3 Gennaio 2025

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    Se il risparmio di energia arriverà dalle finestre intelligenti

    Nei primi anni Ottanta, un gruppo di scienziati svedesi e californiani era alle prese con la realizzazione di nuovi materiali da costruzione. Aveva osservato, in particolare, che le finestre tradizionali consentono al calore di uscire durante l’inverno e di entrare in estate, costringendo i sistemi di riscaldamento, raffrescamento, ventilazione a un elevato consumo energetico, con conseguenti emissioni. Del team faceva parte anche il fisico Claes Goran Granqvist che, dopo ore e ore nel suo laboratorio, progettò i primi prototipi di finestre intelligenti, attribuendo loro questo nome in una richiesta di sovvenzione.

    Piccole scosse elettriche
    Nel tempo l’appellativo rimase, mentre gradualmente la tecnologia andò incontro a una evoluzione, dando modo di realizzare le finestre elettrocromiche, costituite da un vetro che, grazie a un conduttore che fornisce piccole scosse di elettricità, può essere oscurato in modo reversibile. Ciò blocca la maggior parte della luce infrarossa, responsabile del surriscaldamento degli interni. Così nei climi caldi circa il 60-70% del calore resta all’esterno, riducendo la necessità di aria condizionata, mentre nei climi freddi la dispersione di calore diminuisce del 40% circa. A oggi il sistema viene utilizzato in barche, automobili, aerei, uffici, con un mercato che, secondo le previsioni, raggiungerà i 7,5 miliardi di dollari entro il 2028. “Questo prodotto presenta, però, alcuni limiti”, evidenzia Anurag Roy, ricercatore all’Environment and Sustainability Institute dell’Università di Exeter, nel Regno Unito, in una recente analisi pubblicata su The Conversation. “Funziona solo con una fonte di alimentazione, che potrebbe non essere disponibile in luoghi remoti, e non offre la possibilità di modulare l’oscuramento, obbligando l’utente ad alternare restrizione completa della luce e trasparenza completa, senza vie di mezzo”.

    Energia

    Così le nostre finestre diventeranno “fotovoltaiche”

    di Sara Carmignani

    07 Febbraio 2024

    Come gli occhiali fotocromatici
    Un’alternativa che non richiede l’impiego di elettricità è la finestra fotocromica, il cui vetro, analogamente a quanto accade con gli occhiali fotocromatici, contiene minuscoli cristalli di alogenuro d’argento o di naftopirani, materiali che reagiscono alla luce ultravioletta, provocando una colorazione scura in condizioni di maggiore luminosità. Ma, anche in questo caso, non mancano le criticità. Come spiega lo scienziato, infatti, “le finestre di questo tipo sono molto costose, soprattutto se utilizzano l’argento. In più, risultano sensibili alle intemperie, non sono granché efficaci nel bloccare la luce infrarossa, non possono essere regolate manualmente dall’utilizzatore”.

    La ricerca continua
    Attualmente il vetro più promettente è quello termocromico, dotato cioè di un rivestimento di particelle che reagiscono alle temperature anziché alla luce. “Ciò significa che non necessita di elettricità”, prosegue il ricercatore. “Inoltre, è più economico del vetro fotocromatico, blocca sia ultravioletti sia infrarossi e può scurirsi progressivamente a mano a mano che la temperatura esterna aumenta”. Il problema è che questo tipo di vetro non è ancora utilizzabile per le finestre. Ma in proposito la ricerca sta compiendo passi avanti, con vari studi che si stanno svolgendo in tutto il mondo. Nel frattempo Roy fa le sue previsioni. “La prossima generazione di finestre intelligenti, tra cinque o dieci anni, dovrebbe essere utile anche nei luoghi più freddi, sia di giorno sia di notte”, afferma. “Dovrebbe, quindi, consentire un risparmio significativo per quanto riguarda non solo il raffrescamento, ma anche il riscaldamento. Installare cinque finestre smart in un appartamento in un Paese freddo potrebbe consentire di ridurre il numero di radiatori da cinque a due, con una rilevante diminuzione dei costi e delle emissioni di carbonio”. LEGGI TUTTO

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    Aiutiamo i coralli a resistere al cambiamento climatico

    “I danni incalcolabili alle barriere coralline hanno un impatto sulla biodiversità marina e sul turismo”. L’allarme di Oriana Migliaccio, trentotto anni, biologa marina napoletana arriva delle Maldive, dove ha concentrato mesi di studio, in particolare nei vivai di coralli all’interno della laguna di Anantara, una delle destinazioni più ricercate dai turisti occidentali, e del sistema di barriera corallina, nell’atollo di Male Sud. “Le barriere coralline sono fondamentali per la biodiversità marina e forniscono servizi ecosistemici essenziali, ma devono affrontare gravi minacce dovute al cambiamento climatico, che si traducono in particolare negli ormai famigerati eventi di sbiancamento dei coralli”, spiega.

    Il suo monitoraggio si è concentrato sulle risposte specifiche delle specie allo sbiancamento registrato nel 2024, che passerà agli archivi su scala globale come l’anno horribilis dei coral reef (il 75% è stato interessato da “bleaching”): i risultati, pubblicati sul Journal of Marine Studies nell’ambito del progetto HARP (Holistic approach to reef protection), rivelano una variabilità negli impatti dello sbiancamento tra specie e luoghi. Alle Maldive nel 2024, la temperatura del mare è stata costantemente al di sopra dei 31 gradi “generando uno stress costante per i coralli, costretti a espellere le piccole e variopinte zooxantelle, le alghe che conferiscono loro energia e tonalità vivaci”, spiega Migliaccio. Così, rivela lo studio, Acropora aspera e Acropora muricata hanno mostrato alti tassi di mortalità e una maggiore predazione, in particolare a profondità maggiori, mentre specie come Montipora digitata, Pocillopora damicornis e Porites cylindrica hanno mostrato una maggiore resilienza.

    Biodiversità

    Barriera corallina, ne abbiamo già persa un quarto

    di  Pasquale Raicaldo

    07 Ottobre 2024

    Studiare le specie più resilienti
    “I risultati dello studio evidenziano l’importanza di strategie di gestione adattiva per i vivai di coralli, sottolineando come fondamentali siano il monitoraggio ambientale in tempo reale e il posizionamento strategico dei vivai per rafforzare la resilienza complessiva della barriera corallina”, spiega Migliaccio. Ora sappiamo, per esempio, che Acropora ha bisogno di cure extra, mentre i resistenti Porites sono una delle chiavi per comprendere la potenziale resistenza delle barriere coralline al climate change. “Ma questo – annota la ricercatrice – è uno studio che aiuta soprattutto a prendere decisioni: in natura la resilienza esiste, dobbiamo solo favorirla. E possiamo chiederci, per esempio, se sia il caso di spostare i vivai in acque più profonde. Ancora: dovremmo dare la priorità alle specie robuste rispetto a quelle delicate? Come possiamo aiutare le barriere coralline, che – se stressate – diventano bersagli facili, a difendersi dai predatori durante un evento di sbiancamento?”. Allo studio, allora, ci sono vivai a temperatura controllata, sistemi di deterrenza per i predatori e, spiega Migliaccio “persino super-coralli da riproduzione”.

    Oceani

    Barriere coralline, come (e perché) stiamo perdendo un patrimonio di biodiversità

    di Pasquale Raicaldo

    03 Settembre 2024

    Ora i resort sostengono la ricerca
    “Servono approcci integrati che combinino il ripristino dei coralli con pratiche di gestione della barriera corallina più ampie per migliorare il recupero e la sostenibilità dell’ecosistema”, aggiunge la biologa marina, che si occupa in prima persona della gestione e del mantenimento delle “coral nurseries” di tre differenti resort. Qui, del resto, turismo e biodiversità sono strettamente intrecciati: lo sbiancamento progressivo delle barriere coralline può avere ricadute importanti sull’economia di luoghi che orbitano intorno ai flussi turistici. Un nuovo studio di prossima pubblicazione, coordinato da Roberto Danovaro, già presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn, oggi docente di ecologia all’Università Politecnica delle Marche, dimostra come la perdita di coralli in Egitto abbia ricadute economiche quantificabili in 5 miliardi di euro all’anno. Ma ancor prima dell’economia, c’è naturalmente la biodiversità: le barriere coralline “coprono appena l’1% della superficie del Pianeta, ma svolgono un ruolo cruciale racchiudendo addirittura il 25% della biodiversità globale”, annota lo stesso Danovaro.

    Il ruolo della citizen science
    Anche per questo Oriana Migliaccio lavora da anni nel cuore dell’Oceano: ha operato nel Borneo Malese, dirigendo un dipartimento interamente dedicato alla protezione dell’ambiente marino che ha sede nel cuore di una piccola isola dalla sabbia bianca e dalla lussureggiante vegetazione tropicale. “Anche la barriera corallina nel Borneo – aggiunge – è a grave rischio di estinzione. Molte aree sono state danneggiate o distrutte completamente dal riscaldamento globale e dalla pesca invasiva con dinamite, che continua tuttora. Così, i coralli muoiono e i pesci scompaiono”. Di qui, la pratica di piantare frammenti di coralli vivo su strutture di cemento o ferro, nel tentativo di tendere una mano ai coralli. “Si chiama coral reef restoration, proviamo a ripristinare la barriere coralline danneggiate in attesa di intraprendere percorsi virtuosi per contrastare con efficacia il cambiamento climatico”, dice. Fino all’appello accorato: “La salvezza dei coralli non passa solo per noi scienziati. Anche chi fa snorkeling o subacquea, o semplicemente ami l’oceano, può essere parte della soluzione sostenendo le organizzazioni che si occupano di conservazione, riducendo la propria impronta di carbonio e non sottovalutando mai il potere della curiosità”. LEGGI TUTTO

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    Rinnovabili da record in Gb e Germania, ma in Italia il gas naturale copre il 65% dell’elettricità

    Con il prezzo del gas naturale di nuovo alle stelle, causa lo stop del transito attraverso l’Ucraina del combustibile estratto in Russia, si torna a discutere di quale sia la politica energetica (e climatica) migliore per l’Italia. Perfino l’Area, l’Autorità di Regolazione per energia reti e ambiente, invita a insistere sulle rinnovabili.

    In una intervista a Repubblica il presidente Stefano Besseghini riconosce: “La crescita delle fonti a bassa emissione carbonica rimane la strada principale per ridurre i costi dell’energia. Anche se deve essere chiaro che la loro introduzione spingerà i costi della realizzazione degli impianti e delle infrastrutture necessari per gestirle. Una ridistribuzione che però avrà l’innegabile vantaggio dio ridurre la dipendenza e quindi la volatilità dei prezzi”.

    Anche senza voler considerare l’azzeramento delle emissioni di gas serra, l’eolico, il fotovoltaico e le altre rinnovabili danno dunque vantaggi economici e di autonomia: il sole e il vento non li dobbiamo importare, come invece avviene per gas naturale, petrolio, e un domani uranio, se davvero ripartisse il nucleare civile. C’è, come spiega il presidente dell’Arera, da investire in nuove infrastrutture e in una rete elettrica capace di immagazzinare l’energia prodotta in eccesso (quando c’è) per redistribuirla dove e quando serve. Chi si oppone sostiene che un grande Paese industriale non può fare affidamento esclusivo su eolico e solare, la cui produzione è legata all’alternanza giorno-notte e alle condizioni meteo. Ma questo approccio sembra più mirato a difendere lo status quo che a delineare una vera politica energetica proiettata nel futuro.

    L’intervista al presidente dell’Arera

    Besseghini: “Gas, rialzi inevitabili, ma non torniamo al 2022. Insistiamo sulle rinnovabili”

    Rosaria Amato

    03 Gennaio 2025

    Nonostante si parli da anni di transizione energetica, i nuovi impianti eolici e fotovoltaici faticano a decollare, per l’opposizione delle amministrazioni locali o delle soprintendenze. Nel frattempo, come fa notare lo stesso Besseghini, il gas naturale rappresenta ancora il 65% della produzione di elettricità in Italia. “E non basta variare i fornitori”, passando dalla Russia all’Azerbaijan o all’Algeria. Se invece di puntare tutto sullo scouting di nuovi giacimenti fossili e di nuovi governi “amici” da cui acquistare gas e petrolio a buon mercato, si fosse investito decisamente in energie rinnovabili e in una rete adatta al loro loro stoccaggio e distribuzione, forse non saremmo qui a leccarci le ferite a ogni crisi geopolitica che fa salire i prezzi.

    Senza scomodare l’esempio della lontanissima (geograficamente e socialmente) Cina, c’è chi vicino a noi ha avuto una politica energetica più lungimirante, che sta già dando i suoi frutti. Proprio in queste ore è stato reso noto che nel 2024 il 58% dell’elettricità del Regno Unito è stata prodotta da fonti a basse emissioni di carbonio. Scendendo nel dettaglio: il 45% è stata generata da eolico, fotovoltaico e biomasse, il 13% dalle centrale nucleari britanniche. L’anno scorso i combustibili fossili hanno coperto il 28% del fabbisogno. Comunque troppo, ma niente a che vedere con il 70% dell’Italia (se al gas si sommano carbone e olio combustibile).

    Energia

    Record nel Regno Unito: nel 2024 mai così tanta elettricità a basse emissioni

    di redazione Green&Blue

    03 Gennaio 2025

    Anche nella vicina Germania (che ha rinunciato al nucleare ma tiene in vita il carbone) la transizione energetica ha tutto un altro passo e ha prodotto il dimezzamento delle emissioni di CO2 in dieci anni. Il 1° gennaio scorso gli impianti tedeschi di energie rinnovabili hanno fornito più elettricità di quanta ne sia stata consumata in tutto il Paese (il 125% della domanda in alcuni momenti della giornata).

    Non solo: secondo il Fraunhofer-Instituts für Solare Energiesysteme (Ise), il più grande istituto di ricerca sull’energia solare presente in Europa, la produzione di elettricità in Germania ha raggiunto una quota record di energie rinnovabili del 62,7% nel 2024. In Italia sfiora il 40%, secondo il monitoraggio dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iea).

    Anche la Spagna fa meglio di noi con circa il 50% di elettricità prodotta da fonti rinnovabili. Se non ci si vuole misurare con il presente, vale forse la pena immaginare gli scenari futuri. La Iea prevede che a livello globale entro i prossimi due anni solare e fotovoltaico, presi singolarmente, supereranno il nucleare come produzione di elettricità. Entro il 2030 avranno sorpassato anche l’idroelettrico. Nei primi anni del prossimo decennio si lasceranno alle spalle il gas naturale.

    E dopo il 2035, in tutto il mondo, saranno di gran lunga le due tecnologie che produrranno la maggior quantità di elettricità. Questo è quello che ci aspetta, secondo il più autorevole think tank sull’energia. Chi governa può decidere di pianificare una politica di lungo termine basata su tali analisi, come sembra suggerire anche il presidente di Arera Besseghini. Oppure rincorrere le crisi geopolitiche, andando a comprare gas e petrolio di volta in volta dal miglior offerente, lasciando a chi, nei prossimi dieci anni, ci avrà creduto e investito, tutti i vantaggi industriali, tecnologici e occupazionali della transizione energetica. LEGGI TUTTO

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    Senza l’impatto dell’uomo le balene vivono molto più a lungo di quanto credevamo

    Lunga vita alle balene. Se non ci fossero le nostre azioni, quelle che ostacolano la loro esistenza, non ci sarebbe nemmeno bisogno di augurarglielo: alcune specie – ha recentemente scoperto team di ricercatori – vivono molto più a lungo di quanto si ipotizzasse finora, anche il doppio. Un gruppo di ricercatori internazionali – tra cui gli esperti Greg Breed dell’Università dell’Alaska Fairbanks e Peter Corkeron studioso di cetacei della Griffith University e della NOAA, in un nuovo studio pubblicato su Science Advances raccontano come le balene franche australi abbiano una vita che supera ampiamente i 100 anni. Il 10% di queste balene può vivere fino a 130 anni e alcuni esemplari arrivano anche a un secolo e mezzo di esistenza, ben 150 anni di vita fra i mari del sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda o il Sudafrica.

    Queste balene sono lontane parenti di quello che ad oggi è considerato il mammifero più longevo al mondo, ovvero la balena della Groenlandia, nota anche come balena franca della Groenlandia o balena artica, capace di vivere sin oltre 200 anni. Una delle straordinarietà di questa scoperta sta nel fatto che possiamo osservare chiaramente gli impatti delle azioni dell’uomo su questi affascinanti e al contempo misteriosi animali.

    Fino a 25 anni fa si pensava ad esempio che le balene franche del Nord Atlantico e le balene franche australi fossero un’unica specie con una durata media della vita di circa 70 anni. Gli esperti, dopo la divisione fra le due specie, hanno iniziato ad accumulare sempre più dati sia sull’Eubalaena glacialis, che si muove nel Nord Atlantico, sia sull’Eubalaena australis che frequenta i mari d’Australia e del sud. Successivi studi hanno dimostrato che la vita delle prime, le balene franche del Nord Atlantico, ha una durata media di soli 22 anni e raramente questi mammiferi arrivano a campare oltre i 50 anni, tant’è che sono considerate una specie in pericolo critico.

    Biodiversità

    Le balene scambiano i rifiuti di plastica per calamari. Una drammatica somiglianza

    di  Paolo Travisi

    29 Ottobre 2024

    Il motivo di questa breve vita è legato alla mortalità causata dall’uomo con azioni come la caccia, i possibili impigliamenti nelle reti da pesca, l’inquinamento plastico o la collisione con le navi. Al contrario, le balene franche australi, se la passano molto meglio: decisamente meno soggette all’ingerenza dell’uomo, possono vivere per oltre un secolo e addirittura fino a 150 anni, il doppio rispetto alla stima di 70-80 anni fatta in precedenza. Al centro degli studi durati anni sono soprattutto le femmine: le stime sull’età sono state realizzate grazie ad anni di identificazioni fotografiche di singoli esemplari femmine in vari decenni. Questo perché una singola balena può essere riconosciuta, anno dopo anno, grazie alla fotoidentificazione e quando nel tempo smettono di essere riavvistate e fotografate gli esperti possono stabilire l’entrata in una fase di invecchiamento, declino o di morte.

    Grazie ai dati acquisiti i biologi hanno realizzato quelle che chiamano “curve di sopravvivenza” per stabilire il potenziale di vita delle balene. Comprendere però realmente l’età di questi cetacei è una questione molto complessa: fino a pochi decenni fa per esempio si stimava che le balene della Groenlandia vivessero al massimo 80 anni e che gli esseri umani fossero i mammiferi più longevi, poi però – anche grazie a ritrovamenti di punte di arpioni del 1800 e attraverso analisi delle proteine – si è scoperto che questa specie della Groenlandia può arrivare anche a oltre 200 anni di esistenza.

    La nuova scoperta sulle balene franche australi, spiegano gli esperti, fornisce importanti dettagli su come poter proteggere questi straordinari mammiferi marini: conoscere la durata della loro vita, così come il fatto che abbiano tempi molto lunghi per la riproduzione, offrono un nuovo sguardo su quello che dovrebbe essere l’impegno per la loro conservazione, una protezione che già oggi appare complessa per “gli impatti previsti dalla crisi climatica” scrivono gli esperti. Infine, prossimo passo per comprendere ulteriori segreti e dettagli sulla vita delle balene, sarà studiare come – per esempio caccia o azioni antropiche – impattino sulla perdita del numero di “individui anziani”, considerati animali “guida” nelle popolazioni di balene. Secondo le prime ricerche, la perdita di individui più anziani nel tempo ha influito sulla salute delle specie: in alcuni casi – sostengono gli esperti – potrebbero volerci 100 anni prima che le popolazioni di balene si riprendano davvero. LEGGI TUTTO

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    Record nel Regno Unito: nel 2024 mai così tanta elettricità a basse emissioni

    La percentuale di elettricità generata da fonti a bassa emissione di CO2 ha raggiunto il record del 58% lo scorso anno nel Regno Unito, secondo uno studio del media specializzato Carbon Brief. “Il Regno Unito ha abbandonato il carbone e ora produce la metà dell’elettricità da combustibili fossili rispetto a dieci anni fa, mentre la produzione di energia rinnovabile è più che raddoppiata”, riporta CB.

    In totale, i combustibili fossili rappresentano il 29% dell’elettricità del Regno Unito nel 2024, il livello più basso mai registrato, mentre le energie rinnovabili raggiungeranno il livello record del 45%, a cui si aggiunge il 13% di energia nucleare.

    Alla fine di settembre, il Regno Unito ha chiuso la sua ultima centrale a carbone, ponendo fine all’uso di questo combustibile nella produzione di energia elettrica – una prima volta per un membro del G7 – prima di vietare qualsiasi nuova miniera di carbone nel Paese a novembre. Il governo britannico si è inoltre impegnato a far sì che le fonti di generazione decarbonizzate coprano il 100% della domanda di elettricità del Paese entro il 2030 e il 95% della generazione totale – tenendo conto dell’ambizione dell’esecutivo di diventare un esportatore netto di elettricità. “Sarà una sfida importante”, avverte Carbon Brief, che tuttavia riconosce che “il settore energetico è già stato trasformato nell’ultimo decennio”.

    Fisco Verde

    Risparmio energetico e bonus 2025: tutte le novità

    di  Antonella Donati

    31 Dicembre 2024

    Grazie all’energia eolica, sia onshore sia offshore, il Regno Unito è uno dei Paesi più avanzati in Europa in termini di energie rinnovabili, ma è ancora indietro rispetto ai Paesi scandinavi, che ricavano gran parte dell’elettricità dal vento e dalle dighe idroelettriche.

    Nel dettaglio, secondo i media specializzati, le centrali a gas restano la principale fonte di elettricità del Regno Unito nel 2024 (28%), davanti all’eolico (26%), al nucleare (13%) e alla biomassa (13%). Le importazioni rappresentano l’11% e il solare il 4%. Ma Carbon Brief prevede che l’energia eolica supererà il gas entro il 2025, grazie all’aumento della capacità produttiva.

    Il sondaggio

    Nucleare, Ipsos: l’81% degli italiani è contrario. Pesa l’effetto Nimby

    28 Novembre 2024

    Il Regno Unito, dove il partito laburista è salito al potere a luglio promettendo di mettere il clima “al centro” della sua diplomazia, ha presentato obiettivi ambiziosi di riduzione delle emissioni di gas serra alla Cop29 di Baku a fine novembre. Il primo ministro laburista britannico Keir Starmer ha annunciato che il suo Paese, che si era già impegnato a garantire la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2050, promette di ridurre le proprie emissioni di gas serra “di almeno l’81%” entro il 2035 rispetto ai livelli del 1990. LEGGI TUTTO