Febbraio 2025

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    Nel parco di Yellowstone lupi e orsi hanno aiutato a ripristinare l’ecosistema

    Meglio prendersi cura di Yoghi, Bubu e di tutti gli altri predatori. In un contesto di difficile soluzione, quello in cui si fa fatica a sviluppare la convivenza tra orsi, lupi ed esseri umani, dal parco di Yellowstone, negli Stati Uniti nord-occidentali, – che ci riporta con la mente alle avventure del plantigrado Yoghi – arriva un’importante lezione da tenere a mente: ripristinare i predatori significa ripristinare la natura. In un recente studio sottoposto a peer-review e pubblicato sulla rivista Global Ecology and Conservation i ricercatori dell’Oregon State University e del Conservation Biology Institute di Corvallis raccontano infatti gli effetti ecologici positivi della presenza di lupi, orsi e carnivori all’interno del Parco Nazionale di Yellowstone, effetti che a cascata si riversano sulla ripresa degli ecosistemi.

    Per raccontare come e perché i predatori possono aiutare la resilienza e la ripresa della natura i biologi hanno analizzato, per oltre vent’anni, i dati relativi ad alcune specie di salici. Utilizzando i dati raccolti dal 2001 al 2020 sulle condizioni della vegetazione lungo i corsi d’acqua del parco gli esperti hanno notato un aumento del 1500% del volume delle chiome dei salici: per la presenza degli alci queste piante, così come altre all’interno degli ecosistemi dello Yellowstone, in passato non riuscivano a crescere e svilupparsi, senza apportare così reali benefici alla biodiversità dell’area. Da quando però nel 1995-96 i lupi sono stati reintrodotti, così come sono stati sviluppati parallelamente progetti di conservazione degli orsi, si è creato un effetto di cascata trofica positivo per la crescita delle piante. I predatori infatti, contenendo ed operando sulla popolazione degli alci, hanno aiutato la ripresa del volume delle chiome, permettendo così a salici e altri alberi di crescere e di fungere come importante luogo di riparo e riproduzione per altre specie all’interno del parco. LEGGI TUTTO

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    La fecondazione in vitro per salvare i canguri e altri mammiferi marsupiali dall’estinzione

    La fecondazione in vitro potrebbe salvare i marsupiali dall’estinzione. Una potenziale svolta per una serie di specie che registrano, in Australia, un declino delle popolazioni arriva da un esperimento (riuscito) dell’università del Queensland, che ha prodotto il primo embrione di canguro al mondo tramite fecondazione in vitro.“Un risultato rivoluzionario – commenta Andres Gambini, che ha coordinato le attività di ricerca, confluite in una pubblicazione scientifica – che ci lascia in dote preziose informazioni sulla riproduzione dei marsupiali e sul potenziale delle tecnologie di riproduzione assistita per la loro conservazione”.

    Nel dettaglio, ricercatori sono riusciti a iniettare con successo un singolo spermatozoo di canguro grigio orientale in un ovulo maturo. Il percorso per arrivare a una nascita è ancora lungo, ma i risultati sono più che promettenti. “Approfittando della sovrabbondanza dei canguri grigi orientali, abbiamo raccolto i loro ovuli e lo sperma per usarli come modello per adattare le tecnologie embrionali già applicate ad animali domestici e umani”, spiega ancora Gambini. Specificando che “l’accesso ai tessuti dei marsupiali è difficile perché sono meno studiati degli animali domestici, nonostante siano iconici e parte integrante della biodiversità australiana”. LEGGI TUTTO

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    Il sale antighiaccio, una soluzione per la viabilità ma un problema per l’ambiente

    E’ una necessità nei mesi invernali, in quelle aree del Paese dalle temperature molto rigide e dalle nevicate frequenti, quella di usare il sale sulle strade proprio per sciogliere le formazioni di ghiaccio, molto pericoloso per la viabilità. Ma quando il sale è sparso con troppa abbondanza, va oltre la pavimentazione stradale e si disperde nel terreno circostante, fino a raggingere i corsi di acqua dolce, mettendo a rischio gli equilibri ecologici e la vegetazione. Ora che il sale in eccesso nel periodo invernale possa creare qualche problema è un fatto noto, ma un nuovo studio pubblicato su Science of the Total Environment approfondisce l’impatto del cloruro di sodio (la composizione chimica del sale) sui bacini di ritenzione, ovvero quelle strutture artificiali, create appositamente dall’uomo, sia per accogliere l’acqua piovana che per evitare piene ed allagamenti. Intorno ai bacini è presente una folta vegetazione, fondamentale per mantenere la stabilità dell’ecosistema di flora e fauna.

    Ma come finisce il sale delle strade nell’acqua piovana dei bacini? La domanda è più che lecita. I bacini, di solito, quando sono costruiti in prossimità delle strade, come abbiamo detto, hanno la funzione di raccoglierne l’acqua in eccesso, quindi anche quella che trasporta via il sale che contrasta gelo e ghiaccio e che finisce per alterare i livelli di salinità del bacino, mettendo sotto stress anche le piante che circondano la struttura di raccolta. Lo studio americano ha preso in esame per un periodo temporale di 12 mesi, 14 bacini situati nel nord della Virginia, negli Stati Uniti, in un anno in cui la neve è caduta in quantità superiori alla media stagionale, per cui è stato necessario fare un abbondante ricorso al sale sulle strade. I ricercatori hanno evidenziato che per almeno 2 volte sono state superate le soglie di tolleranza al sale da parte della vegetazione limitrofa, nei terreni di tutti i sistemi di drenaggio delle strade ed in metà dei sistemi di drenaggio dei parcheggi. Le 255 specie di piante presenti intorno ai bacini, tra cui 48 autoctone, sono in grado di tollerare livelli elevati di sale, ma le concentrazioni intra-tessutali di ioni di sodio e cloruro erano più elevate nella piante alofite, scrivono gli esperti, una specie vegetale che può adattarsi e sopravvivere anche su terreni molto salini o alcalini, mitigando l’effetto dell’inquinamento da sale e favorendo la resilienza degli ecosistemi urbani. Tra le piante di questa specie, le più conosciute sono la salicornia, il limonium e alcune varietà di graminacee che sono molto diffuse nei suoli costieri e paludi salmastre.Secondo lo studio, infatti, molte delle acque dolci del mondo si stanno salinizzando, un processo noto come sindrome da salinizzazione, che minaccia la salute dell’ecosistema delle acque dolci, la produttività agricola e la sostenibilità, al pari dell’affidabilità e sicurezza delle forniture di acqua potabile.

    Inquinamento

    Il sale antigelo sulle strade inquina. Le alternative ecologiche: barbabietola e succo di pomodoro

    di Mariella Bussolati

    23 Dicembre 2021

    Secondo le ipotesi dei ricercatori, la copertura del terreno circostante un bacino di circa 2/3mila metri quadrati, posto nei pressi di un’autostrada, con la pianta alofita potrebbe “depurare” concentrazioni saline tra i 100 e 200 chili all’anno, anche se questo livello stimato di assorbimento non sarebbe sufficiente a compensare l’applicazione di sale invernale. Questo processo, noto come fitodepurazione, potrebbe aiutare a ridurre l’impatto salino, ma non a risolvere il problema, che deve chiamare in causa le amministrazioni locali, ad un uso più attento del sale sulle strade, usando quantità più equilibrate. Ma c’è di più da tenere in considerazione, sostengono i ricercatori: “Sebbene i nostri risultati siano ampiamente coerenti con altri studi sui climi freddi, ci aspettiamo che il nostro lavoro sia più estensibile ad altre zone climatiche in cui i cicli di gelo e disgelo e una combinazione di eventi invernali di pioggia e neve siano la norma o si prevede che lo diventino a causa del cambiamento climatico” si legge nell’articolo scientifico. Quindi, ancora una volta è chiamato in causa anche il climate change, perché proprio nelle regioni in cui la copertura nevosa è più persistente, l’uso del sale potrebbe “alterare significativamente i profili di stress salino nonché la capacità delle piante di bonificare i terreni e migliorare la resilienza delle infrastrutture delle acque piovane a futuri eventi di disgelo”. LEGGI TUTTO

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    Ludovica Chiarini e la magia del cinema che diventa green

    Ludovica Chiarini, trentenne bresciana, è la project manager di EcoMuvi, un servizio integrato per lo sviluppo sostenibile delle produzioni cinematografiche e audiovisive. “Mi sono laureata al DAMS di Brescia – spiega Chiarini – con una tesi dal titolo Cinema verde per il Pianeta Blu, in cui ho esplorato le pratiche sostenibili nel cinema a livello internazionale, con un focus particolare sugli Stati Uniti e successivamente ho conseguito un master specialistico in Leadership for Sustainability presso la Malmö University, in Svezia. Il mio lavoro attuale come Ceo di EcoMuvi e Sustainability Supervisor per il cinema e l’audiovisivo si concentra sulla promozione e l’implementazione di strategie di sostenibilità per le produzioni audiovisive, combinando ricerca accademica ed esperienza pratica”.
    EcoMuvi nasce nel 2013 per accompagnare le produzioni cinematografiche e audiovisive in un percorso di sostenibilità attiva. “Collaboro – racconta Chiarini – con i team di produzione per pianificare ogni aspetto in modo da ridurre l’impatto ambientale, dall’uso delle risorse alla gestione dei rifiuti. Al contempo lavoriamo per uno sviluppo sostenibile a tutto tondo, che massimizzi gli impatti positivi sociali sul territorio di ripresa e i risparmi economici per il budget del progetto. Grazie alla mia esperienza internazionale, mi ispiro alle migliori pratiche europee ed internazionali, adattandole al contesto italiano. Oltre agli aspetti pratici come la gestione dei trasporti, l’energia rinnovabile e la riduzione degli sprechi, credo che sia fondamentale adottare una mentalità progettuale. Le produzioni devono essere consapevoli del loro potenziale impatto e pianificare ogni fase per minimizzarlo. Strumenti come la rendicontazione di sostenibilità permettono di misurare i risultati e di identificare aree di miglioramento. Ciò fa sì che si possa lavorare in maniera preventiva e non solo “reagendo” alle brutte abitudini del set. Inoltre, la collaborazione con partner internazionali ci ha permesso di portare innovazioni tecnologiche e organizzative sul set che rappresentano un passo avanti per tutto il settore”. LEGGI TUTTO

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    Agrifoglio, come prendersi cura della pianta dalle bacche rosse

    L’agrifoglio è una pianta sempreverde che viene utilizzata spesso durante le festività. Questa pianta con portamento arbustivo appartiene alla famiglia delle aquifolaceae ed è una specie che troviamo comunemente diffusa nel nostro paese. È una pianta originaria anche di altre zone in Europa, nord Africa ed Asia, dove cresce ugualmente spontaneo. Si presenta con una corteccia liscia grigia, foglie di colore verde intenso lucido, caratterizzate da spine lungo tutti i margini. I fiori di questo piccolo albero di agrifoglio si presentano riuniti e con quattro petali. Nel caso degli esemplari femminili ci sono fiori di colore bianco-rosa, mentre quelli maschili assumono una colorazione verde. Proprio grazie a queste caratteristiche dell’agrifoglio, è possibile capire se la pianta è femmina o maschio.

    Questa pianta sempreverde è a crescita lenta e, solitamente, non supera i 10 metri di altezza, anche se sono stati trovati degli esemplari alti 24 metri. Per una crescita ottimale di questa pianta è necessario prediligere una corretta esposizione: l’agrifoglio preferisce aree luminose o in penombra. Proprio per questo, si può sistemare in giardino anche all’ombra di altri alberi più grandi. Le diverse specie di agrifoglio resistono alle temperature rigide invernali: infatti, è possibile tenere la pianta in giardino in un buono stato fino a -15°C.

    Le differenze tra l’agrifoglio e il pungitopo
    Molto spesso è possibile confondere l’agrifoglio con il pungitopo. In realtà, però, vi sono delle differenze tra l’agrifoglio e il pungitopo. In pratica, è necessario osservare attentamente le foglie. Nel caso dell’agrifoglio sono presenti foglie lucenti di forma ovale con spine, mentre con il pungitopo si hanno foglie a freccia, rigide e dalla forma insolita. Un’altra differenza è visibile nelle bacche: entrambe sono di colore rosso, ma nell’agrifoglio sono presenti 4 semi, mentre nel pungitopo ce ne sono solo 2. Inoltre, le bacche dell’agrifoglio sono a grappoli, mentre quelle del pungitopo, oltre ad essere più piccole, sono distribuite lungo il fusto in maniera uniforme.

    Le bacche rosse
    In seguito alla fioritura, che avviene nei mesi di maggio-giugno, compaiono nelle piante femmine le bacche rosse. Questi piccoli frutti sono contraddistinti da una superficie liscia e lucida e sono molto decorativi. Si tratta di frutti non edibili, bensì decorativi.

    Qual è il terreno migliore per la pianta?
    Questa pianta non ha molte esigenze: è importante, però, non selezionare un terreno eccessivamente ricco di calcare e argilloso. Nel caso in cui il terreno apparisse eccessivamente compatto è possibile miscelarlo con della sabbia oppure con dell’humus di fogliame, così da renderlo più morbido e ideale per accogliere l’agrifoglio. Un terreno leggermente acido, drenante e fertile sarà perfetto.

    La coltivazione e la cura dell’agrifoglio in vaso
    Oltre a sistemare questa pianta in giardino, è possibile prendersi cura dell’agrifoglio in vaso. Dopo aver selezionato il vaso delle dimensioni migliori, sarà necessario sistemare sul fondo dell’argilla espansa: in questa maniera, si ottiene un ottimo drenaggio e si evita il pericolo di ristagno idrico. Se si decide di coltivare l’agrifoglio in vaso è necessario avere maggiore attenzione. Per esempio, con il sopraggiungere della stagione invernale è fondamentale proteggere la pianta in vaso. Nelle aree in cui le temperature scendono al di sotto dello zero è meglio spostare la pianta in una zona riparata, così da non compromettere la pianta. La migliore esposizione per una pianta coltivata in vaso è all’ombra o, comunque, al sole solo durante le prime ore del mattino, poiché l’agrifoglio gradisce aree fresche.

    Le annaffiature della pianta
    Se l’agrifoglio è coltivato in giardino, è necessario occuparsi delle annaffiature in modo regolare, ma senza eccedere; si potrà aumentare la quantità dell’acqua con il sopraggiungere del periodo caldo. Per gli esemplari coltivati in vaso è di fondamentale importanza evitare i ristagni idrici: il consiglio è di usare la mano per capire se il terreno è asciutto e necessita di acqua.

    La concimazione
    La concimazione dell’agrifoglio in piena terra non è necessaria, ma può essere utile per favorire lo sviluppo di altre foglie. Per le piante coltivate in vaso, invece, si può sfruttare un fertilizzante liquido da dare insieme all’acqua durante tutto l’anno.

    La talea del sempreverde
    È possibile ottenere la propagazione della stessa effettuando una talea. Durante l’estata si può prelevare un ramo legnoso dell’agrifoglio e farlo radicare in acqua oppure in un mix di sabbia e torba. In questo modo, una volta sviluppate le radici, si può sistemare la pianta nel terriccio ideale per la sua crescita.

    Il rinvaso e la potatura
    Il rinvaso dell’agrifoglio va fatto tra i mesi di marzo-aprile oppure in autunno, quando il clima è ancora mite. In generale, si procede con il rinvaso ogni 2-3 anni, così da offrire il giusto spazio necessario per la crescita della pianta. La potatura dell’agrifoglio non è necessaria, poiché si tratta di una specie che cresce lentamente. L’unico momento in cui si può intervenire con la potatura è nel caso in cui si volesse direzionare la crescita dell’agrifoglio o conferirgli una forma particolare. In tal caso, è meglio procedere con il taglio dei rami solo dopo l’estate.

    Le malattie e i parassiti
    È abbastanza difficile trovare una pianta di agrifoglio malata, ma è importante tenere a mente che delle scorrette cure di questa pianta possono far sorgere diversi problemi. Ad esempio, l’agrifoglio può incorrere nella comparsa di cocciniglia e di malattie fungine. Il marciume radicale, invece, può sorgere quando si effettuano troppe irrigazioni; al contrario, con troppo poca acqua, le foglie potrebbero iniziare a cadere. LEGGI TUTTO

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    Così gli ombrelli rotti possono avere una seconda vita

    Secondo la Global Umbrella Survey, una persona possiede in media almeno due ombrelli in un determinato momento, numero che aumenta (oltre tre) nelle zone più colpite dalle piogge, e può perderne fino a 64 nel corso della vita. Si calcola, inoltre, che annualmente nel mondo ne finiscano nelle discariche oltre 1,1 miliardi, il che equivale a materiale sufficiente per costruire 25 Tour Eiffel.

    Altre analisi si sono concentrate sull’effettivo impiego del dispositivo, partendo dal fatto che, in base alle statistiche sulle precipitazioni nelle città europee, i giorni di pioggia in un anno risultano in media 104 (minimo 43, massimo 199). Utilizzando i dati del Main Place of Work and Commuting Time del 2020, si evince poi che il tempo medio minimo di spostamento di un lavoratore nei centri urbani è di 1,5 ore al giorno. L’uso medio previsto si può, quindi, calcolare moltiplicando 104 giorni per 1,5 ore, ottenendo così 156 ore annue.
    Dal telaio al puntale
    Vari gli elementi di cui è composto un ombrello. C’è anzitutto il telaio, che conferisce la caratteristica forma a cupola ed è solitamente formato da pannelli: sei per i modelli pieghevoli e otto per quelli standard. C’è poi l’asta, di solito cava, sulla quale poggiano le altre componenti. E ancora, ci sono le stecche, chiamate anche nervature o centine, che costituiscono la struttura dell’oggetto, correndo dalla cima al bordo; il puntale, che può assumere varie forme (piatto, a punta, a cono); il manico, curvo oppure dritto.
    Elevato impatto ambientale
    A sottolineare gli esiti negativi per l’ambiente della produzione di ombrelli è un report realizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università Aalto, in Finlandia. “Gli effetti sfavorevoli sono correlati a uso di risorse, emissione di gas serra, impiego di materiali potenzialmente tossici”, si legge nel documento. “Cause dell’elevato impatto sono soprattutto i granulati di polipropilene e i lingotti di alluminio”.

    Di fronte a ciò gli studiosi propongono di intervenire limitando l’impiego di polipropilene nel processo produttivo. “La prima alternativa potrebbe essere il legno”, sostengono. “La seconda il bambù, una risorsa rinnovabile a crescita rapida, che ha la capacità di assorbire efficacemente l’anidride carbonica e che vanta ottime qualità fisiche. La sua resistenza può, infatti, essere paragonata a quella dell’acciaio”. Un altro fattore importante è impiegare materiali riciclati per le parti in tessuto, come poliestere riciclato o poliammide riciclata.
    Riparare con fili e colla
    Nel frattempo, i consumatori possono fare molto a favore della sostenibilità. “Un ombrello ha di solito vita breve”, sottolineano gli esperti. “Basta, per esempio, una forte raffica di vento perché si capovolga, con conseguente sollecitazione delle giunture e rottura di alcune componenti”.

    Prima di buttarlo, è sempre bene prendere in considerazione l’idea di ripararlo, anche se non è facile. Quando, per esempio, il tessuto del telaio è strappato o rotto, è possibile cucirlo con un filo dello stesso colore. Si può, invece, utilizzare un pezzo di filo metallico per legare i pezzi dislocati di una stecca rotta, rimettendola al suo posto. Quando è poi il manico a essersi staccato, basta mettere un po’ di supercolla nel foro e lasciarla asciugare durante la notte per riposizionarlo.
    Riciclare con creatività
    Nel caso in cui la riparazione non sia fattibile, si può puntare a riutilizzare l’ombrello donandogli una seconda vita. Alcune idee? Il telaio può essere trasformato in un paralume colorato per rallegrare un corridoio, una mansarda, una taverna. Le coperture trasparenti in plastica e le stecche sono, invece, ideali per coprire e proteggere le piante del giardino o dell’orto, in modo da realizzare una sorta di piccola serra. Capovolgendo l’ombrello e appendendolo in veranda o sulla terrazza è poi possibile realizzare un comodo cesto, da riempire magari con dei fiori. Infine, rimuovendo i manici curvi dal resto del dispositivo e attaccandoli a una barra di legno o di plastica si può ottenere un ottimo attaccapanni.

    Chi non avesse la manualità o il tempo sufficiente per realizzare queste creazioni può sempre mandare i propri ombrelli rotti in uno dei numerosi punti di raccolta del marchio R-Coat, presenti in Italia e in Portogallo. Grazie a questa iniziativa, fondata nel 2018 da Anna Masiello, i dispositivi scartati diventano cappelli, giacche, marsupi, elastici per capelli, bijoux realizzati a mano da un team di sarte che lavora in un piccolo atelier nei pressi di Lisbona.

    E se proprio non si riesce né a riparare, né a trasformare, né a inviare l’ombrello guasto, l’opzione migliore è smembrarlo nelle sue varie componenti, che dovranno poi essere conferite nell’immondizia separatamente, tenendo conto dei materiali di cui ciascuna è formata. LEGGI TUTTO

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    Da Ferrara a Pesaro, così cambia la mobilità urbana grazie alle piste ciclabili

    Percorsi ciclopedonali a tre livelli, che collegheranno le mura con il centro città e poi aree sportive e alberi, molti alberi. Siamo a Ferrara dove andare in bici non è solo una scelta etica, ma uno stile di vita collaudato da decenni. Proprio qui, nella terra delle due ruote, sorgerà un nuovo parco urbano di oltre 55 mila metri quadrati con 1500 alberi chiamato “Central Bosc”. Obiettivo: bruciare 142 tonnellate all’anno di anidride carbonica prodotte soprattutto dalle auto. Il segno di quanto molte città in Italia stiano facendo non solo verso la mobilità sostenibile, ma per migliorare la qualità dell’aria dei centri urbani, soffocati da un trasporto pubblico e privato, fonte prima di inquinamento. Come confermano i dati del report redatto da Legambiente “Mal’Aria delle città” appena pubblicati. “Bosco e piste ciclabili serviranno a mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. È stato dimostrato che in un’area verde urbana, rispetto a dove c’è cemento, la differenza di temperatura arriva ad essere anche di cinque gradi”, conferma l’amministrazione ferrarese.

    Pedalare fa bene all’aria e alla salute

    Ma Ferrara non è la sola città a puntare per il 2025 sulle due ruote e il verde pubblico. Pesaro ad esempio. Per l’ottavo anno consecutivo la Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta ha confermato la città delle Marche “Comune Ciclabile 2025”: si tratta di un riconoscimento che Fiab attribuisce alle amministrazioni più virtuose in termini di mobilità sostenibile. Non è un caso che il riconoscimento sia andato a Pesaro “Città della Bicicletta” da anni, un Comune che sta investendo molto sulla promozione della mobilità dolce. È la città della Bicipolitana, l’infrastruttura nata inizialmente per collegare i diversi quartieri del centro al mare, ma che negli anni si è trasformata in una rete di collegamenti strategica. Ed è così che la Fiab ha attribuito a Pesaro il punteggio massimo di 5 “bike smiles”.

    Startup

    La piattaforma per bici ricondizionate e dal packaging sostenibile

    di  Gabriella Rocco

    22 Gennaio 2025

    Bike smiles: uno strumento non solo un riconoscimento

    Ma cosa sono i bike smiles? Anche quest’anno è partito il progetto ComuniCiclabili, l’iniziativa promossa dalla Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta con l’obiettivo di valutare l’impegno dei comuni italiani nell’incoraggiare la ciclabilità come modello di mobilità sostenibile. Sì perché se da una parte aumentano di chilometri di piste ciclabili, dall’altra bisogna convincere i cittadini a lasciare a casa l’auto. Per questo la Fiab è a disposizione delle amministrazioni comunali. I bike smiles riconoscono questo legame e i passi avanti fatti insieme. Spiegano alla Fiab: “Ma non si tratta solo di un riconoscimento, ma di uno strumento che offre ai comuni indicazioni concrete per migliorare la qualità della vita dei propri cittadini e promuovere stili di vita sostenibili. Le bandiere gialle non sono semplici simboli, ma segnali tangibili di un cambiamento concreto nelle politiche urbane e nel modo di vivere la città”. Nel 2024 sono stati coinvolti 180 Comuni e, attraverso il progetto, sono stati assegnati dei “bike smile”, delle bandiere gialle che attestano il miglioramento della qualità della vita urbana.

    Mobilità

    La classifica europea delle capitali con i mezzi di trasporto più green, l’Italia fuori dalla top10

    di  Paolo Travisi

    07 Ottobre 2024

    Andare in bici nelle città
    Aosta ad esempio è passata da per il suo impegno nella realizzazione nel 2024 di 15 chilometri di piste ciclabili che uniscono tutti i quartieri della città: con le zone periferiche ricucite al centro. “Erano molti anni che non si viveva un impatto così forte” ha detto il sindaco Gianni Nuti. E poi Ascoli Piceno, che ha ottenuto il terzo bike smile, confermando un forte impegno nella promozione della bicicletta come mezzo di trasporto urbano: ha appena inaugurato un ponte ciclopedonale sul torrente Lama che porta verso i Colli del Tronto. Infine, un’importante novità: Rocca San Giovanni (CH), comune abbracciato dalla Via Verde dei Trabocchi, fa il suo debutto nel programma con il massimo riconoscimento di bike smiles. E poi le grandi città.

    Mobilità

    I giovani si muovono in modo “sostenibile”, ma l’Italia è indietro

    redazione Green&Blue

    23 Settembre 2024

    La sfida al Sud Italia
    “Venti comuni hanno confermato il loro impegno nel migliorare la mobilità sostenibile e nella creazione di città bike-friendly. Tra questi, spiccano città come Firenze, Bologna, Piacenza, Sestri Levante, Merano. A questo proposito Fiab lancia una sfida ai Comuni del Sud, dove la mobilità ciclistica è meno diffusa. L’intenzione della Fiab è di affrontare questo divario: “Bisogna portare avanti un vero e proprio cambiamento culturale, trasformando la mobilità sostenibile in una priorità per tutte le amministrazioni, con un focus speciale sulle infrastrutture ciclabili e sul potenziamento del cicloturismo”. Alessandro Tursi, Presidente della Fiab: “Le amministrazioni del Mezzogiorno hanno una grande opportunità: le infrastrutture ciclabili richiedono investimenti relativamente contenuti rispetto ad altre opere pubbliche e, con l’introduzione delle bici elettriche, anche i dislivelli possono essere facilmente superati. Il turismo in bicicletta sta registrando numeri impressionanti e può rappresentare un volano economico di enorme valore per i territori”. I comuni italiani hanno ancora tempo fino al 15 febbraio per aderire a questa edizione di ComuniCiclabili.

    Inquinamento

    “Mal’aria di città”: migliora, anche se di poco, l’inquinamento. Cosa fare entro il 2030

    di  Giacomo Talignani

    04 Febbraio 2025

    Diritti e salute delle giovani generazioni: Fiab e Unicef insieme
    Secondo il report sul climate change di Unicef, un miliardo di bambini nel mondo vive in paesi ad altissimo rischio e il 99% di tutti i bambini è esposto ad almeno uno dei principali rischi, shock o stress climatici e ambientali. Per questo Unicef ha deciso di stringere una collaborazione con Fiab. Le due associazioni cercheranno insieme di promuovere iniziative per far comprendere alle amministrazioni locali quanto sia necessaria una trasformazione delle nostre città e sui rischi reali legati alla crisi climatica. Obiettivo: trovare strategie per affrontare transizione ecologica, sfruttando l’enorme potenziale offerto della bicicletta, che fa bene all’ambiente e alla salute. Chiara Ricci, direttrice dell’Ufficio Sostenibilità e Climate Change di Unicef Italia: “La crisi climatica è una crisi dei diritti dei bambini e degli adolescenti, più vulnerabili e più colpiti. Proprio loro che sono i meno responsabili delle cause del cambiamento climatico”. LEGGI TUTTO

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    Dai cuccioli di tigre alle scimmie: sequestrati 20mila animali vivi destinati al commercio illegale

    Chiudete gli occhi e visualizzate uno stadio con 20.000 persone. Ora immaginate che per capriccio e desiderio, tutti i presenti siano rinchiusi in gabbie anguste, nascosti in valigie, stipati dietro scompartimenti segreti nei container sulle navi o avvolti nel cellophane senza nemmeno un buco da cui respirare. Ecco, è quello che l’umanità fa agli animali. In meno di un mese, dall’11 novembre 20024 al 6 dicembre, una gigantesca operazione dell’Interpol in tutto il mondo ha scoperto e sequestrato 20mila animali vivi commerciati illegalmente, quasi tutte specie protette o addirittura in via di estinzione. L’Operazione Thunder, così l’hanno chiamata, svela il volto terribile delle più becere azioni umane: si tratta della più grande operazione forestale e faunistica di sempre, un blitz globale che ha scoperto un commercio di fauna e flora inimmaginabile, in costante crescita, veicolato anche dalle vendite su internet e attraverso i social media. I numeri sono impressionanti: oltre alle migliaia di esemplari recuperati sono state arrestate 365 persone nei 138 Paesi dove si è svolta la mega operazione. A livello mondiale sono state anche identificate più di 100 aziende coinvolte nel traffico di specie protette e recuperate oltre 300 armi da fuoco, veicoli e attrezzature per il bracconaggio.

    Sotto il coordinamento dell’Interpol e dell’Organizzazione mondiale delle dogane (OMD) centinaia di agenti, di forestali ed esperti di fauna selvatica hanno effettuato controlli negli aeroporti, nei porti e le dogane di tutto il mondo, ma anche negli allevamenti illegali o lungo le rotte del commercio di specie selvatiche. Sono almeno 12.427 gli uccelli in gabbia, pronti ad essere commerciati, recuperati dalle forze dell’ordine. Tantissime anche le tartarughe: si parla di 5.877 esemplari. E poi rettili (1731) e addirittura 18 grandi felini, 33 primati e 12 pangolini. Quasi tutte le specie erano protette dalla Convenzione sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche minacciate di estinzione (CITES) e si stima fossero in viaggio per essere trafficate illegalmente al fine di soddisfare la domanda sul mercato, per questioni di medicina tradizionale (come quella del sud-est asiatico e della Cina), oppure perchè considerati capricci e beni di lusso, o ancora “articoli da collezione” o animali da tenere in casa o da competizione. In Repubblica Ceca, all’interno di gabbie terribili, l’Interpol ha scoperto diciotto grandi felini tra cui alcuni cuccioli di tigre di pochi mesi. In Iraq hanno trovato mammiferi vari, come gli Oryx, che sono poi stati inviati ai centri di conservazione e riabilitazione. In Tanzania hanno individuato decine e decine di tartarughe vive, avvolte in una sorta di cellophane, pronte ad essere commerciate. In Marocco sono invece state recuperate teche con oltre 50 serpenti vivi, in Mozambico i pangolini. In Australia lo scanner termico ha individuato lucertole dalla lingua blu nascoste nelle valigie. In Cile e in Indonesia sono invece stati salvati diversi primati rinchiusi in minuscole gabbiette. Tra le scoperte più significative rientrano anche 6.500 uccelli canterini vivi rinvenuti in Turchia durante l’ispezione di un veicolo al confine siriano. Nelle valigie di un passeggero arrivato dalla Malesia a Chennai c’erano 5.193 tartarughe ornamentali dalle orecchie rosse.

    Il rapporto

    Non solo tigri: ecco il commercio illegale che uccide la natura

    17 Dicembre 2020

    Ogni animale recuperato è stato indirizzato a centri di conservazione e riabilitazione e, in molti casi, gli esperti hanno prelevato campioni di DNA prima di trasferire i vari esemplari. La raccolta del DNA, spiegano dall’Interpol, è un’azione chiave “poiché aiuta a confermare il tipo di specie e la sua origine o distribuzione, facendo luce su nuove rotte di traffico e tendenze emergenti”. Una di queste tendenze, purtroppo in crescita, è lo sviluppo del commercio via social. Le autorità hanno infatti indagato “anche sulle attività online e hanno scoperto che i sospettati utilizzavano più profili e account collegati su piattaforme di social media e marketplace per espandere la propria portata”. Tra le altre tendenze individuate, spesso per questioni legate al lusso o allo status, c’è il crescente traffico che ha coinvolto l’Europa “di specie provenienti dal Sud America”. Sono infatti stati segnalati moltiplici sequestri “sia di animali vivi sia di parti di specie feline come l’Ocelot (Leopardus pardalis) e il giaguaro Panthera nei paesi europei”. Un altro filone dell’inchiesta riguarda proprio le “parti” di animali o i “derivati”, soprattutto di mammiferi e pesci protetti, ma anche di alberi, piante, artropodi e vari organismi marini. Anche in questo caso i numeri raccontano nel dettaglio la tragedia: si parla di 5.738 “pezzi” di mammiferi di terra, di 6.899 legati agli uccelli, circa seicento agli anfibi e poi oltre 10mila alle piante, 9mila alle specie marine e quasi 50mila agli alberi (inteso come legname), per un valore pari a oltre 200 tonnellate.

    Di queste, 134 tonnellate di legname dirette in Asia via mare sono state fermate in Indonesia, altre 41 in Kenya. In Nigeria sono state individuate 4.472 chili di scaglie di pangolini. Nelle dogane del Perù hanno scoperto 3.700 piante protette arrivate dall’Ecuador. Nelle valigie di un sospettato che si stava spostando tra Mozambico e Thailandia in Qatar hanno trovato otto corni di rinoceronte. Negli Stati Uniti invece c’era “una tonnellata di cetrioli di mare, considerati una prelibatezza ittica, contrabbandati dal Nicaragua”. Impressionante anche il sequestro di 973 kg di pinne di squalo essiccate, in arrivo dal Marocco con destinazione Hong Kong. A bordo di una nave indonesiana i contrabbandieri nascondevano invece centinaia di pelli di pitone reticolato, mentre sia in Australia che nel Regno Unito è stata trovata la bile dell’orso, quella che come le pinne di squalo o il corno di rinoceronte fa parte degli usi della medicina tradizionale asiatica.

    In Italia hanno sequestrato giganteschi pezzi di corallo e prodotti in pelle di pitone. In Namibia pelli di leopardo. In Polonia hanno intercettato sia una pelliccia fatta di leopardo sia teche con cavallucci marini morti. In Messico le autorità hanno individuato una serie di 53 pezzi – tra artigli e teschi – di grandi felini. Come dice Valdecy Urquiza, segretario generale dell’Interpol, i numeri parlano chiaro: siamo davanti a una gigantesca strage, solo per fini commerciali. “Le reti del crimine organizzato traggono profitto dalla domanda di piante e animali rari, sfruttando la natura per alimentare l’avidità umana. Ciò ha conseguenze di vasta portata: determina la perdita di biodiversità, distrugge le comunità, contribuisce al cambiamento climatico e alimenta persino conflitti e instabilità. I crimini ambientali sono particolarmente distruttivi e l’Interpol, in collaborazione con i suoi partner, si impegna a proteggere il nostro Pianeta per le generazioni future”. LEGGI TUTTO