Tra i numerosi appuntamenti che segnano il cammino verso la salvaguardia del pianeta, uno dei più significativi è la data del 10 febbraio 2025. Una data scritta nell’Accordo di Parigi siglato nel 2015: gli Stati infatti si sono impegnati a rispettare il termine che scadeva oggi per presentare i propri Piani climatici nazionali (Nationally determined contribution – Ndc). Documenti che tracciano la strada da seguire per abbattere le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Tuttavia, visto che la maggior parte dei Paesi sembrava destinata a non rispettare la data del 10 febbraio 2025 per la presentazione dei piani nazionali – necessari per determinare se il mondo avrà o meno una possibilità di evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico – la scadenza è stata rinviata di 7 mesi. Non più il 10 febbraio, ma il prossimo settembre. Ufficialmente, per dare tempo a tutti di presentare dei nuovi obiettivi nazionali sul clima “di qualità”.
Lo studio
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Scienza e politica
Se la scienza è chiara, l’agenda politica degli Stati lo è meno. Solo 10 dei 195 firmatari dell’Accordo hanno presentato i piani completi che infatti rappresentano appena il 17% delle emissioni globali. Quelli che rappresentano il restante 83% si fanno attendere. Mancando questo scadenza è improbabile che gli scienziati potranno valutare se i piani saranno compatibili e allineati per raggiungere l’obiettivo del limite di 1,5°C prima del 2035 e delle zero emissioni entro il 2050.
“Difficoltà tecniche”
A muoversi prima della scadenza sono stati anche Brasile, Svizzera, Nuova Zelanda, Emirati Arabi Uniti, Uruguay e, addirittura a dicembre, Stati Uniti. Per gli Usa però le cose sono un po’ cambiate. Il piano era inserito nell’Accordo di Parigi ed ora la decisione di Donald Trump di uscire dall’alleanza climatica toglie totalmente valore a quel documento. Virtuoso il piano del Regno Unito che non solo lo ha presentato prima della scadenza, ma prevedendo anche un taglio del 81% delle emissioni entro il 2035. Poi ci sono Nuova Zelanda e Canada: la prima ha aumentato il suo obiettivo di riduzione di appena l’1% e il secondo ha fissato un intervallo senza prevedere alcun miglioramento rispetto agli impegni già presi. In realtà attendono Paesi come la Cina e l’India, ma anche la Ue hanno giustificato il ritardo con difficoltà tecniche e incertezze politiche.
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E l’Europa?
Essendo tenuta a presentare un Piano climatico comunitario (per conto di tutti gli Stati membri), è destinata a non rispettare la scadenza ufficiale e probabilmente presenterà il suo piano solo in estate. I ritardi però non sorprendono. Anche a causa delle perturbazioni politiche che hanno attraversato e ancora attraversano, l’Europa. Con oltre 60 cambi di leadership nazionale nel 2024, è probabile che i governi si prendano il tempo necessario per elaborare piani. Strategie che richiedono poi a livello centrale a Bruxelles un coordinamento e una pianificazione tra i singoli governi. Tuttavia dalla Ue arrivano segnali positivi: la Commissione europea ha infatti riconfermato il suo impegno per un obiettivo al 2040 di -90% di gas serra nella Bussola della competitività presentata a gennaio.
L’analisi
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Cop30
Ora gli occhi sono puntati sul prossimo appunto sul clima delle Nazioni Unite che si terrà in Amazzonia. La leadership brasiliana incaricata della Cop30 a Belem ha indicato gli Ndc (Nationally determined contribution) come una priorità per il vertice di novembre. Durante il vertice del G20 dello scorso anno a Rio, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha esortato le nazioni a spostare le scadenze per la neutralità climatica al 2040 o 2045 invece che al 2050. Si vedrà. Dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, che oscilla tra scetticismo estremo e negazionismo, la strada sembra ancora più in salita.