Diga per diga. Nonostante i recenti segnali di distensione – come la riapertura dei voli diretti tra i due Paesi – tra India e Cina sta silenziosamente iniziando una gigantesca guerra per l’acqua che potrebbe presto coinvolgere la vita di milioni di persone. In tempi di crisi climatica, ghiacciai che scompaiono e transizioni energetiche che corrono veloci, lungo il fragile confine himalayano teatro di incertezze e terremoti, c’è un bene che entrambi i Paesi si contendono e al quale non intendono in nessun modo rinunciare: l’acqua. Cinque anni fa, proprio lungo quel confine da tempo teatro di scontri fra i due Paesi e di tensioni geopolitiche, la Cina ha annunciato l’intenzione di realizzare la diga idroelettrica più grande del mondo, una infrastruttura che sarà addirittura tre volte più grande della famosa diga delle Tre Gole, ad oggi l’impianto idrico più mastodontico al mondo.
La nuova mega-diga cinese sarà realizzata nella contea di Medog sul poderoso fiume Yarlung Zangbo che nel tratto cinese-tibetano corre lungo il confine fra Cina e India a a est, nella zona himalayana, poi dopo aver attraversato la catena montuosa il fiume piega e si dirige verso sud, entrando in india, dove prende il nome di Brahmaputra e infine arriva nel Bangladesh, dove confluisce nel Gange e sfocia nel golfo del Bengala. Dal 2015 la Cina ha messo gli occhi sul potenziale idroelettrico del fiume realizzando una prima diga, quella di Zangmu, e ora dopo aver avviato altre opere – nonostante le proteste indiane – la volontà di Pechino si è concentrata su un nuovo progetto idroelettrico, nel Medog, capace di generare 300 miliardi di kilowattora di elettricità all’anno, necessario per centrare l’obiettivo di emissioni nette zero entro il 2060. Una diga faraonica che costerà quasi 140 miliardi di dollari e molto probabilmente, lungo il lato cinese, implicherà lo sfollamento e lo spostamento di migliaia di persone. L’iter definitivo alla grande opera è stato da poco approvato e l’India prima ha protestato – sottolineando i possibili impatti sulla vita di milioni di persone che si basano sull’acqua del grande fiume – poi ha risposto “diga per diga”, annunciando l’ok alla costruzione di un proprio impianto idroelettrico a valle, nella zona indiana, dove il Brahmaputra viene chiamato anche Siang. Una sorta di contro-diga per “mitigare l’impatto negativo dei progetti di dighe cinesi”, capace di compensare l’interruzione del flusso del fiume causata dalle opere di Pechino e allo stesso tempo di proteggere da inondazioni improvvise e ovviare al grosso problema della scarsità d’acqua.
Il caso
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Anche in questo caso però c’è una pericolosa criticità, legata sia all’impatto sulla vita di decine di villaggi e comunità locali, sia al fatto che l’ecosistema della regione himalayana è particolarmente fragile per le inondazioni e soprattutto per quei terremoti devastanti che, anche di recente, colpiscono ciclicamente quest’area. Il progetto indiano si chiama Siang Upper Multipurpose Project, costa almeno 13,2 miliardi di dollari e sarà in grado di generare 11.000 megawatt di elettricità una volta completato, più di qualsiasi altro progetto idroelettrico indiano. Anche in questo caso l’idea è vecchia, di almeno otto anni fa, ma i funzionari stanno ora rilanciando sull’ok all’iter e alla fattibilità, proprio come risposta ai cinesi. Nelle località a valle attraversate dal Siang vivono migliaia di contadini e comunità tribali, come gli Adi. Secondo i locali, con i lavori per la nuova diga almeno 20 villaggi rischiano di essere sommersi e altri venti potrebbero risultare parzialmente allagati, obbligando migliaia di persone ad andarsene. In gioco, con entrambe le opere, c’è molto. C’è l’accesso all’acqua potabile per centinaia di milioni di persone, c’è la salute dell’intera biodiversità di un territorio già provato da frane, fango e scioglimento dei ghiacciai, e c’è il costante rischio legato a sismi che possono raggiungere anche 7 gradi di magnitudo in Tibet, dove in passato per via dei terremoti sono già state danneggiate proprio le dighe. In più, ovviamente, su tutto ciò c’è lo spettro della crisi climatica che sta alimentando lo scioglimento dei ghiacciai.
In India nello stato nord-orientale dell’Arunachal Pradesh i portavoce dei villaggi della valle interessata dal progetto lo hanno subito capito e dopo aver radunato le persone sono iniziate le prime proteste, contenute dai paramilitari. Il governo statale guidato dal Bharatiya Janata Party (BJP) ha contestato le proteste ricordando ai manifestanti che il vero obiettivo del progetto non è solo una diga, ma è “salvare il fiume Siang” dalla Cina. In questo complesso contesto, in cui cinesi e indiani si battono per la sicurezza idrica ed elettrica del futuro, oltretutto chi rischia di più potrebbe essere un terzo Paese, il Bangladesh. Il fiume infatti nella sua ultima parte arriva in Bangladesh dove si stima che la popolazione ottenga il 65% della sua acqua proprio da questo corso e dal sistema fluviale collegato. Con due dighe a monte, i rischi per l’approvvigionamento idrico in Bangladesh sono dunque enormi. Secondo diversi esperti, ricercatori universitari e ingegneri, i due progetti combinati potrebbero risultare nel tempo “una bomba d’acqua ad orologeria” soprattutto in caso di terremoti e la speranza, non solo per i primi spiragli democratici di ritorno alla normalità dimostrati con la riapertura dei voli, è che fra i due Paesi nasca presto un nuovo spirito collaborativo e di condivisione (anche dell’acqua) per evitare che queste mega strutture diventino realtà e compromettano vite ed ecosistemi.