6 Agosto 2025

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    La spesa è “disimballata”, i prodotti freschi vengono venduti sfusi

    “Questa attività contribuisce alla riduzione degli imballaggi e della plastica monouso”. Un adesivo verde con la scritta bianca è apparso su molte vetrine dei negozi in un paese della Sicilia, San Giovanni la Punta, in provincia di Catania. È il secondo comune italiano che ha aderito al progetto pioneristico “Spesa Disimballata”. Il primo è stato Varese. Gli abitanti escono per fare la spesa portandosi dietro i contenitori da casa. Carne, formaggi, pesce, affettati, pizza, frutta, verdura non vengono più incartati, chiusi nei cestelli monouso di plastica, infilati in buste, bustine, scatole di carta e di cartone usa e getta. Vengono venduti sfusi e semplicemente serviti dentro un contenitore di proprietà del cliente. Senza imballaggio.

    L’impegno dei Depeche Mode
    Il progetto è dell’associazione “Rifiuti Zero Sicilia”, sostenuto sia da Sicily Environment Fund, fondazione nata per sostenere iniziative di tutela ambientale e preservare la biodiversità e gli ecosistemi in Sicilia, grazie al finanziamento ricevuto da Conservation Collective attraverso la partnership con la band Depeche Mode. Ed è proprio la band britannica ad aver scelto di sostenere la rete di fondazioni locali che hanno aderito al Conservation Collective. Durante il loro ultimo tour, hanno lanciato l’appello per affrontare concretamente problemi globali come la gestione dei rifiuti e l’inquinamento da plastica, spiegando che lo avrebbero messo in atto attraverso l’implementazione di iniziative locali innovative. Grazie a questa mission nasce dunque il progetto “Spesa Disimballata”. Obiettivo: stimolare un cambiamento profondo e duraturo nella comunità siciliane e non solo.

    Contenitori per la pizza forniti per il progetto “Spesa Imballata”  LEGGI TUTTO

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    L’acqua dolce sta scomparendo a un ritmo senza precedenti in tutto il pianeta

    L’acqua dolce sta diminuendo a un ritmo allarmante. I cambiamenti climatici e l’eccessivo sfruttamento delle falde acquifere stanno infatti drasticamente riducendo le riserve di acqua dolce e al contempo contribuendo all’innalzamento del livello del mare. A riferirlo è un nuovo studio dei ricercatori dell’Arizona State University che hanno mostrato come i continenti abbiano subito una perdita d’acqua dolce senza precedenti dal 2002, minacciando, quindi, la disponibilità idrica per la popolazione mondiale. I dettagli dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Science Advances.

    La perdita di acqua dolce
    Per stimare le variazioni della quantità totale di massa d’acqua immagazzinata nei continenti, tra cui fiumi, falde acquifere sotterranee, ghiacciai e calotte glaciali, i ricercatori hanno passato in rassegna oltre un decennio di dati provenienti delle missioni satellitari US-German Gravity Recovery and Climate Experiment (GRACE) e GRACE-Follow On (GRACE-FO). Dalle analisi, il team ha scoperto che tra il 2002 e il 2024 si sono verificate drastiche riduzioni di acqua dolce. In particolare, è emerso che le aree soggette a siccità non solo stanno diventando sempre più aride, una tendenza prevista dai cambiamenti climatici, ma si stanno espandendo di oltre 800 mila chilometri quadrati all’anno, un’area grande quanto Regno Unito e Francia messe insieme.

    Cosa succede al pianeta

    Così la siccità ci mette tutti a rischio

    di Giacomo Talignani

    08 Agosto 2025

    Le 4 regioni mega aride
    Il team, inoltre, ha identificato quattro regioni “mega-aride” che creano la cosiddetta fascia di siccità. Tra queste ci sono il Canada settentrionale e la Russia, dove la perdita è causata dallo scioglimento dei ghiacciai, dal permafrost e dalla riduzione della neve. Nelle altre due regioni, invece, è dovuta principalmente all’esaurimento delle falde acquifere. Si tratta, nel dettaglio, del sud-ovest degli Stati Uniti, di gran parte dell’America centrale e di una regione che si estende dall’Europa occidentale e dal Nord Africa fino all’India settentrionale e alla Cina. I ricercatori, infatti, hanno scoperto che l’esaurimento delle falde acquifere rappresenta il 68% del calo complessivo delle riserve idriche. “È impressionante quanta acqua non rinnovabile stiamo perdendo”, ha affermato Hrishikesh A. Chandanpurkar, tra gli autori dello studio. “I ghiacciai e le falde acquifere profonde sono una sorta di antichi fondi fiduciari. Invece di utilizzarli solo in periodi di necessità, come una siccità prolungata, li diamo per scontati. Inoltre, non cerchiamo di ricostituire le falde acquifere durante gli anni umidi, andando così incontro a un’imminente bancarotta di acqua dolce”.

    L’innalzamento degli oceani
    Le implicazioni negative di tutto questo per la disponibilità di acqua dolce sono sconcertanti. Il 75% della popolazione mondiale vive in 101 Paesi che hanno perso acqua dolce negli ultimi 22 anni. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione mondiale continuerà a crescere per i prossimi 50-60 anni, mentre la disponibilità di acqua dolce si sta riducendo drasticamente. Inoltre, stando ai risultati del nuovo studio, dal 2015 la perdita d’acqua dai Continenti ha causato un innalzamento del livello del mare maggiore rispetto allo scioglimento delle calotte glaciali dell’Antartide o della Groenlandia, innalzando gli oceani di poco meno di un millimetro all’anno. “Questi risultati inviano forse il messaggio più preoccupante finora sull’impatto del cambiamento climatico sulle nostre risorse idriche”, ha affermato il co-autore Jay Famiglietti. “I continenti si stanno prosciugando, la disponibilità di acqua dolce si sta riducendo e l’innalzamento del livello del mare sta accelerando. Le conseguenze del continuo sfruttamento eccessivo delle falde acquifere potrebbero compromettere la sicurezza alimentare e idrica per miliardi di persone in tutto il mondo”. LEGGI TUTTO

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    Le aree di foresta amazzonica bruciata restano calde e stressate per decenni

    Il danno dovuto agli incendi che si verificano nelle foreste dell’Amazzonia brasiliana non è solo quello immediatamente visibile. Secondo i risultati di uno studio pubblicato su Environmental Research Letters, infatti, le aree di foresta amazzonica danneggiate dagli incendi rimangono più calde di circa 2,6°C rispetto alle aree circostanti intatte oppure soggette a disboscamento controllato. E questo effetto può durare per decenni, con un abbassamento di temperatura pari a soli 1,2°C nei 30 anni successivi all’evento. Questo rende le foreste danneggiate molto più vulnerabili per esempio alle conseguenze del cambiamento climatico. “Stiamo scoprendo che gli incendi hanno un impatto ecologico significativo su scale temporali molto ampie e che la rigenerazione è molto più a rischio: è più lenta o non avviene affatto”, spiega Savannah Cooley, che ha un dottorato di ricerca in Ecologia, evoluzione e biologia ambientale ottenuto presso la Columbia University (Stati Uniti), ed è prima autrice del lavoro e ricercatrice presso il Nasa Ames Research Center. Autori e autrici dello studio hanno analizzato in particolare un’aera di foresta amazzonica brasiliana nota come “Arco di deforestazione” (“Arc of deforestation”), che negli ultimi decenni è stata appunto oggetto di deforestazione e teatro di incendi. E che oggi costituisce un caso studio ideale, spiegano i ricercatori, perché è in sostanza un mosaico di aree intatte, bruciate, disboscate e in fase di rigenerazione.

    La ricerca è stata condotta combinando i dati sulla temperatura della superficie terrestre ottenuti attraverso lo strumento Ecostress della Nasa con i dati raccolti grazie alla missione Gedi (Global Ecosystem Dynamics Investigation) lidar. Quest’ultima in sostanza è pensata per produrre immagini ad alta risoluzione della struttura tridimensionale della Terra, e per scansionare dall’alto la situazione delle foreste e soprattutto delle chiome, la cui integrità è fondamentale per il controllo delle temperature in queste aree. Oltre ad essere mediamente più calde, le zone di foresta bruciata all’interno dell’Arco di deforestazione sono risultate essere anche più instabili dal punto di vista termico. Rispetto alle aree intatte o soggette a disboscamento controllato, quelle che hanno subito incendi in passato mostrerebbero infatti maggiori fluttuazioni di temperatura nell’arco della giornata, e sarebbero anche più soggette a superare le soglie fisiologiche che compromettono la funzionalità degli alberi. Per esempio, durante il picco di calore della stagione secca, quasi l’87% delle foglie esposte alla luce solare nelle foreste bruciate raggiungerebbe temperature per cui la respirazione cellulare prevale sulla fotosintesi (situazione in cui le piante bruciano più riserve di energia di quelle che accumulano), rispetto al 72-74% delle aree di foresta soggette a disboscamento controllato o intatte.

    Deforestazione

    C’era una volta l’Amazzonia, il WWF: “In 15 anni rischiamo di perderla”

    di Giacomo Talignani

    13 Maggio 2025

    Inoltre, nelle aree che sono state teatro di incendi in passato, la probabilità che la temperatura delle foglie superi il limite per cui si verificano danni permanenti è risultata essere dieci volte superiore. Questo perché gli incendi cambiano completamente la struttura della foresta, diradando le chiome, spazzando via il sottobosco e riducendo la superficie fogliare, da cui dipendono i due principali meccanismi di raffreddamento delle piante (ombra e traspirazione). Al contrario, spiegano i ricercatori, nelle aree soggette a disboscamento controllato e in cui è stata mantenuta l’integrità delle chiome, le temperature sono risultate simili a quelle registrate nelle foreste intatte. “Gli ecosistemi tropicali degradati, in particolare le foreste bruciate, stanno subendo uno stress termico – conclude Cooley – Ma possiamo fare molto per ridurre al minimo i danni alla biodiversità e alle specie che stanno subendo questo stress, sia in termini di gestione forestale, contribuendo a ridurre gli incendi in Amazzonia, sia dal punto di vista della mitigazione delle emissioni di carbonio, continuando a ridurre le emissioni in modo aggressivo e rapido e passando a un’economia energetica sostenibile e pulita”. LEGGI TUTTO

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    Le “terre alte”, un patrimonio da rivalutare

    Nel cuore dell’Italia meno visibile – quella delle aree interne – si custodisce una parte fondamentale del nostro patrimonio agroalimentare e ambientale. Lontano dai grandi centri urbani, si intrecciano storie di colture tradizionali, saperi contadini e paesaggi agrari modellati nel tempo. Sono le terre alte, forgiate da secoli di lavoro agricolo, che hanno dato origine a produzioni uniche e allevamenti sostenuti da pascoli permanenti, talmente ricchi di biodiversità da non essere mai uguali a sé stessi. Eppure, questi patrimoni – per decenni fonte di eccellenze irripetibili – faticano ancora a ricevere il giusto riconoscimento. Oggi, le politiche del cibo e della biodiversità in queste aree assumono un ruolo strategico, non solo per la resilienza ambientale, ma anche per lo sviluppo socioeconomico. La cornice normativa, sia nazionale che europea, inizia timidamente a riconoscerne il valore, pur tra difficoltà e contraddizioni. Secondo la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), le terre alte coprono oltre il 60% del territorio italiano, ma sono segnate da spopolamento, carenze infrastrutturali e abbandono agricolo.

    Nonostante ciò, proprio in questi territori resistono varietà colturali e razze autoctone ad alto valore ecologico, insieme a pratiche agricole compatibili con la tutela degli ecosistemi. L’Italia, pioniera nella difesa della biodiversità agraria anche grazie alla Legge 194/2015, continua tuttavia a perdere risorse genetiche preziose, con gravi ricadute culturali, sociali e ambientali. La scomparsa degli agricoltori, del resto, è spesso il preludio al dissesto idrogeologico. Lo ricordava Sereni: il paesaggio agrario è un paesaggio naturale modellato dall’uomo per fare agricoltura e produrre cibo, attraverso la biodiversità agraria e applicando modelli colturali in equilibrio con l’ambiente, basati su principi di agroecologia. Su questo solco, oggi, è tempo di immaginare modelli di sviluppo alternativi a quelli industriali che hanno portato l’agricoltura a contribuire significativamente all’emissione di gas climalteranti in atmosfera. Abbiamo bisogno di mettere a fuoco un modello in cui la biodiversità diventi un ponte tra territori diversi e una leva culturale per valorizzare quelle aree fragili, ma ricche di potenziale, dove il cibo rappresenta molto più che nutrimento.

    Nelle aree interne, infatti, il cibo è presidio del territorio e di fronte alla crisi climatica, alla perdita di suolo fertile e all’instabilità delle filiere globali, le produzioni locali non sono un retaggio nostalgico, ma strumenti di resilienza e sovranità alimentare. A giugno 2024, l’approvazione definitiva della legge sul ripristino della natura (Nature Restoration Law) – uno dei pilastri del Green Deal europeo – ha segnato una svolta. La legge, vincolante per tutti gli Stati membri, impone il ripristino di almeno il 20% degli ecosistemi terrestri e marini entro il 2030, con particolare attenzione a quelli agricoli e forestali degradati, inclusi pascoli e prati permanenti delle terre alte. Un’opportunità storica per le aree interne, che possono diventare protagoniste della transizione ecologica, grazie a pratiche agroecologiche, alla rinaturalizzazione dei suoli e al recupero della biodiversità, al rafforzamento delle politiche di coesione economica, sociale e territoriale funzionali a rigenerare il ruolo delle comunità.

    Ma perché questa transizione sia possibile, è necessario uno sguardo lungo: servono visione politica, scelte coraggiose e il coinvolgimento attivo di agricoltori, enti locali, cittadini. Dalla Legge 194/2015 alla PAC, dalla SNAI alla Nature Restoration Law, il quadro normativo esiste. La vera sfida, ora, è politica e culturale: costruire alleanze capaci di ridare futuro a questi territori e restituire loro la centralità che meritano. Non mancano le criticità: la frammentazione delle competenze, la difficoltà di accesso alla terra per i giovani, l’eccessiva burocrazia nei fondi europei. Ma se crediamo in un cibo che nutre davvero – e non che sfama – allora non possiamo che scegliere la strada della rigenerazione e un modello alimentare più locale, giusto e sostenibile ha come punto di partenza proprio il paesaggio agrario delle terre alte quale filo conduttore che lega ambiente, cultura e futuro.
    * (L’autore è vicepresidente di Slow Food) LEGGI TUTTO