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    Cresce lo spreco alimentare. I surgelati possono essere un rimedio?

    E’ una questione tutt’altro che banale, quella dello spreco di cibo. Anzi, il suo aumento è un fenomeno preoccupante. Solo nel 2025, in Italia c’è stata una crescita del 17,9% in un solo anno. Ogni settimana gettiamo nella pattumiera quasi 7 etti di cibo: per l’esattezza sono 667 grammi a persone, contro contro i 566 del 2024. I dati sono stati diffusi dall’indagine dell’Osservatorio internazionale Waste Watcher realizzata per conto dell’Istituto Italiano Alimenti Surgelati. Infatti, quello del cibo surgelato ha un peso nettamente minore per quanto riguarda lo spreco: ogni settimana, non sono neanche 15 grammi quelli che vengono buttati via, pari al 2,2% del totale in pattumiera. Questo lo evidenzia un’indagine italiana, mentre una grande azienda proprietaria di marchi molto noti del frozen food, evidenzia un altro aspetto interessante. E cioè che quasi la metà dei consumatori europei, il 47%, sceglie prodotti surgelati proprio con l’obiettivo di ridurre lo spreco alimentare.

    Il motivo è più di uno. I cibi surgelati si conservano per un lungo periodo di tempo, non richiedono l’uso di acqua per essere puliti, non hanno scarti perché il prodotto è già pronto all’uso, e sono più facili da dividere in porzioni. Tutti elementi che permettono al consumatore di ottimizzare il tempo di preparazione, ridurre quasi a zero lo scarto e sprecare anche meno risorse, come acqua ed energia, per la cottura. E se negli ultimi 5 anni, il ricorso al frozen food è salito, il suo spreco è rimasto stabile intorno al 2%; un dato molto positivo, che va a vantaggio di consumatori e famiglie, dell’industria alimentare del surgelato, ma soprattutto dell’ambiente, perché riducendo la quantità di rifiuti, si diminuisce l’impatto e si dà una mano alla sostenibilità. Quando buttiamo via del cibo, oltre a sprecare il prodotto stesso, abbiamo reso inutile tutte le risorse che hanno contribuito a portarci quel determinato alimento sulla tavola: l’impiego di persone per la manodopera, il trasporto e la logistica, il consumo di carburante, l’acqua, terra, gli imballaggi e altro ancora. Poi, quando alla fine del processo, il cibo che abbiamo gettato via finisce in discarica, si decompone e produce metano, un gas che contribuisce all’effetto serra. Nel biennio 2021-22, solo nel Regno Unito, i rifiuti alimentari sono stati responsabili di circa 18 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra. Il motivo per cui abbiamo portato l’esempio dell’isola inglese è perché è il Paese in testa alla classifica degli sprechi alimentari.

    Il sondaggio

    Dal frigo alla tavola, ecco come sprechiamo il cibo e cosa fare per evitarlo

    di Paolo Travisi

    04 Giugno 2025

    Ma come abbiamo detto il fenomeno è tristemente globale. Per le ragioni appena dette, secondo il rapporto Frozen in Focus di Nomad Foods, quasi il 60% degli inglesi preferisce acquistare cibi surgelati per ridurre gli sprechi alimentari. E l’Italia? Noi italiani siamo secondi in classifica con il 50%, a seguire la Francia con il 49%, il 43% in Svezia e il 44% in Germania. Se il surgelato riduce lo spreco, però il processo è energivoro quindi le emissioni derivati da questi apparecchi industriali che devono rimanere sempre accesi. Da qui, in occasione di COP28 è stata lanciata la proposta di abbassare di 3 gradi, da -18° a -15°, la temperatura di surgelamento, garantendo un risparmio di energia di circa il 10%, senza variazioni significative per la maggior parte dei prodotti. Ma questa richiesta non convince tutti. Infatti, i prodotti surgelati vengono portati a -18° con un procedimento ultrarapido che blocca quelle attività enzimatiche, chimiche e microbiche che garantiscono il mantenimento di gran parte dei nutrienti importanti per l’organismo umano, senza alterare la consistenza dell’alimento. Una pratica ben diversa dal congelamento domestico con il freezer, che è appunto congelamento e non surgelamento; un processo, il primo, che invece modifica la struttura cellulare del cibo, perché avviene più lentamente ed a temperature più basse. Insomma, c’è da dire che il prodotto fresco è pur sempre preferibile per le caratteristiche intrinseche alla freschezza dell’alimento, a patto che venga consumato e non buttato via, ma il surgelato può essere una buona alternativa. Alternativa allo spreco alimentare crescente, con un valore in un certo senso educativo. Infatti, l’approvvigionamento di surgelati può essere anche un metodo per imparare a gestire le proprie scorte casalinghe. Può aiutarci a distribuire gli acquisti settimanali o mensili della spesa riducendo la quantità di cibo che diventa spazzatura. LEGGI TUTTO

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    “Riportare in vita il moa”, il sogno del regista Peter Jackson per ritrovare la specie perduta

    Che cosa hanno in comune il regista del “Signore degli Anelli”, un’antica comunità indigena maori e una società di biotecnologie e ingegneria genetica? Un sogno proibito, fortemente criticato e per molti impossibile da realizzare: riportare in vita il Moa gigante, un uccello alto 3,6 metri , pesante oltre 230 chilogrammi ed estinto circa 600 anni fa. Come fosse un suo film di fantascienza, il regista Peter Jackson ha deciso di finanziare, insieme al contributo del Canterbury Museum e il Ng?i Tahu Research Centre, una nuova missione di Colossal Biosciences, la società americana specializzata in “de-estinzione” e già nota per voler far rivivere il mammut lanoso, il dodo o la tigre della Tasmania e che, di recente, ha annunciato di aver riportato in vita un lupo del Paleocene, sorta di meta-lupo del Trono di spade.

    “Riportato in vita il lupo del pleistocene”. Lo annuncia la biotech che vuole ricreare la preistoria

    08 Aprile 2025

    In un mondo dove 1 milione di specie animali e vegetali sono oggi a rischio, e dove la perdita di biodiversità ha un urgente bisogno di sforzi globali e finanziamenti sia pubblici che privati, il nuovo annuncio della società texana dal valore di mercato di 10 miliardi di dollari è destinato a far discutere, ma Colossal Biosciences e Peter Jackson (che ha investito 15 milioni di dollari) non vogliono sentire ragioni e hanno deciso di proseguire su una strada che, fra soli 15 anni, potrebbe “riportare in vita” il famoso Moa.

    Il Moa gigante dell’Isola del Sud era un gigantesco uccello incapace di volare che fino al 1300 popolava le valli delle isole della Nuova Zelanda: secoli fa esistevano migliaia di esemplari prima che i Maori, tra caccia alla carne e alle uova e distruzione di habitat, portarono lentamente l’uccello all’estinzione, avvenuta tra il 1300 e il 1500. Per molti inglesi arrivati a Wellington, l’idea di quel volatile grande il doppio dell’uomo, all’inizio era soltanto una leggenda tramandata tra i popoli originari, ma dovettero ricredersi quando nel tempo ci furono più ritrovamenti degli scheletri, i frammenti di uova e le ossa appartenenti a questi animali, materiale che oggi offre una chance genetica per la “de-estinzione”. La base di partenza per riuscire a compiere questa complicatissima missione, per molti scienziati impossibile, sarà infatti il recupero e l’analisi del DNA antico di nove specie di Moa per comprendere in che modo il Moa gigante differisca da uccelli parenti e per decifrare il suo corredo genetico. Per riuscirci Colossal Bioscience collaborerà con il Ng?i Tahu Research Centre neozelandese, fondato per supportare i Ng?i Tahu, principale tribù Maori della regione meridionale della Nuova Zelanda.

    Petere Jackson con Ben Lamm con i reperti fossili del moa (foto: Colossal.com)  LEGGI TUTTO

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    Tulum Energy, dall’Italia al Messico (e ritorno): la startup pioniera dell’idrogeno turchese

    “La caratteristica distintiva della nostra tecnologia è la combinazione senza pari di elevata scalabilità ed eccezionale efficienza energetica. Questo ci consente di soddisfare le notevoli esigenze dei grandi consumatori industriali di idrogeno, come raffinerie, produttori di ammoniaca e impianti chimici, a costi davvero competitivi”. Lui è Massimiliano Pieri, CEO di Tulum Energy, startup climate tech pionieristica nella produzione di idrogeno pulito. Più precisamente, in prima linea nello sviluppo di una innovativa tecnologia di pirolisi del metano.

    La pirolisi del metano è un processo chimico che consente la produzione di idrogeno pulito (turchese) e carbonio solido utilizzando come materia prima gas naturale o biogas, senza emissioni di CO2. Questa tecnologia è in grado di superare i limiti economici e infrastrutturali dell’idrogeno verde e blu nella produzione industriale di idrogeno decarbonizzato. LEGGI TUTTO

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    Un aiuto dai fichi contro la crisi climatica: trasformare l’anidride carbonica in roccia

    Sono i re Mida dell’ambiente. Ma invece che in oro, trasformano in roccia. Si tratta di alcune specie di alberi di fico dalle sorprendenti abilità e che potrebbero rappresentare uno strumento prezioso nella lotta ai cambiamenti climatici. A raccontarlo è stato un team di ricerca internazionale che ha scoperto come questi alberi possono assorbire l’anidride carbonica dall’atmosfera e immagazzinarla sotto forma di “rocce” di carbonato di calcio. La ricerca è stata presentata durante la Goldschmidt 2025 Conference, la conferenza dedicata al mondo della geochimica più importante al mondo in corso in questi giorni a Praga.

    Assorbire anidride carbonica
    Tutti gli alberi, inclusi quelli di fico, si servono della fotosintesi per assorbire anidride carbonica dall’atmosfera e trasformarla in carbonio organico per lo sviluppo di tronco, rami, foglie e radici, in un processo, quindi, che ne riduce la quantità nell’aria. Proprio per questo motivo gli alberi vengono considerati un potenziale mezzo per mitigare le emissioni di questo gas serra. Alcune specie di alberi, tuttavia, utilizzano l’anidride carbonica per produrre cristalli di ossalato di calcio, che vengono poi convertiti da specifici batteri in carbonato di calcio, lo stesso minerale del calcare o del gesso. Il carbonio in forma minerale, però, può rimanere nel suolo molto più a lungo rispetto a quanto possa farlo nella materia organica dell’albero, rendendo questo metodo più efficace per immagazzinare l’anidride carbonica.

    Biodiversità

    La “pompa marina” (e naturale) che sequestra il carbonio negli oceani

    di Sara Carmignani

    09 Luglio 2025

    Cibo e anidride carbonica
    La maggior parte della ricerca su questa abilità, chiamata anche come percorso ossalato-carbonato, si è concentrata su alberi non da frutto. Tra questi c’è notoriamente la Milicia excelsa, che cresce nell’Africa tropicale, viene utilizzata per il legname e può immagazzinare una tonnellata di carbonato di calcio nel corso della vita. “Conosciamo da tempo questo percorso, ma il suo potenziale non è stato ancora pienamente considerato”, ha commentato Mike Rowley, tra gli autori dello studio. “Se piantiamo alberi per l’agroforestazione e per la loro capacità di immagazzinare CO2 sotto forma di carbonio organico, producendo al contempo cibo, potremmo scegliere alberi che offrano un ulteriore vantaggio sequestrando anche carbonio inorganico, sotto forma di carbonato di calcio”.

    Gli alberi di fico
    In particolare, i ricercatori si sono concentrati su tre specie di ficus coltivate nella contea di Samburu, in Kenya, scoprendo che producevano carbonato di calcio dalla CO2 e che questo si formava sia sulla superficie dei tronchi che più in profondità, dove intere strutture radicali si sono praticamente trasformate in carbonato di calcio nel terreno. “Man mano che si forma il carbonato di calcio, il terreno intorno all’albero diventa più alcalino”, ha spiegato l’esperto. “Il carbonato di calcio si forma sia sulla superficie dell’albero che all’interno delle strutture del legno, probabilmente perché i microrganismi decompongono i cristalli superficiali e penetrano più in profondità nell’albero. Ciò dimostra che il carbonio inorganico viene sequestrato nel legno a una profondità maggiore di quanto pensassimo in precedenza”. Delle tre specie di fico prese in esame, gli scienziati hanno scoperto che il Ficus wakefieldii era il più efficace nell’immagazzinare la CO2 sotto forma di carbonato di calcio.

    Sostenibilità

    Bioedilizia, mattoni “viventi” che puliscono l’aria

    di Paolo Travisi

    04 Luglio 2025

    Le potenziali applicazioni
    Il prossimo passo ora sarà quello di valutare l’idoneità di questo albero all’agroforestazione, misurandone alcuni parametri come il fabbisogno idrico, la resa dei frutti, e la capacità di immagazzinare anidride carbonica in diverse condizioni. Ma se un giorno i fichi potessero essere inclusi nei futuri progetti di riforestazione, potrebbero diventare sia una fonte di cibo che un pozzo di carbonio. “È più facile identificare il carbonato di calcio in ambienti più secchi. Tuttavia, anche in ambienti più umidi, il carbonio può comunque essere sequestrato”, ha commentato Rowley. “Il percorso ossalato-carbonato potrebbe rappresentare un’opportunità significativa, ma inesplorata, per contribuire a mitigare le emissioni di CO2 quando piantiamo alberi per la silvicoltura o la frutta”. LEGGI TUTTO

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    Ghiacciai neri, cosa sono e perché si tratta di una brutta notizia

    Li immaginiamo di colore bianco, candidi, lucenti, immacolati. Ma, in realtà, sempre più spesso appaiono scuri e grigi. Per questo vengono chiamati ghiacciai neri, in termini tecnici debris covered glacier: distese di ghiaccio ricoperte di detriti e sedimenti, che si concentrano soprattutto nella porzione inferiore, la cosiddetta zona di ablazione. Questi depositi modificano il modo in cui la coltre ghiacciata interagisce con la luce solare, alterando il valore di albedo, ovvero il potere riflettente dello strato superficiale.

    Sicurezza e Ambiente

    Ghiacciai in ritirata: come la crisi del clima sta cambiando l’alpinismo

    a cura della redazione di Green&Blue

    16 Giugno 2025

    Riflettere o assorbire i raggi del sole
    Una superficie chiara, come la neve fresca, riflette gran parte dell’energia solare e ha, quindi, un valore di albedo elevato. Al contrario, una superficie scura ne respinge solo una minima parte e possiede perciò un valore molto inferiore, che comporta un maggiore assorbimento da parte del ghiaccio, con conseguente aumento della fusione. Per intenderci, lo stesso fenomeno è alla base della scelta dell’abbigliamento estivo: di solito preferiamo abiti bianchi anziché neri, proprio perché i primi, respingendo la luce del sole, ci consentono di stare più freschi, mentre i secondi, accumulando calore, amplificherebbero la sensazione di afa.

    Peraltro, un sensibile decremento dell’albedo è stato evidenziato già nel 2019 da uno studio pubblicato su Global and Planetary Change e condotto da ricercatori dell’Università degli Studi di Milano, che hanno analizzato 15 ghiacciai del gruppo Ortles-Cevedale, nelle Alpi centrali, tra il 1984 e il 2011.

    Argentina

    Manu Chao contro Milei, in gioco la sopravvivenza dei ghiacciai andini

    di Giacomo Talignani

    23 Giugno 2025

    Le cause del fenomeno
    La principale causa dell’annerimento sono i cambiamenti climatici avvenuti negli ultimi decenni. L’innalzamento delle temperature globali provoca, infatti, il rapido ritiro dei ghiacciai, esponendo superfici di roccia sempre più estese, che vengono sgretolate dal gelo e dalle escursioni termiche producendo materiali frantumati. Per esempio, sui ghiacciai della valle dell’Hunza sul Karakorum, in Pakistan, i detriti sono aumentati dall’8 al 21% tra il 1990 e il 2019. Analogamente, la copertura rocciosa sui ghiacciai del Gran Caucaso è passata da circa 48 chilometri quadrati nel 1986 a circa 79 nel 2014. Un altro importante fattore che contribuisce allo scurimento sono le polveri trasportate dall’atmosfera, di origine soprattutto umana, come il particolato proveniente dalla combustione dei motori diesel, dalle attività industriali, dagli incendi boschivi.

    Secondo alcuni esperti, però, almeno una notizia positiva ci sarebbe: quando la copertura supera i 10-20 centimetri di spessore protegge il ghiacciaio sottostante, rallentando, almeno per un certo periodo, il processo di scioglimento. Ma lo scenario resta comunque desolante.

    Gli esempi più significativi
    I ghiacciai neri si trovano in molte catene montuose del mondo, con una distribuzione eterogenea: in regioni polari o a basse pendenze la copertura detritica è quasi assente, mentre sulle montagne ripide è più abbondante. Ecco perché il fenomeno è presente anzitutto in Asia, dove sono coinvolti il ghiacciaio Khumbu in Nepal, sul versante dell’Everest; il ghiacciaio Ngozumpa sull’Himalaya orientale; il ghiacciaio Baltoro sul Karakorum. È rilevante anche sulle Ande, dove interessa soprattutto il ghiacciaio Ventisquero Negro sul monte Tronador, in Argentina. Neppure l’Italia è immune da questa dinamica. Sulle Alpi i casi più noti sono il ghiacciaio Miage sul Monte Bianco e quello del Belvedere sul Monte Rosa.
    Uno studio del 2018 basato su analisi satellitari ha stimato che circa il 4,4% della superficie di tutti i ghiacciai del Pianeta, fatta eccezione per Groenlandia e Antartide, è ricoperto da sedimenti. Questa percentuale globale, pur esigua, equivale in realtà a migliaia di chilometri quadrati di manti glaciali scuriti.

    La storia

    Il glaciologo Felix Keller: “Così possiamo salvare i ghiacciai”

    di Paola Arosio

    04 Giugno 2025

    L’impatto sull’ambiente
    La presenza di detriti ha vari impatti ambientali. Anzitutto aumenta l’instabilità dei versanti e il rischio di frane. Poi favorisce l’apertura di cavità e depressioni dove si accumula l’acqua formando dei laghi, sulla superficie o lungo i margini dei ghiacciai. Ciò destabilizza la struttura del ghiacciaio dall’interno e ne accelera il collasso, con il rischio di inondazioni improvvise nelle valli sottostanti. LEGGI TUTTO

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    Suoni Controvento 2025: la cultura incontra la natura nel festival a impatto zero

    Certe volte la sostenibilità è solo un’etichetta buona per ogni stagione. Certe altre, è davvero il cuore di un’ispirazione e di un progetto. Dal 15 luglio al 7 settembre torna Suoni Controvento, il festival umbro concepito per avere un impatto ambientale minimo. Nato per portare musica, teatro, letteratura, gaming e incontri sui temi d’attualità nei paesaggi naturali dell’Umbria, il festival ha fatto della sostenibilità il suo tratto distintivo. La manifestazione, arrivata alla nona edizione, è promossa da Aucma (Associazione umbra della canzone e della musica d’autore), associata AssoConcerti, con il sostegno di Regione Umbria, Sviluppumbria, Fondazione Perugia e Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni.

    Spettacolo fra borghi e natura
    Il programma spazia dalla musica alla letteratura, offrendo un’esperienza immersiva che fonde cultura e natura. Tra gli ospiti musicali più attesi ci sono Brunori SAS e gli Afterhours, previsti rispettivamente l’1 e il 3 agosto ad Assisi, Serena Rossi l’8 agosto a Spoleto, la PFM il 9 agosto a Gualdo Tadino, Nada l’11 agosto a Fossato di Vico e Dardust il 31 agosto a Narni. A settembre toccherà a Raphael Gualazzi esibirsi a San Gemini. Il cartellone internazionale vede la presenza di artisti come la carismatica Nik West, in programma il 12 agosto a Sigillo, il songwriter Joseph Arthur, e proposte indie, di confine e sperimentazione come Murubutu (02/08, Trevi), Giorgio Poi (27/07, Norcia), i Selton (06/08, Corciano) e molti altri. Non mancano contaminazioni tra teatro e musica, come l’evento con Mario Tozzi ed Enzo Favata (20/07, Marsciano), né raffinati incontri musicali, tra cui quello tra Luca Ciammarughi e Jacopo Taddei (02/09, Acquasparta). A chiudere la nona edizione sarà un omaggio a Pino Daniele alla Cantina Caprai di Montefalco.

    Cultura sostenibile in movimento
    Elemento distintivo di Suoni Controvento sono però anche le passeggiate verso i “palcoscenici naturali” dove si tengono i concerti. Quest’anno le camminate, che spesso si svolgono in notturna sotto il cielo stellato, potranno essere fatte anche in bicicletta, offrendo così un’alternativa sostenibile per raggiungere i luoghi degli spettacoli. Accanto alla musica, la letteratura rimane protagonista grazie alla rassegna “Libri in cammino”, che vedrà protagonisti Giorgio Van Straten (Montone, 20/07), Valerio Aiolli (02/08, Spoleto), Viola Di Grado (09/08, Sigillo), Valerio Mieli (24/08, Marsciano) e Nicoletta Verna, vincitrice dell’European Union Prize for Literature 2025, il 30 agosto a Narni.

    Dialogo su ambiente e società
    Il festival non trascura il dibattito sociale e ambientale, con la rassegna parallela “Ripartiamo dai territori”, incontri a ingresso gratuito organizzati da Rai Umbria e Suoni Controvento. Quattro gli appuntamenti in programma su temi di grande attualità e sensibilità sociale: si parte il 15 luglio al Teatro Cucinelli di Solomeo con “Come ricostruire un’economia sociale”, si prosegue il 27 luglio in piazza San Benedetto a Norcia con “La spiritualità – confronto, ispirazione e orientamento sociale”. Il 2 settembre a Palazzo Cesi di Acquasparta ci sarà “La cultura e l’educazione al rispetto sono le basi dei diritti civili”, per chiudere il 6 settembre al Sacro Convento di Assisi con “Come comunicare nuove energie creative”, anteprima del “Cortile di Francesco” dedicato quest’anno al tema della creazione. “Suoni Controvento è un festival che ribalta il rapporto tra natura ed eventi perché negli anni è riuscito a costruire un’audience che ha percepito e protetto l’importanza dei luoghi naturali e non – spiega Lucia Fiumi, presidente di Aucma – vogliamo proporre un modo nuovo di portare la cultura nella natura, dove le logiche d’uso sono sostituite da una collaborazione mutualistica tra uomo e natura.”

    Evento a impatto zero certificato
    Alla base di Suoni Controvento c’è un’impronta ecologica attentamente misurata. Tutti gli eventi sono progettati per ridurre al minimo l’impatto ambientale, evitando installazioni invasive e utilizzando strutture leggere e temporanee. Il festival è impegnato in un percorso di certificazione della carbon footprint, in collaborazione con Regusto, che consente di calcolare e compensare le emissioni di CO? tramite crediti di impatto certificati su blockchain. Inoltre, grazie alla partnership con il Gruppo Hera, Suoni Controvento promuove l’utilizzo di energia pulita, configurandosi come un modello di evento culturale a impatto positivo.

    Una rete culturale diffusa
    Nato nei borghi del Monte Cucco, Suoni Controvento coinvolge oggi ben 24 comuni umbri, tra borghi storici e scenari naturali incontaminati. Questa espansione testimonia la capacità del festival di creare una rete culturale diffusa sul territorio, valorizzando la natura e le strepitose piazze medievali umbre grazie anche alla partecipazione attiva delle comunità locali. I luoghi scelti non fanno dunque semplicemente da cornice: dalle cime montane ai parchi naturali, dalle grotte ai borghi medievali, diventano parte integrante degli spettacoli, instaurando un dialogo armonioso tra arte e paesaggio.

    Una rete nazionale per la musica in montagna
    Suoni Controvento fa inoltre parte del circuito “KeepOn Experience” ed è tra i fondatori della Rete dei Festival Italiani di Musica in Montagna insieme a eventi prestigiosi come Suoni delle Dolomiti (Trentino), Musica sulle Apuane (Toscana), MusicaStelle Outdoor (Valle d’Aosta), Paesaggi Sonori (Abruzzo), RisorgiMarche (Marche), Suoni della Murgia (Puglia) e Time in Jazz (Sardegna). La rassegna ha infine ottenuto il riconoscimento “Umbria culture for family”. LEGGI TUTTO

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    Fuliggine sull’Artico: l’acceleratore nascosto dello scioglimento dei ghiacciai

    Assorbe calore e trasportata dal vento può raggiungere aree lontane come il Circolo Polare Artico di cui è diventato un altro nemico silenzioso: la fuliggine prodotta dagli incendi scoppiati in Canada, Siberia, Alaska e Groenlandia. Gli scienziati del clima hanno osservato che depositandosi sulla neve e annerendo la superficie del ghiaccio, il black carbon riduce la sua capacità di riflettere la luce solare aumentando invece la possibilità di incamerare calore e dunque di accelerare il processo di scioglimento. Calcolando che gli incendi, anche a causa del riscaldamento globale stanno diventando più frequenti, duraturi e intesi, si comprende la preoccupazione della comunità scientifica globale.

    Un velo nero sull’Artico
    Secondo un lungo reportage pubblicato su Bloomberg Green, gli incendi scoppiati in Canada nel 2003 hanno rilasciato enormi quantità di fumo che trasportate dai forti venti sono arrivate fino al Circolo Polare Artico. Gli effetti del black carbon sono stati due: da una parte il carbonio nero ha agito come un acceleratore climatico facendo sciogliere il ghiaccio più velocemente, dall’altra visto che il suolo ha assorbito più calore, ha contribuito ad innalzare le temperature. Un circolo vizioso che rischia ora di trasformare l’Artico in una fonte attiva di emissioni di carbonio. Ma il black carbon non danneggia solo l’ambiente anche la salute umana, visto che è collegato a malattie respiratorie e cardiovascolari.

    Preoccupati gli scienziati del clima
    Quanto di quel carbonio nero contenuto nel fumo ha raggiunto le terre artiche e che danni ha causato? I ricercatori temono che quella coltre di fuliggine apparentemente innocua possa diventare un ulteriore contributo al riscaldamento di quello che è già il luogo che si riscalda più velocemente sulla Terra. Ma le dinamiche del black carbon nell’ambiente artico non sono semplici e non sono state ancora comprese del tutto. Gli scienziati ad esempio non sanno quanto i sistemi nuovolosi che intercettano gli incendi riescono ad intrappolare il calore oppure a riflettere la luce solare, con conseguente riscaldamento o raffreddamento della massa d’aria. Oppure, visto che la potenza del carbonio nero dipende dall’altitudine, stanno cercando di capire cosa determina il livello dell’atmosfera in cui rimane sospeso. E la neve fresca che cade sopra la fuliggine può mitigarne l’impatto?

    Spazio

    Dalle foreste boliviane ai ghiacciai antartici, ecco le prime immagini del satellite Biomass

    di Sandro Iannaccone

    23 Giugno 2025

    Il fumo nero e le conseguenze invisibili
    Sarah Smith è una fisica dell’atmosfera alla Columbia University e sta studiando in che modo gli incendi del 2023 in Canada hanno influenzato la calotta glaciale della Groenlandia. “Al momento quello che sappiamo è che più l’incendio è esteso, più il black carbon riesce a sollevarsi verso l’alto ed essere trasportato dal vento. Stiamo però ancora cercando di capire quanto queste masse d’aria cariche di black carbon possono essere immesse nell’atmosfera, a che livello e quali sono i loro effetti”.

    La storia

    Il glaciologo Felix Keller: “Così possiamo salvare i ghiacciai”

    di Paola Arosio

    04 Giugno 2025

    Tra tante domande c’è però un punto fermo: la diffusione dell’inverdimento artico. Non sembra un caso che la diffusione della crescita di alberi in diverse zone dell’Artico abbia coinciso proprio con l’aumento degli incendi che ha creato condizioni più calde e secche.

    Un pericolo dimenticato
    E pensare che prima degli incendi, i livelli di black carbon in Groenlandia sembravano diminuire, non aumentare. Per averne certezza basta osservare il suo andamento rimasto intrappolato nel ghiaccio che funziona come memoria storica del clima. Partendo dalle carote risalenti al 1700 che mostrano depositi di carbonio associati a incendi boschivi avvenuti in Nord America, i livelli di black carbon cominciano a salire in modo costante all’inizio del XX secolo, quando aumenta la domanda di gasolio da riscaldamento e carbone sia in Canada, che negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale.

    I temi

    Crisi climatica, nessun ghiacciaio ormai è al sicuro

    di Giacomo Tailgnani

    31 Maggio 2025

    Ma le misure successive per migliorare la qualità dell’aria, come l’aggiunta di scrubber alle centrali a carbone, insieme al passaggio a combustibili più puliti, hanno fatto sembrare agli scienziati del clima il problema meno urgente, soprattutto se confrontato ad altri fattori del cambiamento climatico causati dall’uomo. Adesso si torna indietro. “Avevamo le prove che c’era una tendenza al declino del carbonio nero nell’Artico”, ha detto chiaramente Mark Flanner, scienziato dell’Università del Michigan che da anni studia le interazioni tra la criosfera e il clima. Il 2023 però ha cambiato le carte.

    Focus

    Ghiacciai neri, cosa sono e perché si tratta di una brutta notizia

    di Paola Arosio

    11 Luglio 2025

    Un impatto globale
    La sfida dei ricercatori adesso è districare i processi generati dagli incendi da una miriade di altri eventi sovrapposti in una regione che funge da scudo climatico per il resto del pianeta. Per capire come il carbonio nero proveniente da una nuova generazione di mega-incendi si inserisca nel mix, Sarah Smith ha iniziato osservando la profondità ottica dell’Aod (Aerosol Optical Depth), un indicatore che misura la trasparenza dell’atmosfera rispetto alla luce solare. Ciò ha permesso di valutare la quantità di radiazione solare assorbita dalle colonne di fumo degli incendi del 2023. Le misurazioni hanno mostrato un Aod da record fino all’Europa occidentale, ha spiegato, e pennacchi di fumo così densi sugli Stati Uniti nord-orientali e sul Nord Atlantico che, in media per il mese di giugno, ha attenuato di due terzi la luce solare.

    L’iniziativa

    Reinhold Messner: “Ecco il mio museo dedicato ai ghiacciai”

    di Paola Arosio

    05 Luglio 2025

    Il team della professoressa Smith però non si è fermato e questa estate spera di ampliare la ricerca grazie alla rete di sensori terrestri “Purple Air” installati in tutta la Groenlandia. Obiettivo: determinare se il particolato vicino al suolo ha avuto un’impennata nel giugno 2023 quando il fumo degli incendi si è spostato sulla Groenlandia. Se lo ha fatto – piuttosto che essere piovuto sull’oceano durante il transito – il passo successivo è collegare i punti per vedere se il carbonio nero ha portato a cambiamenti nella calotta glaciale.

    Biodiversità

    La crisi del clima trasforma la vegetazione nell’Artico

    di Simone Valesini

    09 Maggio 2025

    Le esplosioni negli impianti petroliferi
    Ma i ricercatori che devono cercare di capire come difendere il ghiaccio artico dal black carbon non devono tenere presente solo la fuliggine causata dagli incendi. Ci sono altre fonti come le esplosioni avvenute negli impianti petroliferi e del gas della Russia, oltre gli scarti della combustione del carburante per le navi. Secondo gli scienziati, proprio lo sversamento che si verifica quando le raffinerie bruciano gas infiammabili diventerà la principale fonte di black carbon nei paesi artici entro il 2030. Non solo. Le stagioni più lunghe senza ghiaccio porteranno anche ad un aumento del traffico marittimo nella regione oltre a nuove rotte commerciali aumentando l’inquinamento. “Il calore nell’Artico e la velocità con cui le cose stanno cambiando, ci sta portando oltre i confini di qualsiasi cosa abbiamo visto in migliaia di anni”, ha detto Drew Shindell, professore di scienze della Terra alla Duke University, che ha presieduto una valutazione delle Nazioni Unite sull’impatto del black carbon nella troposfera. Il rapporto ha concluso che circa 0,5°C di riscaldamento dell’Artico potrebbero essere compensati riducendo le fonti di particolato nei prossimi decenni.

    Cosa si può fare
    All’interno dell’Artico, la riduzione dello sversamento negli impianti petroliferi e del gas russi ridurrebbe significativamente le emissioni di black carbon, ha detto Shindell, e limitare il traffico marittimo aiuterebbe a evitare futuri aumenti. È più probabile che le emissioni in Europa viaggino verso l’Artico che verso l’Asia o il Nord America alle medie latitudini, quindi anche il controllo dei combustibili pesanti in termini di carbonio nero, come il diesel, il carbone residenziale e i biocarburanti, aiuterebbe. Ridurre l’uso di combustibili fossili in generale rallenterebbe il riscaldamento globale, il che potrebbe impedire che le condizioni degli incendi peggiorino.

    La ricerca sul black carbon deve essere aggiornata e questo rende ancora più importante il monitoraggio del fumo degli incendi. Gli incendi canadesi in questa stagione hanno già bruciato 4,25 milioni di ettari. Per un po’, è sembrato che le emissioni di black carbon nell’Artico potessero aver raggiunto il picco. Ora, dice Shindell, “ci sono buone ragioni per pensare che invece stiamo andando nella direzione opposta”. LEGGI TUTTO

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    Urban mining: le città diventano miniere di materie prime

    Le nostre città stanno diventando delle miniere. Solo che non tutti lo sanno. Eppure con il ritmo crescente con cui consumiamo prodotti ricchi di materie prime, sempre più rare e preziose, rischiamo di buttar via tonnellate di rifiuti che invece hanno un valore. Oro, rame, alluminio, terre rare, plastica spesso contenuti in oggetti che scartiamo e buttiamo. Si chiama urban mining, ed oggi è uno dei concetti chiave dell’economia circolare: si riferisce al recupero di materie prime e materiali preziosi dai rifiuti prodotti nelle aree urbane, invece di estrarli direttamente da giacimenti naturali. Nelle miniere metropolitane, i rifiuti elettronici, quelli solidi urbani, gli scarti da costruzione e demolizione contengono quantità importanti di metalli rari che possono (devono) essere reintrodotti nel ciclo produttivo. Su questo tema la Commissione Ue sta ragionando in modo strategico e si sta preparando ad introdurre nel 2026, la normativa europea sull’economia circolare, proprio per valorizzare queste risorse che vanno perse. E che se le scartiamo, inquinano.

    Ambiente

    Etichetta energetica anche su smartphone e tablet: cosa cambia per ricarica e riciclo

    di Dario D’Elia

    19 Giugno 2025

    L’Europa e le sfide da affrontare
    Sicuramente, le batterie agli ioni di litio dei veicoli elettrici o di qualsiasi altro dispositivo elettronico, dipendono da materie prime critiche, come litio, nichel e cobalto. Con l’aumento della domanda di queste tecnologie, cresce anche la richiesta dei loro componenti. Specialmente in Europa, che dipende fortemente da paesi esterni per la fornitura di questi materiali. Infatti il Sudafrica fornisce il 41% della domanda dell’Ue di manganese primario, mentre il Cile provvede al 79% del suo litio lavorato. Per quanto riguarda le batterie, la Cina controlla circa il 70% dell’intera catena del valore delle batterie, dalla lavorazione delle materie prime all’assemblaggio. Di conseguenza, l’UE è altamente vulnerabile a carenze.

    Il riciclo per l’UE potrebbe fornire una soluzione sia per stabilizzare l’offerta, che per minimizzare il danno ecologico. Infatti, l’estrazione delle materie prime critiche comporta costi e rischi elevati, in termini economici e ambientali. Per cominciare, le attività di esplorazione per trovare giacimenti di questi minerali possono richiedere anni, senza alcuna garanzia di successo. L’estrazione dei materiali stessi è altamente intensiva in termini di risorse: l’estrazione di 1 kg di cobalto, un componente essenziale di diverse chimiche delle batterie, consuma circa 250 kg di acqua e produce almeno 100 kg di materiale di scarto.

    Economia circolare

    Viaggio nell’impianto che estrae terre rare dai dispositivi elettronici che buttiamo

    di Luca Fraioli

    15 Aprile 2025

    I vantaggi dell’urban mining
    Ecco perché molte economie avanzate stanno considerando il riciclo dei metalli e il potenziamento dell’economia circolare come valore aggiunto per i loro piani strategici. Paesi come il Giappone e la Cina, così come molti stati degli USA, hanno approvato legislazioni relative al riciclo di elettronica e batterie, seguendo l’esempio virtuoso dell’Europa.
    Ma Secondo il rapporto Recycling of Critical Minerals dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), le prime 20 aziende al mondo per capacità di pre-trattamento e recupero di materiali sono tutte cinesi: le prime tre detengono circa il 15% del mercato globale del pre-trattamento e quasi il 20% del mercato del recupero dei materiali. In prospettiva, si prevede che il gigante asiatico manterrà oltre il 75% della capacità globale di recupero dei materiali nel 2030, con gli Usa al 10% e l’Ue al 5% della quota di mercato.
    62 milioni di tonnellate di Raee in discarica
    Ed ecco che torniamo al concetto dell’urban mining, che non riguarda solo le batterie esauste, ma anche la crescente quantità di rifiuti elettronici. Sono 62 milioni le tonnellate di RAEE che nel 2022 avrebbero potuto riempire un milione e mezzo di camion da 40 tonnellate. Invece di finire in discarica possono essere sfruttati come miniere urbane di materie prime secondarie, anche perché recuperare ciò che già possediamo manterrà queste preziose materie prime in Europa. Secondo i calcoli dell’istituto JRC, l’offerta potenziale di cobalto, componente essenziale per batterie ed elettronica, potrebbe ammontare al 42% della domanda dell’Ue entro il 2050.
    Per farlo però, occorre mantenere questi processi in casa. Infatti, anche i RAEE vengono spesso lavorati fuori dai confini europei, per abbattere i costi di manodopera o perché è più semplice farlo nelle strutture dove già sono lavorate le materie prima. Ma qui, c’è necessità di cambiare il paradigma all’interno dell’UE per costruire un’industria sostenibile e competitiva. LEGGI TUTTO