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    Più detriti spaziali, più collisioni con l’aumento delle emissioni

    I detriti che orbitano intorno alla nostra terra sono un grosso problema in termini di inquinamento spaziale e sicurezza e la loro presenza mette a rischio molte delle nostre attività extraterrestri col pericolo delle collisioni. E la questione in futuro potrebbe diventare sempre più cocente per colpa delle emissioni di gas serra. Questo è quanto racconta oggi un team di ricercatori del MIT di Boston e della University of Birmingham dalle pagine di Nature sustainability.

    Spazio

    Il detrito spaziale caduto in Kenya e il problema dell’inquinamento delle orbite

    di Matteo Marini

    05 Gennaio 2025

    Lo studio di William Parker e colleghi, da tempo impegnati a comprendere le ripercussioni dei gas serra sul traffico di satelliti e detriti spaziali, stavolta mirava a stimare gli effetti delle emissioni in diversi scenari climatici: da quelli più ottimistici a quelli più drammatici (nel dettaglio SSP1–2.6, SSP2–4.5 and SSP5–8.5, corrispondenti a basse, intermedie e alte emissioni). Questi diversi scenari climatici inducono infatti dei cambiamenti profondi nell’atmosfera e diversi a seconda delle diverse zone. Se nelle vicinanze della superficie terrestre l’aumento dell’anidride carbonica ha come effetto principale l’innalzarsi delle temperature, negli strati più elevati – dove la densità è minore e la dissipazione del calore maggiore, spiegano dalla Nasa – l’effetto è quello di un raffreddamento. E raffreddandosi l’atmosfera si contrae, così che, scrivono Parker e colleghi, la densità ad altitudini più elevate diminuisce.
    Ed è qui che entriamo nel merito dello studio: quando la densità diminuisce, diminuisce anche la resistenza sperimentata dai satelliti e detriti, e questo è un problema: “La diminuzione della densità riduce la resistenza sugli oggetti detritici e ne prolunga la durata in orbita, ponendo un rischio di collisione persistente con altri satelliti e rischiando la generazione a cascata di altri detriti”, scrivono Parker e colleghi. Di fatto dunque, all’aumentare delle emissioni potrebbe diventare sempre più rischioso spedire satelliti in orbita. Secondo le stime dei ricercatori rischiamo una contrazione nella capacità della bassa orbita terrestre di ospitare satelliti tanto maggiore quanto peggiori saranno gli scenari climatici, e in corrispondenza dei minimi solari. Perché anche l’attività solare può influenzare la contrazione dell’atmosfera. Nello specifico, per lo scenario peggiore, ad emissioni molto elevate, di qui al 2100 rischiamo una riduzione di questa capacità del 66% scrivono i ricercatori. Questo per un’altezza compresa tra i 200 e i 1000 km dalla superficie terrestre. Restringendo l’analisi alla fascia compresa tra i 400 e 1000 km la capacità potrebbe ridursi anche dell’82%.

    Tecnologia

    Ecosmic, la startup che salva lo spazio dall’inquinamento evitando le collisioni

    16 Settembre 2024

    Cosa possiamo fare? Se vogliamo continuare a spedire satelliti in orbita in questo spazio, abbiamo diverse strade. Non certo approfittare del periodo meno rischioso (ai massimi solari), perché la durata di vita della maggior parte dei satelliti è superiore a quella di un ciclo solare, spiegano gli esperti. Potremmo fare altro magari: migliorare le attività di tracciamento di satelliti e detriti, condurre manovre per evitare collisioni o rimuovere attivamenti i detriti, e ancora coordinare meglio i calendari delle spedizioni, scrivono i ricercatori. Ma “a differenza di questi interventi convenzionali, le riduzioni delle emissioni di gas serra mitigano la perdita di capacità all’origine, perché hanno un impatto diretto sulla resistenza satellitare in tutta la bassa orbita terrestre”, aggiungono infine Parker e colleghi. Come a dire, più che aspettare che sia troppo tardi e (più) difficile, meglio agire prima. LEGGI TUTTO

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    “Fissione nucleare impraticabile e costosa. Un’Italia 100% rinnovabile è possibile”

    Sì all’eolico. No al nucleare. Anzi, di più: il potenziale eolico italiano basterebbe a far fronte al forte fabbisogno della decarbonizzazione, se integrato con una forte crescita del solare a terra. Mentre invece l’energia atomica è una tecnologia ormai in declino, nonostante gli annunci di ripartenza, anche nel nostro Paese. Sono questi i contenuti principali del rapporto Elementi per un’Italia 100% rinnovabile presentato oggi dal Network 100% Rinnovabili, che raccoglie esponenti di decine di università e centri di ricerca, del mondo delle imprese, del sindacato e del terzo settore, oltre a Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Greenpeace Italia, Kyoto Club, Legambiente e WWF Italia.

    Il rapporto risponde, tra le altre, a una delle perplessità più ricorrenti quando si parla di energie rinnovabili: sole e vento sono incostanti, non garantiscono continuità nell’approvvigionamento di elettricità. Ebbene gli autori, citando studi scientifici, sottolineano come la soluzione risieda nella “sinergia stagionale della fonte solare con quella eolica. L’integrazione eolico-solare permette un profilo di generazione medio mensile dimensionabile sulla domanda attesa, riducendo così al minimo l’accumulo stagionale, inerentemente più costoso”. Questa sinergia eolico-solare rende non necessario il ricorso alla fonte nucleare per il suo supposto vantaggio di garantire la continuità della produzione”.

    Energia

    Da Microsoft a Sam Altman: Helion Energy promette energia da fusione nucleare entro il 2028

    di Gabriella Rocco

    12 Febbraio 2025

    Dopodiché, gli esperti del Network fanno notare come il potenziale tecnico-economico dell’eolico a terra nel nostro Paese sia più che sufficiente per il riequilibrio stagionale della fonte solare, “che sarà prevedibilmente la fonte dominante in Italia”. E le stime che sostengono il contrario? “Si basano su stime obsolete perché non considerano i progressi avvenuti negli ultimi due decenni: a cominciare dalle turbine a bassa potenza specifica, adatte ai regimi di vento medi, ovvero le condizioni più diffuse in Italia”.

    Energia

    Gli ambientalisti bocciano il ddl sul nucleare: “Decisione antistorica e ideologica”

    di Marco Angelillo

    28 Febbraio 2025

    Altro tema di dibattito: solare ed eolico a terra rappresentano un consumo di suolo, che incide sul paesaggio e sottrae terreni all’agricoltura. Il Network 100% rinnovabili replica che non si tratta di “consumo” ma di “uso” e che “le quantità di suolo necessarie per l’eolico e il solare sono contenute, meno dell’1% della superficie nazionale”. Inoltre “gli usi del suolo di eolico e solare sono integrabili rispetto ad altri usi come l’agricoltura e il pascolo senza una apprezzabile diminuzione di queste attività”. E soprattutto: “nelle aree interne e nel Mezzogiorno esistono vasti territori ad utilizzo marginale che da soli sarebbero sovrabbondanti rispetto alle limitate superfici richieste da solare ed eolico”.

    Il rapporto viene pubblicato nell’anniversario dell’incidente nucleare di Fukushima (11 marzo del 2011). E i promotori colgono l’occasione per ribadire il loro no al ritorno delle centrali nucleari in Italia, piccole o grandi che siano. Nel farlo ricordano la cinque questioni che, dal loro punto di vista, rendono obsoleta la fissione nucleare per la produzione di energia. Nel 2022 “il nucleare è sceso al 9,2% della produzione elettrica mondiale” (dopo aver toccato un picco del 17% nei decenni precedenti). I “costi elevati e i tempi di costruzione lunghissimi”. La fissione “genera isotopi altamente radioattivi, con tempi di dimezzamento della radioattività che, per il plutonio, arrivano a 24 mila anni”: quindi scorie e rifiuti nucleari pericolosi, difficili e costosi da gestire. Infine, “l’Italia non dispone né di uranio né di impianti di arricchimento e produzione del combustibile nucleare che è costoso e andrebbe importato, probabilmente dalla Russia che detiene il 38% della capacità globale di conversione dell’uranio e il 46% della capacità di arricchimento”. LEGGI TUTTO

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    Inquinamento atmosferico, solo 7 Paesi al mondo sotto il livello di guardia dell’Oms

    Tira una brutta aria in quasi tutte le città del mondo. Solo nel 17% delle metropoli sono soddisfatte le linee guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità per quanto riguarda la concentrazione media annuale di PM2,5, che non dovrebbe superare i 5 microgrammi per metro cubo. Ma in alcune capitali tale limite viene più che oltrepassato: di ben 18 volte a Nuova Delhi, altrettanto a N’Djamena, Ciad, quasi 16 volte a Dacca, in Bangladesh. A livello nazionale sono proprio il Ciad, il Bangladesh, il Pakistan, la Repubblica Democratica del Congo e l’India a guidare la classifica dell’aria più sporca.

    Ma sui 138 Paesi monitorati, sono 126 (il 91,3%) quelli che non rispettano le raccomandazioni dell’Oms. Gli unici sette Paesi i cui livelli di PM2,5 sono sotto il livello di guardia, si trovano tutti ai confini del mondo: Australia, Bahamas, Barbados, Estonia, Grenada, Islanda, e Nuova Zelanda.

    Se si escludono le capitali, il titolo di città con la peggior qualità dell’aria spetta a Byrnihat, in India, con una concentrazione annuale di PM2,5 di 128,2 microcrogrammi per metro cubo. Negli Stati Uniti, i cieli sono più sporchi a Los Angeles, mentre Seattle ha l’aria più pulita tra le grandi aree metropolitane. Tutto questo, e molto altro, è contenuto nel rapporto World Air Quality Report 2024, che si concentra appunto sulla presenza in aria di PM2,5, particelle del diametro pari a 2,5 milionesimi di metro: sono uno dei sei principali inquinanti atmosferici riconosciuti e monitorati a livello globale, per i loro effetti negativi sulla salute umana.

    Le principali fonti antropiche di PM2,5 includono i motori a combustione, la produzione di energia, le attività industriali, la combustione di raccolti e pratiche agricole e la combustione di legna e carbone.

    Il report, alla settima edizione, è considerato uno dei più completi a livello globale, anche se realizzato da una compagnia privata, la svizzera IQAir, specializzata in sistemi di purificazione dell’aria. Il colosso elvetico riesce infatti a elaborare i dati raccolti da oltre 40.000 stazioni di monitoraggio della qualità dell’aria e sensori a basso costo in tutto il mondo. Si tratta di dispositivi gestiti da istituti di ricerca e agenzie governative, ma anche scuole, università, organizzazioni non profit, aziende private e privati cittadini.

    Il World Air Quality Report 2024 include dati provenienti da a 8.954 città in 138 Paesi, regioni e territori. Rispetto alle edizioni precedenti, la copertura si è ampliata in Africa per includere Ciad, Gibuti e Mozambico. Assenti invece Iran, Afghanistan e Burkina Faso (classificato al 5° posto tra i Paesi più inquinati nel 2023) a causa della mancanza di disponibilità di dati.

    A scavare nei dati, si trova anche una buona notizia: il 17% di città che rispetta il limite annuale di PM2.5 raccomandato dall’Oms, rappresenta un notevole progresso rispetto al 9% del 2023. “Tuttavia”, scrivono gli autori del rapporto, “c’è ancora molto lavoro da fare per proteggere la salute umana, in particolare quella dei bambini, dall’inquinamento atmosferico”.

    E l’Italia? Benino in uno scenario globale, male se confrontata con i Paesi europei analoghi per dimensioni ed economia. Nella classifica delle nazioni con l’aria più sporca, il nostro Paese si colloca all’80esimo posto, staccata da Germania (103), Spagna (107), Francia (110), Regno Unito (113). Roma occupa l’85esima posizione tra le capitali, con 10,1 microgrammi per metro cubo di PM2,5, contro la 100esima di Londra (7,8 microgrammi per metro cubo).
    A livello europeo, l’aria peggiore si respira in Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord e Serbia. L’Italia è undicesima. Tra i capoluoghi regionali, il più inquinato risulta essere Cagliari con una concentrazione annuale di PM2,5 pari a 27,9 microgrammi per metro cubo. E però nella Sardegna meridionale c’è anche la cittadina italiana con l’aria più pulita: si tratta di Portoscuso, che con 3,2 microgrammi per metro cubo di PM2,5 si colloca al tredicesimo posto tra le piccole realtà più virtuose d’Europa. LEGGI TUTTO

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    Lonicera (caprifoglio): la coltivazione e la cura

    La lonicera è una pianta appartenente alla famiglia delle caprifoliacee e ha origini riconducibili a diversi continenti: infatti, la si può trovare in Nord-Africa, in America, ma anche Eurasia. A seconda della specie che si seleziona si ha a che fare con una pianta a diverso portamento. Diamo uno sguardo alla cura migliore per la coltivazione delle diverse varietà di lonicera.

    La coltivazione e la cura della lonicera
    La lonicera o caprifoglio è una pianta davvero particolare: infatti, è possibile trovare in natura diverse varietà che si presentano in modo differente. Alcune hanno un portamento cespuglioso, mentre altre sono più erette; non mancano poi quelle che hanno un portamento rampicante o più simile a una liana. Negli anni, poi, sono stati coltivati diversi esemplari ibridi, sempreverdi o caducifoglia. Ad ogni modo, si tratta di una pianta che può arrivare a vivere davvero molto a lungo, con cicli vegetativi di pochi anni in cui la pianta secca quasi del tutto. Ma i polloni che si generano alla base della pianta fanno in modo che la stessa non muoia del tutto, ma riprende per l’appunto un nuovo ciclo vitale. A seconda della pianta, è possibile osservare esemplari di altezza differente: alcune piante possono raggiungere anche i 7 metri di altezza con i loro rami. Le foglie della lonicera sono persistenti, semi-persistenti oppure caduche e si presentano disposte sul fusto 2 a 2. La loro dimensione, invece, è compresa tra 1 e 10 cm. Per quanto riguarda i fiori, di forma tubolare, sono profumati ed è possibile percepire la stessa profumazione anche attraverso i rami spezzati. Possono essere di diverso colore, dal bianco crema fino al giallo, con tanto di sfumature rosa e rosse.

    La temperatura migliore per far crescere la lonicera è compresa tra i 10°C e i 27°C; può tollerare fino i 35°C durante la stagione calda e -10°C in inverno. Proprio per questo, si considera una pianta rustica o semi-rustica che è in grado di vivere anche in quelle aree dove il clima è più rigido. Inoltre, è una pianta che tollera la crescita nelle aree costiere, dove è presente salsedine e forte vento. Oltre ad essere una pianta suggerita per la coltivazione in giardino, il caprifoglio è ideale anche per la cura in vaso.

    Le varietà
    La lonicera è una pianta che si può acquistare presso i vivai in Italia, selezionando tra le diverse varietà disponibili in commercio. Per facilitare la scelta e capire come prendersene cura, abbiamo elencato quelle che si trovano con maggiore frequenza con alcune delle caratteristiche:
    · Lonicera nitida: è un piccolo arbusto pensato per tappezzare anche le aree in pendio ed è considerato una sempreverde. Ha foglie piccole di colore verde scuro e con la primavera spuntano piccoli fiori di colore crema e, poi, bacche di colore scuro.
    · Lonicera fragrantissima: questo arbusto con foglie ovali di colore verde scuro è di origine cinese ed è conosciuto soprattutto per la sua splendida fioritura profumata. Infatti, a fine inverno compaiono fiori tubulari di colore bianco-crema dal profumo intenso.
    · Lonicera maigrun: si tratta di un sempreverde con portamento prostrato, con foglie verde chiaro di forma ovale.
    · Lonicera henryi: è una pianta a portamento rampicante con fiori dal tocco esotico che attirano molto le farfalle. Ama essere sistemato in aree a mezz’ombra.
    · Lonicera japonica halliana: questo esemplare, ideale come siepe nelle zone mediterranee, si presenta a portamento rampicante ed è un sempreverde/semi-sempreverde con foglie di colore verde scuro. In primavera e durante l’estate è possibile ammirare la fioritura con fiori di forma tubolare, profumati e di colore bianco e giallo. Dopo i fiori fanno la loro comparsa dei frutti sferici di colore blu.
    · Lonicera kamtschatica: viene detta anche mirtillo siberiano, ed è un arbusto di medie dimensioni che si presenta con fiori bianco-giallo e frutti allungati di colore blu scuro e dal gusto che ricorda un mix tra mirtillo, kiwi e lampone.
    · Lonicera alpigena: detto anche camecèraso, il caprifoglio alpino è una pianta a cespuglio che può raggiungere i 4 metri d’altezza ed è caratterizzata da foglie verde brillante. I fiori bianchi con il passare del tempo tendono a diventare gialli, con sfumature rosse.
    · Lonicera xylosteum: detto caprifoglio peloso, si presenta come un arbusto a portamento eretto con foglie di forma opposte ellittiche. I fiori da bianchi tendono al giallo in seguito all’impollinazione e poi compaiono bacche rosse velenose.
    · Lonicera serotina: è un arbusto rampicante che si presenta con una tarda fioritura estiva, caratterizzata da fiori di forma tubolare, molto profumati. I fiori sono di bianco crema con sfumature rosso scuro che possono raggiungere i 5 cm.

    Qual è il terreno migliore per la pianta?
    Questi arbusti rustici apprezzano soprattutto i terreni ricchi, sciolti e ben drenati. Va comunque detto che possono vivere anche in quelli di tipo argilloso che, di solito, sono meno asciutti rispetto ai primi.

    Le annaffiature della lonicera
    Per quanto riguarda l’irrigazione della lonicera, invece, è necessario tenere presente che gradisce la regolarità. Quindi, la terra non deve essere mai troppo secca. Nel caso in cui si verificassero lunghi periodi di siccità, riesce comunque a gestire la fase priva di acqua prendendola solo dalle precipitazioni piovane. Nel caso in cui si volesse ridurre le annaffiature è possibile farlo creando uno strato di pacciamatura a base di corteccia: in questo modo, la pianta potrà avere il terreno umido in seguito alle irrigazioni irregolari.

    La concimazione
    La concimazione di questo arbusto si può effettuare in diversi modi. Per esempio, si può scegliere di effettuare per gli esemplari in vaso dei cicli di fertilizzante per piante con fiori. In questo caso, è preferibile utilizzare il fertilizzante liquido da diluire con l’acqua di irrigazione. Sarà da aggiungere il fertilizzante ogni 2 settimane, tra il periodo di marzo e ottobre. Se si coltiva la pianta in giardino, si può optare per il fertilizzante granulare a lenta cessione suggerito per piante da fiore. Il periodo utile per occuparsi in giardino della concimazione è all’inizio dell’autunno, della primavera e dell’estate.

    Come ottenere una talea?
    Per moltiplicare questa pianta è possibile sfruttare le talee. In pratica, è necessario usare una parte legnosa/semi-legnosa dell’arbusto per ottenere dei piccoli tranci dove sono presenti circa 3 nodi. Si lasciano solo le foglie poste nella zona alta del rametto, mentre tutte le altre devono essere rimosse. A questo punto, si possono sistemare in piccoli vasetti con la terra ben drenante: quando avranno sviluppato l’apparato radicale, nuove foglioline e rametti saranno pronte per il trapianto vero e proprio in piena terra oppure in vaso.

    Il rinvaso e la potatura
    Questa pianta non richiede un rinvaso frequente, ma va tenuto presente che quando lo si fa, bisogna annaffiare in maniera frequente. In primavera, basterà controllare dal vaso se le radici sono in difficoltà e, dopodiché, selezionare un contenitore più grande per accogliere la pianta al meglio prendendosene cura nel modo corretto. Per la potatura del caprifoglio si può intervenire per regolare la forma della pianta. Con il sopraggiungere della primavera, è possibile potare i rami più vecchi e quelli laterali, lasciandoli al massimo di una lunghezza di 15 cm. Anche dopo la fioritura si può proseguire con il taglio della lunghezza dei tralci, così da offrire nuovo slancio per lo sviluppo della pianta.

    Le più comuni malattie e i parassiti in cui può incorrere
    La lonicera o caprifoglio è considerata una pianta rustica abbastanza resistente ai parassiti e malattie, ma può comunque incorrere in alcuni problemi se non trova le condizioni migliori per la crescita. Per esempio, può ammalarsi e mostrare segni di ruggine o di muffa grigia. Inoltre, tra i parassiti che la possono colpire, proprio come per tante altre piante, vi è la cocciniglia. LEGGI TUTTO

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    Dove nasce il cacao sostenibile e come si assaggia

    Per ogni barretta di cioccolato che rende quel momento della nostra vita più felice, contribuiamo – probabilmente senza saperlo – alla deforestazione di luoghi del nostro pianeta in cui la produzione di cacao è una parte rilevante dell’economia. Costa d’Avorio e Ghana sono i maggiori produttori che insieme realizzano circa il 55% del cacao del mondo, a cui si aggiungono Indonesia e Brasile.Proprio in questi paesi, le piantagioni di cacao stanno sostituendosi alle foreste pluviali autoctone dove crescono, perché molti agricoltori abbattono foreste per far spazio a nuove coltivazioni, causando una riduzione della capacità delle foreste stesse di assorbire anidride carbonica, quindi alterando gli ecosistemi locali. A confermarci quanto sta accadendo, Julian Ramirez, direttore del Climate Action di Alliance Bioversity e l’International Center for Tropical Agriculture (CIAT) – organizzazione che unisce le competenze dei suoi ricercatori ed esperti per affrontare le sfide globali legate all’agricoltura, alla biodiversità e alla sicurezza alimentare – durante la nostra visita al Cacao Lab di Roma.

    “Il cacao nasce nelle foreste del Sudamerica, ha bisogno di quel clima per crescere, ma il cambiamento climatico sta alterando le condizioni e stanno diminuendo le aree dove produrlo, si stima circa il 20% in meno. Costa d’avorio e Ghana hanno alti livelli di deforestazione, che a sua volta ha un impatto importante sul cambiamento climatico, per questo dobbiamo fermare la deforestazione e lavorare col settore privato” ci racconta Ramirez, illustrandoci la difficile situazione globale. Anzi glocale.

    Il centro di ricerca Cacao Lab, è il quartier generale a cui fanno riferimento gli altri tre hub dislocati a Nairobi in Africa, a Cali in Colombia ed infine in Malesia, ma i ricercatori sono sparsi ovunque nel mondo, per sensibilizzare i coltivatori di cacao ad una produzione sostenibile per l’ambiente, economicamente giusta e conveniente per loro. Produrre un cacao puro, rispettando la biodiversità può essere anche parte della soluzione per far uscire da una situazione economica critica e difficile, chi investe in questo tipo di coltivazione. Dal 2009 Alliance of Bioversity e CIAT hanno organizzato Cacao of Excellence, una piattaforma di ricerca che identifica e premia i produttori di cacao eccellenti, con un’attenzione particolare alla qualità superiore del cacao e alla varietà dei sapori, con l’obiettivo di promuovere sistemi agricoli resilienti, preservando le biodiversità e sostenendo le economie locali.

    “Qui nella sede romana di Cacao Lab provengono le fave di cacao provenienti da 55 siti nel mondo, da 255 farmers ed un comitato tecnico di 14 assaggiatori professionisti valuta, senza conoscere le origini, le migliori 50 qualità di cacao, a cui ogni due anni viene assegnato un premio internazionale”, ci spiega Sebastian Escobar Parra, proveniente da una famiglia di agricoltori della Colombia che oggi è un esperto di qualità al Cacao Lab di Alliance Bioversity e CIAT, che supportano ognuno dei 55 paesi di origine del cacao per organizzare competizioni locali tra farmers e spingerli a partecipare, in modo che se producono un cacao sempre migliore, possono avere accesso a prezzi di mercato migliori. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, l’installatore di fotovoltaico: “L’energia pulita la faccio partire dal tetto di casa”

    “Agli inizi del 2000 c’era una piccola società, composta da un gruppo di ingegneri del torinese, che andava a installare pannelli fotovoltaici per i pozzi d’acqua in Africa. A me e il mio socio sembrò affascinante, e quella curiosità si è trasformata prima in sperimentazione e poi in attività professionale”, così racconta dei suoi esordi nel fotovoltaico Giorgio Giacone (classe 1960) della Giacone e Rainero Srl di Canale, in provincia di Cuneo. La sua è una delle tantissime società che in Italia ha contribuito all’installazione degli impianti per villette singole, condomini, imprese e capannoni. “Però sgombriamo il campo da fraintendimenti: al netto di qualche eccezione il settore è sempre stato alimentato dagli incentivi e quindi adesso con la fine del Superbonus 110% siamo in una fase un po’ stagnante”. Il riferimento è a un sistema che da una parte ha sempre consentito l’autoconsumo, e quindi un risparmio sulla bolletta, e di ottenere un contributo in base alla produzione.

    L’editoriale

    Lavoro, quante balle sulla green economy

    di Federico Ferrazza

    05 Marzo 2025

    “Poi è vero che i prezzi degli impianti di quasi venti anni fa erano tre volte superiori rispetto a quelli attuali, ma il tempo di ammortamento rimane di 7-8 anni. Prima però, raggiunta la soglia, si iniziava a guadagnare seriamente, ora meno”, aggiunge Giacone. La storia del fotovoltaico è legata anche alla dismissione dei tetti in Eternit: chi poteva approfittare degli incentivi per mettere pannelli e rifare le coperture dei capannoni l’ha fatto. “La differenza tra la fase pioniera e questa è che bisognava montare sette metri quadrati di pannelli per un solo kW, oggi basta la metà dello spazio per ottenere la stessa potenza. E poi i pannelli di oggi sono di maggiore qualità e il monocristallino è più efficiente. Anche se comunque una giornata nuvolosa, con pioggia o nebbia rimane poco produttiva”, ricorda l’esperto. Giacone sottolinea che nel tempo è migliorata la qualità dei componenti e di conseguenza l’affidabilità. Fermo restando il fatto che la condizione ideale di massima efficienza sarebbe quella di “avere l’esposizione del sole dell’equatore con la temperatura della Finlandia”. Il motivo si deve al fatto che le alte temperature – come quelle in Italia d’estate – riducono la resa fino al 25%. “Noi abbiamo una storia che è iniziata esattamente 41 anni fa. Oggi siamo una trentina e ci occupiamo di installazioni elettriche, elettroniche per la sicurezza, antincendio. Il fotovoltaico ha avuto periodi dove montavamo più impianti al giorno, adesso meno di uno alla settimana”, racconta Giacone.

    DOSSIER Lavori green

    Passione e opportunità. Sono state queste le molle che hanno fatto scattare tanti anni fa in un giovane canalese, con le qualifiche professionali per apparecchiature elettriche ed elettroniche, la voglia di puntare sul fotovoltaico. “Io ho sempre creduto nell’energia green e poi è cresciuta la domanda ed è andata bene”. Oggi per chi vuole iniziare ci sono diverse possibilità. La prima è quella di occuparsi esclusivamente, e con minima formazione, dell’installazione dei pannelli. La seconda è quella di presidiare altre fasi chiave. Infatti ogni impianto ha bisogno di un progetto realizzato da un ingegnere elettrotecnico o un perito elettrotecnico abilitato. E dopo il montaggio ci vuole una dichiarazione di conformità eseguita da uno specialista con patentino FER – un’abilitazione che richiede requisiti tecnici professionali e la frequentazione di corsi specifici. “Difficile avere problemi; stiamo parlando di una tecnologia matura che funziona”.

    E per le batterie di accumulo che consentono di immagazzinare energia per poi impiegarla in altri momenti? “Finché c’era il Superbonus venivano acquistate, poi a causa del prezzo alto gli ordini sono calati. Ora qualcosa si muove con il bando Agrisolare e Transizione 5.0”. Un impianto con batterie praticamente costa il doppio. In teoria un fotovoltaico da 3 kW ha bisogno di una batteria da 9 kW, ma la sua saturazione e massima efficienza è possibile solo in brevi periodi durante l’anno. La prospettiva del prossimo futuro è di avere impianti fotovoltaici con componenti sempre più connessi, con migliore gestione, riduzione dei pesi e superfici. “Ma quello che fa la differenza è l’esperienza sul campo. La casistica. E certamente anche la certificazione FER obbligatoria. Abbiamo visto cose negli anni che voi umani… Quindi sconsiglierei vivamente di fare da soli o affidarsi a tecnici improvvisati non professionisti”, avvisa Giacone. LEGGI TUTTO

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    Dal 2000 ad oggi gli Stati Uniti hanno perso un quinto delle loro farfalle

    Qualcuno salvi le farfalle. Le loro popolazioni sono sempre più a rischio a causa della perdita progressiva degli habitat, degli effetti dei pesticidi e del cambiamento climatico. E l’ultimo allarme arriva dagli Stati Uniti, dove una specie su tre ha registrato un grave declino negli ultimi venti anni, con una complessiva riduzione di oltre un quinto delle popolazioni.La “fotografia” arriva da una ricerca della Binghamton University di New York, i cui esiti – appena pubblicati sulla rivista Science – lasciano in dote l’urgenza dell’adozione di nuove misure di conservazione.

    In particolare, 20 specie sarebbero protagoniste di un declino particolarmente rapido: tra queste la Danaus eresimus, comunemente detta farfalla soldato, e la Julia’s Skipper (Nastra julia il nome scientifico), che nel periodo preso in esame – compreso tra il 2000 e il 2020 – ha perso oltre il 90% delle sue popolazioni. Né sembra andare meglio alla West Virginia White (Pieris virginiensis il nome scientifico), delicate ali traslucide dalla colorazione biancastra, leggero accenno di venature: popola, o meglio popolava, le aree boschive. Dove la sua presenza è diminuita del 98%.

    Biodiversità

    La pianta dalla doppia fioritura che resiste al caldo

    di Fabio Marzano

    04 Marzo 2025

    I ricercatori hanno esaminato 12,6 milioni di avvistamenti di farfalle nell’ambito di 76.000 indagini divise in 35 differenti programmi di monitoraggio, alcuni dei quali legati a programmi di citizen science. Grazie anche all’utilizzo di modelli statistici, hanno così stimato le tendenze in atto per 342 specie differenti: il 33% ha mostrato un declino significativo, le popolazioni di 107 specie sono diminuite di oltre il 50%.“Risultati in linea con le tendenze globali, ma avere conferma dell’entità del declino delle popolazioni in un’area così ampia è stato sconfortante”, commenta Eliza Grames, professoressa associata di Scienze biologiche alla Binghamton University.

    Una vera e propria Caporetto che coinvolge anche la Lycaena hermes e la sgargiante Eurema proterpia, color arancione: rischiano di diventare introvabili, o quasi. E con loro Vanessa annabella, che in America è conosciuta come West Coast lady: un tempo era una comune farfalla da cortile, oggi è diminuita dell’80%. “Una storia ancor più allarmante, la sua, perché suggerisce che anche le farfalle comuni non sono al sicuro”, annota Grames.

    Biodiversità

    Pochi fondi per la conservazione degli animali “brutti”

    di Sara Carmignani

    28 Febbraio 2025

    Pochi i dubbi sulle cause comuni del declino, così come sulle conseguenze per la salute degli ecosistemi, che dal ruolo centrale delle farfalle dipendono, eccome: la scomparsa, più meno graduale, di impollinatori cruciali avrebbe ricadute negative sulla produzione alimentare e sull’equilibrio degli ecosistemi, con effetti a cascata sulle altre specie.

    La ricerca evidenzia, peraltro, le aree più colpite dal fenomeno: quella più toccata è la zona del sud-ovest degli Stati Uniti, tra le regioni più calde e secche. Anche per questo l’indice dei ricercatori è puntato sulla siccità, tra le concause principali del declino delle popolazioni di farfalle, anche perché – annota Grames – “rappresenta una doppia minaccia, danneggiando direttamente le farfalle e colpendo anche il loro cibo e le piante ospiti”.

    E ora? I risultati dello studio suggeriscono, come evidenziato dai ricercatori “importanti sforzi di conservazione, in particolare dando priorità alle specie già segnalate dall’Iucn e dall’Endangered Species Act. Ma non tutto è perduto, nonostante le evidenze. “Già, le farfalle possono riprendersi rapidamente perché hanno tempi di generazione brevi. – prosegue Grames – Anche piccole azioni, come piantare fiori selvatici, ridurre l’uso di pesticidi o persino lasciare una parte di un cortile non falciato, possono migliorare significativamente le loro chances di sopravvivenza. Il tutto – conclude – in attesa naturalmente di strategie di conservazioni concrete da parte dei decisori politici”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, l’avvocato che difende l’ambiente: “Tante battaglie per il bene di tutti”

    Per natura, difensore della natura. Angelo Calzone è cresciuto negli anni Settanta immerso nelle campagne calabresi. Da piccolo si è riempito gli occhi di verde e i polmoni del mare poco distante dalla sua Ionadi, piccolo comune in provincia di Vibo Valentia: respiro dopo respiro si è innamorato talmente tanto dell’ambiente che da grande ha scelto di usare ogni strumento in suo possesso, soprattutto quelli offerti dalla legge, per difendere ciò che amava. La sua è la storia di un avvocato che ha dedicato una vita alla tutela dell’ambiente, trasformando la sua carriera da civilista in quella di legale specializzato in reati ambientali.

    “Ho iniziato questo cammino per un amore viscerale della natura. Volevo dare un contributo e ho pensato di poterlo fare attraverso lo studio della legge perché, come ricorda Fulco Pratesi, salva più natura un avvocato che dieci naturalisti”. Dopo il praticantato e le prime esperienze in tribunale decide di specializzarsi nelle leggi ambientali. “Sono andato a Roma a studiare, poi ho fatto un corso a Reggio Calabria con i migliori avvocati che allora si occupavano di ambiente e da lì non ho mai smesso di aggiornarmi”.

    Non solo una scelta di amore, ma anche “di professione” spiega Calzone, perché “mentre facevo il volontario del WWF ho iniziato a comprendere come servissero esperti di legge in questo settore, quello dei diritti ambientali, un filone che poteva essere un campo con potenziali sviluppi futuri”.

    Ci vede lungo: “Oggi è una professione che sta crescendo, siamo sempre di più i legali che si impegnano nelle battaglie ambientali. In questo lavoro siamo impegnati sia a difendere, sia ad essere di ausilio, per esempio per associazioni, cittadini o imprese che tentano di districarsi fra le norme. Mi chiamano spesso perché questo è un settore molto ampio, che abbraccia più ambiti: pensiamo alle diatribe su rifiuti, acqua, bonifiche, discariche, impianti, terreni, oppure alla salvaguardia di parchi e territori o all’attuale boom delle energie rinnovabili”. Quest’ultimo, il mondo degli impianti eolici e solari, attualmente è quello che lo vede coinvolto più spesso. “Come per altre questioni, c’è ancora poca conoscenza delle norme. Autorizzazioni, incarichi, permessi, valutazioni ambientali: ci vogliono competenze sia per aiutare chi si oppone, sia per chi vuole svilupparle. credo che le rinnovabili servano alla transizione ma bisogna sempre valutare caso per caso. Ci sono anche esempi di impianti che possono creare danni all’ambiente”.
    Ne ricorda uno in particolare: “Nel 2006 fu approvato un impianto eolico con turbine alte 150 metri da installare in un bosco, in un percorso famoso di trekking chiamato coast to coast che attraversa le PreSerre calabre. Fu approvato senza nemmeno valutazione ambientale e con autorizzazioni scadute. Prevedeva il taglio di centinaia di alberi. con Lipu e Regione Calabria ci siamo battuti per fermarlo e ora credo si possa dire che è stata messa una pietra tombale sull’idea di svilupparlo”.Dalla Calabria alla Basilicata sono decine le cause che Calzone ha portato avanti, “a volte per difendere le ragioni dei cittadini», altre per opporsi “ad abusi di multinazionali energetiche, per esempio relative all’interramento illegale di rifiuti”, altre ancora relative a progetti di bonifica, a discariche, oppure alla salvaguardia delle acque. Ha evitato che venissero realizzate centrali a biomasse ai confini del Parco della Sila, ha portato a condanna dirigenti di imprese che smaltivano rifiuti in maniera illecita, smascherato operazioni in cui c’era l’ombra della criminalità organizzata e soprattutto si è occupato di una marea di ricorsi per conto di associazioni ambientaliste o comitati, con decine di cause e ricorsi al Tar. In tanti casi è decisivo il tempismo. Ricorda ancora “quando riuscimmo ad annullare il calendario venatorio regionale, fatto male e troppo pericoloso per molte specie. l’atto fu depositato la mattina stessa dell’inizio della stagione e quel giorno mi chiamò un amico cacciatore: era stato fermato dai carabinieri proprio perché era scattato immediatamente il divieto. Mi disse: cosa hai combinato? Ci ridemmo su e per me fu una vittoria per la tutela delle specie”.Tempismo e impegno che ora spera possano portare avanti le nuove leve, i legali ambientali del futuro. “Consiglio loro di metterci passione, studiare, formarsi e soprattutto insistere, non scoraggiarsi mai. Perché questa professione offrirà sicuramente tante opportunità, direi doppie: sia di avere soddisfazione nel lavoro, sia di contribuire davvero a difendere la natura”. LEGGI TUTTO