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    Come ridurre la plastica monouso in casa e in azienda

    Ridurre la plastica è un imperativo assoluto, tenendo conto che questa pervade ormai il nostro Pianeta, rappresentando uno dei problemi ambientali più critici. Milioni di tonnellate di rifiuti di plastica ogni anno inquinano terreni, città e mari, mettendo in serio pericolo la nostra salute, quella degli animali e quella degli ecosistemi: l’uso smodato della plastica e la sua gestione inadeguata sono responsabili di una mole immensa di rifiuti, rendendo questo materiale di per sé prezioso una minaccia. Seppur diffusissima ed eliminarla possa non essere così semplice, con i giusti accorgimenti ridurre la plastica monouso in casa e in azienda è possibile e necessario per combattere l’inquinamento ambientale, tutelando così la Terra ormai invasa dalla sua presenza.

    Perché è importante ridurre l’uso della plastica?
    Entrata nella vita dell’uomo a partire dal XIX secolo, la plastica ha rivoluzionato le nostre esistenze, impattando ogni settore produttivo e la quotidianità di ciascuno di noi, determinando la diffusione di alimenti monoporzione e confezionati, che ci hanno permesso di seguire il ritmo della società odierna sempre più frenetica, veloce e impregnata dalla cultura dell’usa e getta.

    La plastica è un prodotto sintetico formato da polimeri e dalla lunga conservazione: apprezzata per la sua grande versatilità e i suoi innumerevoli usi, si è ampiamente diffusa, tanto che la sua produzione incessante ha oltrepassato la capacità dell’uomo nel gestirla. Negli ultimi decenni la plastica si è trasformata in un problema urgente per via del suo smaltimento, tenendo conto che non è un materiale semplice da riciclare, potendo essere reimpiegato un numero limitato di volte per dare vita ad altre materie plastiche. Malgrado le politiche volte a ridurre l’uso della plastica, secondo le previsioni future la presenza di questo materiale aumenterà nei prossimi 30 anni.

    Il tema della plastica è un’emergenza che non può più essere rimandata: ciascuno di noi può fare la sua parte mettendo in campo azioni finalizzate a ridurre il suo uso sia in casa, che in ufficio. Oltre a rendere la raccolta differenziata un’abitudine quotidiana, separando correttamente la plastica dalla carta e dagli altri rifiuti, ci sono una serie di strategie grazie alle quali ridurre l’uso della plastica.

    Buone pratiche per contenere l’uso della plastica in casa
    Quando si parla di ridurre la plastica un’azione di grande impatto riguarda l’uso delle bottiglie di acqua in plastica, che rappresentano un forte problema per il Pianeta, tenendo conto che la loro decomposizione richiede tempi davvero lunghi e che solo una minima parte riesce a essere riciclata. Proprio per questo, piuttosto che bere l’acqua dalle bottiglie di plastica, è bene idratarsi con l’acqua del rubinetto, potendo microfiltrarla per aumentare le sue qualità organolettiche oppure applicando sistemi di osmosi nell’impianto idrico domestico per depurarla.

    Ridurre l’uso della plastica passa anche dalla scelta di non ricorrere a soluzioni monouso usa e getta, come per esempio posate, piatti, bicchieri in plastica e cannucce che impattano moltissimo sul Pianeta. Se proprio non si può fare a meno di accessori usa e getta è importante impiegare opzioni che siano biodegradabili.

    Altro accorgimento utile consiste nell’evitare la pellicola trasparente, conservando piuttosto gli alimenti in contenitori in vetro oppure acciaio. Le confezioni in plastica monouso andrebbero usate il meno possibile, ma qualora ne fossimo in possesso è bene fare in modo di impiegarle più volte, finché il loro ciclo di vita lo permette, smaltendole così nel lungo periodo ed evitando di usarle solo una volta e buttarle subito.

    Come ridurre la plastica monouso: consigli utili
    Per contenere il consumo della plastica monouso si possono attuare delle strategie per quanto riguarda la spesa. Nel carrello dovrebbero esserci meno prodotti in packaging plastificati, prediligendo bensì opzioni fresche come frutta e verdura, che non solo sono più genuine, ma anche contenute in sacchetti di carta. Inoltre, quando si va al supermercato è importante portare sempre con sé un sacchetto che sia riutilizzabile, come una borsa in tessuto, azione semplice che ci permette di contenere gli sprechi, evitando di ritrovarci con l’ennesimo sacchetto di plastica.

    Altro accorgimento utile è quello di fare una spesa ben pianificata, più grande e con cadenza settimanale, evitando spese piccole e ravvicinate, cosa che ci permette di ridurre significativamente l’acquisto di imballaggi monouso. In questa direzione è bene prediligere prodotti sfusi: per quanto riguarda i detersivi è possibile acquistarli in contenitori riutilizzabili, rifornendosi in supermercati oppure negozi specializzati, ricorrendo alla medesima confezione. Accanto ai prodotti sfusi, altre opzioni con cui contenere la plastica in casa sono per esempio il bagnoschiuma solido, il dentifricio in pastiglie e lo spazzolino in bambù. Quando si è fuori casa si può limitare il consumo della plastica monouso portando con sé una borraccia con dell’acqua del rubinetto.

    Le mosse per ridurre la plastica monouso in azienda
    Anche in ufficio si possono mettere in atto delle azioni virtuose per contenere la plastica monouso. Da parte delle aziende è necessario dotarsi di dispenser dell’acqua, oppure fornire ai dipendenti delle borracce, facendo in modo che l’acqua del rubinetto sia stata pulita con sistemi di depurazione. Inoltre, bisogna evitare piatti, bicchieri e posate in plastica nelle mense, optando per soluzioni riutilizzabili, inserire negli uffici i cestini necessari per la corretta raccolta differenziata e ricorrere a dispenser di sapone ricaricabili nei bagni. In generale, è opportuno contenere quanto più possibile l’uso di materiali di plastica in ufficio, impiegando piuttosto opzioni in cartone riciclato oppure vetro.

    Dal lato dei lavoratori per mettere in atto un approccio più sostenibile sul posto di lavoro è bene tenere in ufficio a portata di mano una tazzina da caffè, per non ricorrere ai bicchieri usa e getta della macchinetta, e per lo spuntino e per il pranzo utilizzare contenitori riutilizzabili e lavabili, evitando quelli in plastica usa e getta. Accanto a tutto questo, è importante eseguire correttamente la raccolta differenziata, gettando la plastica nel recipiente preposto, e preferire l’archiviazione digitale dei documenti per evitare di ricorrere a buste e contenitori in plastica. LEGGI TUTTO

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    Quando il fuoco non è nemico di savane e foreste

    Uno sguardo diverso sul tema del fuoco che lo consideri un alleato dell’ambiente, nella sua relazione con la Terra e nel suo potenziale ecologico, recuperando conoscenze e pratiche tradizionali in chiave inventiva, immaginando l’utilizzo di fonti di energia alternative ai combustibili fossili. È la proposta (controcorrente) di una ventina di scrittori, scienziati, filosofi, registi, architetti, paesaggisti, condensata nel volume Dalla parte del fuoco, edito dalla Fondazione Benetton – istituzione culturale che dal 1987 si occupa di tematiche legate alla cultura del paesaggio, all’etica ambientale, alle questioni ecologiche – e curato da Luigi Latini e Simonetta Zanon. Si dichiara con solide argomentazioni come il fuoco costituisca una presenza costante del nostro ambiente di vita, anche nelle pratiche di gestione e cura del paesaggio, e debba essere riscoperto e valorizzato. La proposta può sembrare una provocazione, ma, in realtà, rappresenta una sfida. D’altra parte, gli incendi più violenti sono spesso causati, paradossalmente, dall’assenza di combustioni, naturali o generate e controllate dall’uomo, alle quali i paesaggi, nel tempo, si erano adattati.

    Simonetta Zanon, responsabile dell’area di ricerca Progetti paesaggio della Fondazione Benetton e curatrice dell’opera, racconta a l’origine e il senso del saggio. “Il libro nasce dall’esperienza delle giornate di studio sul disegno del paesaggio del 2023 e costituisce un passo ulteriore sul tema del fuoco, con il quale ci stiamo confrontando ormai da tre anni. Ammetto che sia difficile affrontare un argomento complesso come questo, anche alla luce del riscaldamento climatico, di incendi sempre più intensi, più spaventosi e di eruzioni vulcaniche distruttive”. Ma, ragiona Zanon, “ci rendiamo conto che la pericolosità del fuoco viene amplificata dal nostro modo di abitare il paesaggio”. La dimensione distruttiva è dovuta anche al degrado ecologico e all’abbandono della cura dell’ambiente: “nei boschi lasciati a loro stessi si accumula una grande quantità di massa infiammabile, gli ambienti urbani si confondono con le foreste, costruiamo interi paesi a ridosso dei vulcani”. Il lavoro della Fondazione illustra numerosi interventi propositivi, nei quali l’utilizzo del fuoco e la prevenzione di incendi devastanti prevale sulla logica militare delle tecniche antincendio. Nella storia dell’uomo, in agricoltura e nella gestione forestale, l’uso sapiente del fuoco è sempre stato una delle pratiche più utili e utilizzate. Simonetta Zanon ce ne ricorda uno, ampiamente praticato anche in Italia: “Nei paesaggi umidi bruciare l’enorme massa vegetale prodotta ogni anno dalle piante, significa consentire la rigenerazione della vegetazione, che altrimenti faticherebbe a germogliare”. Una precisazione necessaria: “tutti gli interventi raccontati nel libro sono assolutamente controllati e a piccola scala”. Ecco alcuni esempi.

    L’intelligenza artificiale “divora” energia con un impatto ambientale insostenibile

    a cura della redazione di Green&Blue

    21 Marzo 2025

    Le savane dell’isola della Réunion
    Serge Briffaud – professore presso l’École Nationale Superieure d’Architecture et de Paysage di Bordeaux e ricercatore del Centre National de la Recherche Scientifique – e Quentin Rivière – geografo e ricercatore – dal 2016 hanno contribuito all’avvio e all’attuazione di una campagna di fuoco controllato nelle savane dell’isola francese della Réunion, nell’Oceano Indiano a est del Madagascar, dove questa tecnica non era mai stata utilizzata prima. L’hanno fatto nell’ambito di un progetto di ricerca e azione a lungo termine, finanziato dal Conservatoire du littoral e dalla Fondation de France. Le savane de La Réunion si estendono tra la costa e un’altitudine di 300-400 metri. Oggi costituiscono un paesaggio e un ambiente a rischio di estinzione, all’interno di un territorio costiero segnato da un forte sviluppo dell’urbanizzazione. Per tre secoli, il desiderio di avere un pascolo permanente ha portato gli allevatori a utilizzare il fuoco. Il suo utilizzo regolare ha permesso il mantenimento di una savana erbosa o leggermente boscosa, ma il restringimento delle aree di savana e il notevole declino dell’allevamento negli ultimi decenni hanno deregolamentato questo sistema, provocando importanti cambiamenti paesaggistici ed ecologici. Il progetto di ricerca ha dimostrato che le aree biologicamente più ricche corrispondono a quelle in cui sono state mantenute in vita le tradizionali pratiche piro-pastorali: con l’utilizzo del fuoco si è riusciti a rinnovare il potere nutritivo delle graminacee, che negli anni va diminuendo. Le fiamme vengono appiccate alla fine della stagione secca, in ottobre o novembre, e l’erba ricresce alle prime piogge, diventando nuovamente appetibile tre o quattro mesi dopo.

    Storie di fuoco nel paesaggio australiano
    Il Progetto Cultivated by Fire, tra disegno del paesaggio e arte, esplora l’antica pratica aborigena di gestione della terra nota come fire-stick farming (l’utilizzo di piccoli incendi controllati). È stato realizzato da Kate Cullity – architetta paesaggista e artista ambientale – e da Marni Elder – artista e designer. Un’installazione artistica, che comprende fiamme vere, è stata allestita in forma permanente a Berlino, tra i “Giardini del mondo” del grande parco nel quartiere Marzahn. Cultivated by Fire nasce dall’immagine satellitare di una mappa termica delle terre d’origine dei Martu, nell’Australia occidentale, che sono state bruciate in maniera selettiva e a bassa intensità dalle popolazioni native, per ridurre il rischio di incendi più grandi e distruttivi, allontanare gli animali e, allo stesso tempo, rigenerare il terreno in vista di una ricrescita. Il disegno crea essenzialmente un mosaico, che ricorda sia ciò che è stato bruciato, sia ciò che si è rigenerato, proprio come nelle aree dell’Australia dove tuttora è in uso questa pratica di gestione degli incendi. Il progetto, tra i numerosi spunti, riconosce l’incredibile capacità degli eucalipti di rigenerarsi dopo un incendio attraverso due strategie di sopravvivenza: la ricrescita dalle radici e la germinazione dei semi. Dopo una distruzione di enorme portata, possono essere generate fino a due milioni e mezzo di nuove giovani piante per ettaro.

    L’intelligenza artificiale “divora” energia con un impatto ambientale insostenibile

    a cura della redazione di Green&Blue

    21 Marzo 2025

    Coltivare il paesaggio mediterraneo
    Nell’ambito di Renaissance, progetto di recupero di un bosco bruciato nel 2019 nel comune di Générac (Francia meridionale, tra Montpellier e la Camargue), naturalisti, forestali, agricoltori, politici, tecnici e associazioni hanno lavorato per pensare al futuro di 80 ettari di terreno comunale tra vigneti e stagni. La coordinatrice, Véronique Mure, botanica e ingegnere agronomo tropicale, scrive che “ricostruire questo bosco ha significato anche condividere con gli abitanti del luogo, bambini e adulti, una certa cultura del fuoco e la comprensione del funzionamento delle piante pirofite e dei piro-paesaggi, in modo tale che il bosco non sia più visto solo come un rischio, ma come uno spazio vitale”. Il lavoro è servito a mettere in luce come molte specie vegetali abbiano sviluppato strategie per sopravvivere al fuoco, o anche per trarne vantaggio. Tra le pirofite mediterranee, sono da considerare, innanzitutto, le piante che ricrescono a svilupparsi rapidamente dopo un incendio grazie a profondi organi sotterranei, come i polloni della quercia spinosa (Quercus coccifera) o il lignotubero del corbezzolo (Arbutus unedo), l’erica (Erica arborea) e la fillirea (Phillyrea angustifolia). Altre piante si proteggono grazie a un’epidermide molto spessa che tiene al riparo dalle fiamme i loro tessuti interni e i vasi conduttori. La quercia da sughero (Quercus suber) è un esempio ben noto. Il pino d’Aleppo (Pinus halepensis) e il cisto (Cistus sp.) si affidano invece a una strategia attiva di ricolonizzazione degli ambienti attraverso i loro semi, subito dopo un incendio. La quiescenza dei loro semi viene infatti interrotta dallo stress termico o dall’effetto chimico della cenere. Oltre alle esperienze progettuali, artistiche, naturalistiche, Dalla parte del fuoco si occupa anche degli aspetti storici, delle ragioni simboliche e dell’importanza del fuoco per l’evoluzione della specie umana. Marco Belpoliti, nell’introduzione, cita l’antico mito di Prometeo nel quale il fuoco è di natura divina, per averlo occorre rubarlo agli dèi, confliggere con loro, e quindi rischiare la vita, e ricorda come l’inizio dell’età del fuoco risalga a 400mila anni fa, quando l’Homo erectus ne faceva uso, ben prima della comparsa dell’Homo sapiens. Con un salto temporale notevole, si arriva a Italo Calvino, affascinato dall’uso del fuoco dopo un viaggio in Persia, dove lo scrittore ligure incontra l’antica religione di Zoroastro, praticata ancora oggi in Iran e nella vicina India da alcune migliaia di fedeli. I parsi custodiscono nel loro sacrario il fuoco che arde da secoli nel tempio dedicato ad Ahura Mazda, la divinità creatrice del mondo, divinità ignea. Calvino, catturato da quelle pratiche religiose, trasferisce il suo sguardo al cosmo e sancisce: “l’universo è un incendio”. LEGGI TUTTO

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    Neve ai minimi storici sull’Himalaya: due miliardi di persone a rischio siccità

    Due miliardi di persone rischiano di restare senza acqua a causa della mancanza di neve. Succede in Nepal, dove le nevicate della catena montuosa Hindu Kush hanno raggiunto il minimo degli ultimi 23 anni, mettendo in pericolo l’approvvigionamento idrico della popolazione che dipende dallo scioglimento della neve. Il significativo calo della persistenza della neve, pari al 23,6% sotto la norma, per il terzo anno consecutivo, fa presagire una potenziale riduzione dei deflussi fluviali, una maggiore dipendenza dalle acque sotterranee e un aumentato rischio di siccità. A denunciarlo, in un rapporto appena pubblicato, lo Hkh Snow Update Report 2025, gli scienziati dello International Center for Integrated Mountain Development (Icimod).

    Come suggerisce il nome, i rapporti dell’Icimod monitorano da anni le anomalie stagionali della neve nella regione Hindu Kush Himalaya, e forniscono un’analisi della persistenza della neve stagionale (novembre-marzo), ovvero la frazione di tempo in cui la neve rimane al suolo dopo una nevicata. Dal momento che lo scioglimento della neve che contribuisce in media a circa un quarto del deflusso annuo totale di dodici importanti bacini fluviali della regione, le anomalie appena registrate influenzano la sicurezza idrica dei quasi due miliardi di persone che dipendono da questi bacini. Il rapporto appena pubblicato evidenzia che il 2025 non è solo stato il terzo anno consecutivo di persistenza della neve inferiore alla norma, ma ha anche toccato un minimo storico degli ultimi 23 anni, raggiungendo per l’appunto quota -23,6% rispetto alla media.

    Clima

    Himalaya, i ghiacciai si sciolgono a una velocità record

    Giacomo Talignani

    20 Dicembre 2021

    Meno neve dappertutto
    Come sottolineato nel documento, quattro dei cinque inverni passati tra il 2020-2021 e il 2024-2025 hanno visto una persistenza della neve inferiore alla norma in tutti e dodici i bacini fluviali interessati, e i declini più importanti sono stati osservati nel bacino del Mekong (-51,9%) e del Salween (-48,3%), seguiti dall’altopiano tibetano (-29,1%), dal Brahmaputra (-27,9%), dallo Yangtze (-26,3%) e dal Gange (-24,1%). Anche i bacini a prevalenza nevosa, come l’Amu Darya (-18,8%) e l’Indo (-16%) hanno contribuito a registrare una riduzione della persistenza della neve.

    Caldo e sete
    “Quest’anno, le nevicate sono iniziate tardi a gennaio”, ha spiegato Sher Muhammad, autore principale del rapporto, “e sono rimaste basse in media durante la stagione invernale”. Diversi paesi della regione hanno già emesso allarmi di siccità, legati al fatto che i prossimi raccolti e l’eccesso all’acqua saranno a rischio per popolazioni già provate da ondate di calore sempre più lunghe, più intense e più frequenti. Un ulteriore deficit di acqua comporterebbe una minore portata dei fiumi nei mesi secchi, il che rende urgente la necessità di mettere a punto strategie di gestione adattativa delle (poche) risorse idriche per mitigare gli impatti della carenza di acqua, specialmente per le comunità a valle che affrontano estati sempre più estreme.

    Agire in fretta
    Per queste ragioni, gli autori del rapporto raccomandano che le autorità competenti si preparino per tempo, mettendo a punto programmi di allocazione ottimizzata dell’acqua e istituendo meccanismi di risposta alla siccità per un soccorso efficace e tempestivo a eventuali emergenze. Alla base di tutto, come al solito, ci sono la crisi climatica e le emissioni di gas climalteranti: “Le emissioni di anidride carbonica”, ha commentato Pema Gyamitsho, direttore generale dell’Icimod, “hanno già innescato una serie irreversibile di anomalie nevose dell’Hindu Kush Himalaya. Bisogna cambiare urgentemente le politiche per affrontare questa situazione nel lungo termine”. LEGGI TUTTO

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    Come riciclare i barattoli di vetro: idee creative

    I barattoli di vetro sono tra gli oggetti più comuni nelle nostre case, ma spesso vengono gettati via senza pensarci due volte. In realtà questi contenitori possono avere una seconda vita, diventando protagonisti di idee creative e utili anche per ridurre lo spreco.
    Vediamo dunque come reinventarli in pochi e semplici passi per evitare di gettarli via e, allo stesso tempo, decorare con creatività la nostra casa. I barattoli di vetro si possono riciclare in tanti modi diversi, tutti molto semplici, creativi e utili per ridurre gli sprechi dando una nuova vita agli oggetti che altrimenti verrebbero buttati.
    Barattoli di vetro come candele fai da te
    Uno dei modi più semplici e belli per riciclare i barattoli di vetro è trasformarli in candele. Puoi facilmente realizzare una candela decorativa utilizzando cera naturale, stoppini e qualche goccia di olio essenziale per un profumo rilassante. Basterà sciogliere la cera, versarla nel barattolo e inserire lo stoppino al centro. Dopo che la cera si è solidificata, avrai una candela originale per aggiungere un tocco di atmosfera alla tua casa.

    Barattoli di vetro come vasi per piante
    I barattoli di vetro possono diventare dei graziosi vasi per piante. Puoi utilizzarli per coltivare piante succulente, piccole erbe aromatiche o anche fiori freschi. Se desideri un effetto più rustico, puoi decorare il barattolo con corde, nastri o pittura acrilica. Inoltre, essendo trasparenti, i barattoli di vetro ti permettono di osservare le radici delle piante mentre crescono, aggiungendo un tocco naturale e affascinante al tuo arredamento. LEGGI TUTTO

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    Scoperte piante con le foglie di plastica

    Sembra la trama di un futuro distopico ma purtroppo è realtà: piante con foglie di plastica, non quelle finte che compriamo per arredare le nostre case, ma direttamente degli alberi che troviamo in natura. Sappiamo bene che dalle profondità della Fossa delle Marianne sino alle nuvole sopra il monte Fuji, le microplastiche prodotte dalle attività antropiche sono ormai ovunque, con conseguenze difficili da comprendere. E sappiamo anche che tramite più processi ormai sono dentro di noi: si trovano in qualunque organo, dal cervello fino ai polmoni, e i danni potenziali che questi polimeri potrebbero arrecare nel tempo alla nostra salute sono oggetto di studio e ricerca in tutto il mondo.

    Inquinamento

    Se aumentano le temperature le piante assorbono più nanoplastiche

    di redazione Green&Blue

    10 Febbraio 2025

    Dalle radici alle foglie
    Ora però una nuova analisi pubblicata su Nature dai ricercatori cinesi dell’Università di Nankai racconta una scoperta sorprendente e per molti aspetti tragica: le foglie delle piante possono assorbire direttamente le microplastiche e integrarle. Lo hanno scoperto studiando la vegetazione di alcune aree intorno a fabbriche e zone industriali particolarmente inquinate. Finora si sapeva che una determinata quantità di assorbimento da parte delle piante poteva avvenire per esempio tramite le radici con una traslocazione ai germogli verso l’alto molto lenta. Ma in un contesto in cui le microplastiche derivate dalle nostre attività sono sempre più presenti in atmosfera i ricercatori asiatici volevano comprendere e trovare prove concrete dell’assorbimento diretto da parte delle piante nelle parti esposte, quelle esterne al suolo.

    Inquinamento

    Le microplastiche trasformano le nuvole e il clima

    di redazione Green&Blue

    12 Novembre 2024

    Le sostanze
    Grazie alle loro analisi che utilizzano la spettrometria di massa i ricercatori mostrano “la presenza diffusa di polimeri e oligomeri di polietilene tereftalato (Pet) e polistirene (Ps) nelle foglie delle piante e identificano che i loro livelli aumentano con le concentrazioni atmosferiche e la durata della crescita fogliare” scrivono nella ricerca. Si parla di microplastiche che si infiltrano nel tessuto fogliare e diventano parte delle foglie stesse, come in quelle trovate su alcune piante di mais ma in questo caso, specificano gli esperti, non c’è un processo di assorbimento dalle radici ma direttamente dall’atmosfera portando così a una “presenza diffusa di polimeri plastici nella vegetazione”.
    Particelle anche nella lattuga in Portogallo
    I test e le rilevazioni sono stati fatti sia in aree urbane che in siti agricoli e i ricercatori, dopo le analisi in laboratorio, confermano che l’assorbimento fogliare è una via significativa per l’accumulo di plastica nelle piante con traslocazione nel tessuto vascolare e ritenzione in strutture specializzate come i tricomi.
    Mentre precedenti studi avevano già dimostrato come i micro frammenti di plastica tendono a depositarsi sulle superfici vegetali, di recente nuove ricerche condotte in Australia avevano segnalato la presenza di particelle acriliche nelle foglie per esempio di una pianta come la Chirita sinensis, ma non erano riuscite a quantificare e collegare i risultati direttamente ai livelli atmosferici, così come indagini condotte in Portogallo avevano rilevato particelle nella lattuga coltivata in ambienti urbani.

    Inquinamento

    Sostanze tossiche nei parchi urbani? Ce lo dicono i ricci

    di Paolo Travisi

    17 Aprile 2025

    Sulle foglie di mais
    La nuova ricerca cinese però va oltre. Dopo i campionamenti effettuati a Tianjin, che comprendono aree come i siti di produzione di Dacron, un parco pubblico, una discarica e un campus universitario, mostra una chiaro assorbimento delle concentrazioni di microplastiche nelle foglie del mais. In particolare i livelli di plastica in quelli rilevati presso le fabbriche e le discariche erano di due ordini di grandezza superiori a quelle per esempio studiate nel campus. Gli scienziati scrivono anche che nei luoghi più inquinati “le concentrazioni di PET hanno raggiunto decine di migliaia di nanogrammi per grammo di peso fogliare secco”. Tra l’altro, fanno notare gli esperti, in generale le foglie più vecchie e le foglie esterne per esempio di alcune verdure hanno accumulato più plastica rispetto a quelle appena cresciute o a quelle più interne, fatto che suggerisce un possibile accumulo nel tempo.
    I rischi per la salute
    La dinamica descritta è quella che indica come le particelle di plastica aerodisperse siano entrate nelle foglie attraverso gli stomi e si siano poi spostate lungo le vie interne fino ai tessuti vascolari e ai tricomi: così sono “nate” praticamente le foglie di plastica. “I nostri risultati dimostrano che l’assorbimento e l’accumulo di microplastiche atmosferiche da parte delle foglie delle piante si verificano ampiamente nell’ambiente e questo non dovrebbe essere trascurato quando si valuta l’esposizione degli esseri umani e di altri organismi a microplastiche ambientali” concludono gli scienziati. LEGGI TUTTO

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    Oscar europeo del clima 2025: la svedese Tele2 l’azienda più green

    L’Oscar europeo del clima 2025 va alla Tele2 di Stoccolma. La società svedese specializzata in telecomunicazioni ha infatti accumulato il punteggio più alto nell’ultima edizione di Europe’s Climate Leaders, classifica delle aziende più green del Vecchio Continente redatta dal Financial Times in collaborazione con Statista. A dominare la parte alta della graduatoria sono soprattutto le imprese del Nordeuropa: Regno Unito, Paesi Bassi, Svezia, Danimarca, Germania. Ma nei primi posti, su un elenco di centinaia di aziende, compaiono anche alcune italiane. C’è addirittura sul podio la Erg della famiglia Garrone. Ma il suo terzo posto sorprende fino a un certo punto: dal 2008 l’azienda ha disinvestito dal settore petrolifero (core business fin dalla fondazione nel 1938) per concentrarsi sulle energie rinnovabili. E oggi nell’eolico è tra i primi dieci operatori a livello europeo.

    L’intervista

    “La transizione energetica oggi è tecnicamente possibile ed economicamente vantaggiosa”

    di Paolo Travisi

    10 Aprile 2025

    Le aziende italiane
    Al 18esimo posto compare l’Enav, Ente nazionale per l’assistenza al volo. Come si legge nel suo bilancio 2024 “è riuscita a diminuire ancora la propria impronta carbonica arrivando ad un -87,4% di emissioni al 2019”. Poco più, in 21esima posizione, figura il Gruppo Irce, che “opera nel settore dei conduttori per avvolgimento e cavi elettrici”. Con base a Imola, ha quattro stabilimenti in Italia e cinque all’estero. Attento alle emissioni della propria filiera, il gruppo lo scorso anno ha inaugurato proprio Imola un impianto fotovoltaico da 60 megawatt per soddisfare parte dei suoi fabbisogni energetici. Più lontani dal vertice il gruppo Safilo (42esimo posto), Enel (67esimo), Maire (78esimo).

    Riduzione gas serra, trasparenza, collaborazione
    L’analisi del Financial Times si concentra principalmente sulle aziende che hanno ottenuto la maggiore riduzione, in un periodo di cinque anni (2018-23 per questa edizione), dell’intensità delle emissioni di gas serra di Scopo 1 e 2, quelle che provengono rispettivamente dalle attività operative dell’azienda e dall’energia che utilizza. Tra i criteri utilizzati per stilare la classifica c’è anche la trasparenza sulle emissioni di Scopo 3, quelle che derivano dalla catena di fornitura di un’azienda e che in genere costituiscono la maggior parte delle emissioni di carbonio aziendali. Vengono inoltre presi in considerazione i progressi delle aziende nella riduzione delle emissioni assolute e la loro collaborazione con enti di valutazione della sostenibilità.

    Europa

    La lotta alla crisi climatica ha bisogno dell’Unione europea

    di Jacopo Bencini*

    07 Aprile 2025

    Gap green tra Nord e del Sud Europa
    “La quinta edizione di Europe’s Climate Leaders”, spiegano dal quotidiano finanziario della City, “mira a evidenziare le aziende europee che stanno compiendo progressi nella riduzione delle emissioni di gas serra”. Ma non vuole essere una lista dei buoni e dei cattivi, anche nello scorrerla non si può fare a meno di notare il gap green tra le realtà produttive del Nord e del Sud Europa.
    Più in generale però il rapporto, pur riferendosi al quinquennio 2018-2023, sembra confermare quello che sostengono in molti: il cammino delle imprese europee verso una economia decarbonizzata è ormai avviato e sta dando risultati, grazie anche alle politiche di Bruxelles. Si tratta ora di capire se il ciclone Trump provocherà ripensamenti. In Italia e altrove. LEGGI TUTTO

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    Bonus tende 2025: le novità, come richiederlo, i requisiti

    L’estate è alle porte e anche per il 2025 c’è la possibilità di approfittare del Bonus tende. Si tratta di una detrazione Irpef del 50% per la prima casa e del 36% per gli altri immobili in dieci rate annuali con un massimo di 60.000 euro, nell’ambito dell’ecobonus. Tende e schermature solari, infatti, fanno parte degli interventi di risparmio energetico in quanto consentono di limitare i consumi dei climatizzatori grazie al fatto di ridurre l’insolazione, e quindi il calore calore che entra in casa, in maniera del tutto naturale. Per l’agevolazione fiscale, però, il risparmio energetico deve essere certificato.
    Solo strutture tecniche e “niente fai da te”. Sono ammessi al Bonus tende:
    tende da sole a telo avvolgibile
    a rullo
    a lamelle orientabili (veneziane)
    frangisole;
    coperture tessili per pergole;
    zanzariere tecniche

    Fisco verde

    Bonus per i Gruppi di autoconsumo e le Comunità energetiche rinnovabili: costi e benefici

    di Antonella Donati

    02 Aprile 2025

    La certificazione
    Il rispetto delle norme tecniche deve essere attestato dal produttore per tutte le tipologie di schermature solari. Anche l’installazione deve essere certificata in quanto occorre attestare la riduzione del consumo energetico che si ottiene applicando i sistemi di protezione alle vetrate. Per questo motivo il Bonus è escluso per le tende d’arredo liberamente montabili e smontabili, in quanto prive di documentazione del produttore, e anche per le installazioni fai da te e non da parte del tecnico specializzato.
    Le regole per l’installazione e spese detraibili
    Per assicurare gli obbiettivi di risparmio energetico richiesti ai fini dell’agevolazione, tende e schermature solari debbono essere installate esclusivamente a protezione di superfici vetrate esposte a Sud, Est o Ovest. Ai fini della riduzione dell’insolazione devono essere essere regolabili in base alla luce solare, in modo che con la loro installazione sia possibile garantire un valore di trasmittanza solare (gtot), calcolato secondo la norma UNI EN 14501, inferiore a 0,35. Questo valore deve essere certificato. Per questo motivo tra le spese detraibili, oltre a fornitura e posa in opera e a tutte le opere accessorie legate all’installazione, rientrano anche le prestazioni professionali quali asseverazione e redazione della documentazione tecnica da presentare all’Enea. L’agevolazione è ammessa anche per la sostituzione delle vecchie tende a patto che le nuove consentano di ottenere un ulteriore risparmio energetico. In questo caso sono detraibili anche le spese di smontaggio e smaltimento delle precedenti strutture oscuranti.

    Fisco verde

    Bonus elettrodomestici 2025, salta lo sconto in fattura

    di Antonella Donati

    26 Marzo 2025

    Le pergole bioclimatiche e le zanzariere
    Oltre alle tende è possibile richiedere il bonus anche per l’installazione delle pergole bioclimatiche, vale a dire delle strutture tecniche leggere installate su una parete o autoportanti caratterizzate da un tetto formato da lamelle orientabili automatiche. Rientrano nell’ambito delle strutture oscuranti. Si possono installare senza permessi edilizi, purché siano strutture aperte da tutti i lati.
    Anche le zanzariere sono ammesse (ma non tutte). Anche le zanzariere, peraltro, possono rientrare nell’ecobonus. Per questo però debbono avere le stesse caratteristiche delle altre strutture oscuranti e rispettare i requisiti di trasmittanza solare richiesti per le schermature tecniche. Occorre anche in questo caso la specifica certificazione tecnica da parte del produttore e dell’installatore.

    Fisco verde

    Bonus mobili e risparmio energetico, lo sconto fiscale vale per l’acquisto di elettrodomestici

    di Antonella Donati

    19 Marzo 2025

    Obblighi Enea e modalità di pagamento
    Per usufruire della detrazione è necessario effettuare il pagamento tramite bonifico parlante per l’ecobonus.Si deve poi caricare sul portale ENEA, entro 90 giorni dalla fine dei lavori, tutta la documentazione (fatture, asseverazioni, schede tecniche). La ricevuta dell’invio è sempre necessaria ai fini della detrazione. LEGGI TUTTO

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    Anche le gomme da masticare rilasciano microplastiche

    Si trovano appiccicate alle panchine, attaccate sotto i banchi di scuola, abbandonate sui marciapiedi. Le gomme da masticare sono un grande business, con un valore stimato di 42,85 miliardi di euro nel 2025. Una valutazione globale indica che ne vengono prodotte 1.740 miliardi all’anno, con un peso medio per singolo pezzo di 1,4 grammi, il che significa che la quantità totale ammonta a ben 2,436 milioni di tonnellate annue.
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    Gomme a base di petrolio
    La maggior parte delle chewing gum è realizzata con gomme sintetiche a base di petrolio. Di fatto, ci si ritrova a masticare un pezzo di plastica malleabile.
    “Il marchio Wrigley Extra collabora con dentisti di tutto il mondo per promuovere l’uso di gomme senza zucchero per migliorare la salute orale”, spiega David Jones, docente alla Facoltà di Scienze dell’ambiente e della vita dell’Università di Portsmouth, nel Regno Unito. “Ma le analisi dimostrano che il prodotto contiene stirene-butadiene, sostanza chimica resistente utilizzata per realizzare pneumatici per auto; polietilene, cioè la plastica usata per produrre sacchetti e bottiglie; acetato di polivinile, ovvero colla per legno. E poi dolcificanti e aromi”.

    Dai contenitori dedicati alla segnaletica
    Dopo aver sputato la gomma, molti consumatori la buttano, purtroppo, per terra. Nel Regno Unito, uno studio ha stimato che 250mila chewing gum fossero rimaste appiccicate in Oxford Street a Londra, mentre una ricerca del 2015 ha evidenziato che il costo della rimozione dalle strade della capitale ammontava a 56 milioni di sterline. Per ovviare a un problema che, a quanto pare, è molto diffuso, sono stati avviati vari progetti. Alcuni Paesi hanno, per esempio, installato contenitori dedicati alla raccolta delle gomme usate, come è avvenuto a Hong Kong dal 2018. Altri hanno incoraggiato, tramite un’apposita segnaletica, lo smaltimento responsabile. Singapore ha addirittura vietato l’importazione e la vendita di chewing gum dal 1992. Insomma, tutti si sono concentrati sulla questione dei rifiuti, con provvedimenti più o meno drastici. Il che va bene, però non basta.
    Un inquinamento da contrastare
    “L’adeguato smaltimento delle gomme non può essere considerato una soluzione a questa forma di inquinamento da plastica”, stigmatizza Jones. “Il chewing gum, al pari di altre materie plastiche, non è biodegradabile. Si indurisce e si decompone in microplastiche, un processo che può richiedere decenni”. In proposito, un gruppo di ricercatori dell’Università della California, negli Stati Uniti, ha evidenziato che un grammo di gomma da masticare rilascia una media di 100 microplastiche, mentre alcune ne rilasciano addirittura fino a 600 per grammo.
    “Chiarire ciò significa affrontare la causa principale della questione, spostando la focalizzazione dalla negligenza individuale al sistema aziendale. E questo pone la responsabilità non solo sui consumatori, ma anche sui produttori”, prosegue l’esperto.

    Benessere a tavola

    Microplastiche, quei pericolosi “intrusi” che frutta e verdura possono aiutare a contrastare

    di Giorgio e Caterina Calabrese

    11 Aprile 2025

    In attesa di alternative sostenibili
    “Anzitutto bisognerebbe apporre un’etichettatura più esauriente e completa sulle confezioni, in modo che gli acquirenti possano fare scelte consapevoli”, propone il docente. “Poi ci vorrebbero normative più severe e rigorose, per obbligare i fabbricanti a rendere conto delle proprie azioni. Infine, servirebbe una tassa sulle gomme sintetiche, mirata anche a incentivare gli investimenti in gomme a base vegetale o a creare altre alternative sostenibili. L’inquinamento da chewing gum è solo un’ulteriore forma di inquinamento da plastica. È ora di iniziare a trattarlo come tale”. LEGGI TUTTO