9 Gennaio 2025

Daily Archives

consigliato per te

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    Antartide, raggiunto il ghiaccio più antico: risale a 1,2 milioni di anni fa

    I ricercatori di dodici istituzioni scientifiche europee hanno raggiunto il punto esatto dove la terra conserva un archivio straordinario sulla storia climatica della Terra. Un luogo che contiene informazioni dirette sulle temperature atmosferiche e le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’arco di 1,2 milioni di anni. Probabilmente anche più remote. È accaduto nell’altipiano centrale Little Dome C, in Antartide, dove un team di scienziati di dieci Paesi, impegnati nella campagna di perforazione del progetto europeo Beyond EPICA-Oldest Ice sono arrivati ad una profondità di 2.800 metri, dove la calotta glaciale antartica incontra la roccia. Una scoperta arrivata dopo oltre 200 giorni di perforazioni e analisi delle carote di ghiaccio, lavorando con una temperatura medi di meno 35° C.

    Crisi climatica

    La fusione dello strato di ghiaccio sull’Artico potrebbe influenzare le correnti oceaniche

    di Sara Carmignani

    01 Novembre 2024

    “In ogni metro informazioni su 13 mila anni di storia climatica”
    “Dalle analisi preliminari condotte sul sito, abbiamo forti indicazioni che in un solo metro di ghiaccio si trovano compresse informazioni su ben 13mila anni di storia climatica”, afferma Julien Westhoff, responsabile scientifico sul campo e ricercatore all’Università di Copenaghen. Secondo gli scienziati le carote di ghiaccio del progetto Beyond EPICA offriranno informazioni senza precedenti sulla Transizione del Medio-Pleistocene, un periodo compreso tra 900.000 e 1,2 milioni di anni fa, quando i cicli glaciali rallentarono da intervalli di 41.000 anni a 100.000 anni. Le ragioni di questo cambiamento rimangono uno dei misteri più complessi delle scienze climatiche.

    Il lavoro dei ricercatori impegnati nel progetto in Antartide  LEGGI TUTTO

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    Un quarto degli animali d’acqua dolce a rischio estinzione

    Inquinamento, dighe, agricoltura intensiva, specie invasive. E così rischiamo di perdere la bellezza di 23mila specie che vivono negli ecosistemi d’acqua dolce, quasi un quarto del totale. Sarebbe un duro colpo alla biodiversità: a lanciare l’allarme è un gruppo di scienziati della International Union for Conservation of Nature (Iucn), un’organizzazione non governativa internazionale con sede in Svizzera, in uno studio appena pubblicato sulle pagine della rivista Nature. Gli autori auspicano che i risultati del loro lavoro spronino e aiutino i decisori a intraprendere al più presto tutte le azioni necessarie a preservare la biodiversità delle acque dolci e scongiurare il pericolo di estinzione delle specie a rischio.

    Biodiversità

    Le specie aliene “emigrano” per evitare l’estinzione

    di  Pasquale Raicaldo

    12 Dicembre 2024

    “Gli ecosistemi di acqua dolce”, scrivono i ricercatori nello studio, “sono ricchissimi di biodiversità e rappresentano un mezzo di sussistenza e di sviluppo economico per molte popolazioni umane, e sono attualmente sottoposti a uno stress molto elevato”. La maggior parte delle valutazioni finora compiute sulle specie a rischio di estinzione, però, non si erano concentrate su quelle che vivevano nelle acque dolci, e ciò ha parzialmente condizionato le politiche di conservazione.“Finora, le politiche ambientali e le definizioni delle priorità di conservazione sono state stabilite soprattutto sulla base dei dati relativi ai tetrapodi terrestri. Abbiamo le prove che questi dati non sono sufficienti a rappresentare le esigenze delle specie di acqua dolce né a raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati in fatto di biodiversità”. Tutelare questa biodiversità è particolarmente importante: le acque dolci ospitano, infatti, oltre il 10% di tutte le specie viventi conosciute, e molte di esse svolgono un ruolo fondamentale per il ciclo dei nutrienti, per il controllo delle inondazioni e per la mitigazione dei cambiamenti climatici.

    Le idee

    Per prevenire i disastri climatici ridiamo spazio ai fiumi

    di WWF ITALIA

    21 Ottobre 2024

    Nel loro studio, gli scienziati, coordinati da Catherine Sayer, si sono quindi concentrati sulle specie di acqua dolce inserite nella Red List of Threatened Species (Lista rossa delle specie a rischio) del Iucn: si tratta, in particolare, di 23.496 specie che comprendono pesci, crostacei decapodi (come granchi, gamberi e gamberetti) e odonati (insetti acquatici come libellule e damigelle). In questo modo, hanno evidenziato che quasi un quarto di queste specie è a rischio estinzione; a correre il pericolo maggiore sono i decapodi, per i quali quasi una specie su tre è a rischio estinzione, rispetto al 26% dei pesci d’acqua dolce e al 16% degli odonati. Tra le minacce principali spicca, al primo posto, l’inquinamento (che mette a rischio il 54% delle specie considerate), seguito dalla presenza di dighe e dall’estrazione idrica (39%), dal cambiamento di uso del suolo per scopi agricoli (37%) e da specie invasive e malattie (28%). Tutti fattori riconducibili prevalentemente all’attività umana, insomma. “I nostri risultati”, concludono gli autori, “evidenziano la necessità urgente di affrontare queste minacce per prevenire un ulteriore declino e la perdita di specie”. LEGGI TUTTO

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    Greenpeace: in Italia mancano dati sulla pericolosa contaminazione da TFA

    Nuova denuncia di Greenpeace Italia sulla contaminazione TFA, l’acido trifluoroacetico, la molecola che appartiene al gruppo più ampio di sostanze conosciute come “inquinanti eterni” del gruppo PFAS (di origine industriale altamente tossici). Si tratta di una molecola in uso da decenni e ben nota alla comunità scientifica internazionale, ma solo negli ultimi anni è emerso che il TFA sia di gran lunga il PFAS presente in maggiori quantità ovunque venga cercato: nelle acque minerali e potabili, nella polvere domestica perfino nel sangue umano.

    Ambiente

    Pfas nei cinturini degli smartwatch in fluoroelastomero: meglio sceglierli in silicone

    di  Simone Cosimi

    05 Gennaio 2025

    Eppure, denunciano ora gli esperti di Greenpeace nel nostro Paese, al contrario che in altri stati europei, non esistono dati pubblici e mappe sulla possibile contaminazione da TFA nelle acque sia superficiali che di falda, sia negli alimenti che nel corpo umano. “Improbabile ipotizzare che a differenza di gran parte delle nazioni europee, dove viene misurato, il nostro Paese sia immune da questa contaminazione”, scrive Greenpeace. E forse non è un caso, spiegano che “gli unici dati pubblici disponibili sull’inquinamento da TFA nel nostro Paese sono quelli ufficiali di ARPA Veneto riguardo i monitoraggi sulla presenza di PFAS ultracorti nelle falde sottostanti l’industria farmaceutica FIS di Montecchio Maggiore (VI), dove furono registrate concentrazioni superiori ai 100 mila nanogrammi per litro”.

    Acque senza veleni

    Questa molecola – costituita da due atomi di carbonio che può essere sintetizzata artificialmente o derivare dalla degradazione di circa duemila PFAS – è presente in molti settori: in alcuni gas refrigeranti, nei polimeri fluorurati (le sostanze plastiche altamente resistenti utilizzate dall’industria automobilista fino alla produzione di utensili da cucina); nei pesticidi, perfino nei farmaci e nelle schiume antincendio. Per stilare la prima mappa della contaminazione da PFAS – TFA incluso – nelle acque potabili di tutte le regioni italiane, lo scorso ottobre Greenpeace Italia, nell’ambito della sua campagna Acque senza veleni, ha raccolto campioni in oltre 240 città su tutto il territorio nazionale. Il prossimo 22 gennaio l’organizzazione ambientalista pubblicherà gli esiti delle analisi indipendenti realizzate.

    Salute

    Pfas, dalla carta da forno all’acqua: indistruttibili e (quasi) inevitabili

    di  Pasquale Raicaldo

    07 Novembre 2024

    “Gli scienziati trovano il TFA ovunque lo cerchino”

    “Così, mentre gli scienziati trovano il TFA ovunque lo cerchino, parallelamente, emergono prove inconfutabili circa la contaminazione irreversibile che origina e la continua esposizione degli esseri umani. Nonostante ciò, in Italia non sappiamo quanto sia ampia la diffusione di questa pericolosa sostanza”, dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. Non solo. Nel settembre dello scorso anno, l’Unione europea ha aggiornato il Regolamento delle sostanze chimiche introducendo una nuova restrizione all’uso del PFAS e dei suoi derivati soprattutto nel settore delle calzature, dei tessuti, cosmetici, nella carta e cartone utilizzati a contatto con gli alimenti, nelle schiume antincendio. Restrizione dovuta proprio al fatto che queste sostanze sono state valutate come “molto persistenti”, mobili nell’acqua e “associate a potenziali effetti nocivi sull’ambiente e la salute umana”. Anche se, secondo la tabella di marcia decisa a livello europeo, alle aziende che ne fanno uso è stato concesso un periodo di transizione tra i 18 mesi e i 5 anni a seconda dei settori coinvolti. Tempo che servirà per trovare alternative chimiche più pulite e sostenibili. E comunque partiranno solo dal 2026.

    “Nei succhi di frutta”
    L’associazione chiede dunque “interventi urgenti per limitare le emissioni in natura prima che gli impatti sugli esseri umani e sull’ambiente diventino ancora più evidenti e irreversibili”. “Negli ultimi anni, numerose ricerche hanno evidenziato il TFA non solo nelle acque potabili, ma anche in dieci marchi di acqua minerale e di sorgente venduti in Europa. Pure in succhi di frutta, puree di frutta e verdura, nella birra, nel tè, in numerose specie vegetali tra cui il mais, con concentrazioni simili a quelle delle sostanze bioaccumulabili. Questo perché è persistente e indistruttibile: per le sue stesse caratteristiche, non può essere rimossa dai più comuni trattamenti delle acque potabili”.

    Attenzione ai Pfas: che cosa sono e perché sono pericolosi per la salute

    di  Paola Arosio

    17 Dicembre 2024

    “Una storia che si ripete”
    Pur non avendo un quadro chiaro circa gli impatti sanitari, sempre secondo Greenpeace: “Potremmo essere all’inizio di una storia che si ripete: come già accaduto per i PFAS oggi noti per essere cancerogeni, fino a pochi anni fa non avevamo informazioni esaustive. Oggi sappiamo che il TFA è sicuramente una molecola a cui siamo continuamente esposti (e potremmo esserlo per l’intera nostra esistenza), può essere incorporato in molecole biologiche come le proteine, causare danni al fegato, essere trasmesso facilmente dalla madre al feto attraverso la placenta, e, infine, alcune prove indicano che sia tossico per lo sviluppo embrionale nei mammiferi. In base a queste evidenze, la Germania ha già chiesto all’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) di verificare se possa essere classificato come tossico per la riproduzione umana”. Chiede l’associazione ambientalista: “A causa della contaminazione da PFAS e delle insufficienti risposte della politica, le persone che nel nostro Paese vivono nelle zone più esposte al rischio stanno già pagando un prezzo elevato. Quando il governo e i ministeri competenti intenderanno attivare controlli e misure urgenti per tutelare l’ambiente e la nostra salute?”. LEGGI TUTTO

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    L’appello di Papa Francesco: “Non abbiamo diritto di restare indifferenti all’emergenza climatica”

    “Non possiamo rimanere indifferenti a tutto ciò! Non ne abbiamo il diritto! Piuttosto, abbiamo il dovere di esercitare il massimo sforzo per la cura della nostra casa comune e di coloro che la abitano e la abiteranno”. Lo ha detto papa Francesco nel discorso di inizio anno al corpo diplomatico, letto da monsignor Filippo Ciampanelli a causa di un raffreddore, sottolineando che “siamo di fronte a società sempre più polarizzate, nelle quali cova un generale senso di paura e di sfiducia verso il prossimo e verso il futuro”.

    In un ampio passaggio del discorso, dedicato anche ai rischi di guerre mondiali, fake news e conflitti polarizzati che affliggono l’umanità, Borgoglio è tornato sul tema dell’emergenza climatica a lui caro. “Siamo tutti prigionieri, perché siamo tutti debitori: lo siamo verso Dio, verso gli altri e anche verso la nostra amata Terra, dalla quale traiamo l’alimento quotidiano”.

    “Sempre più la natura sembra ribellarsi all’azione dell’uomo, mediante manifestazioni estreme della sua potenza”, osserva papa Francesco, pensando alle alluvioni che si sono verificate in Europa centrale e in Spagna, come pure ai cicloni che hanno colpito in primavera il Madagascar e, poco prima di Natale, il Dipartimento francese di Mayotte e il Mozambico.

    Il debito ecologico tra il Nord e il Sud del mondo
    Poi, il riferimento all’importanza dei finanziamenti ai Paesi vulnerabili e ai necessari investimenti contro per affrontare la crisi del clima. “Nel corso della Cop29 a Baku – scrive il Papa – sono state adottate decisioni per garantire maggiori risorse finanziarie per l’azione climatica. Mi auguro che esse consentano la condivisione delle risorse a favore dei molti Paesi vulnerabili alla crisi climatica e sui quali grava il fardello di un debito economico opprimente. In quest’ottica, mi rivolgo alle nazioni più benestanti perché condonino i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Non si tratta solo di un atto di solidarietà o magnanimità, ma soprattutto di giustizia, gravata anche da una nuova forma di iniquità di cui oggi siamo sempre più consapevoli: il ‘debito ecologico’, in particolare tra il Nord e il Sud. Anche in funzione del debito ecologico, è importante individuare modalità efficaci per convertire il debito estero dei Paesi poveri in politiche e programmi efficaci, creativi e responsabili di sviluppo umano integrale. La Santa Sede è pronta ad accompagnare questo processo nella consapevolezza che non ci sono frontiere o barriere, politiche o sociali, dietro le quali ci si possa nascondere”.

    Giù in occasione della Cop29 di Baku il Papa aveva lanciato un appello per la riuscita della conferenza Onu sul clima, ricordando i tre anni della piattaforma Laudato si’, nata dalla sua enciclica del 2015 e volta alla diffusione di una cultura della salvaguardia della “casa comune” e della ecologia integrale che metta al centro le persone. LEGGI TUTTO

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    Trump e l’eredità green di Biden: cosa cambierà negli Usa per le politiche ambientali

    Le intemerate del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump su Groenlandia, Panama, Hamas hanno oscurato una serie di esternazioni, apparentemente minori, sulle questioni energetiche e climatiche. Nella recente conferenza stampa dalla sua residenza di Mar-a-Lago in Florida, Trump ha confermato che fin dal primo giorno della sua presidenza, il prossimo 20 gennaio, rimuoverà il bando a nuove trivellazioni petrolifere in 625 milioni di acri lungo le coste degli Stati Uniti, bando appena varato dal presidente uscente Joe Biden. Ha esaltato il gas naturale come fonte di energia pulita, facendo finta di ignorare che come combustibile fossile dà un notevole contributo alle emissioni di CO2 e quindi al surriscaldamento del Pianeta. Ha definito le energie rinnovabili “convenienti” solo per le aziende che prendono sussidi pubblici per costruite campi eolici e fotovoltaici. Ha annunciato che durante la sua Amministrazione non si installeranno più pale eoliche negli States. Affermazioni che sommate all’annuncio, subito dopo la vittoria elettorale, di voler portare gli Usa fuori (per la seconda volta) dall’Accordo di Parigi, proiettano una ombra lunghissima sulle politiche globali per il contenimento delle temperature sulla Terra. Il tutto mentre il presidente uscente vara, invece, una serie di misure ambientali: l’istituzione di nuovi monumenti nazionali, un taglio record delle emissioni di CO2 entro il 2035, lo stop alle trivellazioni in mare e in Alaska… Provvedimenti che Trump ha definito, storpiando il Green New Deal dem, green new scam: nuova truffa verde.

    Di fronte a questo braccio di ferro tra presidente uscente e presidente entrante, c’è da chiedersi: le decisioni dell’ultim’ora di Biden sono solo simboliche? Un modo per passare alla storia come l’inquilino più green nella storia della Casa Bianca? O avranno una reale efficacia e applicazione nei prossimi anni, nonostante Trump si dica pronto a rinnegarle al giorno uno del suo mandato?

    Il bando alle trivellazioni
    Il divieto di trivellazione offshore di Biden affonda le sue radici in una legge vecchia di 72 anni, che concede alla Casa Bianca ampia autorità per proteggere in modo permanente le acque statunitensi dalle concessioni di petrolio e gas senza fornire esplicitamente ai presidenti successivi la possibilità di ritirare queste tutele una volta stabilite. Per annullare il divieto sarebbe probabilmente necessario un atto del Congresso, che ora è guidato da una maggioranza repubblicana esigua e divisa. Si spiega anche così la reazione rabbiosa di Trump, che ha attaccato il bando delle trivellazioni, accusando i democratici di stare lavorando per rendere il passaggio di poter il più complicato e costoso possibile. Se fosse bastata una sua firma il prossimo 20 gennaio per rimuovere lo stop alle perforazioni non si sarebbe dato pena. Resta il fatto che con questa mossa, Biden passerà alla storia per aver messo sotto protezione più terre e acque statunitensi di qualsiasi altro presidente.

    Il taglio delle emissioni al 2035
    A metà dicembre Biden ha anche impegnato gli Stati Uniti a ridurre, entro il 2035, le emissioni di gas serra del 61-66% rispetto ai livelli del 2005. La comunicazione all’Onu degli Ndc (i contributi determinati a livello nazionale) fa parte della procedura prevista dall’Accordo di Parigi. Ma Trump ha ripetutamente annunciato di voler uscire dall’Accordo, come fece nel corso del suo primo mandato. E allora che valore ha l’impegno preso da Biden? In realtà sfilarsi da un accordo internazionale richiede tempi tecnici, almeno un anno. Ma aldilà delle questioni procedurali, c’è da tener conto che negli Stati Uniti le politiche green e le regolamentazione delle emissioni competono soprattutto ai governatori dei singoli Stati. Molti dei quali (quelli democratici ma non solo) si sono già riuniti in una coalizione che intende proseguire nella riduzione delle emissioni di gas serra, indipendentemente dal volere della Casa Bianca, che può incidere solo sulle norme federali.

    L’Infaction réduction act
    Nell’agosto del 2022 l’Amministrazione Biden ha approvato il più grande investimento sul clima della storia americana: 2mila miliardi di dollari dalle casse federali per spingere il settore delle energie green nel prossimo decennio. Ora Trump può anche scagliarsi contro la politica dei sussidi pubblici, ma a beneficiare di questa pioggia di denaro sono e saranno anche cittadini e imprenditori che fanno parte della sua base elettorale. Se il nuovo presidente dovesse fare marcia indietro e chiudere i rubinetti, molti sono pronti a scommettere che il suo consenso precipiterebbe. Per questo l’Ira potrebbe sopravvivere alla nuova era Trump, nonostante i suoi proclami.

    Le fonti rinnovabili
    Uno dei ritornelli di Donald Trump in campagna elettorale è stato “drill, baby grill”: trivellate pure, ragazzi. Gli Stati Uniti sono ricchissimi di gas e petrolio e sarebbe un suicidio politico ed economico rinunciarci: questo, in sostanza, il pensiero energetico di The Donald. La lobby dell’oil&gas ha generosamente finanzialo la sua campagna elettorale e la passione per i combustibili fossili del neopresidente sembra essere la giusta ricompensa. Ma, si chiedono gli analisti, la volontà politica vincerà sul mercato? Perché già ora c’è tanto, troppo petrolio rispetto alla domanda. Produrne ancora comporterebbe un ulteriore calo dei prezzi, come successe durante la pandemia da Covid, quando addirittura le quotazioni andarono sotto zero. Sarà cruciale ciò che accadrà in Cina: grazie al boom delle rinnovabili, all’elettrificazione dei trasporti e all’efficientamento energetico, il colosso asiatico, finora uno dei maggiori acquirenti di greggio, potrebbe averne sempre meno bisogno, già a partire dal 2025. E i prezzi del barile potrebbero oscillare paurosamente verso il basso. Insomma la presidenza Trump, depurata dalle dichiarazioni del suo interprete, potrebbe essere meno drammatica del previsto per il clima. C’è chi arriva a dire che, per i motivi di cui sopra, il 67esimo presidente degli Stati Uniti non riuscirà a invertire la marcia di una transizione energetica ormai inarrestabile a livello globale. Il problema è che gli Stati Uniti, pur non facendo reali passi indietro, nei prossimi quattro anni non saranno certamente protagonisti di passi in avanti della lotta al riscaldamento globale. LEGGI TUTTO