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Moda sostenibile: fibre riciclate o rigenerate, qual è la differenza?

In Europa stoffe e tessuti sono al quarto posto per impatto sull’ambiente e sui cambiamenti climatici (dopo cibo, edilizia, mobilità). Sono, inoltre, al terzo posto per quanto riguarda i consumi di acqua e suolo e al quinto per uso di materie prime. Ogni anno vengono buttati via circa 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili, cioè circa 11 chili a persona, mentre nel mondo ogni secondo l’equivalente di un camion carico di questi materiali viene inviato in discarica e incenerito.

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Di qui l’importanza di riciclare e rigenerare. Due termini che non sono esattamente sinonimi, come spiega Altroconsumo, che sul tema ha interpellato Daniele Spinelli, chimico e project manager al Next Technology Tecnotessile, ente di ricerca con sede a Prato. “Il riciclo comporta la distruzione dell’oggetto di partenza e un cambio di stato della materia, mentre la rigenerazione implica che la fibra recuperata da vecchio capo diventi filato per produrne uno nuovo”, chiarisce l’esperto.

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Dalle bottiglie di plastica ai tessuti

Un tipico esempio di riciclo è quello delle bottiglie in PET trasformate in tessuto. È ciò che fa Sinterama, un’azienda di Biella che, tramite una procedura meccanica a basso impatto ambientale, produce un filo di poliestere chiamato Newlife, disponibile in otto varianti.

C’è poi Aquafil, azienda con sede nei pressi di Trento, che ha trovato il modo di ripolimerizzare il nylon di vecchie reti da pesca e tappeti per creare un filo nuovo, Econyl, usato soprattutto per realizzare capi sportivi o costumi da bagno. “Utilizzando il nostro filato, gli stilisti hanno infinite possibilità di creare nuovi prodotti senza impiegare nuove risorse. Ogni 10mila tonnellate di materia prima usata per produrre il filo, vengono risparmiati 70mila barili di petrolio greggio”, si legge sul sito aziendale.

Il caso

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Di nylon, però, sono fatti anche i collant: l’azienda svedese Swedish Stockings, fondata nel 2013, attualmente propone una collezione composta per oltre l’80% da materiali riciclati. Inoltre, dal 2016, grazie al progetto Recycling Club, l’impresa raccoglie vecchie calze in nylon per farle diventare tavoli di design.

La morbidezza di lana e cachemire

Il processo di rigenerazione dei tessuti riguarda soprattutto la lana e il cachemire, che vengono raccolti, divisi per colore e poi trasformati in un nuovo filato attraverso un procedimento meccanico, che non prevede l’uso di sostanze chimiche né di tinture. “Per quanto riguarda le materie prime, il cachemire rigenerato consente di risparmiare circa il 90% di acqua, l’80% di energia, il 90% di anidride carbonica”, quantifica Spinelli.

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“Tuttavia, lana e cachemire non possono essere rigenerati all’infinito, perché ogni volta che la fibra viene sottoposta a processi di sfilacciatura ne esce accorciata. In ogni modo, la qualità è garantita: per evitare che il filato subisca un calo di performance, la fibra, quando necessario, viene allungata aggiungendo una percentuale di lana o di cachemire vergini”.

Anche seta, denim, cotone

In alcuni casi, oltre alla lana e al cachemire, è possibile rigenerare anche altri tessuti, sebbene sia più complicato. Per esempio, Rifò, azienda fondata nel 2017 a Prato con l’obiettivo di contrastare la sovrapproduzione nell’industria dell’abbigliamento, rigenera anche cotone, seta, denim, affidando la realizzazione dei nuovi capi ad artigiani locali. Una filiera corta che permette agli addetti di monitorare tutte le fasi di lavorazione del prodotto e di ridurre gli impatti di anidride carbonica.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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