13 Gennaio 2025

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    Skimmia, la pianta facile da coltivare e resistente al freddo: la guida

    La skimmia è un genere di arbusto sempreverde, che appartiene alla famiglia delle rutacee. È originaria dell’Asia e, in particolare, la troviamo in Giappone e in Cina, nonché nelle aree boschive himalayane. Il suo nome deriva dal giapponese “shikimi” – un termine che ha un significato traducibile come “frutto velenoso”, tant’è vero che la pianta è completamente tossica.Esistono diverse specie di skimmia, che nella maggior parte dei casi hanno il tipico aspetto arbustivo e raggiungono un’altezza contenuta (tra 1 e 2 metri). Tra le specie più diffuse, possiamo citare la skimmia japonica, che è contraddistinta da foglie coriacee ovali e fiori color crema, bianco o rosa pallido. La maggior parte delle specie di questa pianta sono dioiche, cioè con esemplari che producono fiori esclusivamente maschili o femminili.
    L’esposizione ideale per questa pianta
    La skimmia è una pianta che ha il suo habitat naturale nel sottobosco. La sua esposizione ideale è quindi in luoghi ombreggiati, dove non riceva quasi mai l’irraggiamento solare diretto. Si adatta comunque a crescere anche in ambienti in penombra, ad esempio quando trova riparo al di sotto di un albero. La skimmia è una pianta particolarmente rustica (può sopportare temperature minime di -15 gradi) e facile da coltivare: ricordiamoci però che ha un ritmo di crescita abbastanza lento.
    Il terreno più indicato per la coltivazione
    Il terreno ideale per la coltivazione della skimmia è acido e con un’elevata capacità di drenaggio, in modo da prevenire il pericoloso (e dannoso) fenomeno del ristagno idrico, che causa il marciume radicale. Il terreno dovrebbe essere inoltre ben aerato e soffice al punto giusto, come per esempio una miscela di torba, con terra di aghi di conifere e brughiera unita a perlite. Il momento ideale per piantare la skimmia è nel corso dell’autunno. Se coltiviamo la skimmia in vaso, ricordiamoci di rinvasarla solo quando le radici hanno esaurito lo spazio disponibile per lo sviluppo. Scegliamo un contenitore che abbia un diametro maggiore di un paio di centimetri rispetto al precedente.

    L’innaffiatura, la concimazione e la potatura
    La skimmia richiede un’innaffiatura regolare con acqua che non sia eccessivamente calcarea. Nel caso in cui quella proveniente dal rubinetto lo fosse, dobbiamo ricorrere all’acqua piovana o, al limite, a quella demineralizzata. La pianta non ha invece particolari esigenze per quanto riguarda la concimazione: possiamo aggiungere, con cadenza mensile, del fertilizzante liquido all’acqua di innaffiatura durante la primavera e l’estate. La skimmia non ha bisogno di una potatura specifica. Qualora decidessimo di potarla per mantenerne una forma armoniosa, ricordiamoci di farlo solo durante il periodo autunnale, usando solo utensili ben disinfettati.
    La fioritura della skimmia
    La fioritura della skimmia si concentra a cavallo tra il periodo primaverile ed estivo, con una notevole varietà di colori che spazia dal bianco al rosa intenso, oppure, dal crema al rosa pallido a seconda delle specie. La pianta produce anche delle bacche di diversi colori che persistono solitamente per tutto l’inverno: ad esempio, la skimmia japonica è nota per le bacche rosse.
    Le malattie e i parassiti più comuni
    A seconda delle avversità che la colpiscono, la skimmia può manifestare alcuni sintomi specifici che ci aiutano a adottare il rimedio più appropriato. Se la skimmia ha le foglie ingiallite e queste tendono facilmente a staccarsi e cadere, la causa è quasi sempre da ricercare nel calcare. Ciò significa che dobbiamo sostituire il terreno di coltivazione, oppure, utilizzare dell’acqua piovana per annaffiarla. L’acqua eccessivamente calcarea è anche responsabile del colore sbiadito dei fiori. Se oltre ad essere ingiallite le foglie sono anche frastagliate sui bordi, significa che la pianta è stata attaccata dagli acari: per allontanarli, dobbiamo aumentare il livello dell’umidità ambientale, ad esempio nebulizzando le foglie.

    L’esposizione della skimmia all’irraggiamento solare diretto provoca invece la bruciatura delle foglie. Se notiamo delle macchie marroni sul fogliame, la skimmia è stata colpita dalla cocciniglia bruna: possiamo eliminarla pulendo la pianta con un batuffolo di ovatta con alcool. La presenza di puntini bianchi sulle foglie ci indica invece che la pianta è stata colpita dagli afidi: in questo caso, dobbiamo usare un antiparassitario. Infine, la skimmia può essere infestata dall’oidio: se questa malattia fungina si manifesta, le foglie assumono un colore sbiadito e hanno delle macchie di muffa in superficie. Se l’infestazione è contenuta, possiamo rimuovere le parti malate: in caso di attacco molto esteso, dobbiamo eseguire un trattamento con prodotti fitosanitari a base di zolfo. LEGGI TUTTO

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    Ardisia, l’arbusto dalla bacche rosse: come prendersene cura

    L’ardisia è un genere di arbusti sempreverdi che comprende numerose specie, tra le quali, la crenata (o crispa) è una delle più diffuse per la coltivazione a scopo ornamentale.

    L’ardisia appartiene alla famiglia delle primulacee e le sue origini sono da ricercare principalmente tra le aree calde dell’Asia e l’Africa. Il suo habitat naturale è soprattutto all’interno delle foreste, ma anche nelle zone collinari: in questo ambiente, l’arbusto può raggiungere un’altezza di diversi metri. L’ardisia è contraddistinta dalle foglie alterne di color verde scuro e coriacee, nonché da una bella fioritura a pannocchia, che talvolta è resa ancor più spettacolare dalla presenza contemporanea delle bacche dai colori vivaci.

    È una pianta da esterno o interno?
    Per rispondere a questa domanda, consideriamo che la temperatura ideale di coltivazione dell’ardisia durante il periodo compreso tra la primavera e l’estate è di 20 gradi. Se esponiamo l’arbusto a temperature più elevate, provochiamo l’appassimento e la perdita di foglie e bacche. Durante l’autunno e l’inverno, invece, l’ardisia deve essere riposta in un ambiente dove la temperatura è costantemente attorno ai 15 gradi. A seconda delle condizioni climatiche della regione in cui viviamo, l’ardisia è principalmente coltivabile all’interno del nostro appartamento o casa.

    L’esposizione alla luce
    Scegliamo un ambiente interno molto luminoso per coltivare con successo la nostra ardisia. Ricordiamoci però di non esporre l’arbusto al soleggiamento diretto, almeno nel periodo primaverile-estivo, poiché i raggi solari provocano la comparsa di macchie sulle foglie. Tra l’autunno e l’inverno, invece, l’esposizione al sole diretto non risulta essere troppo problematica. Evitiamo infine che l’ardisia sia esposta alle correnti d’aria fredda o alle fonti di calore diretto.

    Il terreno suggerito per la coltivazione
    L’ardisia predilige i terreni fertili, con una buona quantità di materia organica, nonché soffici e con un drenaggio ottimale. Per evitare che si verifichi il ristagno idrico, possiamo quindi aggiungere della sabbia dalla granulometria elevata al terreno di coltivazione. L’arbusto è caratterizzato da una crescita molto lenta, motivo per il quale dovremo preoccuparci di rinvasare l’ardisia circa ogni 3 anni. Quando sostituiamo il vaso, scegliamo un contenitore dal diametro di un paio di centimetri più ampio rispetto al precedente. Nel periodo che intercorre tra un rinvaso e l’altro, possiamo anche prevedere di sostituire i primi 2 centimetri di terriccio superficiale, così da assicurare all’arbusto un terreno di coltivazione ben fertile.

    L’innaffiatura, la concimazione e la potatura
    Durante la primavera e l’estate, ricordiamoci di mantenere costantemente umido il terreno, senza però inzupparlo: possiamo attendere che sia asciutto in superficie prima di innaffiare nuovamente. In caso di periodi di caldo particolarmente intenso e secco, nebulizziamo le foglie con dell’acqua demineralizzata.

    Nel periodo tra l’autunno e l’inverno, l’ardisia non ha bisogno di annaffiature regolari: anche in questo caso, possiamo aspettare che il terreno sia asciutto prima di innaffiare nuovamente l’arbusto. Per favorire lo sviluppo della pianta, tra la primavera e l’estate possiamo aggiungere del fertilizzante liquido all’acqua di innaffiatura, almeno 3 volte al mese. Infine, possiamo prevedere una potatura primaverile qualora la nostra ardisia si sviluppasse in modo poco ordinato: eliminiamo i rami che tendono a svettare troppo, mantenendo come riferimento l’altezza del fusto. Per evitare di provocare danni all’arbusto, accertiamoci sempre di aver disinfettato accuratamente i nostri utensili.

    La propagazione per talea
    Per propagare l’ardisia, attendiamo sempre il periodo primaverile. Ricaviamo delle talee lunghe circa 10 centimetri a partire dai germogli dei rami secondari. Ricordiamoci sempre di tagliare al di sotto del nodo e, soprattutto, di rimuovere le foglie che si trovano alla base della talea. Per favorire l’attecchimento, possiamo utilizzare la polvere che stimola lo sviluppo delle radici. Riponiamo quindi le nostre talee in vasi di circa 10 centimetri di diametro, scegliendo una miscela di torba e sabbia. Manteniamo costantemente umido il terreno e ricoveriamo i nostri vasi in un ambiente molto luminoso e dove ci siano almeno 25 gradi. Se le nostre talee si svilupperanno correttamente, dopo circa 2 mesi vedremo comparire i primi germogli.

    La fioritura e i frutti
    L’ardisia crenata produce delle particolari infiorescenze a pannocchia, con fiori a forma di stella di colore bianco e dal profumo delicato, che di solito fanno la loro comparsa tra i mesi di giugno e luglio. Nel periodo autunnale, l’arbusto ci regala anche delle bacche rosse vivide e lucide, le quali possono restare sull’ardisia addirittura fino alla fioritura dell’anno seguente.

    I parassiti
    L’ardisia può essere attaccata dalla cocciniglia farinosa: se notiamo la presenza dei caratteristici fiocchi sulle foglie, possiamo utilizzare un batuffolo di ovatta imbevuto di alcool per rimuoverli. Se l’infestazione è già abbastanza estesa, usiamo un antiparassitario ad hoc. L’arbusto può essere anche colpito dagli afidi, soprattutto sulle parti più giovani: per eliminarli, usiamo un prodotto fitosanitario specifico. Se ci accorgiamo che l’ardisia perde le foglie o le ha secche, significa che l’arbusto è esposto a temperature troppo elevate: ricoveriamolo in un ambiente con al massimo 20 gradi. LEGGI TUTTO

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    “L’idrogeno verde rischia di oscurare i cieli”, il caso dell’osservatorio astronomico cileno

    Un luogo unico al mondo per il suo “buio” rischia di essere stravolto per sempre. Nel Paranal, a ridosso del deserto di Atacama in Cile, sul Cerro Paranal a oltre 2600 metri di altitudine, da più di 25 anni opera il miglior “occhio” della Terra per riuscire ad osservare le stelle e l’universo. Dal 1999 infatti l’Osservatorio astronomico del Paranal, gestito dall’ESO (European Southern Observatory), fornisce al globo informazioni astronomiche uniche per la sua precisione. Lì, grazie al Very Large Telescope (VLT), fra i telescopi più potenti di sempre, l’uomo è riuscito a catturare e svelare segreti dell’universo prima sconosciuti: per esempio la prima immagine di un esopianeta oppure la misura dell’orbita di alcune stelle intorno al buco nero supermassiccio della Via Lattea che hanno permesso di misurarne la massa.

    Ma c’è un motivo se il VLT è così efficiente: di tutti i 28 principali osservatori astronomici al mondo, quello del Paranal è considerato il sito più buio e il luogo più limpido per l’osservazione astronomica. Ora però anche questo sito rischia di essere minacciato da un inaspettato inquinamento luminoso, una minaccia che arriva per paradosso in nome della transizione energetica. Nel Cile settentrionale infatti a fine dicembre la AES Andes, che opera per la compagnia elettrica statunitense AES Corporation, ha annunciato un ulteriore avanzamento (siamo alla valutazione di impatto ambientale) nei lavori per un grande progetto che dovrebbe sorgere a Taltal, a pochi chilometri dal Paranal. Nell’area di Antofagasta, già nota per le estrazioni minerarie, la AES punta infatti a realizzare un mega progetto per la produzione di idrogeno e ammoniaca verde che sorgerebbe ad appena una decina di chilometri dal grande osservatorio. L’intero complesso industriale previsto è di oltre 3000 ettari, praticamente una cittadina grande come Valparaiso in Cile, con tanto di porto e migliaia di gruppi di produzione di elettricità.

    Un tale impianto, sostengono gli esperti di astronomia, potrebbe essere devastante per l’osservazione dei cieli. I lavori, dalle emissioni di polvere durante la costruzione, sino all’installazione di reti luminose, così come le varie emissioni legate a trasporti e realizzazione dell’opera, rischiano infatti di “minacciare i cieli limpidi dell’Osservatorio Paranal nel Deserto di Atacama” ricordano gli esperti dell’ESO. Anna Wolter, che fa parte della rete di divulgazione scientifica dell’ESO e gestisce l’INAF-Osservatorio Astronomico di Brera, spiega a Green&Blue che se il nuovo progetto dovesse vedere la luce, per l’osservazione astronomica nel Deserto di Atacama sarebbe un evento “nefasto”. “Se anche lì si dovesse alzare il livello di fondo della luce, per noi che osserviamo il cielo sarebbe come cercare di guardare i dettagli di un quadro con una pila puntata negli occhi” spiega Wolter. “Dal punto di vista tecnico infatti ogni disturbo della possibilità di osservare, per i grandi telescopi, è nefasto. Già abbiamo il problema di come correggere il disturbo introdotto dall’atmosfera – che è trasparente ma non immobile, e sfoca le immagini – e per riuscire a superarlo abbiamo imparato a costruire strumenti sofisticatissimi. Ma ora alzare il livello ‘di fondo’ della luce in quella zona, così importante, sarebbe davvero un grande problema”.

    Questo perché un progetto del genere, come quello industriale dell’idrogeno verde, “grande come una cittadina, produrrebbe una quantità di luce enorme, molto maggiore della luce prodotta dalle sorgenti celesti che vogliamo osservare con i nostri telescopi. Inoltre sicuramente la costruzione di un impianto produrrà tanta polvere che – a distanza di pochi chilometri – farà da diffusore della luce” aggiunge l’esperta dell’Osservatorio di Brera. L’Eso dunque lancia l’allarme, ribadendo la necessità di ripensare alla realizzazione di un impianto tale così vicino all’Osservatorio del Paranal dove, tra l’altro, è in costruzione l’ELT (Extremely Large Telescope), un telescopio da 39 metri di diametro che “sarà in grado di raccogliere luce decine di milioni di volte più che l’occhio umano, per esempio per osservare galassie vicine all’epoca iniziale dell’Universo – molto deboli perché molto lontane – oppure scovare esopianeti in orbita intorno a stelle diverse dal Sole, anche questi molto poco luminosi perché – come i pianeti del sistema solare – riflettono la luce della loro stella madre” ricorda Wolter.

    Sempre nella stessa area del Deserto di Atacama inoltre è prevista la realizzazione di CTAO, progetto internazionale per dare vita a una sessantina di telescopi Cherenkov. Anche per questo per il direttore generale dell’ESO, Xavier Barcons, “le emissioni di polvere durante la costruzione, l’aumento della turbolenza atmosferica e, soprattutto, l’inquinamento luminoso avranno un impatto irreparabile sulle capacità di osservazione astronomica dell’area”. In sostanza con il nuovo megaprogetto il deserto di Atacama perderebbe la sua unicità di “laboratorio naturale per la ricerca astronomica”, quello che finora ci ha permesso di scoprire dettagli sull’origine e l’evoluzione dell’Universo o che contribuisce alla ricerca della vita e dell’abitabilità di altri pianeti. Per questo, dicono gli astronomi, “è fondamentale considerare sedi alternative per questo mega progetto che non mettano in pericolo uno dei tesori astronomici più importanti al mondo”.

    Prima di cancellare il buio, in quel luogo unico, così come altrove, dovremmo dunque ragionare a lungo in un Pianeta sempre più disturbato dall’inquinamento luminoso.”Purtroppo anche in Italia – conclude Wolter – siamo abituati ormai a non vedere più il cielo. Chiediamo a gran voce illuminazioni cittadine e perdiamo la confidenza con il buio. La continua luce notturna porta a un grande disturbo del sonno e dei ritmi circadiani, non solo in animali e piante ma anche nelle persone. Dobbiamo quindi preservare il buio e la possibilità di osservare il cielo con i nostri occhi. Qualcosa che non solo è fonte di meraviglia, ma ci ricorda in ogni momento che siamo un piccolo punto azzurro nel mezzo di un vastissimo Universo di cui conosciamo ancora poco”. LEGGI TUTTO

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    Dopo i fuochi il problema dell’acqua contaminata: i rischi che corre Los Angeles a causa dei roghi

    Dopo il fuoco, ora a far paura è l’acqua. Nel bel mezzo di quello che è stato definito “il più grande incendio di sempre della California” ai residenti che erano riusciti a salvare la propria casa il Dipartimento idrico di Los Angeles ha mandato un messaggio, scritto in stampatello: “Non bere o cucinare con l’acqua del rubinetto”. L’avviso consigliava sia di non bere l’acqua, sia di non sprecarla per le docce. Ancor prima, l’8 gennaio, veniva generalmente consigliato di “bollirla”. Mentre ancora si stanno spegnendo gli ultimi roghi e in attesa di conoscere l’enorme stima dei danni – già ipotizzati oltre i 250 miliardi di dollari – la California devastata dagli incendi nell’area di Los Angeles si prepara ora alla possibilità di un nuovo e gigantesco problema: la contaminazione dell’acqua potabile. La domanda è: quanto l’acqua californiana è stata contaminata? E inoltre in quali comunità dovranno scattare severe restrizioni?. E ancora: il sistema idrico di Los Angeles già allo stremo, in un contesto caratterizzato da siccità e terreni bruciati, reggerà nelle prossime settimane?.

    Domande che si è posto per esempio Andrew Whelton, professore di ingegneria della Purdue University, che dopo aver studiato le conseguenze di incendi recenti negli Usa lancia l’allarme sulla possibile contaminazione dell’acqua a Los Angeles, invitando le autorità ad affrontare la questione come problema primario. Nel passato recente, sia nel 2017 a Santa Rosa sia a Paradise nel 2018, dopo alcuni grandi incendi boschivi erano stati trovati elevati livelli di benzene, sostanza chimica in più casi associata al cancro. Questa è una delle peggiori ipotesi a cui i californiani potrebbero andare in contro, ma per fortuna attualmente i rischi sono limitati. Durante gli incendi boschivi infatti l’acqua potabile generalmente viene contaminata in due modi: o tramite la fonte idrica o per il sistema che la distribuisce. Nel caso di Los Angeles è meno probabile che ad essere colpita sia direttamente la fonte dato che i bacini idrici principali si trovano a nord e a est della contea in luoghi risparmiati dalle fiamme. In generale la cenere può depositarsi sui serbatoi, ma anche in questo caso tramite trattamento e depurazione si può ovviare al problema.

    Focus

    Vento secco, caldo e siccità: la “tempesta perfetta” di fuoco in California

    di  Luca Fraioli

    08 Gennaio 2025

    Più complesso però se a essere colpito risulta il sistema di distribuzione dell’acqua composto dalla gestione delle acque locali, i serbatoi di stoccaggio dell’acqua e le tubature che riforniscono case e aziende. Quando viene colpito il sistema allora c’è possibilità di contaminazione. Dopo un incendio di tale portata come quello di Los Angeles la fuliggine e l’inquinamento atmosferico degli alberi e degli edifici bruciati possono di fatto essere risucchiati nel sistema idrico attraverso per esempio idranti aperti, sfiati dei serbatoi di stoccaggio dell’acqua oppure tubi danneggiati. “Quel vuoto risucchia i contaminanti, come i gas di combustione, nel sistema di distribuzione e questo causa una contaminazione chimica del sistema di distribuzione, di cui è molto difficile liberarsi” ha dichiarato Jackson Webster, professore di ingegneria della California State University, ricordando che anche l’infrastruttura del sistema idrico stesso può sciogliersi, soprattutto le parti in plastica, e contaminare l’acqua. In quest’ultimo caso alcune plastiche possono anche assorbire le sostanze chimiche come una spugna e rilasciarle lentamente nell’acqua potabile pulita, rendendola non sicura nel tempo. Il ricercatore forestale dell’Università Statale di Milano Giorgio Vacchiano ricorda inoltre a Green&Blue che “subito dopo un incendio, i nutrienti come azoto e fosforo presenti nelle ceneri vengono trasportati dalle piogge nei corsi d’acqua, aumentando il rischio di eutrofizzazione. Oltre ai nutrienti, gli incendi rilasciano nell’ambiente composti chimici pericolosi derivanti dalla combustione di materiali naturali e artificiali. I composti organici volatili (VOC) e i metalli pesanti possono contaminare gravemente le acque, come dimostrato dai 5.000 campioni raccolti dopo il Camp Fire del 2018 in California, che hanno evidenziato livelli significativi di sostanze tossiche”.

    Per Vacchiano “questi contaminanti rappresentano una seria minaccia non solo per gli ecosistemi, ma anche per le riserve di acqua potabile, perché le sostanze chimiche derivate dalla combustione di strutture e materiali sintetici possono alterare la qualità dell’acqua a lungo termine. Le elevate concentrazioni di carbonio organico disciolto (DOC), nitrati e altri inquinanti possono rimanere rilevabili per oltre un decennio, alterando in modo significativo gli equilibri ecologici”. Per la popolazione i rischi nell’assunzione di acqua contaminata dopo i roghi vanno dalla possibilità di infezioni intestinali sino a malattie a lungo termine dovute per esempio all’esposizione a sostanze chimiche cancerogene. Bollire l’acqua, come richiesto in un primo avvertimento, può essere utile per eliminare virus e batteri ma “non protegge dai comuni contaminanti chimici introdotti dagli incendi” ricorda Daniel McCurry, professore di ingegneria civile e ambientale dell’Università della California del Sud. Per Los Angeles è ancora presto per avere stime reali sulla contaminazione dell’acqua ma la maggior parte degli esperti concorda sul fatto che un insieme di indicazioni – dai divieti di bere alla depressurizzazione, sino allo scioglimento di alcune tubature plastiche – possano essere un segnale di contaminazione. Quando i pompieri devono estrarre enormi quantità d’acqua al minuto in poco tempo per fronteggiare i muri di fuoco si verificano infatti eventi di depressurizzazione: a quel punto la pressione dell’acqua crolla e il sistema “diventa vulnerabile a batteri o sostanze chimiche che entrano nel sistema dall’ambiente circostante”. Se le acque sono contaminate, quando le aziende dei servizi idrici locali “provano a ripressurizzare, ricominciano a spingere quell’acqua contaminata attraverso l’infrastruttura” ricorda il professor Whelton.

    Vivendo ancora una fase emergenziale per la comunità di Los Angeles la questione acqua rimane tutt’ora un punto interrogativo e i prossimi giorni e settimane saranno cruciali per comprendere la portata del problema: verranno eseguiti test e, una volta valutati i danni, saranno riparate tubature, pompe e serbatoi, un lavoro che potrebbe richiedere anche un mese di tempo. Detto ciò, secondo esperti come Whelton, che su The Conversation ha scritto una lettera su rischi ed esempi passati di contaminazione, è importantissimo agire con urgenza e informazione nel tentativo di preservare l’acqua potabile e salvare vite. “Dopo un incendio – spiega il professore – l’acqua potabile può essere ripristinata, ma le comunità che si riprendono più rapidamente sono quelle che lavorano insieme”, diffondendo le “corrette informazioni” per aiutare tutti a fare attenzione e prendere le dovute precauzioni prima di bere o usare acqua del rubinetto. LEGGI TUTTO

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    Inquinamento da farmaci: una ricerca svela l’impatto sugli ecosistemi marini

    Gli effetti dei farmaci vanno ben oltre il nostro corpo. Spesso infatti gli impianti fognari e di depurazione non sono in grado di eliminare completamente i residui dei medicinali che contaminano e inquinano le acque del pianeta, innescando un effetto a cascata su interi ecosistemi marini. Per questo motivo, sono considerati “contaminanti emergenti”. Per la prima volta una ricerca dell’Università di Pisa, appena pubblicata sul Journal of Hazardous Materials, ha esaminato l’impatto di diverse concentrazioni di ibuprofene, un comune antinfiammatorio molto utilizzato durante la pandemia di Covid-19, sulle angiosperme, cioè le piante marine.

    Le conseguenze sull’ecosistema
    “Le angiosperme marine svolgono ruoli ecologici cruciali e forniscono importanti servizi ecosistemici, ad esempio proteggono le coste dall’erosione, immagazzinano carbonio e producono ossigeno, supportano la biodiversità, e costituiscono una nursery per numerose specie animali”, spiega la professoressa Elena Balestri del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano che insieme ai dipartimenti di Farmacia e di Scienze della Terra, il Centro per l’Integrazione della Strumentazione scientifica (CISUP) e il Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC) hanno condotto la ricerca scientifica.

    Biodiversità

    Entro il 2100 potremmo perdere alghe e foreste marine

    di  Pasquale Raicaldo

    02 Novembre 2024

    Danneggiato l’apparato fotosintetico
    In particolare, la ricerca si è focalizzata su Cymodocea nodosa (Ucria) Ascherson, una specie che cresce in aree costiere poco profonde, anche in prossimità della foce dei fiumi, zone spesso contaminate da molti inquinanti, farmaci compresi. La sperimentazione è avvenuta in mesocosmi all’interno dei quali le piante sono state esposte per 12 giorni a concentrazioni di ibuprofene rilevate nelle acque costiere del Mediterraneo. Così è emerso che la presenza di questo antinfiammatorio a concentrazioni di 0,25 e 2,5 microgrammi per litro causava nella pianta uno stress ossidativo, anche se non irreversibile. Se invece la concentrazione era pari a 25 microgrammi per litro, le membrane cellulari e l’apparato fotosintetico erano danneggiate, compromettendo in tal modo la resilienza della pianta a stress ambientali.

    Lo studio

    Microplastiche nelle acque reflue: nascondono virus e batteri

    di  Fiammetta Cupellaro

    08 Novembre 2024

    “Nuove tecnologie per ridurre la contaminazione”
    “Il nostro è il primo studio che ha esaminato gli effetti di farmaci antiinfiammatori sulle piante marine – spiega ancora Elena Balestri – Attualmente, si stima che il consumo globale di ibuprofene superi le 10.000 tonnellate annue e si prevede che aumenterà ulteriormente in futuro, e poiché gli attuali sistemi di trattamento delle acque reflue non sono in grado di rimuoverlo completamente anche la contaminazione ambientale aumenterà di conseguenza”.

    “Per ridurre il rischio di un ulteriore aggravamento del processo di regressione delle praterie di angiosperme marine in atto in molte aree costiere – conclude Balestri – sarà quindi necessario sviluppare nuove tecnologie in grado di ridurre l’immissione di ibuprofene e di altri farmaci negli habitat naturali, stabilire concentrazioni limite di questo contaminante nei corsi d’acqua e determinare le soglie di tolleranza degli organismi, non solo animali ma anche vegetali”. LEGGI TUTTO

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    Eurostat: emissioni gas serra diminuite nella Ue del 7% nel 2023

    Sarà per la crescita delle energie rinnovabili, oppure, per la politica di sostenibilità intrapresa dai grandi gruppi industriali, ma secondo gli ultimi dati pubblicati da Eurostat, l’ufficio di statistica della Ue, qualche progresso per diminuire l’impatto delle emissioni di gas serra c’è stato. Nel 2023 infatti nei Paesi dell’Unione europea famiglie e attività produttive hanno […] LEGGI TUTTO