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    Servono 75 anni per veder tornare api e farfalle in una prateria distrutta

    Si fa presto a dire “ripristinare”. Portare indietro le lancette dell’orologio, quando si tratta di ecosistemi usati a nostro piacimento, non è così semplice. I tempi per tornare indietro potrebbero essere più lunghi di quanto creduto e potrebbe essere necessaria qualche azione di supporto mirata per recuperare la biodiversità di un tempo. E’ il messaggio […] LEGGI TUTTO

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    Lavori green, il carbon manager: quando business e ambiente si incontrano

    Quando vincono entrambi, l’ambiente e pure il portafoglio, c’è una certa soddisfazione per chi di mestiere aiuta gli altri ad applicare la sostenibilità nei loro percorsi. Un sorriso carico di orgoglio che va sempre condiviso: perché la sostenibilità e la ricerca di soluzioni verdi – quelle che possano per esempio contribuire ad abbassare le emissioni climalteranti o l’impronta di carbonio – non sono mai questione del lavoro o lo sforzo dei singoli, ma sono “un impegno per forza di cose collettivo, che coinvolge più attori, più persone o mondi”. A ricordarlo è Giacomo Magatti, classe 1981, manager della sostenibilità che oggi è vicepresidente e carbon manager di Rete Clima, un’impresa sociale che accompagna le aziende e le organizzazioni a migliorare la loro impronta verde in percorsi di sostenibilità e decarbonizzazione.

    Appassionato di natura e di montagna da sempre, quando Magatti ha iniziato il suo percorso per tentare di coniugare la sensibilità ambientale al mondo delle imprese, era pieno di domande ma trovava pochissime risposte: vent’anni fa le carriere di studio e le specializzazioni per il mondo delle professioni green erano ancora in stato embrionale, “qualcosa che dovevi in parte inventarti. Per questo io dopo una laurea magistrale in Scienze ambientali all’Università Bicocca a Milano, che mi ha fornito molte competenze tecniche, ho scelto di fare un master in Comunicazione dell’ambiente, così da poter avere i mezzi per raccontare quello che avevo studiato e in cui credevo. Da piccolo ero uno scout e, come diceva il nostro motto, ho sempre pensato di voler lasciare il mondo o l’ambiente migliore di come l’avevo trovato” spiega Magatti. Per centrare questa missione, una volta completati gli studi e le prime esperienze all’interno delle aziende come consulente ambientale, acquisisce sempre più competenze che vanno in una direzione precisa: aiutare imprese, enti e Ong a decarbonizzare, ad emettere meno, a intraprendere percorsi di riciclo, oppure a modificare abitudini negative per l’ambiente, ma sempre “con uno sguardo anche al lato economico” spiega.

    Dopo un periodo da ricercatore all’Università Bicocca in cui lavora soprattutto sul Life Cycle Assessment (LCA) – “l’analisi del ciclo di vita di prodotti e servizi che valuta l’impronta ambientale nel suo complesso, uno strumento fondamentale per il nostro lavoro” – fa confluire tutte la sua esperienza nel cuore di quella che oggi è la sua professione a Rete Clima, un manager della sostenibilità che si occupa anche di ogni aspetto carbon delle aziende.

    “La definirei una professione green del presente, necessaria per affrontare le sfide di oggi, sia quelle che impone la lotta alla crisi climatica, sia quelle che richiedono le aziende per essere più sostenibili. Per arrivarci bisogna ovviamente studiare e, consiglio che vorrei dare ai giovani, fare formazione continuamente: bisogna essere aggiornati su scienza, normative, diritti. Solo così si può aiutare altri a trovare percorsi su misura per impattare meno”. Dopo la pandemia da Covid-19 l’attenzione per il green è “letteralmente esplosa. Molte aziende ci hanno contattato per intraprendere percorsi di decarbonizzazione. Quando ci riesci, è davvero bello: la sostenibilità è qualcosa che si fa insieme, in cui mettere in rete più mondi”. Fa un esempio: “Ci è capitato di aiutare una società a cambiare: prima di fatto prendeva plastica in Cina e la rivendeva in Italia, con una impronta decisamente negativa. Oggi, dopo un bel percorso iniziato dall’analisi di ogni aspetto, quella azienda è diventata più verde: ha sostituito plastica vergine con quella riciclata, ha smesso con il trasporto merci aereo preferendo le navi, ha abbassato la sua impronta carbonica e, contemporaneamente, aumentato il suo business”.

    Dimostra, spiega, che “spesso se si inseguono gli aspetti green e sociali, si fanno investimenti che poi ritornano velocemente. Cosa che devo dire le aziende hanno capito da tempo: si muovono già tanto in questa direzione, a differenza della politica”. Ma per aiutare sempre più realtà ad emettere meno gas serra, servono però anche più professionisti “che non applichino la ‘tuttologia’ ai temi ambientali, ma che si specializzino, sempre però con un occhio attento all’insieme. La sostenibilità può essere vista in chiave ambientale, tecnica, ingegneristica, economica: l’importante è che chi lavora in questo mondo sia sempre aggiornato, competente, sapendo che è una professione del presente, dove le cose cambiano in fretta, ma ci sarà sempre bisogno di spingere per – appunto – lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo trovato”. LEGGI TUTTO

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    Italia indietro su mobilità sostenibile, troppe auto e smog

    In Italia la mobilità sostenibile viaggia a rilento. A pesare in primis il taglio delle risorse destinate al settore e il primato del più alto tasso di motorizzazione dell’Ue: 694 autovetture per 1.000 abitanti (571 la media Ue), con città dove l’emergenza smog è cronica. Siamo indietro rispetto alle capitali europee anche in fatto di […] LEGGI TUTTO

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    Una causa da 300 milioni di dollari mette a rischio Greenpeace Usa: “Siamo sotto attacco”

    “Hanno lottato per salvare le balene. Riusciranno a salvare sé stessi?”. Se lo è chiesto l’altro giorno il New York Times, alla vigilia di una udienza decisiva in un processo che vede sul banco degli imputati Greenpeace. La causa riguarda il ruolo dell’associazione ambientalista nelle manifestazioni organizzate ormai un decennio fa contro un oleodotto vicino alla riserva Sioux di Standing Rock, nel Dakota del Nord. La Energy Transfer, proprietaria dell’infrastruttura, accusa Greenpeace di aver appoggiato attacchi illegali al progetto e aver condotto una “vasta e maligna campagna pubblicitaria” che è costata denaro all’azienda. La compagnia vuole 300 milioni di dollari di danni. Una richieste che se accolta dalla giuria metterebbe in pericolo l’esistenza stessa di Greenpeace, o almeno della sua, fondamentale, sezione statunitense: “Una tale perdita in tribunale ci potrebbe costringerla a chiudere i nostri uffici americani”, hanno ammesso gli attivisti.

    L’associazione si è mobilitata in tutto il mondo, a difesa di Greenpeace Usa: da questa mattina sul sito della sezione italiana è aperta una petizione che partendo dal processo in corso, allarga la lotta al revisionismo climatico di questi ultimi mesi: “Greenpeace è sotto attacco. Abbiamo bisogno del tuo aiuto!”, si legge nella pagina web dedicata a alla raccolta delle firme.

    Sostenibilità

    Lavori green, l’avvocato che difende l’ambiente: “Tante battaglie per il bene di tutti”

    di Giacomo Talignani

    09 Marzo 2025

    “La gigantesca compagnia petrolifera Energy Transfer ha intentato una causa contro Greenpeace negli Stati Uniti e contro Greenpeace International per 300 milioni di dollari. In un contesto in cui politici negazionisti della crisi climatica, come Trump o Milei, governano interi Paesi, la battaglia per il futuro del pianeta e dei suoi abitanti è in serio pericolo”.

    Eppure Greenpeace non è nuova a battaglie durissime, sul campo, nei mari, sui ghiacci… ma anche nelle aule di tribunale. Perché il processo intentato dall’Energy Transfer rischia di fare la differenza? L’entità dell’indennizzo richiesto: 300 milioni di dollari sono quasi dieci volte il budget di Greenpeace Usa (nel 2020 era di 40 milioni). Anche una condanna in primo grado, comporterebbe comunque un anticipo tale da far saltare il banco dell’associazione statunitense. Ma il pericolo è più ampio. E non riguarda solo Greenpeace. Il processo dell’oleodotto contrastato dai Sioux è solo la punta dell’iceberg di una generale tendenza a “punire un ambientalista per zittirne 100”.

    Focus

    Ranger, meteorologi, studiosi del clima: chi ha perso il lavoro negli Usa negazionisti di Trump

    di Giacomo Talignani

    28 Febbraio 2025

    Lo nota oggi anche la voce della City londinese, il Financial Times: “Greenpeace contro Big Oil: il caso che mette alla prova la libertà di parola nell’era Trump”. Per restare negli Stati Uniti, pochi giorni fa un’altra notizia dello stesso tenore: il climatologo Michael Mann, che nei mesi scorsi aveva vinto una causa per diffamazione da un milione di dollari, contro chi lo aveva accusato di truccare i dati sul riscaldamento globale, ora dovrà restituire oltre la metà: 530 mila dollari, perché secondo un giudice i suoi avvocati avrebbero utilizzato prove false nel corso del procedimento. In base a una recente legge anti-proteste, in Australia decine di attivisti sono stati arrestati al porto del carbone di Newcastle alla fine del 2024 dopo aver utilizzato kayak e gommoni per protestare contro la struttura: è iniziato il processo e loro si dichiareranno in massa “non colpevoli”, come raccontava ieri il Guardian.

    A inaugurare il filone del giro di vite giudiziario contro gli attivisti climatici era stata la Gran Bretagna, dove erano andate in scena anche le manifestazioni più partecipate e, al tempo stesso controverse: il leader e fondatore di Extinction Rebellion Roger Hallam, sta scontando 5 anni di carcere per aver organizzato un blocco stradale nei pressi di Londra. In inglese il fenomeno si è meritato perfino un acronimo, SLAPP: Strategic lawsuit against public participation, causa strategica contro la partecipazione pubblica).

    Appunto, si fa causa a una associazione o a singoli cittadini, per intimidire gli altri e scoraggiarli dal protestare. D’altra parte gli uffici legali di colossi come la Energy Transfer sono attrezzatissimi e con budget che permettono loro di affrontare anni di specie processuali. Sul fronte opposto organizzazioni che si sostengono grazie alle donazioni dei simpatizzanti. Nell’Unione europea il problema è noto, tanto che esiste una normativa che tutela i cittadini e le associazioni vittime di Slapp. Ed è per questo che Greenpeace International, il cui quartier generale è in Olanda, vuole che per la vicenda dell’oleodotto del Nord Dakota a decidere sia un tribunale del Vecchio Continente.

    Nello specifico della contesa, l’associazione afferma di aver svolto solo un ruolo minore e pacifico nella protesta guidata dagli indigeni e che, appunto, il vero scopo della causa è quello di limitare la libertà di parola non solo all’interno dell’organizzazione, ma anche in tutta l’America. Sushma Raman, direttrice esecutiva ad interim di Greenpeace Usa, ha definito il processo nel Dakota del Nord “un test critico per il futuro del Primo Emendamento”. Energy Transfer, in una nota dei suoi legali, afferma che la vicenda non ha niente a che fare con la: “Si tratta del fatto che non hanno rispettato la legge”.

    Tuttavia il processo aveva già ottenuto un risultato, ancora prima di cominciare. Come ricorda il New York Times, all’inizio del 2023, Greenpeace Usa aveva festeggiato la nomina di Ebony Twilley Martin come direttore esecutivo, “la prima donna di colore direttore di un’organizzazione non-profit ambientale statunitense”. Ma Twilley Martin ha lasciato quel ruolo solo 16 mesi dopo, uno sviluppo che, scrive il quotidiano newyorkese, “due persone a conoscenza della questione hanno detto essere stato in parte dovuto a disaccordi sull’opportunità di accettare un accordo con Energy Transfer”. Nelle prossime ore si scoprirà se Greenpeace oltre alle balene sarà riuscita a salvare se stessa. Oppure se le Slapp avranno inferto un nuovo duro colpo alla libertà di espressione. LEGGI TUTTO

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    Giornata mondiale del riciclo, le sfide italiane e quelle europee

    Oggi è il Global recycling day. Istituita per la prima volta nel 2018 dalla Global recycling foundation, l’organizzazione non-profit che mira a promuovere l’importanza del riciclo a supportare lo sviluppo sostenibile, il 18 marzo è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite come la Giornata mondiale del riciclo. Evento annuale che incoraggia sia la consapevolezza dell’impatto dei rifiuti sull’ambiente, che ad agire per proteggere il Pianeta. D’altronde trasformare i rifiuti in materie prime è proprio uno degli obiettivi fondamentali dell’economia circolare. Non solo. Questa attenzione alla qualità del riciclo è riconosciuta dalla legislazione UE che introduce il principio “chi inquina paga” e la “responsabilità estesa del produttore”. Tra gli obiettivi che pone la direttiva, entro il 2025, si attende che la preparazione per il riutilizzo e il riciclo dei rifiuti urbani dovranno essere aumentati ad un minimo del 55%, 60% e 65% in peso rispettivamente entro il 2025, 2030 e 2035.

    Tutorial

    Raccolta differenziata: gli errori che (quasi) tutti facciamo

    di Paola Arosio

    08 Marzo 2025

    Il riciclo degli imballaggi: la situazione in Italia
    Tantissime le iniziative in Italia dove secondo il Conai, la percentuale di riciclo degli imballaggi nel 2025 dovrebbe assestarsi sul 75,2%, con volumi di riciclo in costante crescita: da 10 milioni e 470.000 tonnellate nel 2023 (ultimo dato consolidato) si arriverà a 10 milioni e 810.000 tonnellate a fine 2025. Sono queste le prime stime che Conai fa a proposito del 2025 in occasione della Giornata mondiale del riciclo.

    Tutorial

    Dagli imballaggi al trasporto, come organizzare un trasloco green

    di Paola Arosio

    03 Marzo 2025

    Per il 2025 si prevede anche un aumento degli imballaggi a fine vita che saranno affidati dai Comuni al sistema rappresentato da Conai e dai Consorzi: un totale di quasi 5 milioni e mezzo di tonnellate, in crescita rispetto ai 4 milioni e 660.000 del 2023 (ultimo dato consolidato).
    Nel dettaglio, l’anno in corso dovrebbe vedere riciclato oltre l’85% degli imballaggi in carta e cartone, oltre l’80% degli imballaggi in acciaio, il 70% degli imballaggi in alluminio, quasi il 64% degli imballaggi in legno, più del 51% degli imballaggi in plastica e bioplastica compostabile (circa il 51% di plastica tradizionale e il 58,5% di bioplastica) e oltre l’81% degli imballaggi in vetro.
    Secondo i dati, tutte le sette filiere dei materiali avranno così superato i rispettivi obiettivi di riciclo minimo chiesti dall’Europa al 2025. In questa Italia che sembra stia andando nella direzione giusta ci sono comunque alcune sfide da affrontare: dagli obiettivi legati alla Single-Use Plastics alla messa in atto del Regolamento Imballaggi.

    Economia circolare

    Il documento d’identità sarà biodegradabile: il prototipo

    di Gabriella Rocco

    14 Marzo 2025

    Ue: attesa per la nuova legge sull’economia circolare
    Il 2025 è un anno importante per l’Unione europea dal punto di vista della circular economy. Se nel Secondo il Circularity Gap Report 2024, il tasso di circolarità globale è sceso al minimo storico del 7,2% e una delle principali cause sembra sia una normativa non in linea con i tempi, Jessika Roswall, nuova Commissaria europea per l’Ambiente, la resilienza idrica e l’economia circolare competitiva, ha detto chiaramente che uno delle priorità sarà lo sviluppo di una nuova legge sull’economia. Obiettivo di questa legge sarà promuovere il riciclaggio, ridurre i rifiuti e migliorare l’efficienza delle risorse. Grande attenzione della Commissione europea sarà posta sulla creazione di una domanda di mercato per i materiali secondari e l’istituzione di un mercato unico per i rifiuti, in particolare per le materie prime critiche come il rame e il litio. La nuova legge dovrà anche armonizzare e razionalizzare le politiche di economia circolare negli Stati membri, consentendo alle innovazioni circolari di superare i confini dei loro Paesi di origine. Per le aziende sarà importanti l’uso di materiali secondari nella produzione per la valutazione di modelli di business circolari. LEGGI TUTTO

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    Batterie preziose come miniere, un progetto italiano per recuperare il 90% del litio

    È ora di considerare le batterie come delle piccole miniere portatili. E dalle miniere, si sa, si ricavano minerali e materie prime molto preziose. Sempre di più. Le comuni batterie agli ioni di litio, quelle che un tempo si definivano ricaricabili, ormai sono il nostro pane quotidiano, e probabilmente per molti di noi sono l’ultimo gesto della giornata: ricaricare la batteria del nostro smartphone. Dentro a queste batterie, troviamo il litio, che è l’elemento chiave per il trasporto degli ioni durante la carica/scarica della batteria, il cobalto che migliora stabilità e durata, nickel che aumenta la densità energetica, e ancora il manganese, la grafite, il rame e l’alluminio. Una lista lunga, ed ogni batteria giunta a fine vita che buttiamo via, e che non viene riciclata e riutilizzata perde e disperde nell’ambiente sostanze preziose.

    Mobilità sostenibile

    Batterie al sale: l’idea di BatterIT per trovare un’alternativa al litio

    di Gabriella Rocco

    08 Gennaio 2025

    Da qui si capisce, quanto sia altrettanto prezioso il progetto di ricerca denominato Caramel, dell’Università di Brescia, che promette di poter recuperare il 90% del litio di ogni batteria, senza usare acidi inorganici e riducendo i consumi energetici del 50%, attraverso lo sviluppo di un innovativo forno a livello industriale. O meglio di un forno a microonde. D’altronde la sfida è di grandi proporzioni, come sottolinea la stessa Commissione Europea che con il Critical Raw Act ha stabilito l’obiettivo di raggiungere nei prossimi anni una serie di percentuali di recupero e una capacità di riciclo di almeno il 25% del fabbisogno continentale europeo.

    Nel caso del litio dai rifiuti di batterie, la Commissione chiede ai paesi membri di arrivare al 50% entro il 2027, per salire fino all’80% entro il 2031. E ci sono anche altri target importanti che interessano, ad esempio le batterie portatili (i power bank), le batterie dei mezzi di trasporto leggeri, così come il recupero del cobalto, del rame, del piombo e del nichel pari al 90% entro la fine del 2027 e del 95% entro la fine del 2031.

    Ma torniamo a Caramel – acronimo di New Carbothermic Approaches to Recovery Critical Metals from Spent Lithium-Ion Batteries – finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca con il bando FISA con un importo di oltre un milione di euro, sotto la guida di Elza Bontempi, docente ordinario di Fondamenti Chimici delle Tecnologie, che con questo progetto universitario intende contribuire in modo significativo alla creazione di una filiera industriale italiana per il riciclo delle batterie agli ioni di litio. Secondo lo studio iniziato nel 2022, il cui metodo è già oggetto di brevetto, il processo di estrazione avviene attraverso la “cottura” all’interno di un forno a microonde che elimina completamente l’uso di acidi inorganici commerciali, limitando le sostanze inquinanti.

    Innovazione

    La batteria green che nasce dagli alberi. L’idea di un giovane colombiano

    di Paolo Travisi

    22 Ottobre 2024

    Il procedimento scoperto sfrutta la radiazione a microonde del forno per riscaldare il materiale, grazie alla presenza di grafite presente nella batteria che assorbe l’energia e genera calore per effetto della polarizzazione dei suoi atomi di carbonio. I vantaggi rispetto ad altri metodi, risiedono principalmente nella velocità del trattamento, che dura appena pochi minuti, che si verifica ad una potenza di radiazione inferiore ai 1000 W, riducendo il consumo energetico di oltre 100 volte rispetto ai trattamenti termici convenzionali e senza additivi chimici aggiuntivi.

    Questo processo, così efficiente che potrebbe addirittura competere con l’estrazione dei metalli dai minerali naturali, contribuirebbe a ridurre la dipendenza dalle miniere e a promuovere il riciclo delle batterie esauste. Entro i prossimi tre anni, l’obiettivo è arrivare ad un impianto prototipale su scala industriale che certifichi la maturità tecnologica e consenta di raggiungere il livello 6 della scala TRL, che valuta il livello raggiunto in ambito industriale, per dare avvio ad un iter di scala. Ed i risultati fino ad ora sembrano essere molto avanzati e “dimostrano che è possibile coniugare innovazione tecnologica e sostenibilità ambientale, e allo stesso tempo contribuire alla creazione di un mercato nazionale per il riciclo delle batterie, attualmente carente in Italia”, spiega Elza Bontempi, responsabile di Caramel. Tra l’altro il progetto dell’Università di Brescia ha ottenuto l’Intellectual Property Award, che ha consentito all’ateneo lombardo di partecipare all’Esposizione Universale di Osaka 2025, in Giappone, all’interno di una giornata dedicata alla valorizzazione dell’eccellenza della ricerca italiana.

    Inoltre, una volta implementato su scala industriale permetterebbe all’Italia, estremamente povera di queste risorse, di essere meno dipendente dalle forniture dall’estero; come stiamo vedendo in queste settimane, le miniere in Ucraina sono proprio il motivo del contendere con gli Stati Uniti per avviare il percorso di pace, perché cedere materie prime così preziose e rare, significa cedere una parte importante di ricchezza di un paese e di potere economico-politico. Non averne, accentua la vulnerabilità del continente europeo. LEGGI TUTTO

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    Rinnovabili, la rotonda che produce energia verde

    Rotonde, rotatorie, rondò, ormai sono ovunque. Le strade dei centri abitati hanno subìto negli ultimi anni profondi cambiamenti nella viabilità, dovuti proprio alla massiccia introduzione di questa soluzione urbanistica, alternativa ai semafori e agli incroci. Un successo dovuto al fatto che, secondo diversi studi, le rotatorie riducono gli incidenti e la loro gravità, soprattutto per le automobili, costrette a rallentare. A detenere il primato al mondo come numero di rotatorie sono Francia (42.986), Regno Unito (25.976) e Italia (18.172). Allora perchè non utilizzare quegli spazi per installare impianti e produrre energia alternativa? LEGGI TUTTO

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    Clima, Trump vuole spegnere il monitoraggio sulle emissioni di gas serra

    Se non lo vedi, non esiste. Questa è l’attuale politica di Donald Trump nei confronti della crisi climatica, quella che ha sempre negato. Per poterla avallare ulteriormente il presidente degli Stati Uniti, insieme al Doge, il Dipartimento per l’efficienza governativa con cui Elon Musk è stato incaricato di tagliare le spese pubbliche “inutili”, sta portando avanti da quasi due mesi la cancellazione e l’oscuramento totale della questione climatica.
    L’ultima mossa – anticipata un mese fa quando all’improvviso alcuni siti della Noaa (la National Oceanic and Atmospheric Administration) finirono offline – è quella di voler cancellare anche i dati sulla CO? globale.

    L’intervista

    Che impatto avrà il riarmo dell’Europa sulle sue politiche climatiche?

    di Luca Fraioli

    15 Marzo 2025

    Come noto le emissioni di gas serra da parte delle attività umane, e insieme a quelle di metano soprattutto quelle dell’anidride carbonica, sono la causa principale del surriscaldamento del Pianeta che nell’ultimo anno ha registrato le temperature medie globali più calde di sempre. Monitorare i livelli di CO? nel mondo significa dunque avere una fotografia precisa di quanto sta accadendo e al contempo ottenere gli strumenti per modelli climatici in grado di aiutare a prevenire, adattare e proteggere, l’umanità intera davanti alle sfide del nuovo clima.

    L’osservatorio Loa nelle Hawaii
    La principale stazione che monitora i valori di CO? da quasi 70 anni nel mondo è quella dell’osservatorio di Mauna Loa nelle Hawaii. Qui, in una avamposto vicino alla cima del vulcano e lontano da fonti inquinanti, vengono costantemente monitorate e rese pubbliche le “parti per milione” (ppm, ndr) di CO?, arrivate negli ultimi tempi al terrificante valore di 427 ppm, fra le più alte di sempre.
    Quei valori sono quelli che ci restituiscono lo stato delle cose, quelli che possiamo osservare anche solo per farci un’idea di come le emissioni climalteranti stanno aumentando: per dire, quando Greta Thunberg iniziò i suoi scioperi per il clima e le successive manifestazione globali di lotta alla crisi del clima, una delle prime cose che scrisse sui suoi profili è che era nata in un periodo in cui nel mondo c’erano 375 ppm di CO? (nel 2003), in modo tale da lanciare un confronto e un segnale dell’aumento costante della concentrazione delle emissioni.

    Se non si vede, non esiste
    Ora Trump e Musk, quei valori gestiti dalla Noaa a Mauna Loa, vogliono oscurarli. Se non sono più quotidianamente visibili, evidentemente non esistono e non sono più un problema per chi come l’amministrazione Usa sta smantellando ogni tipo di politica climatica. Oltre all’uscita dagli Accordi di Parigi, quelli per limitare il surriscaldamento globale entro gli 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, il tycoon ha già fatto rimuovere dal sito della Casa Bianca e da ogni agenzia federale le parole e i riferimenti alla crisi del clima. Ha poi effettuato centinaia di migliaia di licenziamenti che riguardano scienziati, ricercatori,forestali e difensori del clima e dell’ambiente in ogni settore pubblico degli Stati Uniti.

    I dati

    Inquinamento atmosferico, solo 7 Paesi al mondo sotto il livello di guardia dell’Oms

    di Luca Fraioli

    11 Marzo 2025

    Mentre adesso si prepara a cancellare ogni politica di riduzione delle emissioni climalteranti impostata in precedenza da Joe Biden, in modo da poter agevolare senza freni il suo “drill, baby, drill”, l’idea di trivellare ovunque per ottenere petrolio e gas e riportare in auge l’uso dei combustibili fossili affossando contemporaneamente le rinnovabili, a breve Trump e Musk intendono infatti anche chiudere e smantellare l’ufficio di Hilo della Noaa a Mauna Loa che è quello relativo proprio al monitoraggio delle emessioni di gas serra.
    La scusa per poterlo chiudere definitivamente è una questione di affitto: costa troppo (si stima intorno ai 160 mila dollari l’anno) e di conseguenza, in ottica dei tagli DOGE, vale la pena serrarlo.
    La reazione degli scienziati
    Il problema è che da quell’ufficio da decenni escono i principali indicatori sul cambiamento climatico causato dall’uomo che servono agli scienziati di tutto il mondo per sviluppare modelli e fornire informazioni cruciali per salvare la vita delle persone davanti per esempio all’intensificazione degli eventi meteo estremi.
    Valori che vengono usati in ogni parte del globo tant’è che anche esperti italiani – come la presidente dell’Italian Climate Network la fisica Serene Giacomin oppure il ricercatore e meteorologo del CNR-Lamma Giulio Betti di recente hanno denunciato la pericolosità legata al potenziale taglio di questi uffici. Lo stesso Betti sui social, denunciando una situazione “peggio degli struzzi”, di chi davvero nasconde la testa per non vedere, suggerisce di ricordarsi il numero delle attuali ppm, 427, perchè “non sappiamo ancora per quanto i rilievi verranno fatti”.

    Altre strutture a rischio
    In generale l’ufficio con sede a Hilo dell’Osservatorio di Mauna Loa è una delle 34 strutture della National Oceanic and Atmospheric Administration che potrebbero essere presto chiuse: in questo luogo particolare per l’aria rarefatta e la posizione remota nell’Oceano Pacifico, lontana da città inquinante,fin dagli anni Cinquanta vengono rilevati i dati climatici più importanti per comprendere la salute della Terra ed è facile ipotizzare i danni derivanti da una eventuale smantellamento dell’ufficio che seguirà in ordine di tempo quelli già avvenuti per esempio nelle sedi centrali Noaa e in quelle dell’Epa, l’Agenzia di protezione ambientale dove, così come al Forest Service, sono già stati licenziati migliaia di dipendenti.

    Le difficoltà in cui stanno lavorando gli scienziati
    Sempre da Mauna Loa, va ricordato, sono iniziate le raccolte di dati da parte di Charles Keeling, lo scienziato che studiando i modelli di anidride carbonica ha coniato la famosa “curva di Keeling”, quella che ci fornisce l’andamento della crescita dei livelli di anidride carbonica, passate appunto da 315 ppm ai temi di Keeling negli anni Sessanta alle attuali e pericolose oltre 420.
    Già oggi, raccontano gli scienziati ai media statunitensi e britannici, operare nelle scienze del clima, quelle che dovrebbero – così come il Noaa – aiutarci a prepararci agli impatti futuri del surriscaldamento per esempio osservando i dati atmosferici e soprattutto quelli degli oceani tragicamente sempre più bollenti, negli Usa sta diventando un’impresa.
    “Sarebbe terribile se questo ufficio fosse chiuso – ha spiegato per esempio lo scienziato atmosferico Marc Alessi dell’Union of Concerned Scientists – perché non solo fornisce la misurazione della CO? di cui abbiamo così disperatamente bisogno per tracciare il cambiamento climatico, ma informa anche le simulazioni dei modelli climatici utili in tutto il mondo per proteggerci”. LEGGI TUTTO