5 Marzo 2025

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    La coltivazione e cura della grevillea e di tutte le sue varietà

    La grevillea, conosciuta anche con il nome di “fiore del ragno” è un arbusto sempreverde che comprende 250 varietà. Appartiene alla famiglia delle proteacee ed è tipica dell’Australia, Indonesia, Nuova Guinea e Nuova Caledonia. Con questa guida, scopriamo come ci si può occupare della coltivazione e della cura delle diverse varietà di grevillea.

    Le caratteristiche della gravillea
    L’arbusto della gravillea si può coltivare in giardino per dare un tocco decorativo allo spazio verde, specie durante la stagione invernale. Si tratta di un esemplare sempreverde che, quindi, non perde le foglie e che offre fioriture colorate e belle dal punto di vista estetico. Le dimensioni di questa pianta possono variare a seconda della specie che si decide di acquistare: infatti, ve ne sono alcune che sono piccole, ideali per bordure o cespugli, ma altre specie possono addirittura crescere e arrivare ad altezze simili a quelle di una quercia. Anche a seconda della specie è necessario tenere presente che la fioritura varia: alcune piante fioriscono in primavera con fiorellini rossi, arancioni o gialli su racemi penduli che arrivano a 6 cm di lunghezza. Altre piante, invece, lo fanno durante tutto l’anno quando le condizioni climatiche sono più favorevoli. In linea di massima, la grevillea è una pianta che gradisce temperature calde e non ama il freddo: in particolare, non resiste sotto i -5°C, anche se negli ultimi anni sono stati create varietà ibride che si adattano anche alle zone più fredde.

    La coltivazione della grevillea in vaso
    Questo arbusto è una pianta che si può coltivare anche in vaso a patto che le si offra tutte le condizioni migliori per crescere. Ha bisogno di un’esposizione luminosa e di un terreno ben drenato. Si tratta di una pianta molto versatile che si può sfruttare in diversi contesti: ad esempio, è perfetta anche nelle località di mare, poiché sopporta bene l’aria salmastra delle zone costiere. Inoltre, le grevillee sono piante che attirano insetti impollinatori come le api e le farfalle: dunque, porterà una sferzata di colore e allegria alla balconata.

    Le specie e le varietà più conosciute
    Come accennato, le specie e varietà di grevillea sono davvero tante, ma ve ne sono senz’altro alcune che sono considerate le più comuni. Qui di seguito abbiamo selezionato quelle che si possono scegliere di curare in giardino o in appartamento:
    Grevillea robusta: tra le specie da rammentare per la sua maestosità vi è proprio questa che raggiunge l’altezza di 10 metri e offre una fioritura di colore giallo in primavera.
    Grevillea rosmarinifolia: Le foglie di questa grevillea sono sottili e appuntite e, proprio come dice il nome, possono ricordare quelle dell’omonima pianta aromatica. La fioritura di questa grevillea è tra il rosso e il rosa intenso, con fiori raccolti in grappoli.
    Grevillea juniperina o juper: questa specie è contraddistinta da foglie che ricordano quelle della pianta del ginepro. I fiori, invece, sono di colore rosso oppure rosa. Questo arbusto può arrivare a un’altezza massima di 2 metri circa.
    Grevillea johnsonii: per i climi più caldi è preferibile selezionare questa varietà di arbusto, poiché può svilupparsi al meglio. Le foglie ricordano quelle dei pini marittimi.
    Grevillea lanigera: questa sempreverde ha piccole foglie che donano un aspetto particolare alla pianta. Inoltre, è rivestita da una peluria. Tra le varietà appartenenti a questa specie vi è proprio una dal nome Wolly Grevillea, con fiori rossi-rosa, rosso-crema, verde o crema.
    Grevillea gracilis rosea: si tratta di un arbusto che può raggiungere anche i 10 metri di altezza e che ha rami arcuati con foglie fitte a forma di ago di colore verde brillante.

    Il terreno ideale per l’arbusto
    Questa pianta ama terreni asciutti, meglio se leggermente acidi, con un pH compreso tra il 5,5 e 6,5. Non apprezza i terreni troppo compatti o caratterizzati da argilla, poiché sono proprio quelli che possono far sorgere ristagni idrici e marciume radicale. Nel caso in cui si possedesse un terreno di questo tipo è di fondamentale importanza preparare al meglio la terra. Infatti, si potrà miscelare la terra con sabbia o con altro materiale organico come la corteccia tritata o compost.

    Le irrigazioni della sempreverde
    La grevillea è una pianta che in giardino resiste a lunghi periodi di siccità, ma va comunque detto che è sempre importante offrire il giusto quantitativo d’acqua in primavera e in estate. Anche per gli esemplari coltivati in vaso è importante essere regolari nelle irrigazioni, anche se bisogna prestare molta attenzione agli eccessi idrici. In entrambi i casi, con l’arrivo dell’autunno e dell’inverno è importante diradare le annaffiature, controllando sempre che il terreno non sia eccessivamente secco.

    La concimazione dell’arbusto
    Se la pianta è coltivata in giardino, è possibile utilizzare un prodotto a lenta cessione per la concimazione della grevillea. Ogni 90 giorni circa, tra la primavera e l’autunno, si potrà sfruttare questa tipologia di concimazione per far sviluppare meglio la pianta. In alternativa, se la coltivazione della grevillea avviene in vaso è preferibile utilizzare un prodotto liquido da miscelare con l’acqua per l’irrigazione. Lo si può dare ogni 10 giorni circa a partire dall’arrivo della primavera e fino alla fine della fioritura.

    La propagazione
    Chiunque fosse interessato ad ottenere più piante di grevillea dal proprio arbusto può farlo attraverso le talee. È utile prendere dei rami in primavera o in estate e rimuovere le foglie poste nel punto più in basso del bastoncino. Dopodiché si sistema il rametto in un terreno umido, ma comunque ben drenato. Nel giro di diverse settimane, se le condizioni ambientali sono state favorevoli, si ottiene la piantina nuova. Qualcuno è solito ottenere nuove piante anche da cespi, ma è un metodo più difficile: si può fare in autunno o primavera, quando la grevillea è in fase di riposo vegetativo. Sarà importante non danneggiare le radici durante il rinvaso o trapianto in piena terra.

    Il trapianto in giardino, in rinvaso e la potatura
    Se si decide di sistemare nel proprio giardino questa pianta è necessario attendere la stagione primaverile, quando le temperature si assestano intorno ai 10°C. La buca in cui collocare l’arbusto dovrà essere doppia rispetto a quella del vaso in cui si trova al momento dell’acquisto la pianta. È fondamentale sistemare sul fondo del terreno del prodotto a lenta cessione bio-stimolante che consentirà di far attecchire correttamente le radici della pianta. Il rinvaso della grevillea, invece, è da eseguirsi ogni anno con l’arrivo della stagione primaverile. In tal caso, è preferibile utilizzare vasi in terracotta poiché questi permettono una corretta traspirazione della pianta. Il terriccio da usare dovrà essere idoneo per le piante da fiore; si potranno aggiungere anche in questo caso dei cristalli a lento rilascio per stimolare la crescita. Prendersi cura della grevillea significa anche occuparsi della potatura. Questo arbusto può essere sfoltito dai rami secchi e da tutti quelli che non conferiscono una piacevole forma alla pianta, senza mai esagerare. In questa maniera, si stimolerà la crescita di nuovi rami. Ricordiamo anche che è importante indossare un paio di guanti, poiché alcune varietà della grevillea possono far sorgere dermatite da contatto.

    Le malattie e i parassiti
    I nemici della grevillea, come per molte altre piante, sono sicuramente quelli che possono sorgere in seguito a una scorretta irrigazione. È importante fare attenzione a non creare delle aree di ristagno idrico – sia in piena terra sia nel sottovaso – per non far comparire gli afidi, malattie fungine e marciume radicale. LEGGI TUTTO

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    Clima, ricchi consapevoli dell’impatto dei consumi ma poco disposti a cambiare

    Sulla carta tutto bene: riconoscono che la crisi climatica è una vera emergenza, sanno che il clima che cambia potrebbe mettere a rischio la nostra stessa sopravvivenza e sono ben disposti a sostenere tecnologie green. Ma al tempo stesso inquinano, comprano troppo e sono poco propensi a comportarsi diversamente nella vita di tutti i giorni. Questa la “doppia faccia” della classe benestante inglese che emerge da uno studio che ha indagato le attitudini dei più ricchi sulla questione ambientale e di cui si racconta oggi dalle pagine di Plos Climate.
    “Potrebbero giocare un grande ruolo”
    Scopo del lavoro, racconta il team che dall’Università di Bath ha condotto la ricerca, anche intervistando i diretti interessati, era capire quale ruolo le persone che più influenzano in negativo le condizioni del nostro pianeta – ricchi e supericchi – sono disposti a giocare dall’altra parte della rete. Ovvero, quanto bene potrebbero fare all’ambiente? “Gli individui più ricchi hanno un’opportunità unica, e la responsabilità, di avere un impatto significativo (sull’ambiente, nda) – ha spiegato infatti da Bath Hettie Moorcroft, a capo del lavoro – La nostra ricerca mostra in che modo le persone ricche contribuiscono ai cambiamenti climatici al di là dei loro consumi, ma mostra anche come le loro capacità potrebbero essere sfruttate per avviare un veloce cambiamento”.

    Innovazione

    Londra-NY in meno di 3 ore, ma il jet supersonico consuma fino a 7 volte di più

    di Paolo Travisi

    17 Febbraio 2025

    La ricerca
    Nello studio i benestanti (britannici) presi in considerazione erano persone in condizioni diverse, anche a seconda dello status lavorativo, ma in generale erano quelli che avevano un reddito superiore alle 150 mila sterline l’anno o alle 100 mila, ma con proprietà di casa e due auto. I dati riportati si riferiscono ad un piccolo campione (una quarantina di benestanti su circa un migliaio di persone), per cui sono state collezionate abitudini e stimati impatti ambientali, ma sono interessanti.

    L’editoriale

    Lavoro, quante balle sulla green economy

    di Federico Ferrazza

    05 Marzo 2025

    Qualche risultato dell’indagine
    i ricchi sono ben disposti ad adottare tecnologie green, sia questa una macchina o un investimento in pannelli solari, anche in luogo delle maggiori possibilità economiche, riconoscono chiaramente gli autori. I benestanti inoltre sono anche più consapevoli, rispetto agli altri, che sia necessaria un’azione urgente a contrasto dei cambiamenti climatici, affrontano più spesso il problema nelle loro discussioni e si dichiarano pro politiche che sposano l’attenzione all’ambiente. Sono anche più disposti a valutare l’impatto ambientale di un oggetto quando devono cambiarlo, sebbene lo facciano fin troppo spesso, scrivono gli autori.

    Le idee

    Cop16, gli aiuti al Sud del mondo per salvare la biodiversità

    di Greenpeace

    19 Febbraio 2025

    Dissonanza cognitiva
    Proprio questo aspetto relativo ai consumi eccessivi, così come la scelta di spostamenti poco sostenibili, quali l’uso degli aerei, e più in generale una scarsa propensione a modificare i propri stili di vita, indicano invece una discordanza tra quanto dichiarato e quanto i benestanti sono disposti a fare nella pratica per la causa ambientale. O meglio una “dissonanza cognitiva”, come la definiscono gli autori. A questo si aggiunge anche una scarsa consapevolezza dell’impatto delle proprie azioni sull’ambiente, complice in parte il fatto che spesso i ricchi frequentano altri ricchi, e certi comportamenti sono considerati la norma, scrivono ancora gli esperti.
    Non tutto è perduto
    I più benestanti, se volessero e magari opportunamente indirizzati, potrebbero essere protagonisti di un necessario cambiamento, concludono gli autori, agendo come una sorta di influencer in virtù delle loro posizioni economiche e sociali, per guidare comportamenti e mercati. Una sfida troppo ambiziosa? LEGGI TUTTO

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    Motus-E: in Italia 64.400 punti di ricarica per auto elettrica

    La rete italiana delle colonnine per le auto elettriche continua a crescere, con i punti di ricarica a uso pubblico installati a quota 64.391 (+13.713 sul 2023). È quanto emerge dalla sesta edizione dello studio “Le infrastrutture di ricarica a uso pubblico in Italia”, lanciato a Key – The Energy Transition Expo da Motus-E che sottolinea come questo risultato, “nonostante il ritardo nelle vendite di auto elettriche, conferma l’Italia tra i Paesi più virtuosi d’Europa nell’infrastruttura al servizio dei veicoli a batteria”.

    Fisco verde

    Più potenza a costo zero: come risparmiare in casa con la ricarica “intelligente” per l’auto

    di Antonella Donati

    05 Marzo 2025

    La Lombardia è la prima regione per punti di ricarica (12.926) davanti a Lazio (6.917), Piemonte (6.151); Roma è la città che conta più punti di ricarica installati (3.117),
    seconda Milano (1.400) e terza Napoli (1.235). Città questa che conta più punti di ricarica in rapporto alla superficie, davanti a Torino e Milano. Guardando alla distribuzione per macroaree, al nord si concentra il 57% dei punti di ricarica, al centro il 20% e al sud il 23%.
    I punti di ricarica lungo le autostrade sono 1.087. Considerando anche quelli entro 3 chilometri dall’uscita sono 3.447.

    Innovazione

    Adelie, l’auto solare a emissioni zero che pesa solo 170 chilogrammi

    di Paolo Travisi

    25 Febbraio 2025

    Meglio di Francia, Germania e Regno Unito
    Secondo il nuovo report sull’infrastruttura per auto a batteria, la rete italiana ha raggiunto nel 2024 un’espansione di oltre il 27% e un aumento dei punti di ricarica negli ultimi due anni del 75%. Inoltre, ha già il 75-80% di conformità rispetto agli ultimi obiettivi fissati dall’Europa. E con 19 punti di ricarica a uso pubblico ogni 100 auto elettriche circolanti, l’infrastruttura italiana si conferma davanti a quelle di Francia (14 punti ogni 100 auto), Germania (8 ogni 100) e Regno Unito (7 ogni 100), conservando il primato anche se si considerano solo i punti di ricarica veloci in corrente continua.
    Fast e ultra fast
    Insieme al numero totale delle colonnine aumenta anche l’incidenza di quelle a più alta potenza: il 47% dei punti installati nel 2024 è di tipo veloce e ultraveloce, segnando un record assoluto (lo scorso anno rappresentavano il 22% delle nuove installazioni).
    Per numero di punti di ricarica per chilometro quadrato è Napoli sul gradino più alto del podio (11 punti ogni km2), davanti a Torino (8 punti) e Milano (poco meno di 8 punti).

    Sulla sostenibilità si dividono le strade di Eurozona e Usa

    11 Febbraio 2025

    Un punto di ricarica nel raggio di 10 km
    Grazie al contributo di Rse (la ricerca sul sistema energetico), il report include l’aggiornamento dell’analisi spaziale dei punti di ricarica geolocalizzati, da cui emerge che, considerando anche le aree più remote e isolate del Paese, nel 94% del territorio nazionale è presente almeno un punto di ricarica in un raggio di 10 chilometri (86% a fine 2023).

    Transizione energetica

    Come funzionano le batterie bidirezionali delle auto elettriche e perché potrebbero far risparmiare alimentando l’energia delle nostre case

    di Giacomo Talignani

    30 Ottobre 2024

    Maggiore attenzione nel Meridione
    “Grazie all’impegno degli operatori il processo di infrastrutturazione del Paese procede spedito ma c’è ancora un importante lavoro da fare per aumentare la capillarità in alcune aree, specialmente nel Mezzogiorno, dove la limitata penetrazione dei veicoli elettrici non agevola i grandi investimenti richiesti, in particolar modo per le colonnine ad alta potenza”, ha osservato il presidente di Motus-E, Fabio Pressi, auspicando che “vengano estesi i termini per l’utilizzo dei fondi Pnrr ancora disponibili, rivedendo i meccanismi di cofinanziamento per facilitarne l’impiego e supportare la crescita dell’infrastruttura nelle zone meno coperte, facendo leva anche sul prezioso monitoraggio della Piattaforma Unica Nazionale gestita dal Gse”.
    L’accordo per le colonnine nelle aree di servizio
    Pressi sottolinea l’importanza della collaborazione tra tutti gli attori coinvolti da questo “grande processo di infrastrutturazione del Paese”, come dimostra il recente protocollo che siglato con Unem (Unione energia per la mobilità) per le colonnine nei distributori di carburante. “Lo stesso approccio andrebbe esteso anche alla semplificazione e omogenizzazione degli iter autorizzativi”, aggiunge auspicando “un maggior coordinamento pubblico-privato, anche attraverso l’atteso aggiornamento del Piano nazionale infrastrutturale per la ricarica (Pnire)”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, il manager del riciclo: “Così trasformiamo in farina i rifiuti alimentari”

    Dalle idee in circolo sui banchi dell’università sino a creare un’impresa che fa dell’economia circolare, la lotta allo spreco alimentare e il riciclo, la propria missione. Unendo le competenze acquisite nelle aule di Biotecnologie dell’Università di Modena e Reggio Emilia alle esperienze di chi opera nel mondo del diritto, del commercio oppure della sostenibilità, un manipolo di giovanissimi ormai otto anni fa a Reggio Emilia ha dato vita come spin-off dell’ateneo a una startup chiamata Packtin, oggi diventata una piccola media impresa che dà nuova vita ai sottoprodotti alimentari. Gestita da quattro soci, tutti under 40, l’azienda ha avuto una visione che si è poi sviluppata con il tempo, inventando un processo innovativo e sostenibile per recuperare una lunga serie di sottoprodotti, come le bucce di arance o pomodori, oppure quelle dei mirtilli e dello zenzero scartate da chi produce succhi, per trasformare il tutto in farine vegetali.

    Andrea Bedogni, classe 1990, nato a Scandiano (RE), è oggi uno dei manager che insieme ai soci si occupa del riciclo e del recupero dei sottoprodotti: per lui lavorare in una impresa che fa del recupero una missione è sembrato quasi una continuazione della sua grande passione, il vintage. Se è finito ad occuparsi di una professione green, basata sul riciclo, probabilmente era destino: “Sono cresciuto in una zona di campagne e natura e allo stesso tempo ho sempre avuto una passione per i vecchi oggetti che si possono recuperare e riaggiustare. Forse ero destinato a lavorare nell’economia circolare, anche se io mi sono unito al gruppo dopo la sua fondazione” racconta. Geometra e laureato in Scienze giuridiche, Bedogni non ha una formazione prettamente green ma “quando ho iniziato ad affiancarmi a una realtà come Packtin ho subito iniziato a lavorare e studiare per applicare al meglio due concetti in cui credo molto, la sostenibilità e il potere dell’economia circolare”. La sua passione per il riutilizzo ha poi avuto “un riflesso anche sulla mia professione attuale. Ho iniziato applicando le mie conoscenze giuridiche per poi virare su tutto quello che comporta la gestione nel mondo del recupero, soprattutto in una realtà, la nostra, che ha sede nel cuore della Food Valley”.

    L’editoriale

    Lavoro, quante balle sulla green economy

    di Federico Ferrazza

    05 Marzo 2025

    Bedogni spiega che per lavorare nel mondo del riciclo agroalimentare bisogna sempre avere “visione ed essere in evoluzione”, ragionare per esempio “sulle opportunità di come recuperare ciò che altrove finirebbe al macero e trasformarlo in un prodotto con un nuovo valore, magari costruendo anche tutto ciò che è necessario per farlo – impianti compresi – per ridare vita ai sottoprodotti”. Ad esempio, nel cuore dell’Emilia-Romagna, regione da 360mila tonnellate all’anno di sottoprodotti dell’agroalimentare, “c’era bisogno di lavorare per ridurre lo spreco e mostrare i vantaggi sia ambientali, sia per la salute delle persone e dell’economia, che può apportare il recupero. Oggi noi per ogni chilo di farina che produciamo recuperiamo cinque chili di prodotti che altrimenti sarebbero stati buttati via, talvolta anche andando ad ingolfare discariche o inquinare falde acquifere”.

    Riuscire ad ottenere questi primi successi, sostiene Bedogni, all’interno di una impresa del riciclo è “sempre frutto di studio e confronti: quelli interni – come nella nostra azienda dove ancora oggi c’è anche il professore universitario che ha formato alcuni dei soci e ha seguito lo spin-off della startup – e quelli esterni che guardano ad altri casi di successo, magari anche esteri, e alle nuove tecnologie oggi a disposizione”. Spesso, aggiunge, quando si ricicla per mestiere “ci si porta un po’ di lavoro anche nelle abitudini di casa, e questo è un bene: abbiamo condiviso ad esempio il fatto di fare più attenzione, durante la raccolta differenziata e lo smaltimento, ai materiali di cui sono fatti i rifiuti, chiedendosi come saranno recuperati”.

    Infine, fra gli scopi attuali e futuri dell’impresa reggiana c’è anche quella di far crescere nuovi professionisti green: “Stiamo già inserendo tirocinanti e studenti: arrivano da percorsi di studio vari e diversi, ma a tutti è richiesto, per fare questo lavoro, un impegno e uno sforzo nel credere nell’importanza dell’economia circolare, qualcosa che la grande industria ancora non ha capito fino in fondo, ma che per noi è il futuro. Speriamo infatti diventi l’economia di tutte le aziende: farebbe bene sia all’ambiente che al portafoglio”. LEGGI TUTTO

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    Polimeri “ecologici”, un nuovo studio smentisce: “I polyBFR sono pericolosi”

    Quella che sembrava l’alternativa meno inquinante in realtà rappresenta un nuovo rischio per la salute. È quanto emerge da un nuovo studio guidato dalla Jinan University e pubblicato su Nature Sustainability. Al centro della ricerca: i polimeri progettati dai ricercatori per realizzare due nuovi ritardanti di fiamma – i bromurati polimerici conosciuti con la sigla polyBFR – considerati fino adesso “ecologici”, alternative “non tossiche” ai ritardanti di fiamma vietati (ad esempio, esabromociclododecano e decabromodifeniletere). Durante questo nuovo studio si è scoperto invece che possono inquinare e rappresentare un pericolo.

    Ma cosa sono i ritardanti di fiamma?
    Si tratta di composti chimici che vengono aggiunti ai prodotti di uso domestico e industriale per evitare che possano incendiarsi o per rallentare il propagarsi delle fiamme. Sono presenti quasi ovunque: mobili, tappezzeria, materassi, tappeti, tende, nei dispositivi elettronici ed elettrici, come computer fissi e portatili, telefoni, smartphone, televisori, elettrodomestici. Nei materiali da costruzione, come gli isolanti a base di schiume di polistirene e poliuretano. Anche nei sedili e coprisedili, paraurti e altri scomparti di automobili, aerei e treni.

    Greenpeace: in Italia mancano dati sulla pericolosa contaminazione da TFA

    di Fiammetta Cupellaro

    09 Gennaio 2025

    Si pensava fossero inerti
    Fino ad ora si credeva che questo tipo polimeri fossero inerti non ponendo quindi rischi per l’ambiente e la salute. Gli autori della nuova ricerca, però, hanno dimostrato che i polimeri utilizzati come ritardanti di fiamma possono scomporsi in sostanze chimiche nocive più piccole. “Il nostro studio suggerisce che i polimeri possono agire come un cavallo di Troia per sostanze chimiche tossiche”, ha affermato Da Chen, autore senior e scienziato presso la Jinan University in Cina: “Vengono aggiunti ai prodotti come grandi molecole inerti, ma nel tempo possono degradarsi, esponendoci ai loro dannosi prodotti di degradazione”.

    Il caso

    In California timori per l’inquinamento delle polveri rosa usate per ritardare gli incendi

    di Giacomo Talignani

    15 Gennaio 2025

    I test di tossicità
    I ricercatori hanno testato due ritardanti di fiamma bromurati polimerici (polyBFR) le famose alternative considerate “non tossiche” ai ritardanti di fiamma vietati. Hanno invece scoperto che entrambi i polyBFR si scomponevano in decine di tipi di molecole più piccole. I test di tossicità di queste molecole più piccole nei pesci zebra hanno mostrato un potenziale significativo per causare disfunzione mitocondriale e danni allo sviluppo e cardiovascolari.

    Rilevati nell’aria e nel terreno
    Gli scienziati hanno anche cercato questi prodotti di degradazione dei polimeri nell’ambiente e li hanno rilevati nel terreno, nell’aria e nella polvere. I livelli erano più alti vicino agli impianti di riciclo dei rifiuti elettronici e diminuivano allontanandosi dagli impianti.

    Inquinamento

    Gli utensili in plastica nera sono nocivi per la salute?

    di Paola Arosio

    01 Gennaio 2025

    Questi risultati confermano che l’uso di polyBFR nell’elettronica porta al rilascio di prodotti di degradazione tossici nell’ambiente con potenziale danno per l’uomo e la fauna selvatica. “L’uso diffuso di questi polyBFR nell’elettronica può causare esposizioni quando questi prodotti vengono fabbricati, quando sono nelle nostre case e quando vengono scartati o riciclati”, ha affermato Miriam Diamond, coautrice e professoressa presso l’Università di Toronto che sottolinea “Dato che si sospetta che i volumi di produzione siano molto elevati il potenziale di inquinamento, e i conseguenti gravi danni alle persone e alla fauna selvatica, mi preoccupano molto”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, Realacci: “Le professioni si devono ripensare in modo sostenibile”

    “Tutte le professioni saranno attraversate dal ricambio di competenze richiesto dalla sostenibilità”. Ermete Realacci segue da anni le evoluzioni dell’economia green con la fondazione da lui presieduta, Symbola. Il rapporto annuale GreenItaly, realizzato con Unioncamere, è un osservatorio che permette di monitorare l’emergere di nuovi lavori legati allo sviluppo sostenibile.

    Quanti italiani lavorano nella green economy?
    “Secondo il nostro ultimo rapporto sono 3,1 milioni gli occupati legati a una professione verde, il 13,4% del totale. Tra le nuove assunzioni sono il 35-40%, mentre nella ricerca e sviluppo quelli che devono avere competenze green rappresentano l’86% dei nuovi assunti”.

    Che succederà nei prossimi anni?
    “Il cambiamento riguarderà tutte le professioni. Prendiamo l’agricoltura: oggi qualcuno pensa di poter produrre cibo senza incrociare il tema della sostenibilità? Nel rapporto GreenItaly immaginiamo quali saranno le figure professionali più richieste. Tra queste il programmatore agricolo della filiera corta. O il cuoco sostenibile, che dovrà prestare particolare attenzione al tipo di prodotti che utilizza, riducendo al massimo gli sprechi e puntando sul riciclo”.

    I cambiamenti climatici e gli eventi meteo estremi come incideranno sul mercato dei lavori sostenibili?
    “Serviranno architetti di paesaggi sostenibili. Sono professionisti capaci di disegnare spazi verdi e riqualificazioni urbane ispirate all’idea del rammendo e non della demolizione e di nuova cementificazione. In alcune aree del Paese le ondate di siccità richiederanno le competenze di idrologi. Ma serviranno anche professioni capaci di valutare i danni e altri in grado di ripararli…”.

    A cosa si riferisce?
    “Uno dei comparti più investiti dai cambiamenti climatici è quello delle assicurazioni: per le compagnie capire quanto far pagare una polizza è un problema e può diventarlo anche per gli assicurati. In occasione delle grandinate violentissime che hanno colpito il Veneto diversi mesi fa sono state danneggiate molte autovetture che le assicurazioni hanno cercato di non risarcire. Ma anche quando la pratica è andata a buon fine, il tempo richiesto per le riparazioni è stato lunghissimo: ci sono voluti molti mesi. E questo perché c’era la fila dai fornitori di pezzi di ricambio e dai carrozzieri della zona. Mancano figure tecniche e in molti settori ci sarà bisogno di gente formata per intraprendere mestieri legati al cambiamento. Restando alle auto, meccanici ed elettrauti dovranno diventare meccatronici, ovvero professionisti certificati chiamati a integrare le conoscenze tradizionali con l’elettronica e l’informatica”.

    L’economia circolare si basa sul riciclo e il recupero dei materiali: che mestieri si affermeranno in questo comparto?
    “Per esempio, il manager del riciclo, una nuova figura sempre più richiesta dalle aziende per ridurre i costi dello smaltimento. O il ricondizionatore tech, capace di garantire che il prodotto rigenerato sia identico per caratteristiche e prestazioni a quello nuovo”.

    Attualmente quali sono le aree del Paese che cercano più lavoratori green?
    “Secondo i dati del nostro rapporto, la Lombardia è la regione con il maggior numero di contratti relativi a green jobs la cui attivazione era prevista dalle imprese nel 2023. Seguono, ma abbastanza staccati, Veneto, Emilia-Romagna e Lazio. E in queste quattro regioni le attivazioni di posti green sono state 99.710 e rappresentano il 52% del totale”.

    Come si preparano i giovani alle opportunità di lavoro legate alla sostenibilità?
    “Per orientare i giovani, bisogna comunicare quanto loro sta accadendo. E occorre adeguare il sistema formativo: rispetto ai tedeschi abbiamo perso quella grande quantità di scuole professionali di qualità che erano l’ossatura del sistema produttivo italiano. È una partita aperta, ma già leggere il problema è parte della possibile soluzione”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, Piero Genovesi: “La riscossa degli specialisti della biodiversità”

    “Quando ho fatto il mio primo colloquio di lavoro, alla fine degli anni ’80, non avevo mai sentito la parola biodiversità”, racconta Piero Genovesi, responsabile dell’area Conservazione della Fauna dell’Ispra e autore di studi fondamentali sulle specie invasive. “Oggi invece è un ambito dove sono richieste competenze e professionalità molto diverse tra loro. Non è più semplice ricerca scientifica, è gestione, pianificazione, comunicazione e innovazione”. Anche perché la biodiversità non riguarda solo la natura, ma anche la garanzia di risorse sane e redditizie. La Ue stima che ogni euro investito nel ripristino degli ecosistemi possa generare un ritorno economico da quattro a trentotto volte superiore.

    I lavori legati alla biodiversità sono ritenuti quasi un hobby. Ma è davvero così?
    ”No, anzi, vedo una crescente richiesta di professionalità in questo ambito. Il bisogno di monitorare, gestire e conservare la biodiversità sta aumentando. Sono richieste competenze elevate: non si parla più solo di vertebrati e piante, ma anche di funghi, batteri, insetti, suolo e microrganismi. Per questo servono specialisti in grado di analizzare aspetti legati agli ecosistemi sempre più complessi. Inoltre, c’è una crescente domanda di esperti in educazione ambientale, divulgazione e consulenza per diverse aziende, comprese quelle agricole e forestali”.

    Quali sono le competenze più richieste?
    “Quelle con elevate competenze in settori specifici, come la genetica ambientale, la bioacustica, l’analisi dei big data; ma anche l’utilizzo di strumenti avanzati come fototrappole, droni e Intelligenza artificiale. Ad esempio, oggi possiamo raccogliere un bicchiere d’acqua da uno stagno e identificare tutte le specie presenti grazie al DNA ambientale. È fondamentale una grande flessibilità: chi lavora in questo settore deve sapersi adattare e collaborare con climatologi, geologi ed ecologi”.

    Come è cambiato il settore rispetto a quando ha iniziato?
    “Nel 1988 il termine “biodiversità“ era praticamente sconosciuto. Si parlava di protezione della fauna, ma in modo molto più limitato. Negli anni ho assistito a una trasformazione radicale: oggi affrontiamo scenari molto più complessi, con strumenti innovativi e una maggiore consapevolezza. E soprattutto con più urgenza. Secondo gli studi europei, l’81% degli habitat europei si trova in stato ‘povero’ o ‘scadente’”.

    L‘Italia ospita oltre 60.000 specie animali, più di un terzo della fauna europea. Quali sono le principali sfide per la biodiversità nel nostro Paese?
    “La più grande minaccia è la perdita di habitat. Negli ultimi decenni le foreste sono aumentate, ma al tempo stesso coste, fiumi e zone agricole hanno subito una forte devastazione. L’agricoltura intensiva, la cementificazione e l’inquinamento restano le principali cause di perdita di biodiversità. Anche le specie invasive rappresentano un problema crescente. Infine, il cambiamento climatico sta amplificando queste minacce”.
    Eppure abbiamo visto le proteste dei trattori, ma anche il ritorno di Trump e un Parlamento europeo più scettico. Come si può convincere anche i critici delle politiche ambientali?
    ”La biodiversità non è un costo, ma un vantaggio. Senza un suolo sano, l’agricoltura non ha futuro. La perdita di insetti impollinatori, ad esempio, mette a rischio intere filiere produttive. Dobbiamo puntare su pratiche innovative come l’agro-fotovoltaico e l’agricoltura di precisione. Ci saranno rallentamenti politici, ma la strada è segnata e il cambiamento inarrestabile”.

    Cosa consiglia ai giovani che oggi immaginano di lavorare nella biodiversità?
    “Studiate molto, specializzatevi, cercate esperienze pratiche sul campo e non abbiate paura di innovare. Il mondo della conservazione ambientale ha bisogno di persone curiose, aperte al cambiamento e disposte a confrontarsi con nuove tecnologie. Ci sono bandi, borse di studio, contratti di ricerca: le porte sono spalancate”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, Cuppoloni: “Le tecnologie pulite aiuteranno l’Europa a tornare competitiva”

    Federico Cuppoloni è alla guida di Cleantech for Italy, iniziativa lanciata a giugno 2024 con il supporto di Breakthrough Energy di Bill Gates che ha come obiettivo quello di porre le tecnologie pulite al centro della strategia industriale italiana, non solo come leva di decarbonizzazione e sostenibilità, ma come motore di competitività, sicurezza energetica e sviluppo socioeconomico. Il settore ha infatti il potenziale per rafforzare il tessuto industriale del Paese, attrarre investimenti strategici e creare nuove opportunità di lavoro, contribuendo alla crescita di aree chiave per l’economia nazionale.

    Il settore cleantech italiano continua a evolversi, mostrando dinamicità in un contesto economico globale complesso. Secondo Cleantech for Italy e MITO Technology, che rilasceranno nei prossimi giorni il Cleantech for Italy 2024 Annual Briefing, nel 2024 gli investimenti complessivi in tecnologie verdi hanno raggiunto i 230,8 milioni di euro. Pur registrando un calo rispetto al 2023, il settore ha mantenuto un’intensa attività di investimento: nel solo comparto Venture Capital si sono concluse 72 operazioni, un record storico sostenuto dalla nascita di nuovi fondi specializzati. Positivo anche l’andamento degli strumenti di debito, trainato in particolare dagli investimenti della Banca Europea per gli Investimenti in Tau Group e BeDimensional.

    “L’Italia ha compiuto progressi significativi nel sostegno alle tecnologie emergenti, grazie alla nascita di veicoli di investimento dedicati. L’aumento dei capitali disponibili sta spingendo sempre più soluzioni fuori dai laboratori e verso il mercato. Tuttavia, la fase cruciale di scale-up resta in gran parte scoperta: le imprese italiane faticano ad accedere a strumenti di blended finance, mentre un contesto regolamentare poco competitivo le penalizza rispetto ad altri mercati. Questo ostacola l’industrializzazione dell’innovazione, privando il sistema produttivo e l’economia italiana di un potenziale trasformativo.

    Il vero paradosso? Mentre gli imprenditori cleantech stanno rivoluzionando la tecnologia, finanza e politica non hanno saputo innovare con la stessa rapidità. La buona notizia è che non è troppo tardi per colmare questo gap: il fermento attorno queste tecnologie in Italia è innegabile e offre un’opportunità concreta per accelerare la transizione industriale del Paese.”

    In Italia, il dibattito è concentrato sull’alto costo dell’energia e sulle implicazioni per il settore industriale. Che ruolo hanno le tecnologie verdi in questo scenario?
    Questo è un tema di grande rilevanza, che necessita di misure emergenziali tanto quanto di una visione di medio e lungo termine per ridefinire lo scenario energetico industriale italiano. La crisi post-2022 ha mostrato chiaramente che la dipendenza dal gas ha reso il nostro sistema industriale fragile e vulnerabile agli shock dei prezzi. Per rendere le imprese più indipendenti da queste dinamiche, è fondamentale accelerare la penetrazione delle rinnovabili, sostenendola con una regolamentazione agile, investimenti in infrastrutture e nuovi strumenti di mercato, come i Power Purchase Agreements (PPA), che garantiscono prezzi più stabili e prevedibili, disaccoppiandoli da quelli del gas.

    In questo contesto, il cleantech diventa un complemento essenziale, permettendo di sfruttare al meglio l’energia rinnovabile e ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Le tecnologie più immediate sono quelle legate all’accumulo energetico – incluso quello a lunga durata (Long-Duration Energy Storage, LDES), fondamentale per integrare le rinnovabili, migliorare la stabilità dell’approvvigionamento e ridurre la volatilità dei prezzi – e le soluzioni di potenziamento della rete, per la modernizzazione e il rafforzamento della rete elettrica. Allo stesso tempo, ci sono opportunità concrete legate all’elettrificazione diretta della domanda industriale, con tecnologie già disponibili per l’industria, come pompe di calore industriali e batterie termiche, che possono già oggi fornire calore a basse e medie temperature, abbattendo i consumi di gas. Grazie a processi di innovazione in corso, le batterie termiche potranno arrivare fino a 1.500°C, aprendo la strada alla decarbonizzazione di settori hard-to-abate.

    L’Italia ha eccellenze in molti di questi ambiti, da Energy Dome per lo stoccaggio a Magaldi per le batterie termiche, e un tessuto industriale con le competenze per guidare questa transizione. Tuttavia, per arrivare a un’adozione su larga scala, serve una politica industriale ambiziosa che mobiliti risorse finanziarie (sia pubbliche che private) e coordini gli incentivi in modo efficiente e mirato, evitando frammentazioni. Allo stesso tempo, è essenziale una regolamentazione agile e stabile, capace di costruire business case solidi per le imprese e attrarre investimenti di lungo periodo. Senza un intervento strategico, il rischio è che la transizione industriale avvenga in modo disordinato o che l’Italia resti indietro rispetto ai Paesi che stanno già consolidando filiere industriali competitive.

    Qual è il ruolo di Cleantech for Italy in questo disegno di politica industriale e quali sono le vostre raccomandazioni per i decisori?
    Cleantech for Italy nasce per riunire i principali attori della catena dell’innovazione verde in Italia e contribuire a definire un percorso che permetta al nostro Paese di coniugare la decarbonizzazione con nuove opportunità economiche, industriali e strategiche. La nostra coalizione accoglierà università, centri di ricerca, aziende leader nelle tecnologie pulite, fondi di investimento e banche, coprendo così l’intero ciclo di sviluppo dell’innovazione.

    L’Italia ha compiuto passi importanti nello sviluppo tecnologico, ovvero nella fase intermedia tra la ricerca scientifica e la dimostrazione industriale. L’emergere di fondi specializzati e il ruolo di CDP Venture Capital hanno rafforzato questa fase, dotando il Paese di risorse adeguate per sostenere gli innovatori fino alla maturazione della tecnologia. Tuttavia, restano due lacune fondamentali da colmare.

    La prima riguarda il passaggio dalla ricerca all’impresa. Nonostante l’alta qualità della ricerca scientifica, l’Italia genera ancora troppo poche aziende cleantech. Un ostacolo chiave è la frammentazione dei meccanismi di trasferimento tecnologico tra università e centri di ricerca, che limita la capacità di trasformare l’innovazione in progetti imprenditoriali concreti. È essenziale armonizzare questi processi, creando un ecosistema più coordinato e accessibile per i ricercatori e i primi investitori.

    Un’altra lacuna cruciale riguarda il mix di strumenti finanziari e regolatori necessari affinché una tecnologia possa superare le fasi critiche di dimostrazione tecnologica, tipicamente associate a progetti First-of-a-Kind (FOAK). Per colmare questo divario, è fondamentale potenziare gli strumenti di blended finance, combinando equity, debito e grant in modo da ridurre il rischio percepito dagli investitori e incentivare l’ingresso di capitali privati.

    Per questo motivo, proponiamo con forza la creazione di strumenti di garanzia dedicati. Queste garanzie non solo attrarrebbero capitali privati, ma ridurrebbero anche l’esposizione dello Stato, rendendo l’intervento pubblico più efficiente e scalabile. Parallelamente, è necessario rafforzare le politiche di incentivazione della domanda, affinché queste tecnologie possano accedere a mercati di sbocco e diventare investimenti competitivi su scala industriale.

    Se vogliamo che l’innovazione verde prodotta in Italia si trasformi in un vantaggio competitivo per il Paese, dobbiamo costruire un percorso che le permetta di arrivare sul mercato e affermarsi su scala industriale. Creare un contesto più favorevole per la nascita di startup, sbloccare strumenti di finanziamento adeguati per la fase di dimostrazione e rendere il quadro regolatorio più attrattivo per gli investitori sono azioni imprescindibili per fare dell’Italia un hub industriale nel cleantech.

    Ha citato il Clean Industrial Deal. Qual è la vostra posizione su questo nuovo programma politico europeo?
    L’attuale crisi industriale in Europa lascia pochi dubbi sull’importanza del Clean Industrial Deal per rilanciare la competitività del nostro continente. Il focus sulla competitività annunciato dalla Commissione Europea attraverso la sua Bussola per la competitività è un segnale positivo. Da tempo, nel settore sottolineiamo la necessità di affiancare alle politiche di net zero un’attenzione costante alla creazione di un ecosistema industriale competitivo, capace di generare nuovi campioni europei in settori emergenti.

    L’Europa ha già dimostrato la sua capacità di innovare e competere sui mercati globali con esempi di eccellenza, come la già citata Energy Dome. Tuttavia, per far crescere il cleantech europeo e consolidare una leadership industriale, il Clean Industrial Deal deve innescare due segnali di mercato decisivi, che abbiamo ribadito in una lettera indirizzata alla Commissione Europea e firmata insieme a oltre cento innovatori e investitori europei.

    Anzitutto, un forte shock della domanda per accelerare l’adozione di tecnologie innovative nel tessuto industriale europeo. Questo permetterebbe di rafforzare settori chiave, come l’acciaio, i trasporti e la chimica, mitigando gli effetti dei costi energetici delle catene di approvvigionamento globali. In secondo luogo, meccanismi di de-risking pubblici per attrarre capitali privati su larga scala. Oltre a garanzie pubbliche e veicoli di blended finance, strumenti come i Carbon Contract for Difference (CCfD) sono essenziali per sostenere gli investimenti in infrastrutture critiche e nuovi impianti produttivi. LEGGI TUTTO