Gennaio 2025

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consigliato per te

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    I sentieri del trekking disturbano orsi e lupi

    Prima è toccato agli orsi, poi ai lupi. Entrambi sono da tempo nel mirino del leghista Maurizio Fugatti, presidente della Provincia autonoma di Trento, che li ha additati come pericolosi nemici da combattere e, spesso, anche da abbattere.

    Biodiversità

    Dieci regole per rispettare la flora in montagna

    di Fabio Marzano

    01 Agosto 2024

    Ad approfondire il rapporto tra questi esemplari e noi umani è un recente studio condotto da un gruppo di ricercatori canadesi e pubblicato sul Journal of Applied Ecology. Il team ha installato 1.699 macchine fotografiche sulle Montagne Rocciose centrali e scattato, tra il 2007 e il 2022, oltre 11mila immagini di orsi grizzly (Ursus arctos), 18mila di lupi grigi (Canis lupus), un milione di esseri umani, con l’obiettivo di scoprire se la presenza dell’uomo sui sentieri riservati al trekking disturbi la fauna locale.

    I risultati
    Dalle foto sono anzitutto emersi gli ambienti favoriti dai due diversi esemplari: gli orsi prediligono avventurarsi in aree bruciate e cave di ghiaia, mentre i lupi preferiscono zone erbacee umide, arbusti, foreste di conifere. Entrambi tendono, tuttavia, a evitare terreni ripidi e località con un alto manto nevoso.

    “Pericolosamente vicini”, la convivenza tra uomo e natura selvaggia in un documentario

    04 Ottobre 2024

    Ma l’esito più importante è un altro. L’analisi ha, infatti, dimostrato che i grandi carnivori stanno il più possibile alla larga non solo dai percorsi escursionistici in sé, ma anche da tutta l’area che li circonda, mostrando una grande diffidenza.

    In particolare, è stato appurato che in una zona caratterizzata da disturbo umano relativamente elevato i rilevamenti di lupi sono diminuiti del 67% e quelli di orsi del 51% rispetto a una zona con disturbo relativamente basso. è stato, inoltre, calcolato che i primi si mantengono a una distanza media di 6,1 chilometri e i secondi di 1,8 chilometri dai siti in cui sono presenti tracce degli escursionisti.

    Le idee

    Coesistenza tra uomo e fauna selvatica: il futuro in una pillola

    di Andrea Monaco

    22 Ottobre 2024

    “Lo sviluppo antropico può ridurre in modo misurabile la qualità dell’habitat di queste specie, influendo tra l’altro negativamente anche sulla presenza di grandi ungulati, tra cui alci, wapiti, cervi”, commenta Peter R. Thompson, ricercatore del dipartimento di Scienze biologiche dell’Università di Alberta, in Canada, e autore dello studio.

    Una necessaria convivenza
    Spesso ci si trova di fronte all’incapacità dell’uomo moderno di costruire una convivenza con gli animali, nell’errata convinzione che boschi, foreste, montagne siano in suo esclusivo possesso. “L’auspicio è che il nostro lavoro sia utile per gestire meglio il territorio, facendo in modo che esseri umani e fauna selvatica possano coesistere per molto tempo”, prosegue Thompson.

    Le idee

    M91 e la conservazione delle specie selvatiche attraverso l’invisibilità

    di Domenico Ridente

    12 Dicembre 2024

    Del resto, come chiariva già nel Settecento il filosofo francese Voltaire “è solo per un eccesso di vanità ridicola che gli uomini si attribuiscono un’anima di specie diversa da quella degli animali”. Con buona pace del presidente Fugatti. LEGGI TUTTO

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    Dal lavaggio alla stiratura, come allungare la vita dei jeans

    Skinny, taglio dritto, a zampa, baggy, con risvolto. E ancora, tinta unita, slavati, macchiati, strappati. I jeans sono uno dei capi di abbigliamento più amati, tant’è che nel mondo ne vengono venduti ogni anno ben 3,5 miliardi. Stando al report di Fundamental Business Insights appena pubblicato, si prevede che il mercato registrerà una crescita rilevante, passando da 86,05 miliardi di dollari nel 2024 a 151,22 entro il 2034. Si stima, inoltre, che entro il 2025 il fatturato del settore sarà pari a 90,54 miliardi. Cifre che preoccupano non poco chi ha a cuore la sostenibilità, visto che questo indumento è uno di quelli a maggiore impatto ambientale.

    I dati sul consumo di risorse
    Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, per realizzare un paio di pantaloni in denim servono 3.781 litri di acqua, a fronte di un’emissione di 33,4 chili di anidride carbonica durante il ciclo di vita, equivalente a guidare l’auto per 111 chilometri o a guardare 246 ore di tv su un grande schermo.

    Economia circolare

    Il denim diventa compostabile. “I nostri jeans stretch biodegradabili in 6 mesi”

    di  Serena Gasparoni

    16 Novembre 2024

    La fabbricazione del tessuto assorbe, inoltre, circa il 35% di tutta la produzione mondiale di cotone. Per ottenere un chilo di questa fibra occorrono 10mila litri di acqua, 12 metri quadrati di terreno e 18,3 kilowattora di energia elettrica. A ciò si aggiunge, nelle fasi di tintura e finitura, l’impiego di coloranti e prodotti chimici. In particolare, il processo di colorazione richiede annualmente circa 50mila tonnellate di indaco sintetico e oltre 84mila tonnellate di idrosolfito di sodio, usato come agente riducente. Sostanze, queste, alle quali vengono esposti i lavoratori del settore, con conseguenze negative per la loro salute.

    A fronte di tutto questo, è indispensabile l’impegno da parte dei consumatori: trattare il denim nel modo giusto significa preservarne a lungo la qualità minimizzando gli sprechi.

    In lavatrice con acqua fredda
    Come suggerisce Altroconsumo, i jeans nuovi vanno lavati prima di essere indossati, ma il lavaggio a mano è da evitare perché si rischia di sprecare molta acqua. Meglio quello in lavatrice, scegliendo il programma per il cotone e impostando la temperatura dell’acqua a 30 gradi. Da rifuggire l’abitudine di lavare questo capo troppo di frequente: in genere i pantaloni in denim si sporcano dopo averli indossati per almeno sei-sette volte. Tra un impiego e l’altro, può essere una buona idea stenderli all’aperto per un paio d’ore, in modo che prendano aria e riacquistino freschezza.

    Inutile ricorrere al lavaggio a secco: se il modello scelto non ha applicazioni né decori particolarmente delicati non c’è ragione di rivolgersi a una tintoria.

    Sostenibilità

    Un’etichetta per misurare quanto inquinano i vestiti

    di  Anna Lisa Bonfranceschi

    22 Novembre 2024

    Asciugatura e stiratura
    Nel caso dei jeans, l’uso dell’asciugatrice è sconsigliato, poiché lo strofinamento dei capi nel tamburo della macchina incrementa l’usura. Il suggerimento è stenderli e farli asciugare all’aria, appendendoli per le due estremità del girovita: un piccolo ‘trucco’ per evitare la formazione di pieghe da asciugatura. Se poi si ritira il capo quando è ancora leggermente umido, non sarà necessario stirarlo. Nel caso in cui, una volta asciutti, i pantaloni presentino stropicciature non gradite, in genere è sufficiente una passata veloce con il ferro da stiro tiepido. In ogni caso, è bene attenersi alle temperature di stiratura indicate sull’etichetta.

    Come riconoscere i modelli green
    Quando i jeans saranno davvero giunti a fine vita, è il momento di acquistarne di nuovi. Nella scelta è bene prediligere marche attente non solo a moda e profitto, ma anche alla sostenibilità. Alcuni modelli, per esempio, riportano le indicazioni sulla composizione e le istruzioni di lavaggio sul tessuto di cotone della tasca interna, evitando così di aggiungere etichette di solito realizzate in materiali sintetici. Altri hanno una salpa, ovvero il rettangolo posto in cintura sul quale è riportato il brand, in cotone riciclato.

    Tra i vari produttori, alcuni, come Blue of a kind, Rifò, Nelle grandi fauci, Candiani, offrono un servizio di riparazioni gratuite per i propri capi: un modo per rifuggire la cultura dell’usa-e-getta, per produrre meno rifiuti e per risparmiare. Infine, dato che i jeans non sono più indumenti da lavoro, i rinforzi metallici (rivetti) delle cuciture risultano inutili, rendendo anche più difficile riciclare il capo: un plauso ai marchi che li hanno eliminati. LEGGI TUTTO

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    Scomparsa delle zone umide, in 300 anni l’Italia ne ha perse più del 75%

    Salvare le zone umide e gli ecosistemi acquatici. Perché sono un vero e proprio hotspot di biodiversità. E possono diventare strategiche nella lotta al cambiamento climatico. Ma non se la passano bene, anzi. Alla vigilia della Giornata mondiale delle zone umide, in programma domenica 2 febbraio con visite guidate in oasi e riserve di tutta Italia, arriva una fotografia con più ombre che luci. La scatta Legambiente attraverso il focus “Ecosistemi acquatici 2025”: negli ultimi 300 anni – dal 1700 al 2000 – lo Stivale ha del resto già perso il 75% delle zone umide, 57 quelle d’importanza internazionale in Italia, distribuite – piuttosto omogeneamente – in 15 Regioni. E il trend non autorizza ottimismo. A rischio scomparsa, anche in virtù del progressivo e inesorabile innalzamento dei mari, è l’85% delle zone umide, e con loro 4.294 specie su 23.496 animali d’acqua dolce iscritti nella Lista Rossa IUCN, tra cui il 30% dei crostacei decapodi (gamberi, granchi, gamberetti), il 26% dei pesci d’acqua dolce e il 16% degli odonati (libellule, damigelle). Futuro a rischio, complice l’innalzamento del livello del Mediterraneo, aree come le lagune costiere alto-adriatiche (Delta del Po, Laguna di Venezia, Lagune di Grado-Marano e Panzano), il Golfo di Cagliari e la costa fra Manfredonia e Margherita di Savoia. E l’incremento dei periodi di siccità può riflettersi in un declino importante delle aree in Toscana, Umbria e Marche.

    Parco del delta del Po a Comacchio  LEGGI TUTTO

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    Microplastiche nella placenta, livelli più alti nei bimbi nati prematuri

    Si trovano ovunque vengano cercate. Sono le microplastiche (inferiori a 5 millimetri che arrivano dalla degradazione di oggetti come le bottiglie e gli imballaggi) che, oltre ad accumularsi nell’ambiente e nel nostro corpo, sono state trovate persino nella placenta. Un recente studio presentato nei giorni scorsi al meeting annuale della Society for Maternal-Fetal Medicine a Denver e pubblicato su The Guardian ha infatti scoperto che la percentuale di particelle di microplastiche e nanoplastiche è significativamente più alta nelle placente da nascite premature rispetto a quelle portate a termine. Apparentemente una sorpresa. I ricercatori si aspettavano infatti che un tempo più lungo avrebbe causato un maggiore accumulo. Invece.

    Trovate microplastiche anche nel cervello umano

    a cura di redazione Salute

    29 Novembre 2024

    Il legame con la placenta
    Per gli esperti quello derivante dalle nanoplastiche era già considerato un tipo di inquinamento preoccupante per la salute umana, ma questa volta l’indagine scientifica è partita mentre i ricercatori erano impegnati a studiare le possibili cause delle nascite pretermine, “considerata la principale causa di morte infantile in tutto il mondo”, ha spiegato il dottor Enrico Barrozo, del Baylor College of Medicine in Texas, negli Stati Uniti. Ed è durante questi studi che è stato scoperto il legame tra l’inquinamento atmosferico e le nascite premature e a convicere il team di ricerca ad approfondire il ruolo che hanno le microparticelle da plastica. La domanda successiva è stata: la microplastica mentre viaggia attraverso la placenta può raggiungere il bambino tramite il cordone ombelicale? Al momento non c’è una risposta certa.

    Ambiente e Salute

    Inquinamento da farmaci: una ricerca svela l’impatto dell’ibuprofene sugli ecosistemi marini

    di redazione Green&Blue

    13 Gennaio 2025

    Il nuovo studio dimostra solo un’associazione tra microplastiche e nascite premature. Sono necessarie ulteriori ricerche su colture cellulari e modelli animali per determinare se il legame è causale. È noto che le microplastiche causano infiammazione nelle cellule umane e l’infiammazione è uno dei fattori che spinge l’inizio del travaglio.
    La ricerca
    I ricercatori hanno analizzato 100 placente da nascite a termine (37,2 settimane, in media) e 75 da nascite pretermine (34 settimane), tutte provenienti dall’area di Houston. L’analisi con spettrometria di massa altamente sensibile ha rilevato 203 microgrammi di plastica per grammo di tessuto (?g/g) nelle placente premature, oltre il 50% in più rispetto ai 130 ?g/g nelle placente a termine. Sono stati rilevati dodici tipi di plastica, con le differenze più significative tra la placenta del parto completo e quella pretermine che riguardano il PET, utilizzato nelle bottiglie di plastica, PVC, poliuretano e policarbonato.

    “Importante aumentare la consapevolezza”

    Hanno spiegato i ricercatori. Alcune madri sono a più alto rischio di nascite pretermine, a causa della loro età, etnia e status socioeconomico. Ma un forte legame tra le particelle di plastica e la nascita prematura rimaneva anche quando si prendevano in considerazione questi fattori.

    “Questo studio ha mostrato un’associazione e non una causalità”, ha detto Barrozo. “Ma penso che sia importante aumentare la consapevolezza delle persone sulle microplastiche e sulle loro associazioni con potenziali effetti sulla salute umana”.
    Anche l’efficacia delle azioni per ridurre l’esposizione delle persone alle microplastiche necessita di studi urgenti, ha affermato. “Questi interventi devono essere studiati per dimostrare che c’è un vantaggio nell’evitare queste plastiche”.

    Longform

    Tutto quello che sappiamo sulle microplastiche e quanto inquinano

    di Paola Arosio

    18 Luglio 2024

    Cosa sono
    Le microplastiche, scomposte dai rifiuti plastici, hanno inquinato l’intero pianeta dalla cima del Monte Everest fino ai fondali degli oceani. È noto che le persone ingeriscono le minuscole particelle attraverso il cibo e l’acqua, oppure attraverso l’inalazione: in grado dunque di attraversare i fluidi digestivi e venire assorbita attraverso intestino e polmoni. Sono state rilevate per la prima volta nella placenta nel 2020, ma sono trovate anche nello sperma e nel latte materno, nel cervello, fegato e nel midollo osseo dei neonati indicando un’elevata contaminazione a il corpi. “Il nostro studio suggerisce la possibilità che l’accumulo di plastica possa contribuire al verificarsi di parto pretermine”, ha detto al The Guardian il professor Kjersti Aagaard, dell’ospedale pediatrico di Boston negli Stati Uniti. “In combinazione con altre ricerche recenti, questo studio si aggiunge al crescente corpo di prove che dimostrano un rischio reale derivante dall’esposizione alla plastica sulla salute umana e sulle malattie”. LEGGI TUTTO

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    Terra dei fuochi, gli ambientalisti esultano per la sentenza: “Ora ecogiustizia”

    Una condanna attesa ed auspicata dalle associazioni ambientaliste. La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato lo Stato italiano per la sua inazione di fronte allo scarico di rifiuti tossici da parte della mafia nella cosiddetta Terra dei Fuochi: ora ci sono due anni di tempo per attuare una strategia correttiva. Il caso era […] LEGGI TUTTO

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    Londra accelera sulla riduzione delle emissioni: giù dell’81% rispetto al 1990 entro 10 anni

    La decarbonizzazione accelera proprio lì dove tutto era cominciato: nella Gran Bretagna patria del carbone e della macchina a vapore. Due secoli e mezzo dopo l’avvio della Rivoluzione industriale, Londra annuncia un taglio delle emissioni di CO2 che, se rispettato, la metterebbe tra i Paesi più virtuosi nella lotta ai cambiamenti climatici. Poche ore fa il governo britannico ha infatti comunicato formalmente alle Nazioni unite i suoi nuovi Ndc (contributi determinati a livello nazionale), ribadendo il suo impegno a ridurre le emissioni dell’81% entro il 2035, rispetto ai livelli del 1990.

    In realtà, già lo scorso novembre a Baku nel corso di Cop29 il primo ministro britannico Keir Starmer aveva anticipato un taglio così drastico delle emissioni di gas serra. Ora la formalizzazione, in anticipo sulla scadenza prevista dall’Unfccc, l’organismo Onu che si occupa di cambiamenti climatici: tutte le nazioni aderenti all’Accordo di Parigi dovranno presentare entro febbraio i loro Ndc. L’obiettivo è arrivare alla Cop30 di Belem, in Amazzonia, il prossimo novembre, con un quadro chiaro degli impegni presi dai singoli governi, nella speranza che siano sufficienti a tenere il riscaldamento del Pianeta entro 1,5 gradi rispetto all’era pre-industriale, o comunque al di sotto dei 2 gradi. Il piano climatico del governo Starmer è molto ambizioso, perché promette di non estrarre più petrolio e gas. Ed è allineato con gli obiettivi globali di triplicare l’energia rinnovabile e raddoppiare l’efficienza energetica, come indicato dalla risoluzione finale della COP28 tenutasi a Dubai nel 2023.

    Entusiasta Simon Stiell, segretario esecutivo della Unfccc: “L’anno scorso nel Regno Unito sono stati investite più di un trilione di sterline in energia pulita. Il nuovo, audace piano per il clima significa che quel Paese è in grado di trarre ancora profitto dal boom dell’azione per il clima. Più posti di lavoro, più investimenti, più sicurezza energetica e più crescita economica fluiranno verso coloro che agiscono in fretta. Altri Paesi, nel G20 e in tutto il mondo, dovrebbero seguire l’esempio”. Non lo seguiranno certamente, almeno a livello di governo federale, gli Stati Uniti di Donald Trump, che hanno avviato le pratiche per uscire dall’Accordo di Parigi, nonostante Biden, nei suoi ultimi giorni da presidente, avesse promesso per il 2035 un taglio del 61-66%, rispetto ai livelli del 2005. La speranza è che i singoli Stati americani, sia democratici che repubblicani, mantengano gli impegni presi in fatto di decarbonizzazione.

    Cruciali saranno gli impegni della Cina, il più grande emettitore di gas serra del mondo. C’è chi auspica che possa ridurre del 30% le sue emissioni entro il 2035, in modo da rendere plausibile la promessa, fatta qualche anno fa, di diventare carbon neutral nel 2060 (mentre l’Occidente si è dato come tempo limite il 2050). E l’Unione europea? Non ha ancora presentato i nuovi Ndc e probabilmente non riuscirà a farlo entro la scadenza di febbraio. In ballo c’è un emendamento alla Legge europea sul clima per introdurre il target del 90% di riduzione al 2040 e appunto il target per il 2035. Resta l’obiettivo più ravvicinato, (ufficializzato da Bruxelles nel 2020) di ridurre di “almeno” il 55% le emissioni entro il 2030. LEGGI TUTTO

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    Droni, trovato un sistema per tenere lontani gli orsi dalle case

    Orsi animali protetti, qui in Italia come in tante altre parti del mondo, Stati Uniti compresi. Ed è proprio agli Stati Uniti che potremmo guardare (e imparare) quando si tratta di impostare strategie di convivenza con questi grandi mammiferi, che – inutile negarlo – possono costituire un pericolo. Spinti dalla fame o dalla pressione territoriale, possono avvicinarsi troppo ai centri abitati e alle attività umane. In uno studio durato sei anni, Wesley M. Sarmento del Montana Department of Fish, Wildlife and Parks ha sperimentato diversi strumenti di deterrenza per allontanare i grizzly delle Grandi Pianure da luoghi in cui erano indesiderati: la maggior parte si sono rivelati efficaci, ma è stato l’impiego dei droni a stupire l’operatore. Ecco i loro pro e contro.
    Come si allontana un orso
    Nell’articolo, pubblicato su Frontiers in Conservation Science, Sarmento racconta come, dopo aver raccolto le richieste della popolazione, abbia iniziato un’attività di monitoraggio dei grizzly e di interventi di allontanamento (in totale sono stati 163), raccogliendo dati per verificare l’efficacia di diversi strumenti non letali sia nell’immediato sia a lungo termine, ossia se gli orsi nel tempo imparassero a stare lontani da certi luoghi.

    Biodiversità

    I sentieri del trekking disturbano orsi e lupi

    di  Paola Arosio

    31 Gennaio 2025

    L’esperto ha iniziato da metodi tradizionali: ricevuta una segnalazione, si recava sul posto allontanando l’animale con inseguimenti dal proprio camion e/o sparando a salve o proiettili non letali. Il sistema era abbastanza efficace, ma Sarmento sottolinea diverse criticità che, a volte, lo hanno messo in pericolo. I veicoli, infatti, non arrivano ovunque: ci possono essere ostacoli o la tipologia di terreno può non consentire a un mezzo pesante di proseguire se non si vuole rimanere bloccati. Continuare a piedi muniti di fucili deterrenti, però, non è la via più sicura. Come ha sperimentato sulla propria pelle Sarmento, alcuni orsi, invece di fuggire spaventati, possono reagire attaccando. Un rischio non indifferente per l’incolumità dell’operatore, nonché un insuccesso dell’azione di deterrenza.

    Biodiversità

    Nepal, il governo: “Le tigri sono troppe e attaccano l’uomo”

    20 Gennaio 2025

    Dai cani da orso ai droni
    Per queste ragioni Sarmento ha cercato delle alternative che prevedessero una posizione di sicurezza per il personale umano. Uno di questi sistemi è stato adottare cani da orso, uno strumento che – come ammette l’esperto – per quanto pubblicizzato non è mai stato testato scientificamente. Ebbene, i cani da orso sono stati un po’ deludenti rispetto agli altri strumenti di deterrenza: i cani, infatti, molto spesso non riuscivano ad avvistare gli orsi a grande distanza o si lasciavano distrarre da altri stimoli, per esempio da altri animali selvatici. Neanche migliorare l’addestramento è servito a recuperare punti rispetto a metodi più tradizionali, e il loro mantenimento era un fattore da non trascurare in un’ottica costo-efficacia.

    L’alternativa tecnologica
    Sarmento ha così fatto ricorso a un drone. E i risultati, come riporta nell’articolo, sono stati molto soddisfacenti (91% di successi). Non solo l’efficacia di deterrenza è comparabile (anche un po’ superiore, ma servirebbero più dati per confermarlo) a quella dell’inseguimento con autoveicoli o ai proiettili non letali, ma il ricercatore ha riscontrato diversi vantaggi: grazie al drone gli orsi potevano essere avvistati anche a grande distanza, anche di notte, e l’elevata maneggiabilità ha consentito all’operatore di direzionare l’orso – forse spaventato dal ronzio o solo dalla novità (stabilirlo non è stato oggetto dello studio) – lontano dai luoghi abitati e dai pascoli, rimanendo in una posizione di sicurezza. In volo, poi, non ci sono problemi connessi alla tipologia di terreno o a eventuali ostacoli come recinti e canali. Tra i (pochi) contro riportati dall’autore, però, c’è l’impossibilità di utilizzare il drone come deterrente in condizioni meteorologiche avverse, oppure le difficoltà che si possono incontrare in aree molto alberate e boschive.

    Le idee

    M91 e la conservazione delle specie selvatiche attraverso l’invisibilità

    di Domenico Ridente

    12 Dicembre 2024

    Un altro pro del sistema di deterrenza coi droni, stando a quanto riferisce lo sperimentatore, è stato il condizionamento a lungo termine degli orsi: nel corso degli anni di osservazione, infatti, Sarmento ha registrato che gli interventi sono via via diminuiti e che orsi più anziani tendevano a fare meno incursioni nelle zone vicino ai centri abitati o ai pascoli.

    Evitare di filmarli
    Pur premettendo che ogni situazione è diversa e dovrebbero essere operatori esperti a definire la strategia più adeguata, Sarmento si dice convinto della bontà dell’impiego di droni per tenere lontani gli orsi dove sono indesiderati e raccomanda di integrare nei regolamenti per la convivenza con questi grandi mammiferi norme che vietino di avvicinarli con droni a fini diversi dalla deterrenza (solo per filmarli, per esempio), perché altrimenti gli animali potrebbero abituarsi allo stimolo e rendere vani i tentativi di allontanamento.
    Non solo, l’esperto suggerisce che i droni potrebbero essere modificati e resi più efficienti per questo uso specifico, magari rendendoli capaci di spruzzare spray deterrenti o di emettere altri suoni disturbanti oltre al ronzio delle pale, come urla umane o abbaiare di cani. Senza contare che in futuro potrebbe essere installata un’intelligenza artificiale in grado di riconoscere la fauna selvatica indesiderata e di agire in autonomia per scacciarla. LEGGI TUTTO

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    Il “bollino” che salva frutta e verdura dalla muffa ed evita lo spreco alimentare

    “Circa un terzo del cibo prodotto viene perso o sprecato, e questa percentuale sale al 50% nel caso dell’ortofrutta, una delle categorie alimentari più amate dagli italiani. Tuttavia, capita spesso di vedere frutti ammuffiti nei frigoriferi delle nostre case o addirittura già sugli scaffali dei supermercati, pensiamo ai limoni e alle fragole”. A parlare è Gustavo Gonzalez co-fondatore e Ceo di Agreenet startup torinese che ha sviluppato PìFresc, una tecnologia all’avanguardia, che offre vantaggi per produttori e distributori, raccogliendo la sfida della conservazione della frutta fresca. “Si tratta di un piccolo bollino biodegradabile, della dimensione di una moneta da un euro, che si inserisce nelle confezioni di frutta e verdura dove rilascia sostanze naturali che riducono la crescita di muffe”, continua Gonzalez. Facile da usare, si posiziona all’interno dell’imballaggio o della confezione dell’ortofrutta, senza necessità di investimenti aggiuntivi, per le aziende del settore. “Con la nostra monetina PìFresc assicuriamo così una maggiore durata della freschezza di prodotti come agrumi, uva, ciliegie, fragole e frutti di bosco, riducendo la necessità di trattamenti chimici dannosi per l’uomo”.

    Alimentazione e ambiente

    Pellicola per alimenti, quella sostenibile cambia colore se il cibo va a male

    di  Fiammetta Cupellaro

    11 Novembre 2024

    Migliorare la conservazione di frutta e verdura
    Nata a Torino nel 2022 dal desiderio di un gruppo di amici (Gustavo Gonzalez, Stefano Ferioli e Giulia Brogi) di contribuire in prima linea a ridurre gli sprechi alimentari e creare un sistema di approvvigionamento più efficiente e sostenibile, Agreenet è una startup che opera nella produzione di biomateriali innovativi per la conservazione e il confezionamento di alimenti freschi. Tre sono i pilastri su cui si fonda la sua missione: ridurre lo spreco alimentare durante la fase di approvvigionamento, ridurre l’uso di plastiche derivate dal petrolio nell’industria alimentare, e sensibilizzare maggiormente gli stakeholder per una catena di consumo più responsabile. Nello specifico, il team di Agreenet crea e produce materiali biodegradabili, biobased e bioattivi volti a migliorare la conservazione di frutta e verdura confezionate per aumentarne la shelf-life (la vita utile).

    Questi materiali si basano su una miscela di sostanze di origine vegetale e alimentare che possono essere regolate in base alle condizioni di confezionamento del prodotto fresco e alle esigenze del cliente. I prodotti che propone Agreenet sono realizzati con una tecnologia innovativa (oggetto di un deposito di brevetto) che riduce di almeno il 90% la proliferazione di agenti patogeni e microrganismi sulla superficie dei frutti. “La nostra proposta si basa sul fornire ai distributori di frutta e verdura fresca questi vantaggi: più protezione e più shelf-life per i loro prodotti ortofrutticoli, massimizzazione del profitto attraverso la distribuzione di prodotti che durano più a lungo. Non solo, con la nostra tecnologia è possibile raggiungere i mercati più lontani senza compromettere la qualità e/o l’integrità del prodotto, e diminuire la percentuale di reclami di prodotti distribuiti”.

    Imballaggi

    Il cibo confezionato usa troppa plastica e se ne spreca di più

    di  Giacomo Talignani

    07 Ottobre 2024

    I vantaggi del bollino salva spreco
    PìFresc è in grado di ritardare la comparsa della muffa di almeno sette giorni, riducendo lo spreco da deperimento e le relative perdite economiche fino al 74%, con un’efficacia estesa a oltre un mese, garantendo quindi benefici anche a casa del consumatore. “Essendo l’unica soluzione naturale per frutti non climaterici, PìFresc è indispensabile per una vasta gamma di prodotti, tra cui agrumi, uva da tavola, fragole, frutti di bosco e ciliegie, settori in cui l’Italia è uno dei maggiori produttori a livello mondiale”.

    Il Frescometro “per calcolare i benefici economici e ambientali”
    “A settembre scorso abbiamo rilasciato il Frescometro, un innovativo calcolatore online che permette alle aziende della filiera alimentare di stimare rapidamente e in maniera personalizzata i benefici economici e ambientali derivanti dall’uso di PìFresc per conservare frutta e verdura. Il Frescometro guida gli utenti attraverso nove semplici step per calcolare l’impatto di PìFresc. Il percorso prevede l’inserimento di informazioni come: il tipo di frutta, il volume movimentato in un anno, il prezzo medio di vendita, la tecnica di produzione, il tipo di contenitori utilizzati, il metodo di conservazione; la percentuale di perdite inventariali, la quantità di merce rifiutata dai clienti, e la destinazione della merce rifiutata. Una volta completati i passaggi, il calcolatore restituisce una serie di dati che mostrano i benefici concreti: quantità di frutta salvata, profitto aggiuntivo, litri d’acqua risparmiati e riduzione delle emissioni di CO2.Vogliamo diventare un punto di riferimento nel settore di packaging attivi per alimenti freschi. Infatti, il nostro team di Ricerca e Sviluppo è continuamente alla ricerca di nuove soluzioni e innovazioni nel campo seguendo le tendenze di consumo, regolamentare e di produzione”. Il team di Agreenet è composto da giovani under30 con esperienza nell’analisi degli alimenti, nello sviluppo di biomateriali, nell’agronomia e nella gestione di progetti complessi. Attualmente, la startup sta raccogliendo capitali da fondi di venture capital per avviare la produzione e la commercializzazione, oltre a sviluppare nuove tecnologie a supporto della filiera agroalimentare. Un approccio che conferma la filosofia di innovazione continua. LEGGI TUTTO