10 Gennaio 2025

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    Sequoia, alla scoperta della pianta più longeva al mondo

    Appartiene alla famiglia delle Taxodiaceae, è originaria delle coste del Nord America ed è letteralmente l’albero più grande esistente al mondo. La sequoia è un albero dal fusto dritto e molto alto. Le sue foglie sono a forma di ago e portano coni sia maschili, sia femminili su specie differenti, ma a colpire sono le dimensioni: la sequoia può raggiungere anche più di 100 metri di altezza. Affascinante e da sempre considerata simbolo di resilienza, la sequoia resta una meraviglia per gli occhi: gigante e sempreverde, vederla dal vivo regala emozioni.
    Le caratteristiche della sequoia
    Quando si parla di questa pianta è impossibile non soffermarsi su quelle che sono le sue peculiarità più note, oltre che oggettive. Anzitutto, la sequoia è l’albero più longevo che ci sia: può vivere oltre 2000 anni, diventando osservatrice del mondo e della sua evoluzione. È perfettamente in grado di adattarsi a terreni diversi, anche se la sua preferenza va a quelli ben drenati e ricchi, ma in ogni caso riesce a crescere facilmente in aree eterogenee.
    Per quanto riguarda la riconoscibilità oltre l’altezza, la sequoia è semplice da identificare: le sue foglie sono molto simili ad aghi, anche se piatte. Il loro colore è verde scuro nella parte superiore e verde un po’ più chiaro in quella inferiore. I fiori (maschili e femminili), invece, si distinguono per i loro colori vivaci e la loro forma ovoidale dei coni femminili. Possono assumere una forma differente a seconda sia delle condizioni ambientali, sia della loro posizione sui rami. Anche la luce incide nella forma delle foglie: tutte quelle maggiormente esposte al sole tenderanno a essere più piatte rispetto alle altre che, lasciate in ombra, assumeranno una curvatura molto leggera.
    Dove si trova la sequoia: distribuzione e longevità
    La sequoia ama il clima oceanico e proprio per questo la vediamo crescere in modo del tutto spontaneo lungo la fascia costiera che dalla California arriva all’Oregon. Questa pianta maestosa, infatti, tende a diffondersi fino ad altitudini di 1000 metri sul livello del mare, ma tendenzialmente la si trova ad altitudini inferiori ai 300 metri. Per vedere le sequoie più alte al mondo si deve viaggiare fino al Parco Nazionale di Redwood, in California, ma queste meravigliose piante sono sparse anche in Italia.
    Dove si trovano le sequoie in Italia
    Forse non tutti lo sanno, ma anche l’Italia è un Paese ricco di sequoie secolari. Le regioni in cui è possibile ammirarle sono: Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Toscana ed Emilia-Romagna. In realtà di sequoie maestose se ne vedono anche al Sud: è il caso della Calabria, sulla Sila, della Basilicata e della Sardegna, sul Monte Limbara. Rispetto alle zone extraeuropee, in Italia e in altri paesi d’Europa l’altezza delle sequoie arriva di solito fino ai 50 metri. Inoltre, molte sequoie sono state piantate negli anni o per scopo prettamente “decorativo”, o per scopo “forestale”. In questa “semina” compare anche l’Italia.
    Quanto vivono le sequoie
    Conosciuta per essere la pianta più longeva al mondo, la sequoia affascina soprattutto per la sua corsa alla vita. Essa, infatti, può vivere fino a 2000 anni e oltre. Pensate infatti che una delle sequoie giganti più antiche del mondo è quella denominata “President”, sita nella Sierra Nevada in California. Questo magnifico esemplare ha la bellezza di quasi 3200 anni.
    Sequoia sempreverde e sequoia gigante
    Nonostante appartengano alla stessa famiglia, la sequoia sempreverde (tecnicamente sempervirens) e la sequoia gigante hanno delle differenze. Intanto, provando a mettere a paragone due esemplari adulti, ci si rende immediatamente conto che la prima distinzione riguarda la grandezza. La sequoia gigante, infatti, è decisamente più maestosa della sempervirens. Il suo volume è maggiore e il tronco è a forma conica, caratteristiche non appartenenti alla sempreverde, che però può raggiungere altezze superiori, mentre il cono è dritto e più snello.
    In realtà entrambe le sequoie in questioni sono sempreverdi; la sempervirens, però, ha foglie piatte e aghi morbidi, mentre la sequoia gigante ha gli aghi “a grappolo”, più corti e a punta.
    Coltivazione della sequoia
    La sequoia cresce bene in terreni profondi, umidi e particolarmente drenati. Ama le posiziono riparate ed è amica dei climi oceanici. Per far sì che cresca libera e maestosa senza essere indebolita, è bene tenerla lontana sia dalle temperature gelide dell’inverno, sia dall’inquinamento. Si consiglia di svolgere la messa a dimora nel periodo d’autunno o in primavera.
    Dove piantare la sequoia: coltivazione in casa
    La coltivazione da semi in casa è possibile durante l’arco di tutto l’anno. Il modo migliore per coltivarle è lasciare la zona alla luce; solo in questo modo i semi riusciranno a germinare. In tutta questa fase iniziale è importante tenere il terreno umido ed evitare temperature troppo fredde. Ricordiamo, infatti, che il recipiente di coltivazione dovrebbe avere una temperatura tra i 15° e i 20°. Le prime piantine cominceranno a vedersi dopo circa sette settimane.

    Viene da sé che trattandosi di alberi sempreverdi a lunga durata che richiedono molto spazio e un clima specifico, curarli al di fuori del loro habitat non è impossibile, ma è comunque molto difficile.
    Irrigazione e potatura
    Se posizionata in zone dove le piogge sono abbondanti, la sequoia non ha bisogno di irrigazione. L’albero, infatti, riceverà la giusta quantità di acqua necessaria per stare in salute. In caso di periodi di siccità, invece, si consiglia un’irrigazione più frequente. Per quanto riguarda la potatura, non è obbligatoria. O meglio, la si consiglia solo per eliminare i rami secchi.
    Concimazione
    Durante la fase dell’impianto, una delle più importanti, è consigliabile inserire nel terreno del concime granulare. In questo modo il terreno nel quale la sequoia crescerà sarà ben nutrito delle giuste sostanze. Questa operazione è da intendersi annualmente verso la fine della stagione invernale. LEGGI TUTTO

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    Cosa piantare nell’orto d’inverno, dall’aglio ai piselli

    È vero, dicembre e gennaio potrebbero sembrare mesi di totale riposo per l’orto, ma in realtà non è totalmente così. Infatti, sebbene il clima diventi più rigido e il rischio gelate si fa sentire, ci sono comunque alcune piante che, se piantate in questo periodo dell’anno, possono ancora attecchire con discreto successo. Affinché questo avvenga, però, è necessario preparare il terreno e sapere che cosa fare passo dopo passo. Tra qualche semina e qualche lavoro, l’orto di dicembre non andrà in letargo.

    Orto d’inverno: che cosa piantare
    Data la stagione fredda, le semine nell’orto di dicembre sono nettamente limitate. Non azzerate, solo limitate. Infatti, ci sono ancora alcuni ortaggi che possono resistere ai freddi dell’inverno, ma laddove il terreno è già stato colpito da gelate si dovrà comunque attendere la primavera. Le uniche verdure in grado di sopportare l’inverno sono: piselli, fave, valerianella e spinaci, ma solo se la semina avviene in zone in cui il clima è abbastanza mite (minime di almeno 8°). Questi ortaggi si possono piantare all’aperto nell’orto, ma sempre e solamente se le temperature non sono troppo basse. Tuttavia, per quanto riguarda la valeriana, la lattuga e il radicchio da taglio, sarebbe meglio puntare su una serra protetta. In questo modo si offrirà loro maggiore protezione dal freddo e la semina andrà a buon fine. Infine, ma non per importanza, l’orto del mese di dicembre e gennaio si potrebbe arricchire anche di ravanelli, pronti per essere seminati.

    Piantare i piselli: consigli
    I piselli restano una delle colture migliori da seminare a dicembre e gennaio nell’orto. In particolare, questa semina è gettonatissima nelle zone del Sud Italia, dove nonostante la stagione invernale le temperature riescono a mantenersi piuttosto miti. Sapevate che una volta attecchita la coltura resiste anche a -10°? Questo è uno dei motivi per cui i piselli sono perfetti per l’orto invernale.

    Cosa trapiantare nell’orto d’inverno
    Per quanto riguarda invece i trapianti, nei mesi invernali l’orto offre alcune possibilità interessanti. Intanto, nel mese delle vacanze di Natale sarà possibile trapiantare tutte le cipolle invernali in piantina o bulbillo, ma anche il tanto amato scalogno, l’aglio e gli asparagi. Dicembre e gennaio possono essere un valido momento anche per i carciofi, il cui trapianto è possibile in presenza di cassoni o di aiuole adeguatamente riparate.

    Orto d’inverno: l’aglio è il migliore alleato
    Tra tutte quelle citate, l’aglio è sicuramente la coltura più adatta da piantare in questo periodo con temperature più rigide. Intanto, la sua crescita è molto rapida e riesce ad adattarsi molto bene anche ai climi più freddi. Poi, e non è poco, l’aglio richiede poco spazio nell’orto: basta piantare uno spicchio soltanto che formerà un nuovo bulbo. Per coltivarlo al meglio è bene ricordarsi di non piantarlo in una zona dell’orto dove in precedenza è già stato coltivato altro aglio.

    Che cosa raccogliere nell’orto d’inverno
    Se nel mese di novembre i raccolti nell’orto sono ancora abbastanza ricchi, quelli del mese di dicembre e gennaio lo sono decisamente meno. Tuttavia, in caso di serre protette, anche dicembre può diventare fruttifero: all’interno di questi spazi, infatti, sarà possibile continuare a raccogliere lattughe da taglio, cicoria catalogna, ravanelli e valeriana. Resistono al freddo anche il cavolo nero toscano e la verza, da raccogliere solitamente immediatamente dopo la prima gelata. Sì, anche ai raccolti di bietole, broccoli, cavolfiori, cavoli, cavolini di Bruxelles, carote, finocchi e scarola.

    Quali lavori fare nell’orto d’inverno
    Molte persone pensano che l’orto invernale abbia bisogno di meno attenzioni a causa delle temperature rigide: non è esattamente così. Infatti, nonostante il freddo pungente, l’orto a dicembre ha comunque bisogno di essere curato. I lavori da svolgere in questo periodo dell’anno sono diversi e tra questi la concimazione detiene il primo posto. È fondamentale preparare il terreno alla nuova stagione e per farlo è necessario che questo non sia troppo gelato (se lo sarà bisognerà attendere qualche mese).

    Concimare il terreno: come fare
    Per concimare il terreno in vista della nuova stagione i passaggi da seguire sono pochi ma essenziali. Intanto, bisognerà procurarsi una vanga per potere lavorare la terra e renderla sia più impermeabile, sia più ariosa. Una volta fatto questo, si passerà alla concimazione vera e propria: a dicembre si prediligono fertilizzanti organici come il compost e il letame maturo, da interrare leggermente.

    Gli altri lavori da fare nell’orto d’inverno: la pacciamatura
    Tra gli altri lavori da svolgere nell’orto nel mese di dicembre e gennaio c’è anche la pacciamatura. Si tratta di un’operazione tipica del mondo del giardinaggio che consiste nella copertura del terreno con uno strato leggero di materiale (paglia, foglie, erba o pezzi di corteccia). In inverno è utile per proteggere la terra dell’orto dalle piogge, dal freddo e dalla neve, capaci sia di dare vita ai tanto temuti ristagni idrici, sia di rendere il terriccio troppo duro o troppo poco fertile. Il materiale che si utilizzerà, infatti, col tempo tenderà a decomporsi e fungerà a sua volta da fertilizzante: una strategia utile e sana in un colpo solo.

    Dicembre segna la fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno, con le settimane a seguire, e le semine sono limitate rispetto al resto dell’anno. Eppure, nonostante le quantità ridotte di ortaggi da piantare, l’orto non si riposa neppure d’inverno, ma al contrario ha bisogno di attenzioni. Chiarite le modalità di semina (piena terra all’aperto, semenzaio protetto) e chiariti i lavori da svolgere a dicembre, ora non vi resta che iniziare: un buon raccolto è frutto di una buona gestione, dove amore e dedizione regalano sempre una soddisfazione in più. LEGGI TUTTO

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    Un nuovo tessuto elettronico indossabile e biodegradabile che impatta meno sull’ambiente

    I tessuti elettronici indossabili, in inglese e-textiles (electronic-textiles), hanno una vasta gamma di applicazioni: possono essere utilizzati per monitorare parametri come la temperatura corporea e il battito cardiaco, possono aiutare gli atleti ad analizzare le loro performance e sono quelli che ci consentono per esempio di avere sedili riscaldabili nelle auto. La sfida odierna è rendere questa promettente tecnologia più ecologica, dato che la presenza di componenti elettronici rende i tessuti più difficili da riciclare. Proprio con questo obiettivo, un gruppo di ricercatori e ricercatrici coordinato da Shaila Afroj e Nazmul Karim della University of the West of England di Bristol (Regno Unito) ha messo a punto un tipo di e-textile in grado di decomporsi ad una velocità relativamente elevata. Secondo i risultati dello studio, pubblicato su Energy and Environmental Materials, il nuovo tessuto avrebbe anche un impatto ambientale circa 40 volte inferiore in termini di emissioni di CO2 per la sua produzione rispetto ai tessuti elettronici indossabili “classici”.

    Com’è fatto il nuovo e-textile
    Uno dei problemi del riciclo di questo tipo di tessuti è legato alla presenza di metalli che servono per il funzionamento della componente elettronica, come per esempio l’argento, e che non sono facilmente biodegradabili, spiega Karim. La parte elettronica del tessuto ideato dal gruppo di ricerca è invece costituita da grafene, una molecola composta da anelli di atomi di carbonio, e da un polimero noto come PEDOT:PSS, che non contiene metalli ma solo atomi di ossigeno, zolfo, carbonio e idrogeno. La base del nuovo tessuto è invece fatta di un materiale ricavato dal legno, chiamato Tencel.

    Ricerca

    Un nuovo tessuto con polimero e lana ci salverà dal caldo riflettendo le radiazioni

    di Sara Carmignani

    19 Ottobre 2024

    Gli autori dello studio hanno testato questo design su cinque volontari, inserendo dei campioni di tessuto all’interno di guanti che sono poi stati collegati a dispositivi di monitoraggio e indossati dai partecipanti. Dalle analisi è emerso che il nuovo e-textile consente di monitorare il ritmo cardiaco e la temperatura corporea in modo paragonabile ai tessuti elettronici indossabili già presenti in commercio.

    “Il raggiungimento di un monitoraggio affidabile e conforme agli standard industriali con materiali ecologici è una pietra miliare significativa – commenta Afroj – Dimostra che la sostenibilità non deve necessariamente andare a scapito della funzionalità, soprattutto in applicazioni critiche come quelle sanitarie”.

    Biodegradabile e meno impattante sull’ambiente
    Come anticipato, il gruppo di ricerca ha inoltre testato la capacità del materiale di biodegradarsi. In particolare, gli autori hanno sotterrato dei campioni di tessuto all’interno di vasi contenenti terriccio e hanno osservato che dopo quattro mesi la loro massa si era ridotta di circa il 48%, ad indicare che la comunità microbica presente nel terreno riesce a decomporli.

    (foto: Marzia Dulal/University of Southampton)  LEGGI TUTTO

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    Caldo record 2024, i medici: “Gravissimi gli effetti sulla salute”

    L’aumento delle temperature sta diventando un problema non solo per la tenuta del pianeta e il riscaldamento globale ma anche per le ricadute dirette sulla salute umana e l’ambiente. La crisi climatica sta infatti incrementando il rischio di malattie trasmesse tramite il cibo, gli insetti e i parassiti. Non solo. Alterando l’ecosistema e provocando alluvioni, siccità e caldo estremo minaccia gli elementi essenziali della vita umana con ripercussioni su tutta la catena alimentare. Il nuovo allarme è arrivato dagli esperti della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima), commentando l’ultimo dossier di Copernicus, l’agenzia dell’Unione europea, che ha confermato i dati che aveva anticipato a dicembre: il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato ed è anche stato il primo anno in cui la temperatura media globale ha sforato il limite di 1,5 gradi sopra i livelli pre-industriali previsto dall’Accordo di Parigi.

    Scienza

    Dal clima alle pandemie, cosa ci aspetta nel 2025 secondo “Science”

    di  Giacomo Talignani

    04 Gennaio 2025

    Secondo Copernicus la temperatura media globale nel 2024 sulla superficie terrestre è stata di 15,10 gradi Celsius, 0,12 gradi sopra la media del 2023, considerato in precedenza l’anno più caldo della storia.

    I medici: “L’ambiente ideale per gli agenti patogeni”
    Spiega Sima: “L’aumento delle temperature medie crea le condizioni ideali per la trasmissione di molteplici agenti patogeni: grazie alla maggiore umidità proliferano ad esempio zecche, zanzare e parassiti che diffondono malattie anche gravi come il virus Zika, la febbre dengue e la malaria. Ma a crescere è anche il rischio di malattie idrotrasmesse: piogge intense e alluvioni, eventi direttamente connessi al cambiamento climatico, fanno straripare corsi d’acqua e mandano in tilt le reti fognarie, diffondendo tra la popolazione agenti virali quali virus delle epatiti A ed E, Enterovirus, Adenovirus, Norovirus, Rotavirus, contaminando anche la catena alimentare.

    E proprio sul fronte alimentare, le temperature più alte danneggiano le coltivazioni in determinate aree del mondo, provocando un taglio alle produzioni di materie prime indispensabili e un fortissimo aumento dei prezzi al dettaglio, come sta avvenendo a livello globale ad esempio per il caffè e il cacao.

    Salute e ambiente

    Virus dell’aviaria, il salto di specie che fa paura. “Rischio basso ma attenzione alta sui bovini”

    di  Giacomo Talignani

    10 Gennaio 2025

    L’impatto della crisi climatica sulla salute mentale
    ” A tali fenomeni si associa quello psicologico, che non deve essere sottovalutato – afferma il presidente Sima, Alessandro Miani – di recente è stato coniato il termine ‘solastalgia’ per indicare proprio l’angoscia provocata dal drastico cambiamento del clima: gli eventi climatici estremi provocano uno stato di stress e ansia tra i cittadini più vulnerabili che può sfociare in disturbi post-traumatici e addirittura in suicidi”. LEGGI TUTTO

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    Virus dell’aviaria, il salto di specie che fa paura. “Rischio basso ma attenzione alta sui bovini”

    Un virus che da anni “prova a fare il salto e arrivare a noi, al contagio uomo-uomo, ma per fortuna non c’è ancora riuscito. Però dobbiamo tenere alta la guardia perché quello che è successo negli Stati Uniti con i bovini è preoccupante”. Così il professor Nicola Decaro, direttore del Dipartimento di medicina veterinaria dell’Università di Bari, presidente dell’European College of Veterinary Microbiology (ECVM) e membro della task force del Ministero della Salute sull’aviaria, sintetizza a Green&Blue la grande sfida che abbiamo davanti in questo 2025 appena iniziato nell’affrontare il virus H5N1, l’influenza aviaria. La prestigiosa rivista scientifica Science ha inserito la lotta al virus dell’aviaria come tema centrale, quest’anno, dopo i recenti fatti che hanno messo in allarme gli Stati Uniti e il mondo.

    Scienza

    Dal clima alle pandemie, cosa ci aspetta nel 2025 secondo “Science”

    di  Giacomo Talignani

    04 Gennaio 2025

    Negli States, dove in Louisiana pochi giorni fa è deceduto un paziente contagiato, ma che aveva malattie pregresse, dopo anni di stragi di pollame legate alla diffusione del virus oggi l’allarme è concentrato soprattutto sui bovini e sul latte. Si contano oltre 700 allevamenti in diversi Stati dove è presente il virus e l’amministrazione Biden ha già previsto 1 miliardo di investimenti per fronteggiare l’emergenza.In Italia, come altrove, per ora sono da escludere rischi di passaggio del virus fra gli esseri umani ma, essendo stati registrati dalla Lombardia al Veneto casi di influenza aviaria tra gli uccelli, l’attenzione “deve restare alta” dice Decaro, sia per evitare contagi fra animali sia per i possibili impatti e danni economici al mondo dell’agroalimentare.

    Come si sta evolvendo il virus H5N1?
    “In maniera sorprendente e mi riferisco al caso dei bovini. Per ora l’epidemia dei bovini riguarda solo gli Stati Uniti, ma dobbiamo tenere gli occhi ben aperti. Questo perché parliamo di un virus che da parecchi anni sta tentando di passare anche all’uomo: finora, se non in casi limitati, non c’è riuscito e ricordiamo che non si è ancora mai verificato un passaggio da uomo a uomo. Questo perché rimane un virus degli uccelli, anche se ultimamente ha dimostrato di adattarsi e sapere conquistare nuove nicchie ecologiche: in questo il caso dei bovini è stato eclatante. Nessuno si aspettava che H5N1 potesse fare un salto di specie così importante. È stata una sorpresa per tutti”.

    C’è correlazione fra la morte del cittadino statunitense contagiato e il passaggio di H5N1 ai bovini?
    “No. Attualmente ci sono tanti virus H5N1 ad alta patogenicità in circolazione, ma quello dei bovini è un genotipo diverso da quello che ha causato la morte dell’uomo negli Usa o di altri uccelli selvatici. Non c’è correlazione fra la morte della persona e i bovini. Nel 2024 negli Stati Uniti, anche se si tratta di casi assolutamente non letali, ci sono stati 64 contagi umani legati ai bovini”.

    Chi è a rischio contagio?
    “Sia con i bovini che con il pollame anche se basso il rischio contagio esiste ma è quasi sempre legato a professioni, a malattie professionali, per esempio a allevatori, macellatori, cacciatori, veterinari o comunque a una esposizione diretta a animali infetti dato che non c’ è mai stato nessun rischio agroalimentare, intendo legato all’assunzione di cibi, e come detto mai nessun caso da uomo a uomo. Per i bovini oggi l’elemento di maggior preoccupazione è il latte, quello non pastorizzato, crudo, che veicola alte quantità di virus. Da noi questo latte non c’è e non ci poniamo il problema, ma bisogna essere informati. In generale l’importante è tenere alta l’attenzione a livello di sorveglianza”.

    In Italia il livello di sorveglianza è alto?
    “Sì. Proprio nelle ultime ore è arrivata una nota del Ministero della Sanità che invita tutte le Regioni e i sistemi sanitari veterinari a rafforzare la sorveglianza negli uccelli selvatici, nel pollame e nei carnivori selvatici che sono recettivi a H5N1. Il sistema veterinario italiano negli ultimi anni è stato molto potenziato e rappresenta una garanzia per un monitoraggio elevato. Sono sicuro che qualora il virus dell’influenza aviaria dovesse interessare i nostri allevamenti di bovini in Italia ci sarebbe un sistema di allerta molto precoce grazie alla rete nazionale, che funziona”.

    Ci sono casi di influenza aviaria in Italia fra gli uccelli? Come arriva il virus?
    “Sì, molti casi. E ce ne saranno sicuramente ancora altri. Il virus arriva nel pollame soprattutto a causa degli uccelli migratori che arrivano infetti in Italia seguendo le rotte migratorie. Avendo ormai preso piede negli avicoli selvatici, dalle anatre fino ai gabbiani che sono vettori di infezione, ci aspettiamo ulteriori coinvolgimenti di allevamenti di polli. Se entra negli allevamenti si ha una mortalità notevole e bisogna intervenire prontamente con l’abbattimento di tutti gli animali”.

    I rischi attuali sono legati soprattutto al comparto alimentare?
    “Esatto, il rischio principale è quello, soprattutto per il pollame domestico, così come c’è un rischio minimo anche per i cacciatori che possono entrare in contatto con animali selvatici infetti. Attenzione però: per contrarre il virus le persone devono venire a contatto con alti carichi virali dato che questo virus, anche se sta facendo ripetuti tentativi di passare all’uomo e in qualche caso ci riesce, non è adattato bene alla specie umana. Si parla di un virus che riconosce recettori che sono aviari, ma non si è adattato a quelli umani. L’uomo ha recettori simili a quelli aviari solo nelle vie respiratorie profonde: il virus sta nei polmoni, ma non riesce ad andare nei sistemi respiratori delle alte vie. Dunque per infettarsi bisogna davvero essere ‘bombardati’ da cariche virali molto elevate”.

    Negli allevamenti intensivi c’è una possibilità di maggiore di contagi?
    “Diciamo che la questione allevamenti intensivi è a doppia faccia. Nell’allevamento intensivo in caso di contagi la diffusione è esponenziale e dunque questo tipo di strutture possono rappresentare un problema, ma l’aviaria è più tipica di allevamenti familiari, piccoli, dove la biosicurezza – a differenza degli impianti intensivi – solitamente è minore. Dunque per l’affollamento in quelli intensivi il rischio è grande, però c’è anche maggiore sicurezza rispetto ad allevamenti famigliari all’aperto dove c’è uno scambio più facile per esempio con uccelli selvatici. I bovini contagiati negli Usa molto probabilmente erano in strutture all’aperto e sono stati contagiati da uccelli migratori”.

    Nel malaugurato caso che il virus riesca ad adattarsi all’uomo, siamo pronti a contrastarlo?
    “Abbastanza pronti direi, dato che ci sono addirittura tre vaccini prepandemici messi a punto per H5N1 proprio nel caso dovesse adattarsi all’uomo, cosa che ovviamente non ci auguriamo. Per ora non c’è bisogno di vaccini, ma è bene averli conservati e pronti perché potrebbero servire”.

    Infine, come giudica l’attuale livello di rischio legato all’aviaria nel nostro Paese?
    “Se parliamo di contagi umani per ora ancora decisamente basso, lo abbiamo sintetizzato anche nei documenti della task force ministeriale pubblicati a luglio. Ma, ripeto, teniamo comunque gli occhi ben aperti”. LEGGI TUTTO