Ci sono espressioni percepite come nuove, ma che raccontano storie antiche come il mondo. “Migranti climatici” è una di queste. È una definizione che si sta facendo spazio nel dibattito pubblico, ma che spesso arriva a noi in silenzio, senza immagini o titoli in prima pagina. Eppure, riguarda milioni di persone, e forse, tra non molto, anche intere comunità europee. Ma chi sono davvero i migranti climatici? Non è facile dare una risposta univoca. Non c’è – almeno per ora – una definizione ufficiale in ambito giuridico internazionale. I trattati che regolano lo status di rifugiato, come la Convenzione di Ginevra del 1951, parlano di chi fugge da persecuzioni per motivi politici, religiosi, etnici. Ma non dicono nulla – ancora – su chi fugge perché la terra su cui viveva è diventata arida, o la propria casa è stata distrutta da un ciclone. Così, in assenza di una cornice legale, usiamo un termine ampio: “migranti climatici”.
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Secondo i dati dell’UNHCR, nel 2023 oltre 33 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro abitazioni a causa di disastri legati al clima. Frane, alluvioni, siccità prolungate, incendi. Tutti eventi naturali, certo, ma sempre meno “naturali” in un mondo in cui l’impronta umana sul clima è evidente e crescente. E questi sono solo gli sfollati interni, cioè coloro che si sono spostati all’interno del proprio Paese. Ma cosa succede quando questi fenomeni diventano ricorrenti? Quando si perde la casa, il lavoro, il futuro? Quando il clima diventa invivibile, spesso l’unica scelta possibile è partire. Ma dietro a ogni numero – per quanto utile a delineare la portata del fenomeno – ci sono storie, volti, famiglie. Motivo per cui, è importante soffermarsi anche sul linguaggio che usiamo. Chiamarli “migranti” può suggerire una decisione ponderata, una scelta volontaria. Ma la realtà è spesso diversa. Si tratta di spostamenti forzati, progressivi, che avvengono quando vivere, dove si è nati, non è più sostenibile. In molti casi, queste persone si avvicinano di più alla condizione di “rifugiati climatici”, sebbene questa categoria, per ora, non sia riconosciuta dal diritto internazionale. Una lacuna normativa che lascia milioni di individui in una zona grigia, senza lo status né la protezione che servirebbero a garantirne i diritti fondamentali.
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Eppure, il fenomeno esiste e cresce. La Banca Mondiale stima che, entro il 2050, potrebbero esserci fino a 216 milioni di sfollati climatici interni nei Paesi più vulnerabili. Ma la questione non riguarda solo aree lontane: il Mediterraneo, e quindi l’Italia, saranno sempre più coinvolti. Le crisi idriche, l’aumento del livello del mare, l’inaridimento dei suoli sono già oggi realtà nel nostro sud. Allora, cosa possiamo (e dobbiamo) fare? Anzitutto, bisogna partire da una nuova consapevolezza: il cambiamento climatico non è solo una questione ambientale, ma umana. Richiede politiche migratorie aggiornate, nuovi strumenti giuridici, ma anche uno sforzo culturale. Riconoscere che la persona che bussa oggi ai nostri confini potrebbe essere – domani – qualcuno che ci somiglia più di quanto pensiamo. Perché quando parliamo di migranti climatici, in fondo, parliamo di un’umanità che si muove. Non perché vuole, ma perché deve. E sta a noi, oggi, decidere se ignorare questa realtà o trasformarla in un’occasione di giustizia e coesione. Serve uno sguardo più lungo e più giusto, capace di leggere le migrazioni non solo come emergenze ma come processi strutturali legati a trasformazioni climatiche, economiche e sociali.
Gli spostamenti di interi popoli al momento in corso (come nell’arcipelago delle Tuvalu o in Sudan) non sono mai improvvisi, ma sono migrazioni lente, spesso invisibili, che si sommano anno dopo anno e si trasformano in flussi più ampi. Il punto è che, se non impariamo a leggere il clima come moltiplicatore di minacce, capace di esasperare tensioni latenti e amplificare crisi già in atto, continueremo a interpretare le sue conseguenze come anomalie isolate. Oggi abbiamo tutti gli strumenti per riconoscere la correlazione tra degrado ambientale e instabilità sociale, tra siccità e conflitti, tra perdita di biodiversità e movimenti umani. Quello che manca, spesso, è il coraggio politico di dirlo con chiarezza.E forse anche il linguaggio. Perché dare un nome a qualcosa significa riconoscerla. E riconoscere i migranti climatici non vuol dire solo registrare un fenomeno: vuol dire assumerci la responsabilità di un cambiamento di rotta.
L’articolo è tratto dal numero di Green&Blue in edicola il 4 giugno, allegato a Repubblica e dedicato al Festival di Green& Blue (Milano, 5-7 giugno)
La partecipazione al G&B Festival è gratuita previa registrazione.