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    Più arsenico nel riso a causa del cambiamento climatico

    La crisi climatica, oltre che con ondate di calore, eventi estremi e ridistribuzione di piante e animali, rischia di produrre effetti meno visibili, ma pericolosi. Secondo una recente analisi pubblicata sulle pagine di Lancet Planetary Health l’aumento delle temperature e dell’anidride carbonica potrebbe infatti portare ad un preoccupante aumento di tumori, malattie cardiovascolari e metaboliche dovuto all’innalzamento dei livelli di arsenico nel riso. Alimento in cima alla lista dei cibi più consumati al mondo.

    Biodiversità

    Il giallo della moria delle api, negli Usa a rischio agricoltura e miele

    03 Aprile 2025

    L’arsenico, è noto, è tossico, soprattutto nella sua forma inorganica, ricordano dall’Istituto superiore di sanità. Oltre che dalle esposizioni professionali e dal consumo di tabacco, possiamo assumerlo attraverso acqua e cibi, e quelli più a rischio sono i cereali, come il riso appunto. Con rischi per la salute che vanno da patologie metaboliche, a un aumentato rischio di alcuni tumori (soprattutto pelle, polmone e vescica) e malattie cardiovascolari, aborti spontanei e diminuzione del peso alla nascita, malattie respiratorie e renali, spiegano dall’Efsa. E c’è ragione di credere che in futuro questi effetti possano manifestarsi con più forza.

    La legge

    In arrivo un decreto per limitare l’inquinamento da Pfas dell’acqua potabile

    28 Marzo 2025

    La ricerca in Cina
    Il motivo, scrivono Lewis Ziska della Columbia University e colleghi, è che fattori come l’aumento delle temperature e delle emissioni possono aumentare le concentrazioni di arsenico nel riso. Alcuni ricercatori in passato avevano già evidenziato delle possibili criticità, ma gli scienziati hanno deciso di approfondire, conducendo esperimenti sul campo. Lo hanno fatto in Cina, nella regione del delta del fiume Azzurro, dove sono state allestite piattaforme per questo studio (note come Free-Air Carbon dioxide Enrichment). Grazie all’utilizzo di tubature e sistemi di riscaldamento a infrarossi i ricercatori sono riusciti a simulare gli effetti derivanti dall’aumento sia di anidride carbonica che delle temperature, valutando diverse condizioni. Gli esperimenti sono durati una decina di anni e hanno riguardato diverse varietà di riso.

    Le microplastiche mettono a rischio la fertilità femminile

    28 Febbraio 2025

    I risultati
    I dati sono poco rincuoranti, soprattutto quando combinati con i livelli di consumo di riso per i principali paesi asiatici, usati per stimare eventuali effetti sulla salute delle persone. Come riportano nel loro studio, infatti, un aumento di anidride carbonica di 220 ppm (parti per milione) e delle temperatura di 2°C contemporaneamente, causerebbe un aumento dei livelli di arsenico inorganico nel riso in diverse varietà. Le potenziali conseguenze sono state stimate in milioni di casi di tumori in più entro il 2050, cui si aggiungerebbero quelli derivanti dagli aumentati rischi per tutte le altre patologie non oncologiche, quali diabete, infarti, disordini neurocognitivi e problemi in gravidanza e alla nascita.

    L’adattamento climatico
    “Documentando questo impatto e identificando contemporaneamente i meccanismi dell’aumento dell’accumulo di arsenico nel riso – si legge nel paper – la nostra ricerca apre la strada all’individuazione di interventi di adattamento climatico volti a migliorare la sicurezza del riso quale alimento di base”. Questi interventi, suggeriscono, dovrebbero essere indirizzati a impedire l’accumulo di arsenico nel riso, agendo sul terreno stesso. La temperatura e l’anidride carbonica infatti, spiegano gli autori, favoriscono una serie di alterazioni nel suolo, nelle piante e nella comunità microbica locale che aumentano la concentrazione di arsenico nel riso da ultimo. Le ipotesi per affrontare il problema sono diverse, e vanno da tecniche di miglioramento delle piante di riso a una modifica nelle pratiche di gestione dei terreni usati per le risaie. Ha concluso il professor Ziska: ”Queste misure, insieme a iniziative di sanità pubblica incentrate sull’educazione dei consumatori e sul monitoraggio dell’esposizione, potrebbero svolgere un ruolo fondamentale nel mitigare l’impatto sulla salute dei cambiamenti climatici legati al consumo di riso”. Il cibo più popolare al mondo. LEGGI TUTTO

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    Batterie all’uranio impoverito per stabilizzare l’energia accumulata grazie alle rinnovabili

    Uranio impoverito. Due parole tradizionalmente funeste, che fanno pensare ad armi terribili, radioattività pericolosa, inquinamento inestinguibile. Ma forse c’è anche dell’altro. Un gruppo di scienziati giapponesi, della Japan Atomic Energy Agency (Jaea) ha recentemente messo a punto una batteria ricaricabile a base di uranio impoverito, per l’appunto, che – dicono – potrebbe coadiuvare gli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, in particolare vento e sole, a “stabilizzare” la produzione, sostituendo le tradizionali batterie agli ioni di litio. In questo modo, proseguono gli inventori del dispositivo, si otterrebbe anche il beneficio di trasformare delle pericolose scorie nucleari in preziose risorse per l’industria.

    Come dovrebbe funzionare
    Effettivamente di uranio impoverito in giro per il mondo ce n’è parecchio. Le centrali nucleari giapponesi, per esempio, hanno lasciato in “eredità” 16mila tonnellate del materiale, e gli Stati Uniti ne conterrebbero addirittura 750mila tonnellate. Si tratta di un “sottoprodotto” delle reazioni di fissione, debolmente radioattivo ma molto tossico, in particolare per i reni: in virtù della sua alta densità, viene utilizzato sia dall’industria nucleare che in campo bellico, dove se ne fanno proiettili perforanti, che medico, dove serve alla realizzazione di schermature antiradiazioni. E forse, tra non molto, finirà anche nelle batterie.

    Il rapporto

    Italia rimandata in materia di transizione: bene le rinnovabili male la decarbonizzazione

    di Luca Fraioli

    22 Aprile 2025

    Il prototipo
    Al momento, la Jaea non ha pubblicato alcun documento dettagliato sul dispositivo messo a punto dai suoi scienziati, ma ne ha annunciato lo sviluppo il mese scorso e ha fornito una panoramica generale del suo funzionamento. Secondo la ricostruzione di Ieee Spectrum, si tratterebbe di una cosiddetta batteria di flusso, che immagazzina l’energia in due serbatoi di soluzioni elettrolitiche liquide, uno caricato positivamente e l’altro negativamente. Le soluzioni vengono poi “pompate” verso degli elettrodi, generando così elettricità. Nel prototipo è stato usato uranio per l’elettrodo negativo e ferro per l’elettrodo positivo; la soluzione elettrolitica è una miscela di solventi organici e un sale contenente sia ioni positivi e negativi, che è liquida a temperature inferiori a 100 °C.
    Uranio multicolore
    L’idea di usare uranio per costruire batterie non è nuova. Già circa 25 anni fa, Yoshinobu Shiokawa, della Tohoku University, Hajimu Yamana e Hirotake Moriyama, della Kyoto University, avevano proposto un’idea simile: la novità, nel prototipo appena realizzato, sta nell’utilizzo di ioni di ferro con differenti stati di ossidazione, che si sono rivelati cruciali per favorire la stabilizzazione della soluzione elettrolitica. In questo modo, combinando un elettrolita di ferro con un elettrolita di uranio, gli autori del lavoro sono riusciti a raggiungere una tensione di 1,5 volt nel loro prototipo, sufficiente ad accendere una piccola luce led. La batteria, inoltre, è stata caricata e scaricata per dieci volte e le sue prestazioni sono rimaste sempre le stesse, il che indica un ciclo di carica relativamente stabile: durante i cicli di carica e scarica, il colore dell’uranio è cambiato da verde a viola e poi è tornato verde, coerentemente con i suoi diversi stati di ossidazione.
    La sicurezza prima di tutto
    “La radioattività dell’uranio nel prototipo non ha costituito un problema per la sicurezza”, ha spiegato Kazuchi Ouchi, uno dei ricercatori coinvolti nel progetto, “perché il prototipo – e dunque la soluzione elettrolitica – era molto piccolo: appena 3 millilitri”. Naturalmente, scalare il dispositivo a dimensioni maggiori richiederà l’adozione di accorgimenti per la sua schermatura. Gli scienziati stanno lavorando proprio a questo, con l’obiettivo ambizioso di realizzare un giorno una batteria con 650 tonnellate di uranio, dalla capacità di 30mila chilowattora, sufficiente a soddisfare il fabbisogno giornaliero di circa 3mila famiglie. Ma c’è molto da aspettare. LEGGI TUTTO

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    “Per vincere la sfida climatica dobbiamo cambiare mentalità. Il momento è adesso”

    “È un momento brutto, ma è anche quello giusto per tentare davvero di cambiare mentalità”. La lotta alla crisi climatica che sta portando a temperature sempre più elevate ed eventi meteo sempre più estremi sta vivendo un momento di forte difficoltà: le politiche di oscurantismo e negazione climatica di Donald Trump, il ritorno dei combustibili fossili, il multilateralismo internazionale che scricchiola. Nonostante il Pianeta e la natura chiedano risposte immediate, l’umanità frena nell’affrontare il problema. Eppure, come racconta il fisico dell’atmosfera del Cnr Antonello Pasini nel suo nuovo libro in uscita il 24 aprile intitolato “La sfida climatica. Dalla scienza alla politica: ragioni per il cambiamento” (Codice Edizioni, 192 pp), siamo ancora in tempo per uscire dalle tendenze attuali, a patto però che per affrontare la sfida decidiamo tutti di “cambiare mentalità”.

    Perché, per vincere la sfida del clima, dobbiamo “cambiare mentalità” come racconta nel suo nuovo libro?
    “Perché il clima è un sistema complesso, con caratteristiche a cui non siamo abituati. Di solito quando abbiamo un problema noi umani cerchiamo una rapida soluzione per risolverlo ma con il clima non è così: la sua inerzia, le temperature e l’innalzamento degli oceani, l’accumulo di CO2, sono tutti problemi che chiedono un cambio di mentalità, di visione. Dobbiamo cambiare il nostro istinto di voler trovare una soluzione con effetti immediati: dobbiamo risolvere emergenze temporanee ma con la visione del lungo periodo. E negli ultimi anni in più occasioni potevamo farlo, eppure abbiamo perso un treno dietro l’altro”.

    Quali treni abbiamo perso?
    “Abbiamo perso il treno del dopo Covid per esempio, che poteva essere l’impulso verso un rapporto più armonico con la natura. Abbiamo perso anche il treno dettato dall’invasione russa in Ucraina che poteva essere una spinta verso le rinnovabili invece noi corriamo ancora dietro ai sostituti del gas russo e ora stiamo perdendo anche l’ occasione dei dazi, perché rischiamo di contrattare di comprare petrolio americano, che come tutti i fossili influisce sul clima, in cambio di riduzione dei dazi su nostri prodotti”.

    Nello specifico nel libro parla di una quadrupla sfida che definisce scientifica, filosofica, di comunicazione ma anche politica.
    “Per prima affronto la sfida scientifica, di come cerchiamo, come scienziati, di approcciare questo grande cambiamento. Poi, essendo tutti nel nodo di una rete fatto di relazioni con la natura e altri uomini, parlo di quella filosofica: non possiamo più pensarla alla Cartesio con uomo padrone del mondo che trascende la natura solo perché essere intelligente ma dobbiamo agire per armonizzare la nostra dinamica con quella della natura. Poi narro la sfida comunicativa: il messaggio scientifico passa trasversalmente? La risposta è no, perché tra bolle, polarizzazione e manipolazioni oggi non funziona, quindi dobbiamo trovare soluzioni. Infine analizzo la sfida politica, in cui racconto anche la mia esperienza come coordinatore di Scienza al voto”.

    Già, quanto è distante oggi il rapporto scienza-politica?
    “C’è un grosso problema: la comunicazione a una via non funziona, intendo quella dove scienziati parlano e politici ascoltano o non ascoltano. Manca un dialogo efficace, a più vie, strutturato e magari istituzionalizzato: per esempio con un consiglio scientifico clima ambiente che porti a un rapporto paritario fra scienza e politica. Noi scienziati non vogliamo fare i politici, ma al contrario vogliamo tentare di fare un passo indietro nel tentativo di fornire alla politica misure e ventagli di strumenti davvero efficaci per frenare la crisi del clima che poi i politici possono e devono scegliere. Forse così la politica si accorgerà che il problema climatico non è ideologico, è reale. Che tu sia di sinistra o di destra la crisi del clima non cambia, negli scenari peggiori porterà comunque ad aumentare disuguaglianze sociali e crollo del Pil. Per cui abbandoniamo le ideologie e agiamo tutti insieme”.

    E per riuscirci come dovremmo fare?
    “Ripeto, cambiare mentalità. Non possiamo continuare a credere alla crescita infinita in un Pianeta finito, o pensare che la tecnologia risolva tutto o a trovare soluzioni additive. Nel nostro modello di sviluppo noi pensiamo sempre di aggiungere le cose, di aumentare le risorse. Spesso invece si potrebbe far bastare le risorse che ancora abbiamo andando a curare, a sistemare e proteggere”.

    Delle emergenze climatiche in atto quale la spaventa di più?
    “La perdita dei ghiacci è drammatica e da lì dipende l’inerzia del clima. I nostri ghiacciai alpini per esempio non sono in equilibrio con la temperatura che fa oggi sulle Alpi, ma rispondono ancora lentamente alla crescita di temperatura degli ultimi decenni. I nostri modelli mostrano come se anche la temperatura rimanesse quella che è ora loro al 2100 perderebbero un 30% di superficie. Adesso possiamo adattarci e proteggere parte delle risorse, ma con le tendenze in atto la temperatura non rimarrà tale e aumenterà: significa che perderemo il 90% di superficie a fine secolo. A quel punto non riusciremo più ad adattarci: dove finiranno tutte le risorse idriche della Pianura Padana? Questo ci fa capire come l’inerzia del clima è fondamentale e perciò come scienziati diciamo di fare in fretta: ma non c’è mai la sensazione che arrivino risposte”.

    Risposte che tarderanno ulteriormente viste le politiche oscurantiste di Donald Trump.
    “Oggi con l’ aumento degli eventi estremi visibili a tutti c’è più consapevolezza sulla sfida climatica, ma rimane la difficoltà di affrontare seriamente il problema perché interi stati fanno fake news e cresce il potere delle lobby industriali: è un momento brutto, complicato. Per noi che facciamo questo lavoro come scienziati è un momento di lotta proprio contro l’oscurantismo, la cancellazione dei dati o il negazionismo attuale come negli Usa. E poi il ritorno a nazionalismi e sovranismi è tragico per la questione climatica perché la si risolve solo con il multilateralismo. I ricchi del mondo pensano di poter vincere comunque da soli questa sfida e che a perdere saranno solo i poveri: ma non è così, siamo tutti sulla stessa barca e se non troviamo soluzioni affonderemo comunque tutti”.

    Infine, dovesse sbilanciarsi ora, la vinceremo o la perderemo la sfida climatica?
    “Non posso sbilanciarmi, è impossibile dirlo. Sa perché? Perché noi scienziati del clima facciamo scenari e per farli abbiamo le leggi della dinamica naturale, ma le leggi della dinamica umana sono al di fuori dei nostri modelli, non sono certe o prevedibili. Chi poteva per esempio prevedere le attuali politiche di Trump? Per questo non ho una risposta sicura, ma ho comunque una certezza: questa sfida riguarda tutti noi, nessuno escluso”. LEGGI TUTTO

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    Impatto ambientale minimo e ricarica ultrarapida. Ecco la bici a idrogeno

    “Nel 2023 a Francoforte durante una visita alla fiera internazionale Eurobike ci eravamo fermati, incuriositi, davanti a un piccolo ed anonimo stand un po’ nascosto, in cui un giovane ragazzo esponeva una bici e un idrolizzatore. In mezzo a centinaia di espositori del Far East dedicati alla componentistica per e-bike, quel progetto ci aveva colpito per la sua visione semplice e rivoluzionaria”. Lui è Andrea Tomasoni, presidente e Ceo di Remoove, startup di Riva del Garda specializzata in mobilità dolce e inclusiva che, in questi giorni, ha introdotto sul mercato italiano la bici a idrogeno, innovazione ancora più sostenibile di quella elettrica: si ricarica con mezzo litro d’acqua, il rifornimento avviene in pochi minuti, proprio come la fornitura di un’auto a benzina. Le biciclette a idrogeno rappresentano una delle più innovative soluzioni di mobilità sostenibile, perché combinano tecnologia avanzata con un impatto ambientale ridotto. Questi veicoli funzionano attraverso l’uso di celle a combustibile a idrogeno, che generano energia elettrica necessaria per alimentare il motore della bicicletta. Il principio su cui si basano è tanto semplice quanto rivoluzionario: l’idrogeno, immagazzinato in appositi serbatoi, reagisce all’interno della cella a combustibile con l’ossigeno dell’aria, producendo energia elettrica e acqua come unico sottoprodotto.

    “In Italia, solo nel 2023 sono state vendute 1,3 milioni di bici. Le e-bike continuano a guadagnare popolarità grazie alla crescente domanda di mobilità sostenibile. Per questo motivo ci siamo avvicinati al mercato delle biciclette a idrogeno. Per circa un anno – racconta Tomasoni -, abbiamo lavorato a stretto contatto con il produttore cinese per renderle disponibili nel nostro Paese (e in tutta Europa). E ci siamo riusciti. Queste bici, ci hanno conquistato innanzitutto perché, la linea produttiva è già attiva e pronta alla commercializzazione anche in grandi quantità. Poi si ricaricano con soli 20 cl di acqua, utilizzano una bombola a 30 bar di idrogeno e non contengono materiali inquinanti”. LEGGI TUTTO

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    Francesco, un Papa vicino alla scienza

    Un Papa che ha pienamente compreso la complessità del sistema clima e le strettissime interconnessioni che legano la sua dinamica alla dinamica umana. Il suo concetto di ecologia integrale riflette appieno le conoscenze scientifiche che vedono la natura rispondere alle nostre azioni e generare retroazioni che ci colpiscono duramente. I paesi Cop29, Vaticano: il Pontefice […] LEGGI TUTTO

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    Come fare il compost in casa: la guida

    Il compost, detto anche terricciato o composta, è oro per la cura delle piante. Questa preziosa risorsa è un ammendante, ciò significa che rende fertile il terreno dal punto di vista chimico, biologico e fisico, arricchendolo e migliorandone la struttura. Insieme di materiali organici di diversa natura, decomponendosi diventa un amalgama in cui sono racchiusi nutrienti preziosi per rigenerare la terra. Utilizzato in giardino e nell’orto, il compost è realizzabile anche a livello domestico: con una serie di passaggi semplici e i giusti accorgimenti si potrà creare facilmente questa sostanza con la quale apportare humus al terreno coltivato e recuperare allo stesso tempo gli scarti prodotti in casa.

    Cos’è il compost e il suo utilizzo
    Impiegato in agricoltura e giardinaggio, il compost è un concime organico ricco di sostanze con cui nutrire il suolo. Questa sostanza fantastica viene prodotta industrialmente in impianti di compostaggio di grandi dimensioni, mettendo in campo un processo nel segno dell’economia circolare, grazie al quale i rifiuti vengono gestiti in modo virtuoso, riducendo il loro impatto e rendendo al contempo il suolo più produttivo.

    Il compost può essere anche realizzato in casa, ricorrendo agli scarti organici, che generalmente si aggirano intorno al 30% dell’ammontare complessivo dei rifiuti, riducendo così la loro mole in modo significativo: grazie al compostaggio casalingo si contengono quindi le emissioni generate e i costi determinati dalla gestione dei rifiuti. Questo procedimento imita la natura e i suoi processi biologici di riciclo delle sostanze organiche non più utili, che vengono trasformate in humus.

    Oltre a fungere da nutriente, il compost rivitalizza i terreni rendendoli porosi, più semplici da lavorare e aumenta la loro capacità di trattenere l’acqua, consentendo di ottenere un raccolto abbondante e sano, evitando sprechi di fertilizzante e acqua.

    L’intervista

    “In un pugno di compost il mio amore per la terra”

    di Gaia Scorza Barcellona

    11 Aprile 2023

    Cosa serve per fare il compostaggio domestico
    Realizzare il compost in casa significa trasformare i rifiuti in una sostanza preziosa grazie alla quale nutrire le piante in vaso, in giardino e nell’orto. Il processo con cui viene creato il compost ha una durata variabile e necessita di ingredienti di base quali ossigeno, acqua e materia organica. Il suo ciclo prevede di nutrire, donare idratazione e far respirare gli organismi terricoli responsabili di tramutare gli scarti in terriccio fertile. Tramite questo processo i materiali organici vengono decomposti dall’azione di insetti e microrganismi, diventando humus da usare per reintegrare il terreno.

    In merito agli scarti organici da impiegare è possibile ricorrere a resti di cibi, come frutta, verdura, pane, formaggi, dolci, pasta, uova, fondi di caffè e tè, scarti del giardino, ad esempio fiori, foglie secchi e sfalcio dei prati, truciolo del legno non trattato e in piccole quantità anche cartone e carta non stampata. I cibi cotti, la carne e il pesce vanno trattati con attenzione in quanto se non gestiti in modo ottimale potrebbero attirare i topi. Non vanno impiegati invece rifiuti non biodegradabili e tossici, materiali sintetici, scarti di gomma, plastica, metallo, vetro e ceramica e barattoli di latta.

    Per quanto riguarda gli attrezzi utili bisogna munirsi di una paletta, una forca, una forbice robusta, un setaccio e un innaffiatoio. Il compost può essere realizzato avvalendosi di una compostiera, grazie alla quale tenere il giardino ordinato. Nel caso in cui non si disponga di questo strumento se ne può creare uno fai da te, ricorrendo a dei bancali oppure a un vaso rettangolare da ricoprire con dei cartoni. In alternativa, si può semplicemente scavare una buca in giardino.

    Dalla lettiera alla natura: l’impatto ambientale dei rifiuti felini e le soluzioni eco-friendly

    15 Gennaio 2025

    Come si realizza il compost in casa?
    Per realizzare il compost è necessario creare un mix composto dal 50% di erbe, foglie e scarto di cucina e l’altro 50% da scarto vegetale legnoso, ricco di carbonio, allo scopo di donare alla miscela porosità, garantendo la presenza di ossigeno, indispensabile così come l’acqua. Nel momento in cui si allestisce la compostiera per la prima volta si può inserire nel contenitore un letto con rami, paglia e trucioli, per poi alternare strati di scarto verde con quello umido. Il tutto va mescolato di tanto in tanto, mediante un aeratore, ed è necessario anche aggiungere dell’acqua.

    Nel corso del tempo si verificano diversi fenomeni: inizialmente sui materiali si formano muffe e funghi, poi la massa si riscalda al suo interno fino a 50 gradi e in seguito i materiali si trasformano, riducendo di oltre il 50% il loro volume e perdendo i loro colori originali, imbrunendosi. Infine, la miscela si raffredda e si stabilizza, spia di come il compost si sia formato. Questo appare come un terriccio spugnoso, nero e soffice.

    Compost, consigli utili per la sua creazione
    Per quanto riguarda il luogo in cui realizzare il compost è consigliato scegliere un punto che sia all’ombra degli alberi, evitando che in estate si secchi eccessivamente, ma permettendo comunque ai raggi solari di stimolare le sue reazioni in inverno. Visto che l’acqua è fondamentale per la produzione del compost, se questo è secco deve essere annaffiato, mentre qualora fosse eccessivamente bagnato si dovrà aggiungere del materiale secco, come del truciolo.

    Inoltre, essendo un composto vivo, la presenza dell’aria è imprescindibile: pertanto, all’interno del contenitore il cumulo non deve essere compatto, ma bensì soffice, consistenza che si ottiene aggiungendo materiali grossolani come paglia e rametti. Una buona quantità di ossigeno è fondamentale nel processo di compostaggio, scongiurando l’insorgere di cattivi odori e assicurando il giusto livello di umidità. Per comprendere se l’umidità raggiunta è quella giusta basta prendere del materiale per poi stringerlo con un pungo: qualora questo si mantenga in forma e non ci siano gocce d’acqua significa che l’umidità è ottimale mentre, nel caso in cui si sbricioli, è la spia di come l’ambiente sia troppo asciutto. Per aumentare la porosità della miscela si possono aggiungere dei materiali biodegradabili, come per esempio legno, foglie secche, truciolo o segatura.

    Altro aspetto da tenere in considerazione è il giusto rapporto tra carbonio e azoto, grazie al quale ottenere una rapida decomposizione: l’azoto permette ai microrganismi di crescere e moltiplicarsi, mentre il carbonio gli fornisce l’energia. Qualora nel cumulo ci siano più rifiuti con carbonio il processo si rallenta, per via dell’azoto troppo scarso, dovendo aggiungere altri scarti alimentari per aumentarlo. Se prevale l’azoto si possono verificare cattivi odori, per via della quantità eccessiva di ammoniaca, dovendo avvalersi di rametti sminuzzati per incrementare il carbonio. Il rapporto ottimale tra carbonio e azoto dovrebbe essere circa 25-30 parti di carbonio per una parte di azoto. LEGGI TUTTO

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    Dal rossetto allo smalto, i consigli per smaltire i cosmetici

    Una cipria in frantumi, un mascara secco, uno smalto ormai solidificato. Capita che alcuni cosmetici usati di rado vengano dimenticati e, col tempo, diventino inutilizzabili. Tra polveri e gel, tubetti e flaconi, non è sempre facile capire dove conferire i prodotti e le loro confezioni. Ecco allora una mini-guida al corretto smaltimento, ricordando che ogni Comune ha regole specifiche per la raccolta differenziata ed è pertanto utile controllare le indicazioni locali.

    La normativa

    La Francia mette al bando i Pfas in cosmetici e tessuti

    a cura della redazione di Green&Blue

    21 Febbraio 2025

    I residui non sono innocui
    Prima regola: mai svuotare quel che resta dei cosmetici nel lavandino o nel wc. Questi ultimi contengono, infatti, molti ingredienti sintetici e derivati del petrolio, che non devono essere dispersi nell’ambiente. Non possono finire nello scarico neppure i prodotti che vantano l’etichetta “vegetale” o “biologico”, dato che di rado si tratta di composti al 100% naturali. In generale, gli articoli di bellezza esausti non sono riciclabili e vanno perciò destinati al cestino dell’indifferenziata. Prima di buttarli, meglio raccoglierli in un contenitore chiuso, come un barattolo con coperchio. Attenzione a smalti, solventi, tinte per capelli che, data la loro aggressività, potrebbero richiedere lo smaltimento tra i rifiuti speciali, al pari dei medicinali scaduti.

    Il rebus della plastica
    Una volta eliminato il contenuto, resta da gestire l’imballaggio. Non sempre è semplice, perché quest’ultimo è spesso formato da più materiali e componenti, come specchietti, pennelli, tappi, spugnette. La maggior parte dei packaging è, comunque, in plastica. In tal caso, è importante verificare la presenza del simbolo del riciclo e conferirli nel bidone corretto.
    “Le materie plastiche garantiscono resistenza, flessibilità e protezione ai cosmetici deperibili”, spiegano Ana M. Martins e Joana M. Marto, ricercatrici alla Facoltà di Farmacia dell’Università di Lisbona, in Portogallo, in uno studio pubblicato nel 2023 su Sustainable Chemistry and Pharmacy. “Nel confezionamento dei prodotti di bellezza si usa soprattutto plastica petrolchimica, perché è economica, vanta buone prestazioni ed è facilmente reperibile. Per questi motivi, nonostante il grave impatto ambientale, questo materiale rimane difficile da sostituire. Tuttavia, esistono varie iniziative globali per ridurne l’impiego, anche nel settore cosmetico, tra cui la Ellen MacArthur Foundation e l’Alliance to End Plastic Waste”.

    Startup

    Anche quando si compra uno shampoo si può aiutare il Pianeta

    di Gabriella Rocco

    03 Aprile 2025

    Anche vetro, metallo, carta
    Oltre alla plastica, negli imballaggi vengono utilizzati anche altri materiali. Tra questi il vetro usato soprattutto per le boccette dei profumi (rappresenta circa l’89% del packaging del settore) o per alcune creme di fascia alta, in virtù della sua estetica sofisticata – che va conferito nella relativa raccolta. Lo stesso vale per le confezioni in alluminio o metallo, impiegate per esempio nei rossetti o nei deodoranti in spray, da smaltire nel bidone dei metalli oppure insieme alla plastica, a seconda delle regole comunali. Infine, le scatole e i cartoncini che avvolgono i cosmetici possono essere gettati nella raccolta della carta.

    Sulle etichette alcune volte sono riportate le indicazioni per lo smaltimento  LEGGI TUTTO

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    Raffreddamento a laser: una svolta per data center più sostenibili?

    Secondo Raktim Sarma, scienziato presso l’azienda statunitense di ricerca tecnologica Sandia Lab, circa un terzo dell’energia che serve per far funzionare un data center viene speso per raffreddare i chip ed evitare quindi che i computer o i server si surriscaldino. Attualmente, i sistemi di raffreddamento si basano principalmente sullo scambio di calore con acqua o aria fredda, che viene fatta passare attraverso minuscoli tubicini montati sui chip stessi. Il team di Sarma, insieme alla startup Maxwell Labs e all’Università del New Mexico (Stati Uniti), sta però provando a mettere in piedi un sistema di raffreddamento diverso, basato sui laser, che vada a rimpiazzare o affiancare quelli attuali. L’idea sarebbe quella di sfruttare questo nuovo approccio per riciclare, in forma di elettricità, il calore estratto dai chip.

    L’intelligenza artificiale “divora” energia con un impatto ambientale insostenibile

    a cura della redazione di Green&Blue

    21 Marzo 2025

    Se pensiamo alle applicazioni tecnologiche dei laser, più che il raffreddamento forse ci vengono in mente impieghi nel contesto della saldatura di precisione, delle incisioni e della stampa 3D. Tuttavia, spiegano da Sandia Labs, in specifiche condizioni i laser possono essere utilizzati come fonti di raffreddamento. Non certo per rinfrescare un’intera casa, ma per abbassare la temperatura di piccolissime porzioni di materiali molto puri. Infatti, il raffreddamento laser funziona quando un raggio laser con una particolare frequenza incontra un bersaglio molto piccolo costituito da un unico e specifico elemento. E, per quanto riguarda i chip, spiega Sarma, si tratta in effetti di dover raffreddare superfici minuscole, nell’ordine delle centinaia di micron. Come anticipato, i sistemi attuali si basano sul passaggio di acqua o aria fredda attraverso microscopici canali scavati all’interno di piastre di rame che vengono poi adagiate sui chip. Il nuovo sistema funzionerebbe in modo simile, con la differenza che deve essere pensato per incanalare la luce laser, anziché acqua o aria, verso le superfici da raffreddare.

    Lo studio

    L’intelligenza artificiale è assetata di acqua. Per ogni conversazione se ne consuma una bottiglietta

    Gabriella Rocco

    22 Marzo 2024

    Jacob Balma, CEO della Maxwell, sostiene che questo approccio potrebbe essere anche più efficiente di quelli già esistenti, consentendo “nuovi paradigmi di recupero energetico non possibili con la tecnologia di raffreddamento tradizionale”. La sfida sarà quella di costruire delle piastre di raffreddamento prive di impurità, che altrimenti verrebbero riscaldate dalla luce laser. Ed è proprio su questo aspetto che si concentreranno i ricercatori di Sandia Labs, specializzata nella lavorazione di arsenurio di gallio, un materiale semiconduttore simile al silicio, di cui dovrebbero essere costituite in buona parte le piastre di raffreddamento a laser progettate dalla Maxwell.

    La collaborazione è stata annunciata pochi giorni fa, per cui non resta che attendere per sapere se il nuovo sistema porterà effettivamente a una svolta in termini di risparmio di energia e quindi di sostenibilità dei data center. Balma si dice particolarmente entusiasta: “La capacità unica della luce di indirizzare e controllare il riscaldamento localizzato in modo spaziale e su tempi ottici per questi dispositivi sblocca vincoli di progettazione termica così fondamentali per il design dei chip che è difficile ipotizzare cosa faranno gli architetti di chip con questo sistema, ma confido che cambierà radicalmente i tipi di problemi che possiamo risolvere con i computer”. LEGGI TUTTO