17 Marzo 2025

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    Rinnovabili, la rotonda che produce energia verde

    Rotonde, rotatorie, rondò, ormai sono ovunque. Le strade dei centri abitati hanno subìto negli ultimi anni profondi cambiamenti nella viabilità, dovuti proprio alla massiccia introduzione di questa soluzione urbanistica, alternativa ai semafori e agli incroci. Un successo dovuto al fatto che, secondo diversi studi, le rotatorie riducono gli incidenti e la loro gravità, soprattutto per le automobili, costrette a rallentare. A detenere il primato al mondo come numero di rotatorie sono Francia (42.986), Regno Unito (25.976) e Italia (18.172). Allora perchè non utilizzare quegli spazi per installare impianti e produrre energia alternativa? LEGGI TUTTO

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    Batterie preziose come miniere, un progetto italiano per recuperare il 90% del litio

    È ora di considerare le batterie come delle piccole miniere portatili. E dalle miniere, si sa, si ricavano minerali e materie prime molto preziose. Sempre di più. Le comuni batterie agli ioni di litio, quelle che un tempo si definivano ricaricabili, ormai sono il nostro pane quotidiano, e probabilmente per molti di noi sono l’ultimo gesto della giornata: ricaricare la batteria del nostro smartphone. Dentro a queste batterie, troviamo il litio, che è l’elemento chiave per il trasporto degli ioni durante la carica/scarica della batteria, il cobalto che migliora stabilità e durata, nickel che aumenta la densità energetica, e ancora il manganese, la grafite, il rame e l’alluminio. Una lista lunga, ed ogni batteria giunta a fine vita che buttiamo via, e che non viene riciclata e riutilizzata perde e disperde nell’ambiente sostanze preziose.

    Mobilità sostenibile

    Batterie al sale: l’idea di BatterIT per trovare un’alternativa al litio

    di Gabriella Rocco

    08 Gennaio 2025

    Da qui si capisce, quanto sia altrettanto prezioso il progetto di ricerca denominato Caramel, dell’Università di Brescia, che promette di poter recuperare il 90% del litio di ogni batteria, senza usare acidi inorganici e riducendo i consumi energetici del 50%, attraverso lo sviluppo di un innovativo forno a livello industriale. O meglio di un forno a microonde. D’altronde la sfida è di grandi proporzioni, come sottolinea la stessa Commissione Europea che con il Critical Raw Act ha stabilito l’obiettivo di raggiungere nei prossimi anni una serie di percentuali di recupero e una capacità di riciclo di almeno il 25% del fabbisogno continentale europeo.

    Nel caso del litio dai rifiuti di batterie, la Commissione chiede ai paesi membri di arrivare al 50% entro il 2027, per salire fino all’80% entro il 2031. E ci sono anche altri target importanti che interessano, ad esempio le batterie portatili (i power bank), le batterie dei mezzi di trasporto leggeri, così come il recupero del cobalto, del rame, del piombo e del nichel pari al 90% entro la fine del 2027 e del 95% entro la fine del 2031.

    Ma torniamo a Caramel – acronimo di New Carbothermic Approaches to Recovery Critical Metals from Spent Lithium-Ion Batteries – finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca con il bando FISA con un importo di oltre un milione di euro, sotto la guida di Elza Bontempi, docente ordinario di Fondamenti Chimici delle Tecnologie, che con questo progetto universitario intende contribuire in modo significativo alla creazione di una filiera industriale italiana per il riciclo delle batterie agli ioni di litio. Secondo lo studio iniziato nel 2022, il cui metodo è già oggetto di brevetto, il processo di estrazione avviene attraverso la “cottura” all’interno di un forno a microonde che elimina completamente l’uso di acidi inorganici commerciali, limitando le sostanze inquinanti.

    Innovazione

    La batteria green che nasce dagli alberi. L’idea di un giovane colombiano

    di Paolo Travisi

    22 Ottobre 2024

    Il procedimento scoperto sfrutta la radiazione a microonde del forno per riscaldare il materiale, grazie alla presenza di grafite presente nella batteria che assorbe l’energia e genera calore per effetto della polarizzazione dei suoi atomi di carbonio. I vantaggi rispetto ad altri metodi, risiedono principalmente nella velocità del trattamento, che dura appena pochi minuti, che si verifica ad una potenza di radiazione inferiore ai 1000 W, riducendo il consumo energetico di oltre 100 volte rispetto ai trattamenti termici convenzionali e senza additivi chimici aggiuntivi.

    Questo processo, così efficiente che potrebbe addirittura competere con l’estrazione dei metalli dai minerali naturali, contribuirebbe a ridurre la dipendenza dalle miniere e a promuovere il riciclo delle batterie esauste. Entro i prossimi tre anni, l’obiettivo è arrivare ad un impianto prototipale su scala industriale che certifichi la maturità tecnologica e consenta di raggiungere il livello 6 della scala TRL, che valuta il livello raggiunto in ambito industriale, per dare avvio ad un iter di scala. Ed i risultati fino ad ora sembrano essere molto avanzati e “dimostrano che è possibile coniugare innovazione tecnologica e sostenibilità ambientale, e allo stesso tempo contribuire alla creazione di un mercato nazionale per il riciclo delle batterie, attualmente carente in Italia”, spiega Elza Bontempi, responsabile di Caramel. Tra l’altro il progetto dell’Università di Brescia ha ottenuto l’Intellectual Property Award, che ha consentito all’ateneo lombardo di partecipare all’Esposizione Universale di Osaka 2025, in Giappone, all’interno di una giornata dedicata alla valorizzazione dell’eccellenza della ricerca italiana.

    Inoltre, una volta implementato su scala industriale permetterebbe all’Italia, estremamente povera di queste risorse, di essere meno dipendente dalle forniture dall’estero; come stiamo vedendo in queste settimane, le miniere in Ucraina sono proprio il motivo del contendere con gli Stati Uniti per avviare il percorso di pace, perché cedere materie prime così preziose e rare, significa cedere una parte importante di ricchezza di un paese e di potere economico-politico. Non averne, accentua la vulnerabilità del continente europeo. LEGGI TUTTO

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    Clima, Trump vuole spegnere il monitoraggio sulle emissioni di gas serra

    Se non lo vedi, non esiste. Questa è l’attuale politica di Donald Trump nei confronti della crisi climatica, quella che ha sempre negato. Per poterla avallare ulteriormente il presidente degli Stati Uniti, insieme al Doge, il Dipartimento per l’efficienza governativa con cui Elon Musk è stato incaricato di tagliare le spese pubbliche “inutili”, sta portando avanti da quasi due mesi la cancellazione e l’oscuramento totale della questione climatica.
    L’ultima mossa – anticipata un mese fa quando all’improvviso alcuni siti della Noaa (la National Oceanic and Atmospheric Administration) finirono offline – è quella di voler cancellare anche i dati sulla CO? globale.

    L’intervista

    Che impatto avrà il riarmo dell’Europa sulle sue politiche climatiche?

    di Luca Fraioli

    15 Marzo 2025

    Come noto le emissioni di gas serra da parte delle attività umane, e insieme a quelle di metano soprattutto quelle dell’anidride carbonica, sono la causa principale del surriscaldamento del Pianeta che nell’ultimo anno ha registrato le temperature medie globali più calde di sempre. Monitorare i livelli di CO? nel mondo significa dunque avere una fotografia precisa di quanto sta accadendo e al contempo ottenere gli strumenti per modelli climatici in grado di aiutare a prevenire, adattare e proteggere, l’umanità intera davanti alle sfide del nuovo clima.

    L’osservatorio Loa nelle Hawaii
    La principale stazione che monitora i valori di CO? da quasi 70 anni nel mondo è quella dell’osservatorio di Mauna Loa nelle Hawaii. Qui, in una avamposto vicino alla cima del vulcano e lontano da fonti inquinanti, vengono costantemente monitorate e rese pubbliche le “parti per milione” (ppm, ndr) di CO?, arrivate negli ultimi tempi al terrificante valore di 427 ppm, fra le più alte di sempre.
    Quei valori sono quelli che ci restituiscono lo stato delle cose, quelli che possiamo osservare anche solo per farci un’idea di come le emissioni climalteranti stanno aumentando: per dire, quando Greta Thunberg iniziò i suoi scioperi per il clima e le successive manifestazione globali di lotta alla crisi del clima, una delle prime cose che scrisse sui suoi profili è che era nata in un periodo in cui nel mondo c’erano 375 ppm di CO? (nel 2003), in modo tale da lanciare un confronto e un segnale dell’aumento costante della concentrazione delle emissioni.

    Se non si vede, non esiste
    Ora Trump e Musk, quei valori gestiti dalla Noaa a Mauna Loa, vogliono oscurarli. Se non sono più quotidianamente visibili, evidentemente non esistono e non sono più un problema per chi come l’amministrazione Usa sta smantellando ogni tipo di politica climatica. Oltre all’uscita dagli Accordi di Parigi, quelli per limitare il surriscaldamento globale entro gli 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, il tycoon ha già fatto rimuovere dal sito della Casa Bianca e da ogni agenzia federale le parole e i riferimenti alla crisi del clima. Ha poi effettuato centinaia di migliaia di licenziamenti che riguardano scienziati, ricercatori,forestali e difensori del clima e dell’ambiente in ogni settore pubblico degli Stati Uniti.

    I dati

    Inquinamento atmosferico, solo 7 Paesi al mondo sotto il livello di guardia dell’Oms

    di Luca Fraioli

    11 Marzo 2025

    Mentre adesso si prepara a cancellare ogni politica di riduzione delle emissioni climalteranti impostata in precedenza da Joe Biden, in modo da poter agevolare senza freni il suo “drill, baby, drill”, l’idea di trivellare ovunque per ottenere petrolio e gas e riportare in auge l’uso dei combustibili fossili affossando contemporaneamente le rinnovabili, a breve Trump e Musk intendono infatti anche chiudere e smantellare l’ufficio di Hilo della Noaa a Mauna Loa che è quello relativo proprio al monitoraggio delle emessioni di gas serra.
    La scusa per poterlo chiudere definitivamente è una questione di affitto: costa troppo (si stima intorno ai 160 mila dollari l’anno) e di conseguenza, in ottica dei tagli DOGE, vale la pena serrarlo.
    La reazione degli scienziati
    Il problema è che da quell’ufficio da decenni escono i principali indicatori sul cambiamento climatico causato dall’uomo che servono agli scienziati di tutto il mondo per sviluppare modelli e fornire informazioni cruciali per salvare la vita delle persone davanti per esempio all’intensificazione degli eventi meteo estremi.
    Valori che vengono usati in ogni parte del globo tant’è che anche esperti italiani – come la presidente dell’Italian Climate Network la fisica Serene Giacomin oppure il ricercatore e meteorologo del CNR-Lamma Giulio Betti di recente hanno denunciato la pericolosità legata al potenziale taglio di questi uffici. Lo stesso Betti sui social, denunciando una situazione “peggio degli struzzi”, di chi davvero nasconde la testa per non vedere, suggerisce di ricordarsi il numero delle attuali ppm, 427, perchè “non sappiamo ancora per quanto i rilievi verranno fatti”.

    Altre strutture a rischio
    In generale l’ufficio con sede a Hilo dell’Osservatorio di Mauna Loa è una delle 34 strutture della National Oceanic and Atmospheric Administration che potrebbero essere presto chiuse: in questo luogo particolare per l’aria rarefatta e la posizione remota nell’Oceano Pacifico, lontana da città inquinante,fin dagli anni Cinquanta vengono rilevati i dati climatici più importanti per comprendere la salute della Terra ed è facile ipotizzare i danni derivanti da una eventuale smantellamento dell’ufficio che seguirà in ordine di tempo quelli già avvenuti per esempio nelle sedi centrali Noaa e in quelle dell’Epa, l’Agenzia di protezione ambientale dove, così come al Forest Service, sono già stati licenziati migliaia di dipendenti.

    Le difficoltà in cui stanno lavorando gli scienziati
    Sempre da Mauna Loa, va ricordato, sono iniziate le raccolte di dati da parte di Charles Keeling, lo scienziato che studiando i modelli di anidride carbonica ha coniato la famosa “curva di Keeling”, quella che ci fornisce l’andamento della crescita dei livelli di anidride carbonica, passate appunto da 315 ppm ai temi di Keeling negli anni Sessanta alle attuali e pericolose oltre 420.
    Già oggi, raccontano gli scienziati ai media statunitensi e britannici, operare nelle scienze del clima, quelle che dovrebbero – così come il Noaa – aiutarci a prepararci agli impatti futuri del surriscaldamento per esempio osservando i dati atmosferici e soprattutto quelli degli oceani tragicamente sempre più bollenti, negli Usa sta diventando un’impresa.
    “Sarebbe terribile se questo ufficio fosse chiuso – ha spiegato per esempio lo scienziato atmosferico Marc Alessi dell’Union of Concerned Scientists – perché non solo fornisce la misurazione della CO? di cui abbiamo così disperatamente bisogno per tracciare il cambiamento climatico, ma informa anche le simulazioni dei modelli climatici utili in tutto il mondo per proteggerci”. LEGGI TUTTO