uva fragola è fondamentale per mantenere la pianta produttiva e facilitare la raccolta. Per farla in modo corretto basterà seguire queste piccole indicazioni, da tenere sempre a mente ogni anno. La potatura invernale, intanto, va a rimuovere i rami secchi o troppo vecchi, lasciando 6-8 gemme principali per ciascun tralcio. Quella verde, invece (eseguita in estate), serve per eliminare i germogli superflui e i grappoli danneggiati, favorendo la ventilazione interna.
    Per ultimo, la formazione a pergola o spalliera consente di gestire meglio i grappoli e di esporre in modo uniforme le foglie al sole.
    Viene da sé che la potatura corretta dell’uva fragola riduce anche il rischio di malattie fungine e migliora la qualità degli acini.

    Raccolta e utilizzo dei frutti dell’uva fragola
    L’autunno, tra fine settembre e ottobre, segna il momento ideale per la raccolta dell’uva fragola. I grappoli, ormai ben colorati e con acini dolci e succosi, vanno staccati con cura utilizzando forbici da potatura, per evitare di danneggiare rami e frutti.

    Questi grappoli, ricchi di zuccheri naturali, vitamine e sali minerali, possono essere gustati freschi oppure trasformati in prelibatezze casalinghe, come i tradizionali sugoli d’uva o marmellate dal profumo intenso di frutti di bosco. La raccolta attenta assicura frutti integri e un sapore inconfondibile, perfetto per la tavola e per le preparazioni autunnali.

    Il bello dell’uva fragola in casa
    Coltivare l’uva fragola in giardino o in vaso va oltre il semplice hobby. La soddisfazione di raccogliere frutti freschi e naturali si accompagna alla rusticità della pianta, resistente sia al freddo sia alle malattie più comuni, e alla facilità di gestione, che la rende adatta anche ai principianti. A questo si aggiunge il suo valore estetico: le viti rampicanti trasformano pergolati, terrazzi e balconi in angoli verdi e accoglienti. Coltivare frutta in casa, poi, significa ridurre gli sprechi e avere sempre a disposizione prodotti genuini, privi di trattamenti chimici intensivi, pronti da gustare in ogni momento. LEGGI TUTTO