consigliato per te

  • in

    Droni, trovato un sistema per tenere lontani gli orsi dalle case

    Orsi animali protetti, qui in Italia come in tante altre parti del mondo, Stati Uniti compresi. Ed è proprio agli Stati Uniti che potremmo guardare (e imparare) quando si tratta di impostare strategie di convivenza con questi grandi mammiferi, che – inutile negarlo – possono costituire un pericolo. Spinti dalla fame o dalla pressione territoriale, possono avvicinarsi troppo ai centri abitati e alle attività umane. In uno studio durato sei anni, Wesley M. Sarmento del Montana Department of Fish, Wildlife and Parks ha sperimentato diversi strumenti di deterrenza per allontanare i grizzly delle Grandi Pianure da luoghi in cui erano indesiderati: la maggior parte si sono rivelati efficaci, ma è stato l’impiego dei droni a stupire l’operatore. Ecco i loro pro e contro.
    Come si allontana un orso
    Nell’articolo, pubblicato su Frontiers in Conservation Science, Sarmento racconta come, dopo aver raccolto le richieste della popolazione, abbia iniziato un’attività di monitoraggio dei grizzly e di interventi di allontanamento (in totale sono stati 163), raccogliendo dati per verificare l’efficacia di diversi strumenti non letali sia nell’immediato sia a lungo termine, ossia se gli orsi nel tempo imparassero a stare lontani da certi luoghi.

    Biodiversità

    I sentieri del trekking disturbano orsi e lupi

    di  Paola Arosio

    31 Gennaio 2025

    L’esperto ha iniziato da metodi tradizionali: ricevuta una segnalazione, si recava sul posto allontanando l’animale con inseguimenti dal proprio camion e/o sparando a salve o proiettili non letali. Il sistema era abbastanza efficace, ma Sarmento sottolinea diverse criticità che, a volte, lo hanno messo in pericolo. I veicoli, infatti, non arrivano ovunque: ci possono essere ostacoli o la tipologia di terreno può non consentire a un mezzo pesante di proseguire se non si vuole rimanere bloccati. Continuare a piedi muniti di fucili deterrenti, però, non è la via più sicura. Come ha sperimentato sulla propria pelle Sarmento, alcuni orsi, invece di fuggire spaventati, possono reagire attaccando. Un rischio non indifferente per l’incolumità dell’operatore, nonché un insuccesso dell’azione di deterrenza.

    Biodiversità

    Nepal, il governo: “Le tigri sono troppe e attaccano l’uomo”

    20 Gennaio 2025

    Dai cani da orso ai droni
    Per queste ragioni Sarmento ha cercato delle alternative che prevedessero una posizione di sicurezza per il personale umano. Uno di questi sistemi è stato adottare cani da orso, uno strumento che – come ammette l’esperto – per quanto pubblicizzato non è mai stato testato scientificamente. Ebbene, i cani da orso sono stati un po’ deludenti rispetto agli altri strumenti di deterrenza: i cani, infatti, molto spesso non riuscivano ad avvistare gli orsi a grande distanza o si lasciavano distrarre da altri stimoli, per esempio da altri animali selvatici. Neanche migliorare l’addestramento è servito a recuperare punti rispetto a metodi più tradizionali, e il loro mantenimento era un fattore da non trascurare in un’ottica costo-efficacia.

    L’alternativa tecnologica
    Sarmento ha così fatto ricorso a un drone. E i risultati, come riporta nell’articolo, sono stati molto soddisfacenti (91% di successi). Non solo l’efficacia di deterrenza è comparabile (anche un po’ superiore, ma servirebbero più dati per confermarlo) a quella dell’inseguimento con autoveicoli o ai proiettili non letali, ma il ricercatore ha riscontrato diversi vantaggi: grazie al drone gli orsi potevano essere avvistati anche a grande distanza, anche di notte, e l’elevata maneggiabilità ha consentito all’operatore di direzionare l’orso – forse spaventato dal ronzio o solo dalla novità (stabilirlo non è stato oggetto dello studio) – lontano dai luoghi abitati e dai pascoli, rimanendo in una posizione di sicurezza. In volo, poi, non ci sono problemi connessi alla tipologia di terreno o a eventuali ostacoli come recinti e canali. Tra i (pochi) contro riportati dall’autore, però, c’è l’impossibilità di utilizzare il drone come deterrente in condizioni meteorologiche avverse, oppure le difficoltà che si possono incontrare in aree molto alberate e boschive.

    Le idee

    M91 e la conservazione delle specie selvatiche attraverso l’invisibilità

    di Domenico Ridente

    12 Dicembre 2024

    Un altro pro del sistema di deterrenza coi droni, stando a quanto riferisce lo sperimentatore, è stato il condizionamento a lungo termine degli orsi: nel corso degli anni di osservazione, infatti, Sarmento ha registrato che gli interventi sono via via diminuiti e che orsi più anziani tendevano a fare meno incursioni nelle zone vicino ai centri abitati o ai pascoli.

    Evitare di filmarli
    Pur premettendo che ogni situazione è diversa e dovrebbero essere operatori esperti a definire la strategia più adeguata, Sarmento si dice convinto della bontà dell’impiego di droni per tenere lontani gli orsi dove sono indesiderati e raccomanda di integrare nei regolamenti per la convivenza con questi grandi mammiferi norme che vietino di avvicinarli con droni a fini diversi dalla deterrenza (solo per filmarli, per esempio), perché altrimenti gli animali potrebbero abituarsi allo stimolo e rendere vani i tentativi di allontanamento.
    Non solo, l’esperto suggerisce che i droni potrebbero essere modificati e resi più efficienti per questo uso specifico, magari rendendoli capaci di spruzzare spray deterrenti o di emettere altri suoni disturbanti oltre al ronzio delle pale, come urla umane o abbaiare di cani. Senza contare che in futuro potrebbe essere installata un’intelligenza artificiale in grado di riconoscere la fauna selvatica indesiderata e di agire in autonomia per scacciarla. LEGGI TUTTO

  • in

    Il “bollino” che salva frutta e verdura dalla muffa ed evita lo spreco alimentare

    “Circa un terzo del cibo prodotto viene perso o sprecato, e questa percentuale sale al 50% nel caso dell’ortofrutta, una delle categorie alimentari più amate dagli italiani. Tuttavia, capita spesso di vedere frutti ammuffiti nei frigoriferi delle nostre case o addirittura già sugli scaffali dei supermercati, pensiamo ai limoni e alle fragole”. A parlare è Gustavo Gonzalez co-fondatore e Ceo di Agreenet startup torinese che ha sviluppato PìFresc, una tecnologia all’avanguardia, che offre vantaggi per produttori e distributori, raccogliendo la sfida della conservazione della frutta fresca. “Si tratta di un piccolo bollino biodegradabile, della dimensione di una moneta da un euro, che si inserisce nelle confezioni di frutta e verdura dove rilascia sostanze naturali che riducono la crescita di muffe”, continua Gonzalez. Facile da usare, si posiziona all’interno dell’imballaggio o della confezione dell’ortofrutta, senza necessità di investimenti aggiuntivi, per le aziende del settore. “Con la nostra monetina PìFresc assicuriamo così una maggiore durata della freschezza di prodotti come agrumi, uva, ciliegie, fragole e frutti di bosco, riducendo la necessità di trattamenti chimici dannosi per l’uomo”.

    Alimentazione e ambiente

    Pellicola per alimenti, quella sostenibile cambia colore se il cibo va a male

    di  Fiammetta Cupellaro

    11 Novembre 2024

    Migliorare la conservazione di frutta e verdura
    Nata a Torino nel 2022 dal desiderio di un gruppo di amici (Gustavo Gonzalez, Stefano Ferioli e Giulia Brogi) di contribuire in prima linea a ridurre gli sprechi alimentari e creare un sistema di approvvigionamento più efficiente e sostenibile, Agreenet è una startup che opera nella produzione di biomateriali innovativi per la conservazione e il confezionamento di alimenti freschi. Tre sono i pilastri su cui si fonda la sua missione: ridurre lo spreco alimentare durante la fase di approvvigionamento, ridurre l’uso di plastiche derivate dal petrolio nell’industria alimentare, e sensibilizzare maggiormente gli stakeholder per una catena di consumo più responsabile. Nello specifico, il team di Agreenet crea e produce materiali biodegradabili, biobased e bioattivi volti a migliorare la conservazione di frutta e verdura confezionate per aumentarne la shelf-life (la vita utile).

    Questi materiali si basano su una miscela di sostanze di origine vegetale e alimentare che possono essere regolate in base alle condizioni di confezionamento del prodotto fresco e alle esigenze del cliente. I prodotti che propone Agreenet sono realizzati con una tecnologia innovativa (oggetto di un deposito di brevetto) che riduce di almeno il 90% la proliferazione di agenti patogeni e microrganismi sulla superficie dei frutti. “La nostra proposta si basa sul fornire ai distributori di frutta e verdura fresca questi vantaggi: più protezione e più shelf-life per i loro prodotti ortofrutticoli, massimizzazione del profitto attraverso la distribuzione di prodotti che durano più a lungo. Non solo, con la nostra tecnologia è possibile raggiungere i mercati più lontani senza compromettere la qualità e/o l’integrità del prodotto, e diminuire la percentuale di reclami di prodotti distribuiti”.

    Imballaggi

    Il cibo confezionato usa troppa plastica e se ne spreca di più

    di  Giacomo Talignani

    07 Ottobre 2024

    I vantaggi del bollino salva spreco
    PìFresc è in grado di ritardare la comparsa della muffa di almeno sette giorni, riducendo lo spreco da deperimento e le relative perdite economiche fino al 74%, con un’efficacia estesa a oltre un mese, garantendo quindi benefici anche a casa del consumatore. “Essendo l’unica soluzione naturale per frutti non climaterici, PìFresc è indispensabile per una vasta gamma di prodotti, tra cui agrumi, uva da tavola, fragole, frutti di bosco e ciliegie, settori in cui l’Italia è uno dei maggiori produttori a livello mondiale”.

    Il Frescometro “per calcolare i benefici economici e ambientali”
    “A settembre scorso abbiamo rilasciato il Frescometro, un innovativo calcolatore online che permette alle aziende della filiera alimentare di stimare rapidamente e in maniera personalizzata i benefici economici e ambientali derivanti dall’uso di PìFresc per conservare frutta e verdura. Il Frescometro guida gli utenti attraverso nove semplici step per calcolare l’impatto di PìFresc. Il percorso prevede l’inserimento di informazioni come: il tipo di frutta, il volume movimentato in un anno, il prezzo medio di vendita, la tecnica di produzione, il tipo di contenitori utilizzati, il metodo di conservazione; la percentuale di perdite inventariali, la quantità di merce rifiutata dai clienti, e la destinazione della merce rifiutata. Una volta completati i passaggi, il calcolatore restituisce una serie di dati che mostrano i benefici concreti: quantità di frutta salvata, profitto aggiuntivo, litri d’acqua risparmiati e riduzione delle emissioni di CO2.Vogliamo diventare un punto di riferimento nel settore di packaging attivi per alimenti freschi. Infatti, il nostro team di Ricerca e Sviluppo è continuamente alla ricerca di nuove soluzioni e innovazioni nel campo seguendo le tendenze di consumo, regolamentare e di produzione”. Il team di Agreenet è composto da giovani under30 con esperienza nell’analisi degli alimenti, nello sviluppo di biomateriali, nell’agronomia e nella gestione di progetti complessi. Attualmente, la startup sta raccogliendo capitali da fondi di venture capital per avviare la produzione e la commercializzazione, oltre a sviluppare nuove tecnologie a supporto della filiera agroalimentare. Un approccio che conferma la filosofia di innovazione continua. LEGGI TUTTO

  • in

    L’alloro, la pianta aromatica che rende più belli i giardini

    L’alloro, nome scientifico Laurus nobilis, è una pianta sempreverde ornamentale e aromatica, appartenente alla famiglia delle lauracee. Le sue origini sono da ricercare nel bacino del Mediterraneo e, in particolare, tra la Grecia, la Spagna, la Turchia e l’Italia. Nel suo habitat ideale la pianta può raggiungere anche i 10 metri di altezza: di solito, però, assume l’aspetto di un arbusto alto al massimo 5 metri. La pianta è caratterizzata solitamente da una folta chioma con foglie alterne di color verde brillante, dalla consistenza coriacea l’aspetto lanceolato. L’alloro tende a produrre una grande quantità di rami, sin dalla parte più bassa della pianta: per questo, di solito ha una sagoma allungata o tonda. La pianta sviluppa numerosi polloni e si allarga con facilità: per questo motivo, se non abbiamo molto spazio in giardino, possiamo coltivarla in vaso.

    L’esposizione
    Possiamo scegliere un luogo in pieno sole o in penombra per coltivare l’alloro: in entrambi i casi, la pianta si adatterà senza problemi. L’alloro ama gli ambienti ventilati, tuttavia non sopporta in alcun modo le correnti d’aria. Le temperature ideali per vegetare sono quelle tipiche dell’area mediterranea, soprattutto quelle comprese tra i 15 e i 25/30 gradi. Per brevi periodi, l’alloro può sopportare temperature minime fino a -10 gradi.

    Il terreno
    Per quanto la pianta non abbia esigenze particolari in fatto di terriccio, dovremmo sempre sceglierne uno ben drenante per evitare il ristagno idrico. Se decidiamo di coltivare l’alloro in vaso, preferiamo un terriccio soffice e sistemiamo dell’argilla espansa sul fondo per favorire il deflusso dell’acqua. Prevediamo il rinvaso della pianta ogni 2-3 anni: l’apparato radicale dell’alloro tende infatti a svilupparsi in modo significativo. Per la coltivazione in piena terra, ricordiamoci di scavare una buca che sia più o meno profonda e larga il doppio della zolla con le radici dell’alloro. Sul fondo, sistemiamo un po’ di concime organico per favorire lo sviluppo della pianta.

    L’innaffiatura, la concimazione e la potatura
    L’alloro non richiede un’annaffiatura particolarmente abbondante: tra la primavera e l’estate, bagniamolo solo quando il terreno è asciutto in superficie. Nel corso dell’autunno diradiamo le innaffiature e, in inverno, non annaffiamolo se la temperatura è al di sotto dei 10 gradi. Un eccesso idrico può provocare una colorazione marrone nelle foglie e, viceversa, la scarsità di acqua le fa ingiallire e poi cadere. Se notiamo uno dei due fenomeni, riduciamo o aumentiamo la frequenza dell’annaffiatura. Il miglior concime per l’alloro è quello che presenta una quota un po’ più alta di azoto, grazie alla quale la pianta sviluppa meglio il fogliame. Possiamo sfruttare un fertilizzante liquido: usiamo ogni due settimane, aggiungendolo all’acqua di irrigazione. Infine, il momento migliore per potare l’alloro è tra la fine di febbraio e la prima metà di marzo. Di solito, la potatura si concentra sullo sfoltimento della chioma, per «arieggiare» la pianta, e sull’eliminazione dei rami che rendono poco armoniosa la crescita.

    La fioritura e le bacche
    L’alloro è una pianta dioica, cioè con esemplari con soli fiori femminili ed altri che hanno solo i fiori maschili. In entrambi i casi, le infiorescenze sono composte da piccoli fiori che ricordano un ombrello, di colore bianco-giallo. Per individuare il genere della pianta, controlliamo l’infiorescenza: se ha numerosi stami, si tratta di un esemplare maschile. Un’altra differenza tra alloro maschio e femmina riguarda la produzione dei frutti. Solo gli esemplari femminili, nel corso della stagione autunnale, producono le classiche bacche nere che ricordano un po’ le olive.

    La moltiplicazione
    Per moltiplicare l’alloro, possiamo ricavare dalla pianta una talea oppure un pollone. Nel primo caso, il momento migliore per l’operazione è nella seconda metà dell’estate: tagliamo delle parti apicali dei rami, che siano lunghe al massimo tra i 10-15 centimetri, evitando di sfilacciarle. Eliminiamo le foglie basali e poi mettiamo le nostre talee in piccoli vasi con torba e sabbia, avendo cura di mantenere sempre umido il terreno e di ricoverare i contenitori in un luogo fresco e ombreggiato. Quando le talee producono i primi germogli, possiamo spostare i vasi in un ambiente più luminoso. Attendiamo che le nuove piantine si siano irrobustite prima di trapiantare o sostituire il contenitore. Per propagare l’alloro tramite pollone, possiamo scegliere tanto il periodo primaverile quanto quello autunnale. Con l’aiuto di una vanga, preleviamo un pollone con le sue radici e il pane di terra, separandolo dal resto della pianta. Possiamo poi metterlo a dimora nel terreno, vangando ad una profondità di 40 centimetri, oppure sistemarlo in un vaso di diametro adeguato.

    I parassiti che possono colpire la pianta
    L’alloro può essere colpito soprattutto dagli afidi, dalla cocciniglia, dal ragnetto rosso e dalla psilla. Nel caso della presenza dei pidocchi, sulle foglie notiamo una serie di piccole macchie di colore bianco-giallastro: per eliminarli, usiamo un prodotto fitosanitario. La cocciniglia si manifesta invece con tipiche macchie scure sul lato inferiore delle foglie. In questo caso, possiamo rimuoverla con un batuffolo di ovatta imbevuto di alcool oppure con un antiparassitario. Il ragnetto rosso provoca invece l’ingiallimento e l’accartocciamento delle foglie, che poi cadono. Per liberarci dalla presenza di questo parassita, dobbiamo aumentare il livello di umidità o, nel caso di piccoli esemplari, pulire il fogliame con una soluzione di acqua e sapone, avendo cura di risciacquare abbondantemente le foglie. Infine, se notiamo che le foglie più giovani tendono a deformarsi in modo incomprensibile, è probabile che la pianta sia stata attaccata dalla psilla. Per prevenire l’attacco da parte di questo insetto, manteniamo ben ariosa la chioma della pianta, affinché al di sotto della chioma non si sviluppi troppa umidità. Per rimuovere la psilla, potiamo le parti malate dell’alloro o eseguiamo un trattamento con un prodotto specifico. LEGGI TUTTO

  • in

    È un ginepro e ha 1647 anni la pianta più vecchia d’Europa

    Non una robusta sequoia, né uno degli olivi millenari disseminati lungo le coste del Mediterraneo e la cui longevità è decisamente radicata nell’immaginario collettivo: la pianta più antica d’Europa è, a sorpresa, un ginepro comune (Juniperus communis L. il nome scientifico), fusto di appena 10 centimetri, che abita l’estremo nord, terre in cui gli alberi cedono il passo, da sempre, a specie vegetali arbustive di dimensioni più ridotte. La notizia arriva a margine di un lavoro di un team di ricercatori internazionale coordinati da Marco Carrer, ecologo forestale del dipartimento Territorio e Sistemi AgroForestali dell’Università di Padova. I risultati, pubblicati sulla rivista Ecology, “incoronano” un esemplare che abita la Lapponia finlandese (a Utsjoki, non troppo distante dalla stazione di ricerca di Kevo), individuato durante approfonditi studi della specie tra tundra artica e subartica, dalla Groenlandia agli Urali: ha raggiunto l’incredibile età di 1647 anni, almeno quattro secoli in più rispetto agli alberi più vecchi attualmente riconosciuti in Europa.

    “Un valore ecologico inestimabile”
    La scoperta sembra sfatare alcuni falsi miti. “Abbiamo soprattutto dimostrato che, nell’ambito delle piante legnose, il potenziale di vivere per secoli, o addirittura oltre i mille anni, non è esclusivo degli alberi. – spiega Carrer a Green&Blue – Nessuno, fino ad ora, avrebbe immaginato che anche gli arbusti potessero raggiungere una simile longevità. In questa nuova prospettiva, nonostante la loro statura ridotta, le comunità arbustive acquisiscono un valore ecologico inestimabile e dovrebbero essere considerate importanti quanto gli alberi: prosperano in condizioni ambientali estreme e, grazie al loro portamento prostrato, riescono a estendersi ben oltre i limiti latitudinali e altimetrici degli alberi. Fungono così da veri e propri avamposti delle piante legnose, dal caldo e arido Mediterraneo fino alle fredde regioni della tundra artica, dall’Alaska all’Etna, dal Giappone alla Scozia”. Un po’ ovunque, insomma: del resto il ginepro comune, specie celebre per gli utilizzi in cucina – come specie – o come ingrediente per la produzione del gin, vantava già il primato della specie legnosa più diffusa sul pianeta. LEGGI TUTTO

  • in

    Clima, il permafrost sulle montagne europee si sta scaldando velocemente

    L’aumento delle temperature del permafrost nelle regioni montuose d’Europa è altrettanto grande che nell’Artico, sul quale si notano già da tempo profonde trasformazioni a causa del cambiamento climatico. Un aumento costante, (di oltre 1°C negli ultimi dieci anni) con un tasso di riscaldamento che supera le stime precedenti e si allinea a quelli osservati appunto […] LEGGI TUTTO

  • in

    In Italia la fiducia in scienza e scienziati è più bassa della media globale

    Viviamo in un mondo dove nonostante migliaia di studi, dati e osservazioni satellitari, temperature percepite e ghiacciai che si sciolgono davanti ai nostri occhi, c’è chi nega ancora la crisi del clima in atto, come il neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump, solo per fare un solo nome. Lo stesso vale per i vaccini che durante la pandemia hanno salvato milioni di vite ma sono stati osteggiati e respinti, oppure per una lunghissima serie di fenomeni, difficili da comprendere ma sempre ben spiegati da chi li studia da anni, che tavolta vengono giustificati con le più strane teorie negazioniste o complottiste. Eppure, in questo mondo che oggi ci confonde tra fake news, bufale e alterazioni create dall’intelligenza artificiale, l’umanità ha ancora grande fiducia nella scienza. Non tutti però “crediamo” nella scienza e negli scienziati in egual modo: se chiedi a un egiziano o a un indiano quanto confidano nel metodo scientifico, ti risponderanno “totalmente”, se invece poni la stessa domanda a un italiano, un albanese o un russo, permarrà ancora un po’ di scetticismo.

    Su Nature Human Beahviour è stata pubblicata infatti una interessante ricerca, guidata da 241 esperti di Harvard, dell’università di Zurigo e con la collaborazione anche dell’Università di Genova e altri atenei europei, in cui viene esaminata la “fiducia nella scienza” e negli scienziati in 68 Paesi del mondo. I valori ottenuti dall’analisi, in un punteggio che va da 1 (il massimo dello scetticismo) e 5 (la totale fiducia), la media ottenuta è un valore di 3,62. Sul podio di questa curiosa classifica ci sono Egitto (media di 4,30), India (4,26) e Nigeria (3,98). Al contrario, i meno fiduciosi appaiono l’Albania (3.05), il Kazakistan (3.13) e la Bolivia (3.22), seguita subito dopo dalla Russia. L’Italia è nella parte bassa della classifica: al 57° posto su sessantotto Paesi, con una media di 3.38 (al pari dell’Ucraina), dunque siamo decisamente sotto media. Sopra di noi ci sono per esempio gli Usa (3,84) o come primo paese europeo la Spagna (3,90), o ancora la Cina (3,67) oppure l’Argentina di Milei (3,87).

    Da noi invece la fiducia è tutto sommato bassa, tanto che siamo fra i tre Paesi europei che appaiono meno “confidenti” (insieme a Slovacchia e Albania). La ricerca è stata svolta dopo la pandemia e ha coinvolto circa 72mila persone. Rispetto alle domande poste agli intervistati è emerso che il 78% delle persone ritiene che gli scienziati siano persone qualificate, il 57% le indica come oneste e il 56% che “hanno a cura il benessere delle persone”. Inoltre l’83% ritiene che i ricercatori dovrebbero impegnarsi nella comunicazione della scienza al pubblico e ritiene che dovrebbero essere maggiormente coinvolti nei processi decisionali e politici (il 52%). Dalla ricerca emerge inoltre una generale maggiore fiducia negli scienziati da parte delle donne, ma anche dagli anziani, da chi vive in aree urbane (rispetto a quelle rurali) o di chi ha un livello di istruzione o un reddito maggiore. In Nord America e alcune zone europee chi ha un orientamento politico conservatore ha invece espresso minore fiducia.

    “Nella maggior parte dei Paesi l’orientamento politico e la fiducia negli scienziati non erano correlati. Tuttavia, abbiamo scoperto che nei Paesi occidentali le persone con idee politiche conservatrici (in generale di destra) hanno meno fiducia negli scienziati rispetto a quelle con idee più liberali (o di sinistra)” fanno sapere gli autori. Ci sono poi alcune considerazioni importanti che possono interessare gli stessi scienziati, magari per comunicare meglio con il pubblico: tante persone, quasi il 58%, non credono che i ricercatori considerino davvero i punti di vista altrui, per esempio affermano che le priorità della scienza non sempre coincidono con quelle dei cittadini nei campi del miglioramento della salute pubblica, dei problemi energetici o la riduzione della povertà. Informazioni, quelle emerse della studio, che indicano infine come i ricercatori potrebbero migliorare il feedback con la popolazione, soprattutto negli Usa e in alcuni Paesi occidentali dove forse, attraverso il dialogo, aiuterebbero i gruppi più conservatori a recuperare fiducia nella scienza. LEGGI TUTTO

  • in

    Inquinamento e crisi climatica, in Galizia “spariscono” i molluschi

    Che fine hanno fatto i molluschi della Galizia? Tra i più grandi produttori di cozze, seconda solo alla Cina, la regione nord-occidentale della Spagna che affaccia sull’Atlantico lancia un campanello d’allarme. Perché il calo di vongole, lupini e cozze – fino al 90% in pochi anni, con un trend di vongole in decremento dell’80% nel 2024 rispetto all’anno precedente – è, qui, sotto gli occhi di tutti. La produzione di cozze, allevate sulle cosiddette bateas, corde tese da zattere in legno, è stata – nel 2024 – la più bassa degli ultimi anni: appena 178 mila tonnellate, nel 2021 erano 250 mila.

    Al Guardian, che in queste ore ha denunciato il caso, María del Carmen Besada Meis, che dirige l’associazione dei pescatori di San Martiño nella Ría de Arousa, un tempo pescosissimo, ha spiegato che l’indiziato numero uno potrebbe essere il cambiamento climatico. “Già, perché le recenti piogge torrenziali hanno ridotto la salinità delle rías (le insenature profonde, dalle coste ripide, tipiche dell’intera area, ndr). Negli ultimi due anni – aggiunge – le precipitazioni sono state ben al di sopra della media. Ma non abbiamo prove sufficienti e ci piacerebbe se qualcuno venisse a fare delle ricerche adeguate”. Sul piede di guerra tutti i “marisqueros”, i pescatori di conchiglie. Da un lato puntano l’indice contro le politiche Ue, che favorirebbero le grandi multizionali. Dall’altro, chiedono risposte: perché stanno scomparendo i molluschi? “C’entra di sicuro l’inquinamento”, spiega Marta Martín-Borregón, responsabile oceani di Greenpeace Spagna.

    Arriva il Commissario al granchio blu per salvare le vongole (e il mare)

    di Lorenzo Cresci

    05 Agosto 2024

    Sotto accusa fabbriche e imprese agricole, che riverserebbero rifiuti d’ogni tipo nell’estuario: un quantitativo che si tradurrebbe in un superamento del 10% dei limiti di tossicità consentiti dalla legge. E all’orizzonte si stagliano anche piani di riapertura della miniera di rame di Touro-Pino, e la proposta di un grande impianto di produzione di cellulosa che, denuncia Greenpeace, consumerebbe 46 mila metri cubi di acqua al giorno, l’equivalente dell’intera provincia circostante di Lugo. Inquinamento e crisi climatica, dunque. Con un focus sull’innalzamento della temperatura delle acque: “Le acque delle rías sono sempre state fredde, il loro riscaldamento dei mari ostacola il ciclo biologico delle cozze”, spiega Martín-Borregón. E favoriscono la diffusione di inattese specie aliene, come il famigerato granchio blu e fatalmente arrivato anche a queste latitudini: la loro presenza invasiva soppianta gradualmente altre specie di granchi, dal valore commerciale più consistente. Un’altra gatta da pelare, per i piccoli pescatori galiziani, sempre più disorientati.

    Non sorride neanche l’Italia
    Non sembra andare meglio, però, alle produzioni di cozze del Mediterraneo sulle coste italiane: nel corso degli ultimi anni diversi eventi di mortalità di massa di questi molluschi hanno interessato sia popolazioni selvatiche che allevamenti. L’ultimo ha avuto luogo nel corso dell’ultima stagione estiva. A settembre, lungo la Costa del Conero, nelle Marche, l’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche di Ancona (Cnr-Irbim) ha documentato una mortalità severa di questi molluschi, prossima addirittura al 100% in alcune aree. L’evento è successivo al verificarsi di prolungate ondate di calore marine, registrate dalle boe del CNR IRBIM, con picchi di temperatura del mare superiori ai 30 gradi centigradi e fenomeni estesi di mucillagine.

    Il sospetto, anche qui, è che le cozze – al pari di almeno altre specie marine – paghino dazio al cambiamento climatico. “Ogni specie ha una sua nicchia climatica, il che significa che la sua sopravvivenza è limitata da un particolare range di temperature e da altre variabili biofisiche. – spiega Ernesto Azzurro, dirigente di ricerca Cnr-Irbim e promotore di un questionario online volto a mappare la mortalità dei molluschi – Per molti anni abbiamo considerato le cozze come una risorsa inesauribile, ora questi eventi dimostrano quanto siano vulnerabili. Il riscaldamento dell’acqua provoca un generale indebolimento del bisso (l’insieme di filamenti che li tiene attaccati i mitili al substrato), aumentando il rischio per questi animali di essere trasportati via dalle correnti e dalle mareggiate. In più, periodi prolungati di siccità compromettono la capacità di questi bivalvi filtratori di nutrirsi adeguatamente”.

    La speranza della Nature Restoration Law
    “Per coltivare molluschi sani, gli agricoltori hanno bisogno di acqua pulita, ecosistemi robusti e un clima stabile. – conferma Laura Airoldi, che insegna ecologia all’Università di Padova e lavora alla Stazione Idrobiologica U. D’Ancona di Chioggia – Ma condizioni essenziali sono sempre più minacciate dall’inquinamento, dalla distruzione degli habitat e dai cambiamenti climatici.

    Il ripristino degli ecosistemi svolge un ruolo cruciale nell’invertire questi danni, garantendo che gli ambienti marini e costieri possano continuare a sostenere la biodiversità e i mezzi di sussistenza sostenibili. Per questo l’Unione Europea ha introdotto la legge sul ripristino della natura, iniziativa rivoluzionaria volta a ripristinare almeno il 20% delle terre e dei mari dell’UE entro il 2030. – aggiunge Airoldi – Proteggendo e rivitalizzando habitat come le zone umide, le praterie di fanerogame e le barriere di ostriche, la legislazione sostiene la biodiversità, migliora la qualità dell’acqua e rafforza la resilienza climatica. Investire nel ripristino degli ecosistemi non è solo una necessità ambientale, ma è un impegno per un pianeta più sano, un’economia fiorente e un futuro sostenibile per tutti”. Compresi i piccoli pescatori galiziani. LEGGI TUTTO

  • in

    In Finlandia trovato un giacimento geotermico che fornirà energia pulita per 20 milioni di anni

    I paesi scandinavi, culturalmente più attenti alle tematiche green, precorrono i tempi, e la Finlandia, che ha scoperto un importante giacimento geotermico, potrebbe centrare la neutralità carbonica già entro il 2030. Nella città di Vantaa, poco distante dalla capitale Helsinki, nel sud del paese, è stato realizzato un impianto di riscaldamento geotermico, il primo della Finlandia, che produce calore in modo rinnovabile e totalmente pulito ed energia che viene immessa e venduta nella rete.

    Prima di entrare nei dettagli, vediamo quali sono le caratteristiche di una centrale geotermica, che sfrutta il calore proveniente dalle profondità della Terra, trasformandola in energia. La temperatura interna del pianeta che ci ospita, in media sale di 3° ogni 100 metri di profondità, ma in presenza di particolari condizioni può raggiungere anche i 350° intorno ai 2000-4000 metri. Acque bollenti e vapore, che salgono verso la superficie terrestre attraversando gli strati rocciosi, sono intercettati dai pozzi geotermici, azionano la turbina, dove l’energia è trasformata in energia meccanica di rotazione, che è a sua volta diventa energia elettrica, grazie ad un alternatore, per poi essere trasmessa al trasformatore, infine immessa nella rete.

    Transizione ecologica

    Tutto quello che c’è da sapere sulla geotermia, l’energia pulita di cui l’Italia è ricca

    di Pietro Mecarozzi

    15 Gennaio 2022

    Quanto scoperto in Finlandia, consentirà alla nazione di contribuire al fabbisogno energetico per un lunghissimo periodo di tempo, potenzialmente infinito, più probabilmente secoli, perché oltre le caratteristiche di rinnovabilità, intrinseche dell’energia geotermica ci sono poi le variabili locali che ne influenzano la longevità, come l’equilibrio tra estrazione e iniezione di calore nel sottosuolo, insieme alla velocità con cui il calore viene estratto dal sottosuolo e la capacità che ha lo stesso giacimento a rigenerarsi. Quel che è certo, invece, è che l’impianto di Vantaa contribuirà notevolmente all’abbassamento delle emissioni di CO2, in favore della sostenibilità ambientale, visto che secondo quanto dichiara la società finlandese che gestisce la centrale geotermica, “le emissioni di carbonio sono inferiori del 95% rispetto a quelle generate dai combustibili fossili”, in quanto a differenza di centrali elettriche tradizionali, l’impianto geotermico non brucia carburante fossile. L’impianto di Vantaa consente di produrre 2.600 megawatt di energie elettrica all’anno, e produce circa 1.400 MWh di calore, che in termini di volume, corrisponde a circa 35 pozzi geotermici tradizionali; il piano originale che prevedeva una perforazione di 2 km, a causa del substrato roccioso, è stato sostituito con tre pozzi profondi 800 metri.

    Naturalmente, il progetto di riscaldamento geotermico finlandese a Vantaa è solo il primo passo, perché la tecnologia ha il potenziale per diffondersi in altre aree del paese, anche grazie alla sua flessibilità, che consente di immagazzinare calore ed energia anche durante il periodo invernale, quando i consumi sono elevatissimi e la luce del giorno è molto ridotta. Infatti, la differenza sostanziale tra il geotermico ed altre fonti energetiche più diffuse, come il solare e l’eolico, risiede nel fatto che l’energia geotermica è più stabile, consente una continuità quotidiana, non garantita invece dalla luce solare e dal vento.

    Transizione

    Facebook e Google copriranno i consumi di energia con il geotermico

    di Dario D’Elia

    29 Agosto 2024

    Insieme alla centrale geotermica, a Vantaa è in costruzione l’impianto di stoccaggio di energia termica stagionale più grande al mondo, ricavato all’interno di tre caverne larghe circa 20 metri, lunghe 300 e alte 40, mentre il fondo delle caverne sarà a 100 metri sotto il livello del suolo. Le caverne di stoccaggio hanno un volume totale di 1.100.000 metri cubi, fisicamente grande quasi quanto due volte, il celebre Madison Square Garden di New York. La capacità termica totale dell’accumulo di energia termica è di 90 gigawattora, che suddivisa in unità energetiche più piccole, equivale a 1,3 milioni di batterie per auto elettriche.

    Ma in Italia è possibile investire nella geotermia? “Il nostro paese ha un potenziale di energia geotermica estraibile e sfruttabile che si stima valga tra i 500 milioni e i 10 miliardi di tonnellate di petrolio equivalente. Vale a dire, tra i 5.800 e i 116mila terawattora di energia, a fronte di un fabbisogno annuo di poco superiore ai 300 terawattora” si legge sul sito di Enel. Da questi dati si evince che basterebbe estrarre una piccola quantità di quell’energia per soddisfare tutta la domanda interna. Eppure questa fonte energetica presente in diverse regioni, ricche di sorgenti naturali di acqua calda, ha un ruolo marginale, nonostante a Larderello, in Toscana sia stato costruito il primo impianto geotermico al mondo. L’Italia, dunque, può vantare enormi conoscenze e competenze, e ci sono una trentina di impianti sparsi sul territorio, ma solo la Toscana – ad oggi – fa la differenza in termini di bilancio energetico. LEGGI TUTTO