Luglio 2025

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    La via della Formula 1 alla sostenibilità

    La frenesia nella corsia dei box, l’attesa alla griglia di partenza, il boato dei motori in gara. E, quando passano le auto, la velocità che si tocca con mano. La Formula 1 è uno sport tanto entusiasmante quanto ad alto impatto ambientale, dato che una stagione genera circa oltre 200mila tonnellate di emissioni. Una cifra che, oggi, non può passare inosservata e che ha indotto dirigenti e organizzatori a prendere provvedimenti. I primi risultati sembrano essere già arrivati, come testimonia il report ufficiale del 2023, secondo il quale il rilascio di gas serra sarebbe diminuito da 256.551 tonnellate nel 2018 a 223.031 nel 2022, con una riduzione del 13%, nonostante l’aumento delle gare (da 21 a 24). “L’obiettivo rimane la neutralità carbonica entro il 2030”, ha dichiarato Stefano Domenicali, presidente e amministratore delegato del campionato. “Per raggiungerlo serve un’ulteriore riduzione del 37%”.

    Biocarburanti per auto da corsa e trasporti
    La maggior parte delle emissioni generata dai veicoli da gara deriva dai combustibili. Per questo, la F1 punta a introdurre dal 2026 motori ibridi di nuova generazione alimentati a carburante drop-in sostenibile al 100%, prodotto da biomassa o rifiuti, in grado di replicare le prestazioni della benzina convenzionale. Già nel 2024 le monoposto di F2 e F3 hanno utilizzato miscele composte al 55% da biocarburante avanzato, percentuale salita al 100% nel 2025. Anche il trasporto di squadre e materiali viene gestito con soluzioni più ecologiche. Per esempio, nel 2024 Mercedes ha alimentato con biocarburanti i camion di supporto e i generatori durante la stagione europea, coprendo il 98% degli spostamenti su strada e risparmiando oltre 500 tonnellate di emissioni. In parallelo si cerca anche di ottimizzare il calendario delle gare per ridurre i voli intercontinentali.

    Innovazioni tecnologiche
    Le scuderie stanno anche introducendo materiali e design sostenibili. Un esempio è sempre Mercedes, che nel 2025 ha impiegato per la prima volta nella produzione della monoposto W16 di Formula 1 compositi di fibra di carbonio a basso impatto, un’innovazione che riduce in modo significativo le emissioni. Inoltre, la F1 collabora con tutti i fornitori per migliorare cicli di vita e smaltimento: per esempio, gli pneumatici da gara sono oggi certificati Forest Stewardship Council e vengono integralmente riciclati dopo ogni Gran premio.

    Gli eventi a energia pulita
    Molti autodromi stanno investendo in infrastrutture verdi. Dal 2023, al Gran Premio di Gran Bretagna sono stati installati tre impianti solari mobili chiamati Papilio 3, che producono energia pulita e forniscono elettricità per ricaricare i veicoli elettrici del pubblico e dello staff. Anche altri circuiti hanno fatto lo stesso: ci sono pannelli solari ai Gran premi di Francia e Canada, mentre quello di Spagna è già alimentato al 100% da energia rinnovabile. Inoltre, la F1 ha sperimentato centri di generazione energetica per abbattere le emissioni di corrente durante gli eventi. Per esempio, al Gran premio d’Austria del 2023 è stato usato un sistema mobile alimentato da biocarburante ottenuto trattando oli vegetali con idrogeno e da 600 metri quadrati di pannelli solari: sono stati così prodotti circa 2,5 megawattora di energia, sufficienti a soddisfare il fabbisogno di paddock, motorhome, pitwall e servizi tv, con una riduzione del 90% delle emissioni associate a quelle aree rispetto al 2022. Nel 2025 lo stesso sistema è stato installato in tutti i Gran premi europei: un unico impianto condiviso alimentato a biocarburante, solare e batterie fornisce energia a team e dirette televisive, eliminando la necessità che ciascuno porti propri generatori. Il paddock ha, inoltre, messo al bando molte plastiche monouso e introdotto misure di riciclo, preferendo contenitori dedicati, borracce riutilizzabili, stoviglie compostabili, in linea con gli standard per gli eventi sostenibili. LEGGI TUTTO

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    Da Torino al Senegal, per far crescere le mangrovie

    Toubacouta (Senegal) – Dall’ampia distesa di acqua salmastra spuntano, in file ordinate, i propaguli di mangrovie. Al momento sono solo lunghi steli con qualche germoglio in cima. Ma tra qualche anno – si spera – questa distesa di sabbia inondata periodicamente dalla marea sarà ricoperta di arbusti alti uno o due metri, a ripristinare quello che qualche decennio fa era un rigoglioso mangrovieto. Secondo uno studio dell’Institute of Pacific Islands Forestry degli Stati Uniti, infatti, il 35% della superficie globale delle mangrovie è andata persa negli ultimi cinque decenni a causa del cambiamento dell’uso del suolo provocato dalla specie umana, degli eventi meteorologici estremi e dell’erosione. Una scomparsa a un ritmo di cinque volte più rapido di quello di altre aree boschive del pianeta, con importanti ripercussioni ecologiche e socioeconomiche.

    Siamo nel delta del Saloum, sulla costa del Senegal. Qui, nel 2002, Toubacouta, Soucouta, Sipo, Bettenti, Nema Bah, Dassilamé e altre sette comunità rurali che si affacciano sui canali del fiume, hanno deliberato all’unanimità l’istituzione della prima Area Marina Protetta Comunitaria del paese africano: 334.000 ettari, di cui 60.000 di mangrovie, che ospitano 188 specie vegetali, 114 specie ittiche e 36 specie di mammiferi selvatici. Oggi l’AMPC di Bamboung è gestita dalle autorità locali in collaborazione con le tredici comunità fondatrici. E proprio qui la ONG italiana Bambini nel Deserto ha implementato un progetto di riforestazione di questa zona costiera. I finanziamenti arrivano da dove non ti aspetti: a raccogliere 11 mila euro, di cui 5000 utilizzati a ricoprire di propaguli cinque ettari di terreno, sono state le scuole di danze popolari di Torino: Baldanza, Treedanza, Arridanza, Ritmo del blu, e la bocciofila di Alba. “Si fanno spettacoli e concerti, e gli artisti si esibiscono gratis. I contributi in denaro del pubblico arrivano qui in Senegal, per sostenere il lavoro della ONG”, spiega Nuccia Maldera, un tempo insegnante di scuola primaria nel capoluogo piemontese e ora quasi in pianta stabile in questa parte d’Africa per gestire questo e molti altri micro-progetti di cooperazione interazionale.

    Delta del Saloum, Senegal. Un agente dell’Area Marina protetta di Bamboung. Tra i suoi compiti, il censimento delle specie animali e vegetali, la gestione degli incendi, il controllo delle attività illegali come bracconaggio e pesca di frodo  LEGGI TUTTO

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    Gli attivisti esultano per la sentenza della Corte dell’Aja: “Trionfo per la giustizia climatica”

    “È un trionfo per la giustizia climatica, un momento decisivo per le persone e le comunità ingiustamente colpite dal cambiamento climatico, che è una delle più grandi ingiustizie della storia umana”. Il giorno dopo il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia non si spegne l’eco delle reazioni. E dalle Filippine arriva a Green&Blue la […] LEGGI TUTTO

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    Earth Overshoot Day, abbiamo consumato tutte le risorse naturali del Pianeta

    Oggi è quel giorno, quello in cui l’umanità ha già finito tutte le risorse naturali a disposizione: da domani in poi, ogni nostra azione implicherà il sovrasfruttamento della Terra. Un giorno – l’Earth Overshoot Day – che arriva sempre prima dato che l’umanità continua ad esaurire e sfruttare tutto il budget ecologico annuale del Pianeta. Prima era in agosto, ora è il 24 luglio: mai, finora, era stato così anticipato. Il motivo è sempre il solito: consumiamo risorse naturali più velocemente di quanto la Terra sia in grado di rigenerare e attraverso le emissioni che alterano il clima, le varie forme di inquinamento, scarti e rifiuti, aggraviamo costantemente le condizioni del Pianeta.

    In pratica l’attuale popolazione globale oggi consuma in media l’equivalente di 1,8 Pianeti Terra ogni anno, ritmo che supera dell’80% la capacità rigenerativa del Pianeta stesso. In Italia è come se consumassimo invece 2.9 Terre, mentre negli Stati Uniti addirittura 5. Per soddisfare completamente la richiesta di natura dei suoi abitanti l’Italia stessa avrebbe bisogno di circa 4,4 l’Italia, un valore decisamente alto se si pensa che sopra di noi ci sono pochi Paesi – come ad esempio Giappone (6,6) o Cina (4,7) – con tassi di richiesta così elevati. Per dire: la Francia avrebbe ne bisogno di “appena” 1,9, la Spagna di 2,3, quasi la metà rispetto a noi.

    Quando si consuma tutto ciò di cui si necessita, si inizia ad andare a “credito”, andando così ad aggravare il debito ecologico. Il che è decisamente un aggravio pesante in un contesto già stravolto, sempre per colpa dell’uomo, dalla perdita di biodiversità, la crisi del clima, la deforestazione, la crisi dell’uomo e dall’addio a risorse fondamentali, come l’acqua e i ghiacciai.

    Per invertire la rotta, ricorda il Wwf – che ha promosso sul tema la campagna Our Future – dovremmo dunque “tutti di imparare a vivere nei limiti di un solo Pianeta, oggi più che mai”. Ma siccome “è dalle nostre abitudini che derivano le crisi ambientali ed è solo attraverso i nostri comportamenti che potremo sanarle” se non riusciremo ad impostare un futuro che sia più sostenibile, il momento in cui esauriremo le nostre risorse continuerà ad arrivare sempre prima. Basti pensare che nel 1970 la data dell’Overshoot Day era a dicembre, a fine anno, adesso è intorno a metà anno, il 24 luglio appunto, perché anno dopo anno l’umanità ha consumato più risorse naturali di quante la Terra fosse in grado di rigenerare in quello stesso anno.

    La buona notizia: possiamo ancora recuperare il debito ecologico
    Se volessimo recuperare questo debito “significa che al Pianeta sarebbero necessari 22 anni di piena produttività ecologica. Un calcolo però solo teorico perché ad oggi non tutta la capacità rigenerativa è più intatta (abbiamo perso intere foreste, eroso i suoli, impoverito i mari…) e alcuni danni che abbiamo provocato sono ormai irreversibili (come le specie che si sono estinte o i ghiacciai sciolti).

    Inoltre, la crisi climatica in corso aggrava ulteriormente la capacità del Pianeta di rigenerarsi” ricorda il Wwf. “Non solo stiamo vivendo a credito ogni anno, ma abbiamo anche accumulato un enorme debito nei confronti del sistema Terra. Ripagare questo debito – in termini ecologici – è quasi impossibile se continuiamo a ignorarne le conseguenze” spiega Eva Alessi, Responsabile Sostenibilità del WWF Italia precisando che “si tratta di una chiamata urgente all’azione per cambiare radicalmente il nostro modello di sviluppo, prima che il danno diventi definitivamente irreparabile”. Una chiamata a cui però possiamo ancora rispondere.

    Cinque azioni per invertire la rotta
    La soluzione per spostare la data dell’Overshoot Day infatti secondo il Wwf esiste e passa per cinque azioni in cinque settori chiave, oggi rilanciate anche con il tag #MoveTheDate: la transizione energetica con il passaggio alle fonti rinnovabili e l’addio al fossile; l’implementazione dell’economia circolare; la crescita di una alimentazione davvero sostenibile; l’ampliamento della mobilità green e infine l’attuazione di politiche globali che attuino accordi più stringenti per la tutela ambientale. “Se ad esempio riducessimo del 50% le emissioni di CO?, sposteremmo la data di ben 3 mesi (93 giorni)! Se diminuissimo del 50% il consumo globale di carne, guadagneremmo 17 giorni. Se fermassimo la deforestazione, recupereremmo 8 giorni” raccontano dall’associazione ambientalista. La buona notizia sta dunque nel fatto che siamo ancora in tempo, che abbiamo la possibilità entro il 2050 di tornare in equilibrio con le risorse planetarie, a patto di riuscire a spostare l’Overshoot Day di 5 giorni l’anno.

    Perché avviene l’esaurimento delle risorse e quali sono i rischi
    Da Ginevra in Svizzera, dove viene calcolato dal Global Footprint Network l’Overshoot Day con dati che si basano su piani nazionali e biocapacità dei Paesi, viene poi specificato che il superamento accade a causa del mix di più azioni. Ad esempio “perché le persone emettono più CO2 di quanta la biosfera possa assorbirne, perché consumano più acqua dolce di quanta ne venga reintegrata e abbattono più alberi di quanti ne possano ricrescere, o perché pescano più velocemente di quanto le riserve si ricostituiscano”.

    Un superamento che ha impatti diretti su di noi: alimenta la stagnazione economica, l’insicurezza alimentare ed energetica ma che crisi sanitarie e conflitti. “L’Earth Overshoot Day – commenta il professor Paul Shrivastava della Pennsylvania State University e Co-Presidente del Club di Roma – ci ricorda che l’umanità sta consumando troppo, prendendo in prestito dal futuro. Se non si interviene, questo porterà al default, poiché l’ambiente sarà troppo impoverito per offrire tutto ciò di cui le persone hanno bisogno. Evitare il default finanziario ed ecologico dipende quindi dalla nostra capacità e volontà di ripagare il debito. La buona notizia è che evitare il default ecologico è possibile: ne abbiamo la capacità economica. Ora sviluppiamo la volontà politica, partendo dal comportamento dei singoli consumatori fino alle strategie economiche dei governi”. LEGGI TUTTO

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    Benvenuti nel Carbon Garden di Londra

    Quando le foglie delle querce tremano sotto una pioggia estiva, sembrano sussurrare storie antiche. Nei Royal Botanic Gardens a Kew, il quartiere a sud-ovest di Londra, una nuova storia prende forma. Apre il 25 luglio il Carbon Garden, il “giardino del carbonio”, progettato per mostrare come le piante possano diventare alleate concrete nella lotta contro la crisi climatica.

    (foto: Richard Wilford)  LEGGI TUTTO

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    Un orso polare sul capodoglio, il fotografo: “Mai visto prima”

    “Non avevo mai visto nulla del genere”. Anche per il celebre fotografo naturalistico Roie Galitz, che esplora e documenta da oltre dieci anni la natura nei luoghi all’apparenza più inospitali del pianeta, dall’Artico all’Antartico, c’è una prima volta. Lo straordinario scatto appena condiviso sui suoi seguitissimi profili social immortala un orso polare su una carcassa […] LEGGI TUTTO

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    Impianti di riscaldamento, con il “conto termico” c’è il rimborso immediato della spesa

    Pensarci adesso per non trovarsi a fare tutto di corsa tra un paio di mesi, così da poter scegliere la soluzione di riscaldamento economicamente più vantaggiosa, non solo e non tanto per i costi quanto soprattutto per i bonus che è possibile avere. Oltre alla detrazione fiscale del 50%, infatti, vale la pena di verificare […] LEGGI TUTTO

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    La Cassazione dice sì a Greenpeace: “Chi contribuisce alla crisi del clima può essere processato”

    Da ora in poi chi contribuisce alla crisi climatica inquinando a livello di emissioni potrebbe dover rispondere, anche in Italia, delle proprie azioni. Quella appena pubblicata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è una sentenza storica: i giudici hanno dato ragione – nell’ambito de “La Giusta Causa” a Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini – sulle corrette intenzioni e sulla possibilità del procedere nella causa intentata nel 2023 contro Eni, ma anche Cassa Depositi e Prestiti e ministero dell’Economia e delle Finanze, per metterle davanti alle loro responsabilità legate alla crisi climatica. “Da oggi – dicono Greenpeace e ReCommon, parlando di decisione “storica” – in Italia è finalmente possibile ottenere giustizia climatica”. Lo scorso febbraio c’era stato il ricorso, da parte dell’associazione ambientalista, di ReCommon e dei cittadini, nei confronti di Eni, Cdp e Mef che sostenevano come né un giudice ordinario, né alcun altro giudice italiano potessero avere la giurisdizione per decidere su “La Giusta Causa”, “rischiando così di rendere inammissibile l’intero procedimento. Un esito che potrebbe impedire future cause climatiche in Italia contro lo Stato o imprese private” spiegavano allora gli ecologisti.

    La Cassazione però ha dato ragione a Greenpeace: anche la giurisdizione italiana deve permettere cause di questo tipo, le ormai famose “climate litigation” che si tengono in tutta Europa per mettere di fronte chi inquina alle conseguenze climatiche del proprio operato. “Questa sentenza storica dice chiaramente che anche in Italia si può avere giustizia climatica – commentano Greenpeace Italia e ReCommon. Nessuno, nemmeno un colosso come Eni, può più sottrarsi alle proprie responsabilità. I giudici potranno finalmente esaminare il merito della nostra causa: chi inquina e contribuisce alla crisi climatica deve rispondere delle proprie azioni” spiegano. Se si è arrivati a questa sentenza, è anche e soprattutto per un precedente creato dalle ormai famose “Anziane per il clima”, un gruppo di oltre duemila attiviste svizzere di età media 75 anni che aveva denunciato il proprio paese per inazione contro la crisi climatica, ottenendo il consenso da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Anche nella sentenza della Cassazione in Italia si legge infatti un richiamo alla “giustiziabilità della pretesa azionata, richiamando la sentenza della Corte EDU del 9 aprile 2024, Verein KlimaSeniorinnen Schweiz c. Suisse, che, nel dichiarare ammissibile la domanda di un’associazione di diritto svizzero e di alcuni cittadini, volta a far valere omissioni delle autorità statali nel settore dei cambiamenti climatici e ha riconosciuto la complementarità dell’intervento giudiziario rispetto ai processi democratici, affermando che, pur non potendo sostituire l’azione del Potere legislativo ed esecutivo, il compito della magistratura consiste nel garantire il rispetto dei requisiti legali”.

    Il caso

    “La salvaguardia del clima è un diritto umano”: storica sentenza a Strasburgo, vincono le “signore dell’ambiente”

    Giacomo Talignani

    09 Aprile 2024

    Inoltre la Cassazione, fra le righe, ribadisce il concetto che “ormai vi è certezza in ordine all’esistenza di un cambiamento climatico di origine antropica, che rappresenta una grave minaccia per il godimento dei diritti umani e richiede l’adozione di misure urgenti che coinvolgono sia il settore pubblico che quello privato, al fine di limitare l’aumento della temperatura a 1,5° C” ricordando infine l’Accordo di Parigi e l’obbligo “d’intraprendere rapide riduzioni in linea con le migliori conoscenze scientifiche e della progressività della riduzione della produzione di gas climalteranti”. Azioni, quella della produzione di emissioni climalteranti, che secondo Greenpeace e ReCommon portano grandi aziende legate ai combustibili fossili, come Eni, così come lo Stato e gli azionisti che finanziano determinate operazioni, ad essere “responsabili della crisi climatica. Eni ha significativamente contribuito alla crisi con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone pienamente consapevole”.

    Da parte sua, Eni “esprime la propria grande soddisfazione in merito alla decisione della Cassazione. Finalmente si potrà riprendere il dibattimento innanzi al Tribunale di Roma dove saranno smontati i teoremi infondati di Greenpeace e ReCommon sulle fantasiose responsabilità per danni attribuibili ad Eni relativi ai temi del cambiamento climatico, in un contesto rigoroso e rispettoso della legge e non a fronte degli slogan strumentali, infondati e spesso mendaci delle due associazioni”.

    Da oggi in poi, ricordano ora le associazioni, “l’importantissimo verdetto avrà impatto su tutte le cause climatiche in corso o future in Italia, rafforzando la protezione dei diritti umani legati alla crisi climatica, già riconosciuti dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU). Non solo potrà essere decisa nel merito la causa contro Eni, Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. (CDP) e ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), avviata davanti al Tribunale di Roma perché sia imposto alla società di rispettare l’Accordo di Parigi, ma la decisione indica la strada per tutte le future azioni giudiziarie nel nostro Paese”.

    Diritti e ambiente

    Non solo Greenpeace: aumentano le SLAPP, le cause contro gli ambientalisti

    20 Marzo 2025

    In tutta Europa, dall’Olanda alla Germania, dalla Francia al Portogallo, sono ormai oltre 200 le “climate litigation” aperte per denunciare inazione o responsabilità contro chi contribuisce ad alimentare il riscaldamento globale: finora in Italia però, con la situazione “in stallo” de “La Giusta Causa”, sono stati pochissimi i tentativi di cause di questo genere. Adesso però, aggiunge Greenpeace, “le Sezioni Unite chiariscono che i giudici italiani sono competenti anche in relazione alle emissioni climalteranti emesse dalle società di Eni presenti in Stati esteri, sia perché i danni sono stati provocati in Italia, sia perché le decisioni strategiche sono state assunte dalla società capogruppo che ha sede in Italia. Ora grazie alla presente azione e alla decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite l’Italia si allinea agli altri paesi più evoluti in cui il clima e i diritti umani trovano una tutela giurisdizionale”. Il prossimo passo è dunque l’attesa, da parte delle associazioni, che “il giudice ordinario a cui spetta tornare a decidere su ‘La Giusta Causa’ superi ogni altra eccezione preliminare ed entri finalmente nel merito, come già avvenuto nei tribunali dei più importanti Paesi europei”. LEGGI TUTTO