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    Il chiurlo dal becco sottile è stato dichiarato estinto

    Non lo potranno ammirare più, gli appassionati di birdwatching, mentre volteggia nel cielo. Dovranno accontentarsi di osservarlo in qualche illustrazione o in qualche foto, magari sbiadita dal tempo. Il chiurlo dal becco sottile o chiurlottello (Numenius tenuirostris), un uccello migratore costiero, alto una quarantina di centimetri, con collo chiaro e macchie scure rotondeggianti su petto e fianchi, è stato dichiarato quasi certamente estinto (la probabilità è del 96%). Lo ha reso noto un recente studio pubblicato sulla rivista Ibis e condotto da scienziati della Royal society for the protection of birds, del Bird life international, del Naturalis biodiversity center e del Natural history museum di Londra. Il volatile, intercettato l’ultima volta a metà degli anni Novanta, era solito riprodursi in Asia centrale e Siberia meridionale, attraversare l’Europa orientale e centrale, per poi svernare nelle zone umide attorno al bacino del Mediterraneo.

    Dall’espansione agricola alla caccia
    Come sottolineano gli autori della ricerca, è probabile che il declino del chiurlottello sia attribuibile a vari fattori. Tra questi, l’espansione agricola che ha ridotto l’habitat nei luoghi di riproduzione e nei siti di sosta, le bonifiche estensive delle aree con elevata umidità, la lentezza riproduttiva che ha reso difficile il recupero della loro popolazione. A ciò si sarebbero poi sommati inquinamento, malattie, predatori, cambiamenti climatici. Tuttavia, determinante per l’estinzione è stata la caccia, che in Italia si è concentrata soprattutto in Puglia e in Toscana, favorita dal fatto che il chiurlo non temeva gli umani ed era pertanto avvicinabile con facilità. “è probabile che, con la rarefazione della specie, sia aumentata la richiesta di pelli da collezione, che ha aggravato la pressione. In pratica, più il chiurlottello andava in crisi, più diventava appetibile per le doppiette dei cacciatori, con ulteriore aggravio della situazione, fino al tracollo”, spiega Danilo Selvaggi, presidente della Lega italiana protezione uccelli (Lipu).

    Biodiversità

    Un albero su tre è a rischio estinzione, come l’abete delle Madonie

    di  Fabio Marzano

    04 Novembre 2024

    Un declino annunciato
    Al di là delle molteplici, possibili cause, il declino della specie era evidente già all’inizio del secolo scorso. Un rapporto del 1912 metteva in luce il calo della popolazione, diventata gradualmente così esigua da far temere l’estinzione negli anni Quaranta. Nel 1988 il chiurlottello è stato classificato come minacciato. Gli ultimi esemplari sono stati avvistati nel 1995 nella laguna di Merja Zerga, in Marocco. Un anno dopo, nel 1996, è stato sviluppato un piano d’azione per la conservazione del chiurlo. Troppo tardi. Inutili gli sforzi compiuti dagli esperti per rintracciarlo, come racconta Alex Bond, responsabile del settore uccelli del Natural history museum: “Quando l’uccello ha smesso di tornare al suo principale sito di svernamento, si è cercato di localizzarlo nelle aree di riproduzione. Tante spedizioni, molte ricerche per centinaia di migliaia di chilometri. Purtroppo, nessun risultato”.

    Altri uccelli minacciati
    La perdita del chiurlo dal becco sottile suona come un cupo avvertimento: nessun uccello è immune dall’estinzione. Secondo la Lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (International union for the conservation of nature, Iucn), a livello globale dal Cinquecento a oggi si sono estinti 164 uccelli. Tra quelli attualmente minacciati si annoverano quattro delle sette specie di chiurlo rimaste, i piovanelli (Caldris alpina) e i pivieri pancianera (Pluvialis squatarola). Il chiurlo eschimese (Numenius borealis) è in pericolo critico (probabilmente estinto).

    Inquinamento

    Dal fegato allo stomaco, microplastiche nel 66% delle gazze marine trovate morte nel Tirreno

    di  Pasquale Raicaldo

    02 Ottobre 2024

    Una cattiva notizia per una buona azione
    L’auspicio è che le cattive notizie come questa possano innescare buone azioni, improntate alla conservazione delle specie più a rischio. “Gli uccelli migratori collegano le nazioni”, sottolinea Nicola Crockford, ricercatrice della Royal society for the protection of birds. “I provvedimenti di alcuni Paesi per conservare una specie possono essere indeboliti dalle azioni dannose di altri. Come la quantità di carbonio nell’atmosfera è indice dell’impegno internazionale per combattere il cambiamento climatico, lo stato delle specie migratorie rappresenta un indicatore degli sforzi globali per conservare la biodiversità. L’estinzione del chiurlo dal becco sottile costituisce un appello ad agire urgentemente in favore della natura, così come inondazioni, incendi, siccità sono appelli per un’azione a favore del clima”. Selvaggi conclude: “La morte del chiurlottello è per le società umane un fallimento. È una piccola morte del mondo, che fa male a tutti”. LEGGI TUTTO

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    Tutte le varietà del castagno e come coltivarlo

    Il castagno è un albero che si colloca generalmente tra i 200 e 900 metri di altitudine, tra collina e montagna. Questa pianta della famiglia delle Fagaceae si presenta con caratteristiche uniche e può essere coltivata nei boschi con estrema cura.

    Le caratteristiche del castagno
    Quando si pensa al castagno non si può fare a meno di menzionare una pianta alta e imponente: infatti, parlando proprio di caratteristiche del castagno, possiamo dire che questo albero è in grado di raggiungere dai 10 ai 30 metri di altezza. Si tratta di una pianta anemocora, ovvero che viene impollinata grazie all’azione svolta dal vento, che è in grado di offrire in autunno dei deliziosi frutti. Guardando il fusto del castagno, è possibile notare che la corteccia è liscia e lucida, di un colore tra il grigio e bruno.

    Le foglie del castagno sono alterne e si presentano con una consistenza coriacea e lucida. I fiori della pianta, visibili in giugno, sono unisessuali e sono diversi tra di loro: gli esemplari maschi sono piccoli e sono formati da ameni eretti, lunghi tra i 5 e 15 centimetri. I fiori femmina spesso sono raggruppati in 2-3, anche se a volte ve ne sono alcuni isolati. I frutti di questa pianta, cioè le castagne, si presentano come un achenio con un pericarpo di colore marrone, lucido all’interno.

    La castagna ha un lato piatto e un lato convesso che sono definiti pancia e dorso. Al termine del frutto vi è un piccolo ciuffo chiamato torcia, mentre la parte opposta di colore chiaro è detto ilo. Questi frutti sono custoditi all’interno di un involucro pieno di spine (il riccio) che, a maturità corretta, cade dalla pianta lasciando a vista i frutti. I frutti si possono raccogliere tra settembre e ottobre. Per quanto riguarda la temperatura gradita dal castagno, possiamo dire che l’albero sopporta bene il freddo (fino a -25°C), ma con temperature troppo elevate, superiori ai 32°, si possono verificare dei problemi come una caduta eccessiva delle foglie. Nei casi peggiori, la pianta può addirittura morire.

    Le varietà del castagno
    Esistono veramente tante varietà di castagno e, prima di acquistare quella che si desidera, è necessario tenere a mente i quattro gruppi varietali: castagne, marroni, ibridi euro-giapponesi e giapponesi. Ecco le caratteristiche principali di questi gruppi varietali:

    Castagne: questo gruppo contempla tantissime varietà e derivano tutte dal castagno europeo. I frutti che sono proposti sul mercato si presentano di pezzatura diversa e tra le varietà più note ci sono: castagna della Madonna di Canale d’Alba, Bracalla, Garrone rosso, Pistoiese…
    Marroni: anche questo gruppo è possibile trovare diverse varietà che danno origine poi a piante con frutti differenti di dimensione medio-grossa. Tra le più diffuse citiamo le seguenti: Marrone di Viterbo, Marrone di Marradi, Marrone di Castel del Rio, Marrone di Susa, Marrone di S. Mauro di Saline…
    Ibrido Euro-Giapponese: si tratta di un incrocio ottenuto tra la pianta europea del castanea sativa e quella giapponese castanea creanata. Si possono trovare anche nel nostro paese, poiché importanti negli anni ’70. Alcune di queste varietà sono molto resistenti a malattie come il cancro della corteccia. Lo sviluppo è ridotto e consente di avere terreni con più piante. La raccolta dei frutti inizia a settembre, prima delle castagne e dei merrani.
    Giapponese: il Tanzawa e Ginyose sono sicuramente le varietà più note di questo gruppo. Lo sviluppo di queste piante è ridotto e l’attività di produzione dei frutti va dal terzo anno dall’impianto. La raccolta di questi frutti avviene tra agosto e i primi del mese di settembre.

    La coltivazione in vaso
    La coltivazione del castagno in vaso, in realtà, non è per sempre: infatti, le fasi in cui è possibile prendersi cura di questa pianta direttamente in un contenitore di questo tipo è al momento della semina. Successivamente, quando l’alberello inizia a crescere e si ottiene un piccolo arbusto è necessario occuparsi della piantumazione. Solo in questo modo il castagno riesce a dare il meglio di sé, fiorendo e offrendo frutti nella giusta quantità.

    La piantumazione e il terreno ideale
    Se si dispone di piccoli arbusti si può procedere con la piantumazione del castagno in aree adatte. La prima cosa da tenere a mente è che le piante devono essere collocate distanti tra di loro di circa 10-15 centimetri. Lo sviluppo degli arbusti avverrà senza alcun impedimento e le fronde avranno anche la possibilità di crescere e far passare tra le foglie il giusto quantitativo di aria. Il terreno dovrà essere sciolto, ma al tempo stesso ricco di sostanze nutritive; per quanto riguarda l’irrigazione, sarà importante occuparsene attentamente fino a quando lo sviluppo non sarà completo. Inoltre, è importante potare le piante in maniera regolare.

    La coltivazione e la cura dell’albero
    Occuparsi della coltivazione e della cura corretta del castagno significa considerare alcuni aspetti importanti come l’irrigazione e la concimazione. Iniziamo dicendo che le annaffiature di questa pianta devono essere periodiche, specie durante l’estate e quando le temperature salgono in maniera importante. Per quanto riguarda la concimazione, invece, è possibile utilizzare dei prodotti indicati proprio per gli arbusti con frutti oppure preparare degli infusi o decotti ricchi di potassio e fosforo. Questi due elementi sono importanti per la pianta, dato che permettono uno sviluppo corretto. Sono suggeriti anche il compost di letame e stallatico maturo. Un altro aspetto rilevante per la cura del castagno riguarda la potatura. È fondamentale eseguirla con frequenza, giacché in questo modo si possono tenere sotto controllo le fronde, alleggerendo i rami e favorendo la fioritura.

    Malattie e parassiti
    Tra le malattie più comuni in cui l’albero di castagno può incorrere vi sono quelle caratterizzate dall’attacco dei funghi. Il castagno è soggetto all’oidio, al cancro della corteccia, alla ruggine e al marciume del colletto. Alcuni parassiti, invece, possono far sorgere altri problemi come il cancro nero, le carie del legno, il corineo e il marciume della polpa dei frutti. Il ragnetto rosso è senz’altro uno tra i parassiti più pericolosi per un castagno: è fondamentale occuparsi accuratamente della pulizia del bosco dove è stato collocata la pianta, così da evitare la proliferazione di insetti dannosi per il castagno e per i suoi frutti. LEGGI TUTTO

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    La Niña potrebbe arrivare presto e portare freddo e neve ma sarà debole e breve

    Sì, potrebbero essere un inverno e un inizio primavera più freddi del solito e no, per rispondere agli scettici sul riscaldamento globale, ciò non ha a che fare con la crisi del clima. Dopo che nei mesi scorsi il fenomeno naturale di El Niño si è esaurito, portando precedentemente a temperature decisamente elevate in varie zone del globo, ora secondo il WMO (World Meteorological Organization) dopo un lungo intervallo “neutro” potrebbe presto subentrare il suo fenomeno opposto, La Niña.

    Secondo i modelli elaborati dagli scienziati La Niña potrebbe infatti manifestarsi nei prossimi tre mesi, in particolare tra febbraio e inizio aprile 2025, portando – con ripercussioni che si faranno sentire anche in Europa – ad un generale abbassamento delle temperature. Già a breve, per l’influenza di vortici polari, in alcune zone del Vecchio Continente sono previsti forti abbassamenti delle temperature ma la formazione de La Niña è attesa un po’ più in là, tra metà inverno e inizio primavera. Questo fenomeno naturale che si verifica quando le temperature della superficie del mare nell’Oceano Pacifico centrale e orientale scendono al di sotto della media (condizione opposta alla fase calda di El Niño) è già stato sperimentato di recente per un periodo che andava dal 2020 sino a parte del 2023. Ora, dicono i modelli, potrebbe formarsi nuovamente ma secondo le indicazioni del WMO sarà relativamente “debole e di breve durata”.

    In generale La Niña porta temperature più fredde soprattutto sull’Europa occidentale e condizioni più umide e gelide per esempio sulle Alpi, con la possibilità anche di nevicate più abbondanti, opzione fortemente attesa sia per la carenza di risorse idriche, sia per la stagione turistica legata allo sci. Attualmente, nel passaggio tra i due fenomeni naturali opposti, siamo in una fase neutra: entrambe le previsioni di alcuni dei centri meteorologici più importanti stimano però come tra dicembre 2024 e febbraio 2025 ci siano buone probabilità di “transizione” verso appunto La Niña. Per il WMO questa probabilità è di almeno il 55%, per il NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) c’è un 57% di probabilità che La Niña si formi già in questo periodo impattando soprattutto tra i mesi di gennaio e marzo. Da aprile, per entrambi i centri, dovremmo tornare a condizioni neutrali.

    Clima

    La fine di El Niño è arrivata. Ci darà un’estate meno calda? Se non succede abbiamo un problema

    di Giacomo Talignani

    16 Aprile 2024

    Come ricordano dal WMO però non è facile comprendere – soprattutto dopo un 2024 anno da record come temperature medie globali elevate – che impatti questo fenomeno avrà dato che “si verifica nel contesto più ampio del cambiamento climatico indotto dall’uomo, che sta aumentando le temperature globali, aggravando condizioni meteorologiche e climatiche estreme e influenzando i modelli stagionali di precipitazioni e temperature”. Come spiega Celeste Saulo, segretario generale del WMO, “l’anno 2024 è iniziato con El Niño ed è sulla buona strada per essere il più caldo mai registrato. Anche se si verificasse un evento La Niña, il suo impatto di raffreddamento a breve termine non sarebbe sufficiente a controbilanciare l’effetto riscaldante dei gas serra che intrappolano il calore record nell’atmosfera. E anche in assenza delle condizioni di El Niño o La Niña da maggio, abbiamo assistito a una straordinaria serie di eventi meteorologici estremi, tra cui piogge record e inondazioni che purtroppo sono diventate la nuova norma nel nostro clima che cambia”.

    Per capire se, come e quando La Niña si farà sentire gli esperti stanno monitorando le temperature della superficie del mare del Pacifico equatoriale centro-orientale: da fine novembre sono leggermente al di sotto della media, motivo per cui si crede che il fenomeno inizierà a breve, anche se “tuttavia questo raffreddamento non ha ancora raggiunto le soglie tipiche de La Niña”. Già da inizio del nuovo anno si attendono preziose indicazioni per comprendere sviluppi ed impatti a livello globale e nel frattempo, in Italia così come in alcune zone d’Europa, il meteo per questo dicembre e Natale secondo le ultime previsioni sembra altalenante: lungo lo Stivale ad esempio piogge e rovesci sino a domenica 15 sulle isole maggiori e al centro-sud poi. dal 16 al 20, condizioni in generali miti (per il periodo) grazie all’anticiclone. Per Natale invece regna incertezza: per via di vortici che comporteranno una forte dinamicità, non è ancora chiaro se ci aspetta più freddo, quello che molto probabilmente già da fine gennaio potremmo sperimentare appunto con La Niña. LEGGI TUTTO

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    Le specie aliene “emigrano” per evitare l’estinzione

    Lo hanno già battezzato come il conservation paradox, il paradosso della conservazione. In grado, potenzialmente, di modificare la reputazione, per dirla in termini di marketing, che le specie invasive hanno tra gli scienziati e, soprattutto, nell’immaginario collettivo. Dal famigerato granchio blu alla rana toro americana, dall’ibis sacro alla nutria, passando per il muflone e il visone, che si sono diffusi nell’Europa centrale: sono tra le principali cause di perdita di biodiversità e dei servizi ecosistemici. Di più: sono considerate in parte responsabili, nel 60% dei casi, dell’estinzione delle specie che negli ultimi decenni hanno alzato bandiera bianca. I danni legati alla loro diffusione superano globalmente i 423 miliardi di dollari all’anno (12 miliardi nella sola Europa); in Italia quelli da granchio blu sono stati stimati in 100 milioni di euro.

    Ma un nuovo studio delle università di Vienna e La Sapienza di Roma, pubblicato sulla rivista “Conservation Letters”, prova ora a raccontare la storia delle loro invasioni secondo una prospettiva in parte inedita: a volte, infatti, le specie aliene sono a loro volta minacciate nel loro areale di riferimento. E allora ad animare la ricerca è stata una domanda all’apparenza semplice: devono essere sempre “gestite” – con tecniche volte al ridimensionamento delle popolazioni o addirittura alla loro eradicazione – specie non autoctone, se realmente in pericolo nell’area dalla quale provengono? Di qui, la presa in esame di 230 differenti specie di mammiferi non autoctoni introdotti dall’uomo in nuove aree, in giro per il mondo, e stabilitesi in modo permanente. “Volevamo soprattutto scoprire quante di queste specie fossero minacciate anche nel loro areale nativo”, spiega Lisa Tedeschi dell’Università La Sapienza e dell’Università di Vienna, principale autrice dello studio. In 36 casi, le specie sono ad oggi risultate minacciate. Ecco il paradosso: specie diventate comuni nei nuovi areali, eppure fatalmente a rischio nei loro paesi d’origine.

    Tra loro, il cinopiteco, o macaco crestato: la sua popolazione, nel suo areale naturale a Sulawesi, un’isola indonesiana tra il Borneo e le Molucche, è diminuita dell’85% dal 1978, mentre nelle altre isole dell’Indonesia le sue popolazioni sono assolutamente stabili. E se il coniglio selvatico è in pericolo in Europa, in Australia se la passa decisamente bene, con popolazioni assai più consistenti. L’esempio più emblematico, secondo i ricercatori, riguarda però l’Asia tropicale, minacciata dal bracconaggio e dalla massiccia deforestazione: alcune delle specie che proliferano altrove, lì potrebbero estinguersi. Tra loro, il banteng, o bovino della Sonda, e il sambar dalla criniera, una specie di cervo. O, ancora, il pademelon scuro, un marsupiale. In alcuni di questi casi, la classificazione Iucn migliorerebbe, in tutti questi casi, se si considerassero le popolazioni aliene, più o meno accidentalmente spostate dall’uomo lontano da ‘casa’. “Il punto – aggiunge Tedeschi – è che il numero delle specie a rischio estinzione è destinato a crescere nei prossimi anni, complici i cambiamenti climatici, l’inquinamento e, probabilmente, gli effetti dell’overtourism. Nel nostro studio abbiamo indagato tra i mammiferi, ma abbiamo motivo di credere che un approccio analogo aiuti a leggere anche tra specie aliene ed invasive negli uccelli, negli anfibi, nei rettili e nelle piante”.

    “Valutare opportunità e rischi”
    Quando si valuta il rischio di estinzione globale, le popolazioni aliene (quindi che non vivono nel loro areale nativo) delle specie non vengono attualmente prese in considerazione. “Eppure per il 22% delle specie analizzate, il rischio di estinzione globale si ridurrebbe se si includessero nella valutazione anche le popolazioni non autoctone”, spiega il naturalista Franz Essl dell’Università di Vienna, tra gli autori dello studio. Morale della favola? Le popolazioni aliene di specie minacciate potrebbero avere un’importanza sin qui sottovalutata, in particolare per la sopravvivenza delle specie in via di estinzione e soprattutto quando nell’areale dal quale provengono c’è una minaccia concreta alla loro sopravvivenza. C’è, però, la questione – tutt’altro che marginale – degli equilibri degli ecosistemi, che risentono naturalmente delle cosiddette bioinvasioni. “Va da sé che l’attenzione principale debba continuare a essere rivolta alla protezione delle specie nel loro areale nativo – spiega Essl – tuttavia, è probabile che in futuro ci saranno più specie minacciate di estinzione nel loro areale nativo e che avranno maggiori possibilità di sopravvivenza nei nuovi habitat. Ciò pone la conservazione della natura di fronte al difficile compito di soppesare opportunità e rischi”.

    E se il granchio blu non avesse scelta?
    Un compito dal quale non ci si può sottrarre. E lo studio lascia certamente in dote nuove riflessioni su un dibattito sempre vivo, soprattutto in un Paese – l’Italia – che continua a interrogarsi sui metodi di contenimento per il gambero rosso della Louisiana, Procambarus clarkii, nei fiumi del Nord Italia o, ancor di più, per il granchio blu, Callinectes sapidus, di cui si è molto scritto negli ultimi mesi. “Lo studio delle università di Vienna e La Sapienza è molto interessante. – spiega Francesco Tiralongo, ricercatore dell’università di Catania, all’attivo diversi progetti sulle specie aliene e invasive – Nonostante il granchio blu sia ormai una delle specie più invasive del Mediterraneo, per esempio, nella sua area nativa – vale a dire lungo le coste atlantiche americane – molte popolazioni sono state messe in ginocchio dall’overfishing. Questo paradosso evidenzia proprio come da un lato una cattiva gestione delle risorse naturali possa portare al collasso di una specie, mentre dall’altro, fuori dal proprio areale nativo, una specie può esplodere demograficamente grazie, ad esempio, all’assenza di predatori naturali e a condizioni ambientali favorevoli. È un chiaro esempio di come una gestione adeguata su base scientifica sia fondamentale per evitare questi squilibri”. LEGGI TUTTO

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    Con piste da sci sempre più in quota a rischio gli habitat degli animali d’alta montagna

    Una pista da sci su tre minaccia i cosiddetti “rifugi climatici” delle specie d’alta quota, le preziose aree dove la biodiversità alpina è fatalmente indirizzata dalle conseguenze del global warming. Entro pochi decenni, i due terzi di questi potenziali scrigni di biodiversità saranno occupati dalle strutture adibite al divertimento dell’uomo nel periodo invernale. Nella lunga vigilia delle olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026, arriva da uno studio di Lipu e Università degli Studi di Milano, appena dalla rivista internazionale “Biological Conservation” un nuovo campanello d’allarme per gli animali d’alta quota, in primis pernice bianca e fringuello alpino: a minacciarli stavolta sono le stazioni sciistiche, con le quali le specie dovranno coesistere in aree che diventeranno sempre più cruciali negli scenari futuri, complice la crisi climatica in atto. Il perché è presto detto: se salgono di quota gli animali, alla ricerca di temperature in linea con la loro etologia, lo faranno anche le piste da sci, alla ricerca di neve naturale o delle condizioni ideali per la neve artificiale. E ci sarà posto per gli uni e le altre? Non secondo i ricercatori: “le nuove piste – è la previsione dello studio – andranno a sovrapporsi sempre più ai rifugi climatici, creando una situazione di potenziale e pericoloso conflitto con la conservazione degli habitat e delle specie più minacciati dai cambiamenti climatici”.

    Sull’aumento della sovrapposizione tra sci alpino e biodiversità d’alta quota i dubbi sono pochi: considerando le aree idonee per le piste da sci, si passerà dall’attuale 57% della superficie dei rifugi adatta alla realizzazione di piste, al 69%-72% del periodo 2041-2070. “Al momento – ribadisce lo studio – già una pista su tre minaccia un rifugio climatico, e in futuro questa situazione non potrà che peggiorare in assenza di adeguate politiche di indirizzo a causa dei cambiamenti climatici”.

    La giornata internazionale

    Crisi climatica, perché abbiamo bisogno di azioni urgenti per la montagna

    di Zhimin Wu (FAO)

    11 Dicembre 2024

    “Proteggere le montagne per proteggere la biodiversità”
    La fragilità di sistemi ed ecosistemi di montagna è, del resto, uno dei grandi temi della contemporaneità. “Non possiamo permetterci, nella fase di crisi climatica che stiamo attraversando, di compromettere ulteriormente le nostre montagne, che garantiscono l’approvvigionamento idrico per le metà della popolazione mondiale che ci vive – dice Francesca Roseo, dottoranda in Scienze Ambientali presso l’Università Statale di Milano e prima autrice dello studio – Gli ecosistemi montani, molto diversificati in relazione alle condizioni climatiche, edafiche (suolo) e topografiche, sono molto sensibili al cambiamento climatico, al turismo di massa e allo sfruttamento delle loro risorse. Comprometterli vuol dire incidere sulla loro funzionalità e capacità di fornire servizi ecosistemici, mettendo a rischio la qualità della vita, quando non la sopravvivenza stessa, di molte persone anche in pianura.

    “Questa fotografia delle Alpi – prosegue – deve dettare rapide azioni concrete. Non si tratta solo di proteggere specie iconiche come la pernice bianca, ma anche le nostre società, che dipendono da ecosistemi in salute, in grado di fornire beni e servizi imprescindibili. Come? Trovando soluzioni alternative al passato per mantenere l’economia di valle senza compromettere gli ecosistemi montani”. “Registriamo, in montagna, un tasso di riscaldamento superiore alla media e drastiche modifiche del paesaggio dovute al cambiamento climatico e alle attività umane – annota Claudio Celada, Direttore Conservazione di Lipu/BirdLife Italia – Gli sport invernali sono spesso praticati in fragili ecosistemi alpini, anche essi vulnerabili ai cambiamenti climatici e rischiano di incidere sempre di più sui rifugi climatici. È necessario valutare le attuali misure di gestione e conservazione di tutte quelle aree rifugio che, pur ricadendo al di fuori delle aree protette, garantiscono la tutela della biodiversità d’alta quota”.

    Cambiamento climatico e specie alpine: quando si perde la “bussola”
    E tra le specie più sensibili alle variazioni climatiche e ambientali ci sono gli uccelli, considerati indicatori importanti della ecosistemica alpina: in luoghi, vale a dire, dove l’elevato tasso di riscaldamento climatico si associa a una forte pressione antropica, come testimoniano le criticità legate al cosiddetto “overtourism”.

    Con l’aumento delle temperature potremmo perdere quasi un terzo delle specie animali

    di Sara Carmignani

    06 Dicembre 2024

    Del resto, profonde modifiche delle abitudini di svernamento e degli areali di distribuzione di diverse specie migratrici sono già state monitorate all’interno di progetti come “Migrandata”, che – utilizzando il monte Cervati, in Campania, come caso di studio – ha certificato il disorientamento degli uccelli di fronte all’innalzamento del limite arboreo. Registrando, per esempio, una graduale anticipazione della partenza dai territori di svernamento per raggiungere prima i quartieri di nidificazione. E non sono poche le specie – ermellini, lepri e pernici bianche in primis – che pagano lo scotto della scarsa presenza di neve, con il paradosso di una muta invernale non sincronizzata con i colori di un inverno tardivo. “Con conseguenze potenzialmente negative, visto che animali bianchi su prati verdi o distese marroni sono più individuabili dai predatori”, annota il naturalista Rosario Balestrieri, presidente dell’associazione Ardea. Gli stessi ermellini, mascotte delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina, sono considerati a rischio: sin qui segnalati sull’arco alpino dai 1000 ai 3000 metri di quota, con una maggiore prevalenza sopra i 2000, stanno vedendo pericolosamente restringersi il loro habitat ideale. E la concorrenza delle piste da sci non sembra favorirli. LEGGI TUTTO

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    “Le nostre isole rischiano di scomparire, i Paesi ricchi devono intervenire”

    Le isole del mondo, soprattutto quelle del Pacifico, sono in estrema sofferenza per la crisi del clima: sono minacciate dai livelli del mare, dall’acidificazione degli oceani, dagli eventi meteo estremi e persino da terreni che diventano “salati” e incoltivabili. Per questo, attraverso un grido d’allarme globale, da anni tentano di avere risposte per il futuro. Una prima fondamentale risposta ai loro problemi potrebbe finalmente arrivare da quello che è definito come “il caso più importante” che sta esaminando la Corte internazionale di Giustizia su spinta della Corte suprema delle Nazioni Unite che porta il caso all’Aia dopo la pressione esercitata dalle isole. Da due settimane all’Aia si sta dibattendo di un caso che avrà come questione centrale la definizione su ciò che i Paesi di tutto il mondo, e in particolare quelli ricchi, sono tenuti a fare per combattere il cambiamento climatico. Ne parliamo con Arnold Loughman, procuratore generale di Vanuatu, lo Stato del Pacifico che, tramite la risoluzione 77/276 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha portato il caso alla Corte.

    Dottor Loughman, ci racconta come questo caso è arrivato fino alla Corte Internazionale di Giustizia?
    “Tutto è nato dagli studenti. In particolare dagli studenti della scuola di legge dell’Università del Pacifico Meridionale di Port Vila, a Vanuatu. Nel 2019 hanno condiviso l’idea di portare la questione climatica più in alto con Ralph Regenvanu, allora ministro degli Esteri e nostro attuale inviato per il clima. Il governo di Vanuatu ha deciso di condividere l’iniziativa con il Forum del Pacifico del Sud (un gruppo regionale che raggruppa diverse nazioni insulari, ndr) che l’ha supportata e portata all’attenzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite”.

    Il caso

    Crisi climatica e aiuti ai paesi vulnerabili: un processo storico alla Corte di Giustizia dell’Aia

    di  Giacomo Talignani

    02 Dicembre 2024

    Durante la dichiarazione di lunedì scorso che ha aperto le audizioni, avete detto che la crisi climatica rappresenta un “pericolo esistenziale” per il vostro Paese. È questo che ha spinto Vanuatu a presentare il caso e a definirlo “il più importante nella storia dell’umanità”?
    “Basta prendere una mappa per immaginare la situazione. Vanuatu è una piccola nazione insulare completamente circondata dall’Oceano Pacifico e alcune delle nostre isole sono interamente sul livello del mare, che sta aumentando a causa del cambiamento climatico. Eventi climatici estremi, come le inondazioni e i cicloni, che eravamo abituati a vedere nell’arco di un secolo o di alcuni decenni, si stanno ripetendo ogni anno. Ma non si tratta solo di questo: un mare più caldo provoca lo sbilanciamento dei coralli, un conseguente minor spazio dei pesci per respirare, e quindi un grosso problema per il settore della pesca, che è centrale nella nostra economia”.

    Negli ultimi anni, soprattutto alle Conferenze sul clima, alcune azioni di rappresentanti degli Stati insulari – come il collegamento a Cop26 da Tuvalu di Simon Kofe con l’acqua sopra le ginocchia o il discorso commovente davanti alla sala stampa di Cop29 del samoano Toeolesulusulu Cedric Schuster – hanno avuto impatto sul negoziato. Le sembra che le vostre voci siano più ascoltate?
    “Il più delle volte alle Cop non vengono prese decisioni. Noi non abbiamo dalla nostra parte il potere e la forza contrattuale per influenzare le negoziazioni. Ed è qui che entra in gioco il diritto internazionale, che è probabilmente l’unico mezzo attraverso cui le piccole isole in via di sviluppo possono farsi valere. In cui noi parliamo e gli altri ascoltano sul serio. In qualità di Procuratore Generale di Vanuatu, il mio dovere principale è quello di sostenere la Costituzione e lo Stato di diritto. I diritti sanciti dalla nostra Costituzione, pensata per garantire la protezione del nostro stile di vita per le generazioni presenti e future, vengono minati – e non dall’interno, ma dalle azioni e dalle omissioni di un piccolo numero di grandi Stati al di fuori dei nostri confini. Il mancato adempimento di questi obblighi da parte dei grandi Stati emettitori, identificati sulla base di prove scientifiche affidabili nelle osservazioni di Vanuatu, costituisce un atto illecito a livello internazionale. Questi Stati non possono sottrarsi dal giudizio della Corte Internazionale di Giustizia”.

    In assenza di un cambio di rotta, le cause legali nei confronti di governi e aziende incapaci di agire di stanno moltiplicando – in Italia sono in corso quella nota come “Giudizio Universale” contro lo Stato e quella di Greenpeace e ReCommon contro Eni. Pensa che le strade legali possano avere successo dove altre hanno fallito?
    “I rimedi giuridici nazionali non sono in grado di affrontare una crisi di tale portata ed entità. Nella prima settimana molti paesi hanno fatto riferimento al caso avanzato dai sei ragazzi portoghesi o alla vittoria delle anziane svizzere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Anche se la Corte di Giustizia non è vincolata da decisioni di questo tipo, speriamo che le tenga in considerazione. Per quanto riguarda i piccoli Stati insulari in via di sviluppo come Tuvalu o Kiribati, dove anche un solo metro di acqua in più potrebbe far scomparire intere isole, una questione che emerge è quella dell’autodeterminazione: se un’isola viene completamente inondata, cosa succede alla gente e al suo diritto di vivere nella propria terra? Vanuatu ha sempre avuto a cuore il tema dell’autodeterminazione. Siamo stati governati sia dalla Gran Bretagna che dalla Francia, abbiamo ottenuto l’indipendenza solo nel 1980. Non è stato facile, ma in qualche modo Vanuatu è riuscita a spezzare la catena del colonialismo”.

    Che giudizio dà alle audizioni che ha sentito finora?
    “Ci sono stati degli alti e dei bassi. Alcuni argomenti agli antipodi, con gli Stati Uniti e la Russia da una parte e le nazioni insulari dall’altra. Ovviamente non è sorprendente, ci aspettavamo posizioni controverse. Il mancato adempimento degli obblighi da parte di un piccolo numero di grandi Stati emettitori costituisce un atto illecito a livello internazionale, che dovrebbe comportare conseguenze giuridiche ai sensi del diritto internazionale della responsabilità degli Stati. Siamo qui per osservare e per aiutare qualora dei paesi avessero bisogno di supporto”.

    L’Italia non è tra i 99 Paesi presenti alle audizioni. Cosa ne pensa?
    “Abbiamo provato a raggiungere quanti più Paesi possibili. Avremmo voluto vederli tutti qui a L’Aia, anche perché è un caso che riguarda tutti. È una decisione che il governo italiano ha preso e ne prendiamo atto”.

    Ha fatto un lungo viaggio per venire fin qui a seguire il caso. Come si sente?
    “Sono qui per rappresentare la mia gente e il mio Paese, Vanuatu, che ha sposato quest’iniziativa e l’ha portata avanti. Come avvocato, finora è stata un’esperienza incredibile. Mi ha dato la possibilità di lavorare con persone da tutto il mondo: diplomatici, scienziati, giuristi, giovani, studenti, politici, rappresentati di altre comunità. Questo caso è un ottimo esempio di cooperazione internazionale e di cammino comune per raggiungere un beneficio per tutti, indipendentemente che tu venga da un piccolo Stato insulare o da una grande nazione sviluppata”. LEGGI TUTTO

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    M91 e la conservazione delle specie selvatiche attraverso l’invisibilità

    Questa volta è toccata a M91. Lo chiamerò semplicemente “Orso”. Sulla vicenda si sono espressi animalisti, WWF, Lega Ambiente, Provincia autonoma di Trento e altre voci, sia contrarie che favorevoli alla decisione di “rimuovere” Orso; tra le favorevoli anche quella di uno zoologo dell’Università di Sassari, esperto di grandi carnivori. Trovate tutto in rete, articoli e interviste. Non troverete però nessun accenno al problema che sta a monte di storie come questa; ovvero, l’equivoco sulla convivenza tra uomo e animali selvatici, che poi è parte dell’equivoco ancora più grande riguardante l’idea che l’uomo ha di sé stesso rispetto al resto della natura.

    L’uccisione di Orso rientra tra le azioni necessarie “per assicurare la tutela della sicurezza e dell’incolumità pubblica”; così recita la legge provinciale numero 9 dell’11 luglio 2018 della Provincia autonoma di Trento. Un’asserzione, quella virgolettata, che mi è sembrata ridondante: non sarebbe bastato dire “assicurare l’incolumità pubblica”? Ma poi ho capito. Non c’è nessuna ridondanza. “Assicurare la tutela” autorizza a intervenire con misure drastiche prima ancora che si debba “assicurare l’incolumità”.

    Pur non aggredendo o minacciando nessuno, Orso ha fatto qualcosa che ha reso più difficile tutelare l’incolumità pubblica, al punto da far scattare la misura preventiva più severa, l’abbattimento. Che cosa, dunque, avrà mai combinato questo cucciolone di due anni?

    Il 27 aprile Orso ha seguito un escursionista per circa un quarto d’ora, prima da lontano e poi avvicinandosi fino a un paio di metri. Non ha però mostrato alcun tipo di aggressività, nemmeno quando lo strano bipede gli ha lanciato dei sassi; evidentemente la sua era solo curiosità. Questa è una nota a favore di Orso, direte voi. Nemmeno per idea.

    Il documento che disciplina la “conservazione” dell’orso bruno nelle aree alpine è il Piano d’Azione Interregionale per la Conservazione dell’Orso Bruno nelle Alpi Centro-Orientali (PACOBACE; consultabile in rete). Stando alla Tabella 3.1 (“grado di pericolosità dei possibili comportamenti di un orso”) del documento, con la sua curiosità Orso si è meritato il grado di pericolosità “T”, ovvero “Orso segue persone”; si tratta del diciottesimo grado di pericolosità sui venti in ordine crescente da “A” a “V” della Tabella 3.1.

    Va detto che la possibilità di abbattere un orso scatta già a partire dal grado di pericolosità “Q” (quindicesimo), che recita: “Orso è ripetutamente segnalato in centro residenziale”. In effetti, dopo l’incontro con il bipede, Orso si è avvicinato più volte ai centri abitati, probabilmente in cerca di cibo nei cassonetti. Ma la Tabella 3.1 parla chiaro e non ammette scusanti: Orso è divenuto troppo pericoloso. Mi chiedo, allora: cosa ci si aspetta che faccia o non faccia un orso per meritare di essere “conservato” anziché “rimosso”?

    In base alla logica della Tabella 3.1 la risposta può essere una sola: deve diventare invisibile. Anche secondo l’esperto di grandi carnivori, gli orsi, per non essere “problematici”, dovrebbero condurre “una vita schiva e riservata nei boschi”, perché così non li vedremo mai”. Lo stesso esperto ha poi espresso parere favorevole sia riguardo alle linee guida del PACOBACE, sia riguardo alla decisione di abbatterlo. Da quello che ho potuto leggere, nemmeno WWF e Lega Ambiente hanno avuto da ridire sui criteri di pericolosità del PACOBACE, salvo lamentarsi del fatto che, nel caso specifico, sarebbe stato possibile prendere misure meno drastiche.

    Al contrario, trovo difficile condividere tali criteri, perché considero assurdo il concetto di “comportamento” su cui si fondano. Senza scomodare Konrad Lorenz, è chiaro che non viene fatto il minimo tentativo di considerare il comportamento degli orsi in quanto tali. La pericolosità che emerge dalla Tabella 3.1 sembra dipendere invece da quanto l’area che l’orso considera il suo territorio si sovrappone alle aree occupate dall’uomo.

    Come fa però un orso a non sconfinare dal lato nostro se ovunque ormai è territorio dell’uomo? Dove non ci sono case, coltivazioni, allevamenti, agriturismi, piste da trekking e da sci ci sarà una baita o un traliccio dell’elettricità. Il grado di pericolosità “F”, per esempio, recita “Orso frequenta le vicinanze di case da monte e baite isolate”. E se fosse la baita “isolata” all’interno dell’areale di una popolazione di orsi a trovarsi nel posto sbagliato e a determinare una situazione di pericolo?

    Se il PACOBACE, come si legge nel titolo, è un piano che mira alla “conservazione” dell’orso bruno, dovrebbe includere anche un elenco di cose da non fare riferito all’uomo e in rispetto alle abitudini e alle esigenze dell’orso. E non mi riferisco a cose tipo “non lasciare cibo nei cassonetti” o “non correre se si avvista un orso”. Intendo delle vere e proprie limitazioni, come il divieto di entrare in un certo perimetro di bosco, o di costruirci una baita o un capanno per la caccia; magari persino prevedere l’abbattimento (se preferite, “la rimozione”) di quelli già esistenti e la definizione di aree de-antropizzate dove è vietato entrare, così da poter “assicurare la tutela della sicurezza e dell’incolumità pubblica”.

    Questo tipo di idee e di soluzioni non piacciono per niente, lo so. Scontentano amministratori locali e cittadini per via dell’impossibilità di utilizzare una parte di territorio e le infrastrutture presenti o realizzabili al suo interno. Già, perché il territorio è una risorsa, ed è nostra. Il pianeta, in fondo, è nostro. È questo il grande equivoco. Vogliamo la baita isolata nel bosco, e siccome vogliamo tutelare-proteggere-conservare-preservare l’ambiente e la biodiversità vogliamo anche l’orso, purché sia invisibile.

    Il grande equivoco, per quanto grande, rimane elusivo ai nostri occhi proprio come vorremmo lo fossero gli orsi. Pensiamo inconsciamente l’ambiente come una dispensa, al punto che nel contesto del Green Deal e della “Strategia UE Biodiversità per il 2030”, che contengono le direttive per la Transizione Verde, l’ambiente viene quantificato in “servizi ecosistemici”; ovvero, in base a quanto vale un pezzo di ecosistema in funzione dei benefici forniti direttamente o indirettamente al genere umano e a sostegno del suo benessere.

    L’idea di quantificare l’utilità economica di pezzi di ecosistema è considerata illuminante oltre che utile dal punto di vista pratico, perché ci dice quant’è importante l’ambiente nell’unico linguaggio che conosciamo, quello del valore monetario. Ma se abbiamo bisogno di questo per tener conto della natura intorno a noi, e se è così che educheremo le future generazioni a dare un valore all’ambiente e alla biodiversità, non credo verranno mai scritte delle regole di convivenza tra uomo e animali selvatici migliori di quelle nella Tabella 3.1.

    Domenico Ridente, geologo e paleontologo del CNR-IGAG, Referente per il Progetto PNRR Biodiversity National Future Center (MUR e Unione Europea) LEGGI TUTTO

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    Notre Dame ricostruita anche grazie alle ghiandaie

    Durante la riapertura della cattedrale di Notre Dame a Parigi, celebrata con la presenza dei leader di tutto il mondo, sono stati fatti decine di ringraziamenti a chi ha reso possibile una ricostruzione così veloce. Eppure, nel delicato equilibrio uomo-natura, ci si è dimenticati chi ha realmente reso possibile tutto ciò: un uccello chiamato Garrulus glandarius, meglio conosciuto come la ghiandaia. La ghiandaia è un uccello dai colori magnifici, con striature azzurre sulle ali, e in Europa, è presente in tantissimi luoghi: non è facile avvistarlo, si muove spesso in coppia, ed è famoso per essere un incredibile magazziniere. Proprio questa sua caratteristica è, di fatto, quella che ha permesso la base per la ricostruzione di Notre Dame, la chiesa il cui il tetto e parte della guglia andarono distrutte cinque anni fa per un incendio.

    Senza farsi notare da altri esemplari, ogni ghiandaia è incredibilmente attiva nello stipare cibo in eccesso, soprattutto le ghiande che fanno parte di almeno metà della sua dieta, da qualche parte sotto il suolo o nei pressi della corteccia degli alberi, a volte anche 20 chilometri lontano da dove ha raccolto i semi. Accumula provviste tutto l’anno e soprattutto a fine estate: il suo obiettivo è avere abbastanza da mangiare per l’inverno. Ogni anno un singolo uccello può mettere da parte anche oltre mille ghiande. Per ricostruire Notre Dame nel modo più fedele possibile alla struttura gotica del XII secolo i francesi hanno deciso di utilizzare come materiale principale il legno. Un legno che però, nella maggior parte dei casi, doveva provenire da determinati alberi, come le querce secolari. Queste piante che possono vivere oltre cent’anni sono fondamentali: all’interno degli ecosistemi forestali permettono la vita di 1.500 specie animali e vegetali e nei boschi francesi sono considerati dei pozzi di carbonio unici per la funzione di cattura della CO2. Toccare le querce, pensare di tagliare, è quindi una questione complessa, legata anche a protezione e vincoli. Tant’è che quando la Francia ha annunciato che sarebbero state abbattute quasi 2000 querce secolari francesi per il progetto di Notre Dame ci sono state forti polemiche nel Paese, tanto che è dovuta intervenire l’International Oak Society spiegando che il costo in termini di emissioni di carbonio sarebbe stato molto più basso usando il legno di questi alberi rispetto all’utilizzo di acciaio e cemento.

    Se però è stato possibile utilizzare quelle querce per ricostruire tetto e guglia, di fatto lo si deve proprio alle ghiandaie: sono loro che nelle foreste francesi piantano ogni anno quasi due miliardi di ghiande. Metà delle ghiande che stoccano per fare scorta di cibo, non vengono poi mangiate: da quei semi nasceranno dunque le future querce. L’associazione francese Quercus et Garrulus ha raccontato che la maggior parte delle querce usate per la ricostruzione infatti non era stata piantata dall’uomo, ma proprio dalle ghiandaie. Si stima che quasi il 60% delle giovani querce francesi sia frutto del lavoro di questi animali: la stessa cosa vale anche per altri Paesi dove, come in Inghilterra, più della metà degli alberi nei nuovi boschi sono proprio nati grazie al lavoro delle ghiandaie e non grazie ai semi piantati dai proprietari dei terreni.

    Ecco perchè, nella ricostruzione di Notre Dame, alle ghiandaie andrebbe un ringraziamento speciale: sono loro che hanno permesso l’espansione del “re della foresta” e garantito, insieme alle stesse querce, quella biodiversità che oggi stiamo perdendo ma che è stata fondamentale anche nel ricostruire un pezzo di storia come Notre Dame. Proprio per questa capacità unica delle ghiandaie, tale da permettere l’adattamento delle querce in nuove aree, Quercus et Garrulus ha anche creato il sistema chiamato SAGE “Jay-Assisted Seeding”: contenitori per le ghiande, piazzati in punti chiave, che possono incentivare ulteriormente la semina. Dai primi esperimenti le ghiandaie che hanno avuto accesso a SAGE hanno già piantato querce addirittura a “centinaia di chilometri di distanza” rispetto ai loro habitat attuali. E non vale solo per le querce: anche per castagne, faggi e altre specie. LEGGI TUTTO