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Crisi climatica, per le nostre città ora la vera sfida è l’adattamento

Cominciamo da quattro numeri: 3, 55, 75, 80. Queste cifre hanno plasmato per anni il modo in cui parliamo delle città. Le città occupano solo il 3% della superficie del pianeta. Ospitano oltre il 55% della popolazione globale. Consumano il 75% di tutta l’energia e producono l’80% delle emissioni di anidride carbonica.È il modello standard. Spesso viene usato per giustificare l’importanza delle città – perché renderle più efficienti potrebbe avere un impatto globale sproporzionato. E per molto tempo, questa è stata la logica guida: ottimizzare la città, e il Pianeta seguirà.

Il programma

G&B Festival 2025, dal 5 al 7 giugno a Milano: il programma

20 Maggio 2025

Ma c’è un altro insieme di numeri di cui dobbiamo iniziare a parlare:

  • 1.5 – i gradi Celsius che con ogni probabilità supereremo nei prossimi decenni.
  • 2035 – l’anno in cui, secondo alcune proiezioni, la barriera del MOSE a Venezia potrebbe non reggere più.
  • 3,6 millimetri all’anno – l’attuale ritmo di innalzamento del livello medio globale del mare.
  • 150.000 – le morti stimate ogni anno legate al clima entro la fine di questo decennio.

Questi non sono numeri che richiedono ottimizzazione. Chiamano l’adattamento. Per anni, come architetti, urbanisti e progettisti, ci siamo concentrati sulla mitigazione. Abbiamo parlato di ridurre le emissioni, rimpicciolire l’impronta ecologica, abbassare le soglie. Abbiamo progettato edifici con un migliore isolamento, sistemi più efficienti, materiali più intelligenti. Al MIT, abbiamo sviluppato tecnologie per riscaldare o raffreddare direttamente le persone, evitando di sprecare energia per stanze vuote. A Singapore, abbiamo scoperto che la domanda di mobilità privata si poteva soddisfare con una frazione del parco auto attuale – se le persone erano disposte a condividere. Ma anche se implementassimo ognuna di queste soluzioni, la realtà è questa: il clima è già cambiato. Il danno non è più teorico. Il mare si alza. Il caldo aumenta. E le infrastrutture che abbiamo costruito – fisiche e concettuali – non sono pronte. L’adattamento diventa, così, la vera frontiera del progetto.

Cosa significa progettare per l’adattamento? Significa immaginare edifici e città capaci di convivere con l’acqua, invece di respingerla. Significa abbracciare la flessibilità al posto della permanenza, la ridondanza invece della precisione. Significa guardare ai sistemi ecologici – barriere coralline, zone umide, colonie microbiche – non solo come metafore di resilienza, ma come veri modelli da cui apprendere. Significa anche cambiare i parametri con cui misuriamo il successo. Se 2, 50, 75 e 80 hanno definito il capitolo precedente dell’urbanistica, quali numeri dovrebbero guidare il prossimo? Quanti edifici riescono ad assorbire calore senza ricorrere a sistemi meccanici? Quante infrastrutture sono progettate per cedere senza collassare? Quanti ambienti urbani riescono a sostenere più di una specie?

Alla Biennale Architettura 2025, abbiamo usato spesso un termine latino: intelligens – non semplicemente intelligenza come qualcosa che si possiede, ma inter-legere: la capacità di leggere tra le righe. Tra il naturale e l’artificiale. Tra le discipline. Tra umani e non umani. Questo spirito del “leggere tra” è essenziale per l’adattamento. Perché adattarsi non è un esercizio solitario. È un atto collettivo. Ci chiede di lavorare oltre i compartimenti stagni, oltre i confini, oltre le specie. Di attingere all’intelligenza naturale, ai sistemi artificiali e alla creatività umana – non in isolamento, ma in dialogo.

Sì, i numeri contano ancora. Ma i numeri da soli non bastano a farci orientare in ciò che ci aspetta. Per questo, dobbiamo cambiare il modo in cui progettiamo, collaboriamo e immaginiamo. Una volta progettavamo le città per resistere all’ambiente. Ora, la vera sfida è imparare a viverci insieme.

La partecipazione al G&B Festival è gratuita previa registrazione.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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