Il dilemma dei canguri infiamma il dibattito in Australia. E sul più iconico dei mammiferi marsupiali si polarizza anche la comunità scientifica. Sotto la lente d’ingrandimento la regione dei Grampians, nello stato del Victoria, estremità sudorientale dell’Australia, 1.600 chilometri di costa.Qui gli incendi hanno mandato in fumo 76 mila ettari di vegetazione del Grampians National Park, con profondi sconvolgimenti della sua fauna. Quanto basta, secondo alcuni naturalisti, per porre fine – anche solo temporaneamente – all’abbattimento controllato delle popolazioni di canguri.
Già, perché in cinque Stati australiani continentali la caccia per scopi commerciali dei mammiferi è consentita nel numero di 5 milioni di esemplari all’anno: carne e pellame alimentano un’industria controversa, che alcuni stati – in America, per esempio – e diversi brand tendono a boicottare (secondo la Lav, invece, l’Italia sarebbe il maggior importatore europeo di pelli di canguro, con 381 tonnellate tra il 2019 e il 2022).
Nello stato del Victoria, in particolare, dallo scorso primo gennaio la quota di abbattimento consentita è di 106 mila canguri grigi all’anno, 32 mila dei quali proprio nelle are sud-occidentali, quelle più colpite dagli incendi. “Finché non saranno chiari gli impatti immediati e a lungo termine dei roghi, l’abbattimento dovrebbe essere precauzionalmente interrotto”, dice al “Guardian” Lisa Palma, amministratore delegato di Wildlife Victoria, organizzazione no profit che si occupa di fornire risposte alle emergenze legate alla fauna selvatica nello stato australiano. Palma ribadisce inoltre le preoccupazioni generali sulla pratica dell’abbattimento dei canguri, in particolare sull’individuazione delle quote, sull’assenza di una supervisione del programma e “sull’intrinseca crudeltà dello strumento”.
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“La caccia commerciale è la migliore soluzione”
Che gli incendi boschivi sia una cattiva notizia per i canguri è fatto abbastanza acclarato: ricercatrici come Holly Sitters, ecologista, impegnata nella tutela di specie animali minacciate: “Tutti i piccoli mammiferi – spiega – mostrano una preferenza schiacciante per le aree rimaste intatte negli ultimi decenni”. Studiando l’impatto degli incendi sui mammiferi, Sitters ha ammesso infine che piccoli incendi possono giovare ai canguri e ai mammiferi di grandi dimensioni, mentre quelli più vasti – proprio come quelli che hanno investito i Grampians – creano condizioni differenti: alcuni animali possono migrare in tempo, altri restare feriti o morire o, ancora, faticare a sopravvivere per scarsità di ciba”. E le stime parlano di 200 mila esemplari, tra canguri e wallaby, morti a seguito degli incendi estivi.Insomma, ce ne sarebbe abbastanza per ridiscutere le linee strategiche di ridimensionamento della popolazione dei canguri.
Anche se non mancano pareri discordanti: “La cattura a scopi commerciali dei canguri può essere utile in alcune circostanze, e calcolare gli effetti degli incendi sulla fauna selvatica è complesso”, spiega al Guardian Euan Ritchie, docente di ecologia e conservazione della fauna selvatica alla Deakin University. La rimozione del predatore naturale dei canguri, il dingo, ha causato un incremento della loro popolazione, con effetti negativi sul recupero della vegetazione post-incendi.
“In assenza di un equilibrio naturale, la caccia è forse la migliore soluzione che abbiamo al momento, soppesando pro e contro”. E il Dipartimento per l’Ambiente dello stato della Victoria non sembra intenzionato a tornare sui suoi passi.
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Genovesi (Ispra): “Non venga meno il principio di sostenibilità”
Al caso australiano guarda con interessa anche Ispra, in prima linea in Italia nello studio dell’equilibrio degli ecosistemi e nel suggerimento di strategie efficaci per scongiurare squilibri e declino delle singole specie. “Bisogna distinguere tra prelievi fatti per la caccia, che dovrebbero sempre seguire un principio di sostenibilità, e il controllo di specie che causano impatti eccessivi o che sono pericolose per l’uomo. – spiega subito Piero Genovesi, che per Ispra è responsabile della conservazione della fauna e del monitoraggio della biodiversità – Quando parliamo di attività ricreative sarebbe corretto, nel caso di incendi o altri fenomeni che causano impatti sulle specie selvatiche, sospendere o ridurre i prelievi, per non sommare un ulteriore effetto negativo. Diverso – prosegue Genovesi – è il discorso se parliamo ad esempio di specie aliene, introdotte dall’uomo, il cui controllo è essenziale per tutelare gli habitat naturali. L’Australia è il paese al mondo che ha avuto più estinzioni nei secoli passati, causate nella gran parte dei casi da specie aliene, come conigli, volpi, gatti, ratti o cammelli.
Per esempio, in Australia vivono 1.7 milioni di volpi, introdotte dall’uomo, che uccidono ogni anno oltre 300 milioni di animali autoctoni e hanno causato molte estinzioni di mammiferi autoctoni. Una sospensione dei piani di controllo di alcune di queste specie potrebbe mettere in pericolo specie uniche e vulnerabili”.
In casi analoghi a quanto sta accadendo in Australia, in concomitanza cioè con incendi boschivi di grandi dimensioni o di tempeste come Vaia, Ispra ha suggerito alle Regioni di sospendere o regolamentare meglio i prelievi delle specie, in attesa di comprendere i danni agli ecosistemi.
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Ma il tema dei piani di abbattimento delle specie di fauna selvatica continua, dunque, ad alimentare dibattito, con posizioni spesso polarizzate tra i due estremi, il partito di chi preferirebbe scongiurare l’uccisione degli animali considerati in eccesso, soprattutto quando si tratta di specie carismatiche e di appeal per il grande pubblico, e quello di chi invece propende per metodi risoluti, nei quali l’uomo si assegna il ruolo di regolatore del riequilibrio degli ecosistemi. “La verità è che se in alcune aree abbiamo irrimediabilmente eliminato o ridotto i fattori che naturalmente limitavano la diffusione incontrollata di alcune specie animali, il fattore di riequilibrio possiamo essere solo noi”, spiega Nicola Bressi, naturalista e zoologo del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste.
Ma se per i cinghiali e per le nutrie, la cui diffusione incontrollata ha creato diversi problemi in Italia, l’opinione pubblica non sembra osteggiare i piani di contenimento, è per specie più carismatiche che divampano, puntuali, le polemiche. Con code giudiziarie, come per il piano di abbattimento dei cervi in Abruzzo, con il Consiglio di Stato che lo scorso novembre, ribaltando l’ordinanza del Tar, ha disposto la sospensione della delibera con cui la giunta regionale bandisce la caccia selettiva di 469 cervi considerati “in soprannumero”, per limitare i “danni all’agricoltura” e “gli incidenti stradali”. Accogliendo le ragioni di Wwf, Av, Lndc e Animal Protection. Qualche mese fa aveva invece fatto discutere, per esempio, la decisione della Svezia di concedere licenze per abbattere il 20% della popolazione di orsi bruni, una percentuale che le associazioni impegnate nella difesa degli animali e della biodiversità avevano considerato troppo elevata.