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Biodiversità e genetica: cos’è il “Cali Fund” e perché è uno strumento per la giustizia ambientale

Nel fondo dei mari caraibici nel 1969 fu scoperto che da un piccolo animale, l’ascidia, era possibile ricavare la trabectedina, un farmaco antitumorale che interagisce con il DNA. Da alcuni fagioli coltivati in Colombia si ottengono invece sistemi per la resistenza alle malattie di colture agricole presenti in tutto il mondo e da piante come la Azadirachta indica, conosciuta anche come “neem”, si ricavano oli e medicine naturali così diffuse che in India vengono chiamate le “farmacie del villaggio”. Il bello della biodiversità è anche questo: offre una infinità di dati e sequenze genetiche che l’uomo può usare nella farmaceutica, nelle biotecnologie, nella cosmesi e in tanti altri campi. Quando però i grandi gruppi e le società multinazionali sfruttano quelle sequenze, per esempio basandosi su piante o animali di cui si sono presi cura per secoli le comunità indigene, e ne ottengono ricavi enormi, non dovrebbero condividere parte dei loro guadagni? E se una minuscola percentuale del loro fatturato finisse in un fondo dedicato proprio a proteggere la stessa biodiversità?. Questa è la domanda alla base del fondo chiamato “Cali Fund”, nato durante la Cop16 che si è svolta in Colombia a novembre e diventato operativo oggi a Roma– con annuncio ufficiale – alla Cop16 bis, i tempi supplementari per trovare un accordo per la protezione della biodiversità planetaria in nella sede della Fao.

Cos’è il Cali Fund e perché è una misura di giustizia ambientale

Il Cali Fund, come ha detto l’Unep, l’organismo ambientale dell’Onu, è qualcosa che promette di cambiare le carte in tavola: in teoria dovrebbe infatti garantire una condivisione “giusta ed equa” dei benefici derivanti da quelle che vengono chiamate le DSI, le Digital Sequence Information sulle risorse genetiche che usano le aziende e che vanno dalla farmaceutica sino alla cosmesi.

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Il nuovo fondo annunciato a Roma prevede tre passaggi davvero potenzialmente rivoluzionari perché coinvolgono direttamente il settore privato nella lotta alla perdita della biodiversità. Per esempio indica il fatto che le aziende che sfruttano commercialmente i dati provenienti da risorse genetiche presenti in natura per usarle in una serie di settori e prodotti redditizi contribuiscano con parte dei loro ricavi (a partire dallo 0.1%) al Fondo. Quei contributi saranno destinati tramite la gestione CBD, la Convenzione sulla biodiversità, all’attuazione delle tante e importanti decisioni per conservare e proteggere la natura inserite nel quadro sulla biodiversità di Kunming-Montreal (KMGBF) e, fattore decisivo, almeno il 50% delle risorse del fondo sarà destinato ai popoli indigeni, i veri custodi della natura.

Presentando l’operatività del Fondo, la presidente della Cop16, la colombiana Susana Muhamad, ha parlato di svolta storica e di un duro lavoro per poterlo rendere efficace appena quattro mesi dopo l’adozione della decisione presa a Cali. L’idea del Fondo è anche interessante perché si basa sulla stretta attualità, ovvero la continua corsa all’accesso dei dati genetici, una miniera d’oro per sviluppi commerciali in tantissimi settori, compresi intelligenza artificiale ed energia.

Il suo funzionamento però è incerto, soprattutto perché è privo di obblighi: tutto si basa sulla volontarietà delle aziende e del settore privato, che sì avranno uno strumento “equo” per compensare in qualche modo i loro ricavi e permettere nuova protezione di biodiversità, ma dall’altra parte non hanno vincoli nel farlo, cosa che secondo alcuni potrebbe trasformare il Cali Fund in un flop o, addirittura, in una scusa per sfruttare ulteriormente la biodiversità.

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Nelle stesse aule della Cop16, nonostante il Fondo fosse già stato pensato in passato (e ora è operativo), non è stato fatto per esempio nessun nome di società o aziende pronte ad aderirvi e a finanziarlo. Di sicuro il nuovo Fondo, più che una opzione di contrasto a quella che viene chiamata “biopirateria”, così come è pensato offre una chance di redenzione, un sistema per aiutare sia i popoli sia la biodiversità di quelle aree del mondo dove la diversità genetica viene sfruttata, ma non essendoci nessun obbligo nel farlo tutto dipenderà dalle scelte del settore privato. Il mercato globale del sequenziamento del DNA che si affida in gran parte sulle DSI si stima raggiungerà i 21,3 miliardi di dollari entro il 2031, enormi profitti di cui anche solo piccolissime percentuali potrebbero finire nel Fondo diventando però davvero significative per la conservazione della natura.

Per funzionare, alcuni delegati presenti alla Cop romana sottolineano che i Paesi partecipanti dovrebbero ragionare su quadri giuridici per garantire che le aziende che usano i DSI versino poi realmente i soldi, in modo che poi possano essere distribuiti davvero alle comunità locali. Stime preliminari indicano che potrebbe generare tra gli 1 e i 9 miliardi di dollari l’anno, ma tutto dipenderà appunto da come si comporteranno i privati. Insomma, nonostante sia stato accolto molto positivamente durante il lancio di Roma, il Cali Fund per ora resta un “potenziale” strumento davvero innovativo, ma è chiaro che serve un ulteriore impegno per implementarlo. Come commenta il WWF international, “pur essendoci alcuni elementi da chiarire e rafforzare, accogliamo con favore l’istituzione di questo meccanismo innovativo, che rafforzerà il raggiungimento degli obiettivi volti a fermare e invertire la perdita di natura entro il 2030, assicurando al contempo benefici diretti a coloro che hanno salvaguardato gli ecosistemi per secoli”.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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