26 Marzo 2025

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    Anche i social aiutano a monitorare gli animali in tempi di crisi del clima

    Il clima cambia, e gli areali di distribuzione degli animali si allargano, si restringono, o si spostano. Tutto questo movimento rende più difficile il compito di tenere traccia della dislocazione delle diverse specie. I database classici come la Global Biodiversity Information Facility (GBIF), infatti, soffrono di diverse limitazioni, fra cui il fatto di contenere informazioni soprattutto riguardo alle zone rurali e poco invece rispetto alle aree urbane. Inoltre, il trasferimento dei dati su queste piattaforme avviene tipicamente con un certo ritardo rispetto al momento in cui i dati vengono raccolti.

    Per tutti questi motivi, un gruppo di ricerca coordinato da Regan Early, dell’Università di Exeter (Regno Unito), si è chiesto se i social media potessero essere d’aiuto su questo fronte, grazie alla dinamicità con cui le informazioni vengono scambiate e anche al fatto che i post social vengono spesso pubblicati in tempo reale. Seppur con alcune limitazioni di cui tenere conto, i risultati dello studio sembrano promettenti e sono stati pubblicati sulle pagine di Ecology and Evolution. Il team di ricerca ha esaminato in particolare la distribuzione di una specie nota come falena dell’edera (Euplagia quadripuncteria, precedentemente Callimorpha quadripuncteria), mettendo a confronto le informazioni contenute nella GBIF e quelle recuperabili da Instagram e Flickr. I dati sono stati raccolti fra il 2000 e il 2018, e l’indagine ha incluso il Regno Unito, la Repubblica d’Irlanda, la Francia, il Belgio, i Paesi Bassi, il Lussemburgo, la Svizzera, la Repubblica Ceca, l’Austria, la Germania, la Danimarca e l’Italia. La falena dell’edera è infatti distribuita più o meno in tutta Europa ed è stata scelta perché, oltre ad essere una specie il cui areale sta subendo rapidi cambiamenti, è facilmente riconoscibile per i colori sgargianti che caratterizzano le sue ali, e tende a spostarsi anche di giorno.

    Dai post pubblicati su Instagram è emerso che questa specie è più presente nelle aree urbane rispetto a quanto emerge dalla GBIF. “Le indagini sulla fauna selvatica tendono a essere condotte nelle aree rurali, quindi le informazioni non sempre riflettono la vitale importanza delle città – spiega Nile Stephenson, primo autore dello studio – I parchi e i giardini urbani forniscono habitat diversificati dove specie come la falena dell’edera possono prosperare”. Certo, le informazioni raccolte attraverso i social media hanno anche delle limitazioni, aggiunge il ricercatore, motivo per cui i database tradizionali non dovrebbero essere abbandonati. Si tratta piuttosto di integrare diverse modalità di raccolta dei dati: “Poiché i social media sono così inclini alle tendenze, ci aspettiamo di vedere delle distorsioni, come un maggior numero di avvistamenti di specie di cui si parla molto – prosegue Stephenson – Tuttavia, possiamo trasformare questo fenomeno in un aspetto positivo. Ad esempio, potremmo migliorare il monitoraggio delle specie invasive creando tendenze sulla registrazione degli avvistamenti”. Insomma, tenendo conto sia dei limiti che dei vantaggi, i social media potrebbero tornare utili nel contesto attuale caratterizzato da rapidi cambiamenti, specialmente per tracciare le specie che sono presenti anche negli ambienti urbani, che tipicamente sono meno rappresentati nei database tradizionali. Inoltre, gli autori ricordano anche l’utilità di piattaforme come iNaturalist e iRecord, che vengono già utilizzate da ricercatori e ricercatrici per estrarre informazioni. Si tratta di piattaforme di citizen science, ossia spazi virtuali in cui le persone possono registrare avvistamenti e informazioni di vario tipo per contribuire in modo attivo e volontario alla ricerca scientifica. LEGGI TUTTO

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    Circolari, immerse nel verde, inondate di luce: le nuove scuole sono green

    Qualcosa nell’edilizia scolastica italiana si sta muovendo. Layout circolari e specifiche tecniche innovative, scuole progettate con sistemi costruttivi a secco, come grandi Lego, per spingere sull’acceleratore della circolarità, raggiungere la massima flessibilità e la possibilità di smantellare l’edificio a fine vita, riciclando i materiali di costruzione. Questi i principi alla base di quattro edifici, che potrebbero diventare veri e propri prototipi: una scuola primaria in costruzione a Conegliano (Treviso), una scuola per l’infanzia appena inaugurata ad Alzano Lombardo (Bergamo), un altro asilo a Venaria Reale (Torino) e un istituto tecnico a Cervignano del Friuli (Udine) in fase di progettazione, tutti edifici nZEB (nearly Zero Energy Building, ovvero ad altissima efficienza energetica), immersi nel verde e inondati di luce naturale.

    I due architetti che li hanno progettati sono Carlo Cappai e Maria Alessandra Segantini (studio C+S Architects, con sedi a Treviso e a Londra). Lavorano a progetti di edilizia scolastica dal 1998, le loro scuole sono note a livello internazionale e nel recente passato sono state utilizzate dal ministero dell’istruzione come best practice per formulare le linee guida per i concorsi di progettazione. Il fatto che non siano proprio gli ultimi arrivati lo certificano anche istituzioni di assoluto rilievo internazionale che hanno esposto i loro progetti: il MoMa di New York, il RIBA di Londra, la Triennale di Milano, la Biennale di Venezia e altri prestigiosi luoghi espositivi a Parigi, Vienna, Oslo. “Il tema della sostenibilità ambientale in una scuola ha un indubbio valore pedagogico”, sostengono Cappai e Segantini, la cui ricerca è indirizzata verso un’architettura green, innovativa. E bella. Per Alessandra Segantini “la bellezza è una delle componenti fondamentali che può salvare la nostra società. Negli ultimi anni in Italia sono state costruite troppe scuole brutte, abbiamo una normativa ferma al 1975 (non è cambiato niente da allora?). È tempo di cambiare strada e noi ce la stiamo mettendo tutta”. Proviamo ora a immergerci nei quattro edifici scolastici e a descriverne dettagliatamente le caratteristiche.

    Scuola primaria Gianni Rodari, cascate di luce naturale e aule aperte sul parco
    A Conegliano, nella parte settentrionale di un lotto precedentemente occupato da un parcheggio, la nuova scuola a pianta circolare, in costruzione, si sviluppa su un unico livello. Il progetto conserva gli alberi esistenti nel giardino pubblico (due filari di tigli e due grandi cedri) e aggiunge nuovi tigli, alberi di cachi, siepi di lavanda, salvia e rosmarino, betulle nelle corti interne. “La lavanda in primavera e i cachi in autunno porteranno i colori della natura dal parco all’interno delle aule”, dice Segantini. L’ingresso principale conduce a un ampio atrio illuminato da una serie di lucernari scavati nel volume del tetto. Dall’atrio, un sistema di spazi collettivi, articolato attorno a due corti centrali, si dirama in tutte le direzioni. È un sistema fluido, si contrae e si espande, generando spazi flessibili e disponibili anche alle esigenze della comunità.

    Scuola primaria “Gianni Rodari”  LEGGI TUTTO

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    “La Ue è a un bivio, la transizione green non può essere una transizione a favore della Cina”

    “Abbiamo parlato anche di sicurezza, di come eliminare la nostra dipendenza da altri Paesi e di come l’energia nucleare sia uno degli strumenti per farlo”. Nella sua due giorni romana Ebba Busch, vicepremier svedese e ministro dell’Energia e l’industria, ha incontrato imprenditori e politici italiani. Tra questi il titolare della Farnesina Antonio Tajani: “Abbiamo riflettuto sul fatto che ci siano troppi leader europei spaventati, troppo concentrati su cosa sta facendo o non facendo Trump. E troppo poco su quanto sta facendo l’Europa”.

    Ministro Busch, la sicurezza della Ue si fa investendo in armi o in energia?
    “Occorre rafforzare la difesa militare. Ma anche la difesa civile: vale a dire le imprese, il business, le compagnie che operano in settori strategici, rafforzando le catene di valore tra Paesi vicini, in modo da ridurre la dipendenza da altri non affidabili. Penso per esempio al settore minerario e ai materiali che servono per la transizione: il 99% oggi ci arrivano dalla Cina. L’Italia ha bisogno di tornare a essere una nazione mineraria, così come la Svezia. Aprendo possibilmente nuove miniere. Poi c’è un terzo elemento: i nostri valori comuni che ci definiscono come europei, con una storia comune pur nel rispetto delle differenze. Abbiamo imparato una durissima lezione dalla Seconda guerra mondiale: i padri fondatori della Ue dissero mai più”.

    Pochi giorni fa ha firmato un memorandum d’intesa con il suo omologo ucraino. Ci può dire di più?
    “L’energia è fondamentale per la sopravvivenza stessa dell’Ucraina. Se Kiev non avesse avuto una robusta infrastruttura energetica la Russia avrebbe già avuto la meglio. Abbiamo firmato il memorandum d’intesa per aiutare l’Ucraina a ricostruire le infrastrutture energetiche distrutte, con attenzione specifica all’energia nucleare a uso civile, ma anche ai minerali critici necessari per i sistemi energetici, a cominciare dalle rinnovabili”.

    Ma il nucleare rende davvero indipendenti dal punto di vista energetico? La Svezia da chi acquista l’uranio necessario alle sue centrali?
    “Non certo dalla Russia. Abbiamo robuste collaborazioni con il Canada, l’Australia e altre nazioni affidabili. Siamo molto esigenti nella scelta dei nostri partner in questo campo”.

    Perché non puntare sulle rinnovabili?
    “Noi crediamo nelle rinnovabili, ne abbiamo tantissime: il 40% della elettricità è prodotta con l’idroelettrico. Quasi il 30% con eolico e fotovoltaico. Ma un altro 30% arriva dalle centrali nucleari. Perché le rinnovabili vanno e vengono. Il che comporta grandi sistemi di accumulo per gestire efficacemente le reti elettiche. Il che è molto costoso. E così in Svezia per famiglie e imprese il costo della rete talvolta supera quello dell’elettricità consumata. Per questo che sono critica sul piano Ue contenuto nel Clean Industrial Act: se fosse implementato, gli italiani e gli europei vedrebbero crescere i costi per la rete elettrica fino a superare quelli dell’elettricità. A quel punto non ci sarà alcun sostegno popolare. Ed ecco perché chiediamo alla Commissione un ripensamento. Noi, come l’Italia siamo per la neutralità tecnologica”.

    Come avete risolto il problema delle scorie?
    “Abbiamo dato la priorità a questo problema e ci abbiamo lavorato per molti anni. Ora siamo felici di poter condividere le nostre conoscenze con altri Paesi. La soluzione per gli anni a venire è una maggior collaborazione nucleare tra nazioni amiche, per tagliare i costi e ottimizzare le regolamentazioni”.

    Viste l’attuale contesto geopolitico, quali sono le sfide legate principali legate all’energia e al clima?
    “L’Europa è a un bivio. La transizione green rischia di essere una transizione cinese su suolo europeo: con pannelli solari e auto elettriche made in China. Oppure possiamo decidere di lavorare insieme e dire no. Abbiamo per esempio un’Europa forte nel settore delle batterie. Ma per farlo dobbiamo sfrondare i limiti normativi che frenano le nostre imprese e assicurarci che i soldi annunciati dalla commissione per il settore delle batterie vadano anche alle compagnie già esistenti e non solo a chi inizia ora”.

    Non sembra esserci solo un problema di normative: proprio la svedese Northvolt, campione europeo delle batterie, ha fatto bancarotta. Cosa non ha funzionato?
    “Hanno investito in troppe cose diverse allo stesso tempo. E non hanno dato la priorità al primo stabilimento nel nord della Svezia. C’è stata la bancarotta, l’insolvenza, ma la linea di produzione sta ancora andando avanti e siamo fiduciosi: c’è la possibilità che si concretizzi un nuovo proprietario, in grado di preservare il ruolo di Northvolt come grande produttore europeo di batterie”.

    Ma dal punto di vista commerciale il nemico è la Cina o l’America di Trump?
    “Rappresento un Paese che è per la libertà degli scambi commerciali. E i dazi sono contro la libertà di commercio. Tuttavia ho due figli di dieci e otto anni e non voglio dare nelle loro mani tablet o altri dispositivi che contengano materie prime estratte sfruttando, per esempio, il lavoro minorile nelle miniere del Congo o con procedure che non rispettano la nostra difesa dei diritti e dell’ambiente. Ma noi possiamo affrancarci da queste dipendenze, basta volerlo. E non possiamo aspettare che sia la Commissione europea a farlo: Svezia e Italia possono agire fin da subito”.

    Cosa pensa dei nuovi target di decarbonizzazione della Ue: il 90% entro il 2040?
    “Crediamo al taglio delle emissioni. Ma non si può gestire allo stesso modo il cammino verso la decarbonizzazione di 27 nazioni. Noi stiamo tagliando tutte le nostre emissioni nell’industria dell’acciaio, perché siamo riusciti a garantire a grandi aziende come la Ssab abbastanza elettricità fossil free 24 ore al giorno, 7 giorni a settimana, non solo quando c’è il vento o il sole. La chiusura totale ci sarà nel 2029 e questo abbatterà le emissioni svedesi dell’8%. Ma dobbiamo avere un fornitura di energia stabile, per quando non c’è vento e non c’è sole e le aziende devono lavorare comunque. Questa è fisica, non politica”.

    Su questi temi quali sono le principali differenze tra destra e sinistra in Svezia?
    “Noi vogliamo combinare alti target climatici con la competitività delle imprese svedesi. Abbiamo accelerato la realizzazione di nuove miniere in Svezia come mai era stato fatto negli ultimi 15 anni. Così come stanno arrivando nuovi finanziamenti sul nucleare perché abbiamo lavorato a una norma che li possa agevolare. Nella consapevolezza che il vero driver in questi campi legati alla transizione sia il settore privato”. LEGGI TUTTO

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    Polizze anti calamità naturali: l’ipotesi di un rinvio di sette mesi

    Polizze anti catastrofi naturali: da atto volontario ad obbligo entro il 31 marzo. Ma ora le aziende chiedono più tempo. Davanti agli effetti dei cambiamenti climatici, a meno di una settimana dalla scadenza (già posticipata dal decreto Milleproroghe), sembra concretizzarsi il rinvio di 7 mesi dell’obbligo per le imprese di stipulare contratti assicurativi a copertura […] LEGGI TUTTO

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    I fiumi italiani malati di erosione, due terzi sono a forte rischio

    Le coste dei nostri fiumi si stanno sgretolando a un ritmo impressionante. Mentre tutti noi abbiamo ancora negli occhi le immagini, ormai sempre più comuni, dei fiumi in piena nelle zone alluvionate negli ultimi anni, meno semplice è immaginarsi invece come ogni giorno i fiumi del territorio italiano perdano qualche pezzo. Nei casi peggiori, si parla perfino di 10 metri all’anno in meno dovuti all’ erosione costiera fluviale. A restituirci un’idea di quanto sta avvenendo nel Paese è uno studio appena pubblicato da due ricercatori del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, Monica Bini e Marco Luppichini.Gli esperti volevano indagare su come la crisi del clima, che sta portando in Italia a meno precipitazioni medie annue ma a più eventi estremi che scaricano grandi quantità di acqua, abbia influito sulla tenuta dei fiumi italiani. Grazie al software CoastSat i due hanno studiato così l’evoluzione delle coste sabbiose italiane concentrandosi sugli ultimi quarant’anni, dal 1984 al 2024, scoprendo tutta la fragilità degli alvei della Penisola.

    Si stima infatti che siano addirittura il 66%, praticamente due terzi, i delta fluviali a forte rischio erosione dei 40 principali fiumi dello Stivale. Nello studio pubblicato sulla rivista “Estuarine, Coastal and Shelf Science”, grazie all’osservazione delle immagini satellitari i ricercatori hanno inoltre stimato che la percentuale di erosione sale al 100% se si vanno ad escludere le aree protette da difese artificiali. La maggior parte dei fiumi italiani sta dunque costantemente perdendo sedimenti, ma in alcuni delta questo processo – legato sia alla crisi del clima sia ad azioni antropiche come l’urbanizzazione – è ancor più evidente: lo si può osservare soprattutto per il Po, il Serchio, l’Arno e l’Ombrone in Toscana e il delta del Sinni in Basilicata,”tutte zone caratterizzate da un forte arretramento della linea di costa e da una significativa perdita di sedimenti dovuta a fattori climatici e antropici” scrivono gli esperti. “Il cambiamento climatico sta avendo un impatto significativo sull’evoluzione delle coste italiane – precisa Marco Luppichini – in particolare incidono la diminuzione delle precipitazioni e l’aumento degli eventi meteorologici estremi che alterano il ciclo idrologico e la capacità dei corsi d’acqua di trasportare sedimenti fino alla costa. A questo si aggiungono l’innalzamento del livello del mare, che contribuisce alla scomparsa di tratti di litorale, e l’incremento della temperatura delle acque superficiali del Mediterraneo che intensifica tempeste e mareggiate, accelerando il processo erosivo e riducendo la resilienza delle spiagge”.

    Sostenibilità

    Lavori green, l’idrologa: dalla siccità ai fiumi in piena impariamo a gestire l’acqua

    di Luca Fraioli

    21 Marzo 2025

    Questo, aggiunge il ricercatore, dimostra come ci sia una “chiara l’urgenza di adottare strategie sostenibili per gestire le coste, mitigare gli effetti dell’erosione e proteggere le aree più fragili” e per riuscirci il nuovo studio offre un primo tentativo di “database omogeneo per l’intero territorio nazionale così da aiutare una possibile pianificazione degli interventi a difesa delle zone più a rischio, come i delta fluviali, veri e propri “hotspot” della crisi climatica in corso”. Uno di questi, il delta del Po, è da considerare in assoluto fra i più vulnerabili proprio per via dell’innalzamento di livelli del mare, ma anche in Toscana le foci di diversi fiumi – come Arno e Serchio – “sono soggette ad un arretramento costante di 2-3 metri l’anno mentre il delta dell’Ombrone registra una delle situazioni più critiche, con tassi di erosione fino a 5-6 metri l’anno”. Nel tempo, sostiene l’analisi, questo porterà non solo a mettere a rischio gli ecosistemi toscani ma anche le attività economiche, turistiche e del settore agricoltura. Stesso discorso vale per il luogo dove si sta verificando l’erosione più estrema: Il delta del Sinni in Basilicata registra infatti un’erosione che supera i 10 metri l’anno. Cifre impressionanti che, ricordano gli scienziati, devono essere analizzate per trovare risposte, anche se in Italia “purtroppo manca attualmente un sistema di monitoraggio uniforme per le spiagge sabbiose e i delta dei fiumi italiani”. Ora però, grazie a questo nuovo lavoro, c’è un database da cui partire per comprendere le tendenze sulle aree a maggior rischio di erosione costiere e intervenire prima che i nostri fiumi perdano altri pezzi. LEGGI TUTTO

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    Bonus elettrodomestici 2025, ecco come funziona

    Bonus elettrodomestici in dirittura d’arrivo con alcune novità. Il contributo sarà riconosciuto direttamente in negozio con la formula dello sconto in fattura, senza la necessità di presentare nessuna specifica domanda, a fronte della rottamazione di un modello della stessa tipologia con consumi più elevati. La lista degli elettrodomestici che si potranno acquistare sarà contenuta in un decreto ad hoc, ma in ogni caso il bonus sarà riservato ai soli prodotti europei. Le novità grazie ad un emendamento al decreto bollette in corso di esame alla Camera.

    Meno consumi e smaltimento corretto
    Il bonus elettrodomestici prevede un contributo fino al 30% del costo, entro un massimo di 100 euro, che raddoppia a 200 euro per chi ha in Isee fino a 25.000 euro. Il bonus, che doveva essere operativo da febbraio, è destinato a sblocccarsi grazie all’emendamento presentato di FdI che ha accolto le richieste dei produttori della filiera del bianco. Ora si prevede infatti che il bonus possa essere riconosciuto esclusivamente per l’acquisto di un elettrodomestico prodotto in uno stabilimento collocato nel territorio dell’Unione europea. Viene anche eliminato il riferimento alla classe energetica in modo da offrire più margini ai produttori italiani. In ogni caso il nuovo acquisto potrà essere agevolato solo a fronte della rottamazione di un prodotto analogo di classe energetica inferiore.

    Sconto direttamente in negozio
    Per la concessione del contributo non ci sarà nessun click day e non sarà necessario presentare nessuna domanda. L’emendamento, infatti, prevede l’applicazione di uno sconto direttamente in fattura. Spetterà quindi ai rivenditori iscriversi nell’apposita piattaforma, e ci si potrà rivolgere solo ai punti vendita aderenti all’iniziativa. La lista degli elettrodomestici ammessi al bonus sarà contenuta nel decreto attuativo che dovrà indicare tipologia e classe energetica del prodotto da acquistare per sostituire quello più energivoro.

    Come orientarsi nella scelta
    Considerando l’obiettivo di riduzione dei consumi è prevedibile che possano rientrare nella lista solamente i grandi elettrodomestici, vale a dire frigoriferi, lavatrici, asciugatrici, lavastoviglie, forni elettrici che in quanto tali sono indispensabili. Dal momento che è confermato che si potrà avere un solo bonus per ciascun nucleo familiare conviene fin da ora verificare sia le caratteristiche di quelli che si hanno in casa, sia le modalità di utilizzo. Al di là dei consumi medi, che sono indicati sulle etichette energetiche, infatti, per calcolare il risparmio che si può ottenere con l’acquisto di un nuovo modello si deve necessariamente considerare il consumo in termini di cicli di lavaggio nel caso di lavatrici e lavastoviglie, l’utilizzo quotidiano o meno del forno, la capacità nel caso del frigo. Il risparmio nei consumi Ad esempio per una lavastoviglie da 12 coperti abbiamo per la classe A un consumo uguale o inferiore a 34 Kwh/100 cicli, che sale a 40 KWh/100 cicli per la classe B e arriva a 46 KWh/100 cicli per la classe C. Per i forni è ancora in vigore la vecchia tipologia di etichette, per cui nel caso di un forno elettrico da 100 litri, abbiamo per quelli più efficienti un consumo uguale o inferiore a 0,47 Kwh/ciclo, che sale fino a 0,705 Kwh/ciclo se si scende di due classi energetiche. Invece nel caso di un frigo-congelatore con sbrinamento automatico, da 300 litri (200 per cibi freschi e 100 per cibi congelati) se in classe A si ha un consumo massimo di 100 Kwh/annui, in classe B si sale fino a 124 Kwh/annui, mentre la classe C arriva a 155Kwh/annui, ossia oltre il 50% in più. LEGGI TUTTO

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    Sy Montgomery: “Così le tartarughe ci insegnano a prenderci cura del mondo”

    Le tartarughe sono creature sorprendenti. Ne esistono oltre 350 specie e sono diffuse in tutti i continenti. Sono preistoriche quanto i primi dinosauri, più antiche dei primi coccodrilli e sono in circolazione da oltre 250 milioni di anni. Le loro storie ci rivelano nuove prospettive sul tempo e la guarigione. Hanno personalità distinte e vivono emozioni forti, anche se i loro sentimenti spesso sfuggono agli esseri umani.

    A differenza della maggior parte dei rettili, le tartarughe non ci spaventano: non strisciano, si muovono lentamente e possiamo osservarle mentre portano con grazia la loro casa sulla schiena. A chi volesse imparare a conoscerle, consiglio di non perdersi il saggio Il tempo delle tartarughe, scritto da Sy Montgomery, naturalista statunitense di fama mondiale, in libreria dal 28 marzo. È pubblicato, in Italia, da Aboca edizioni con la traduzione di Teresa Albanese.

    Sy ha trascorso un lungo periodo alla Turtle Rescue League, la “Lega per il soccorso delle tartarughe”, dove vengono curate tartarughe con ferite così gravi che persino i veterinari le darebbero per spacciate. Ha così potuto scoprire tutto sul loro mondo e spiegarci perché queste creature hanno bisogno di aiuto. Come altri animali selvatici, le loro popolazioni si riducono quando la cementificazione invade il loro habitat. Soffrono per l’inquinamento, il cambiamento climatico e le specie invasive. Ed esiste un commercio illegale mostruoso e omicida che tratta la loro carne, le loro uova, i loro gusci e loro stesse come merce. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, il guardiaparco: “Insegniamo a vivere a contatto con la natura”

    “La regola numero uno per una guardiaparco? Saper gestire la solitudine. Intendiamoci: è bellissimo vivere in simbiosi con la montagna, ma si può finire con l’assuefarsi alla sinfonia della natura, e disabituarsi ai rumori dell’uomo. Ecco, il rischio è di diventare un po’ orsi, ma quello può accadere anche se vivi in città”. La bambina che sognava di diventare guardia parco – era, in fondo, anche il desiderio di papà Diego, certe passioni sono questione di Dna – si chiama Raffaella Miravalle ed è oggi una delle otto donne in servizio per il Parco Nazionale Gran Paradiso. Ha casa, si fa per dire, a duemila metri, nella Valle Orco, che – a sud della Valle d’Aosta e a nord delle Valli di Lanzo – congiunge Pont Canavese al Colle del Nivolet: ogni guardiaparco è assegnato a una zona specifica, i turni possono durare fino a 5 giorni.

    “La montagna non è un parco giochi”
    Lo scenario è da fiaba, ma guai a idealizzare la montagna: ”No, non è sempre tutto rose e fiori, camosci e stambecchi. – precisa – viviamo interi mesi con temperature sotto zero, con un vento sferzante, è cresciuto il rischio temporali improvvisi, siamo chiamati a prove fisiche ardue. Ma questo – sorride – resta il lavoro più bello del mondo”. Perché può accadere di trovarti a soccorrere un’aquila reale (”Tenerla in braccio, che emozione!”) o monitorare lo storico ritorno del gipeto: ”Non ci sono ferie o giorni di riposo che tengono, quando la natura chiama”.

    E in fondo Raffaella sola non lo è mai: a seguirla come un’ombra è Marì, una cucciola di pastore tedesco addestrata a interagire con la fauna selvatica: ”Rappresenta la terza generazione di cani a cui mi sono accompagnata, ha sostituito la vecchia Jodie, oggi in pensione. Con loro instauri un rapporto quasi simbiotico”. LEGGI TUTTO