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    Cibo del futuro, la biotecnologia aiuta a creare alimenti più sani e sostenibili

    “Crediamo che la biotecnologia possa cambiare radicalmente il modo in cui produciamo il cibo”. Ne è convinto Lorenzo Paolini, cofondatore & ceo di Noiet, startup food-biotech fondata a Milano nel luglio 2025 insieme a Marcello Brugnoli che sviluppa proteine fermentate multifunzionali in grado di sostituire, in un’unica soluzione, additivi sintetici tradizionalmente impiegati nell’industria alimentare. Proteine che garantiscono conservazione naturale, protezione antiossidante, miglioramento del profilo nutrizionale e prolungamento della vita dei prodotti. Davanti alla richiesta del mercato di trovare alimenti più naturali, privi di additivi artificiali e con etichette semplici e trasparenti, Noiet ha sviluppato una tecnologia basata sulla fermentazione microbica che consente di ottenere ingredienti naturali in grado di essere riprodotte anche su scala industriale.

    Il “food tech” incontra la transizione ecologica: arriva un nuovo corso di laurea

    di Dario D’Elia

    05 Novembre 2025

    La tecnologia alleata dei cibi del futuro
    “La nostra idea è dimostrare che è possibile unire innovazione, naturalità e sostenibilità – racconta Lorenzo Paolini – e se l’obiettivo è costruire un’industria alimentare più trasparente, pulita e circolare, la tecnologia non può che essere uno degli alleati principali”. Nemico numero uno: gli additivi di sintesi chimica, i cosiddetti “numeri E”, le sostanze utilizzate per una funzione specifica (ad esempio i conservanti), ma prive di valori nutrizionali, con il risultato di allungare l’etichetta e complicarne la comprensione al consumatore. Spiega Paolini: “Utilizzando come materia prima, gli alimenti originati dalla produzione delle bevande vegetali, ricchi di proteine, fibre e zuccheri, tramite il nostro processo, otteniamo un ingrediente naturale in polvere, estremamente ricco da un punto di vista nutrizionale e con proprietà antiossidanti e conservanti. Attraverso la biotecnologia, riusciamo a sostituire gli additivi chimici con ingredienti fermentati multifunzionali e clean-label, riducendo al contempo l’impatto ambientale dell’industria alimentare”.

    Lorenzo paolini e Marcello Brugnoli fondatori della startup Noiet  LEGGI TUTTO

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    Quarant’anni per “riparare” Il buco dell’ozono

    Sono passati quasi 40 anni da quando la scoperta del buco nell’ozono in Antartide ha mostrato al mondo l’impatto dell’uomo sull’ambiente. Una crisi ambientale globale da cui è emersa anche la nostra capacità di reagire. Mentre, infatti, monitoriamo il recupero di questo strato protettivo naturale, la sua storia ci offre una preziosa lezione per affrontare le altre complesse sfide ambientali del nostro tempo, prima fra tutte la crisi climatica.

    Ma partiamo dall’ozono.

    Un gas composto da tre atomi di ossigeno (O?), a differenza dell’ossigeno che respiriamo che ne ha solo due. È un gas minore nella nostra atmosfera e si trova principalmente nello “strato di ozono” ad altitudini comprese tra 10 e 35 chilometri. Sulla superficie terrestre risulta tossico in quantità elevate, ma nella stratosfera svolge un ruolo vitale bloccando le radiazioni ultraviolette più pericolose. Assorbe, infatti, la maggior parte dei raggi UV provenienti dal sole, responsabili di e tumori della pelle e altre gravi patologie negli esseri umani, oltre ad effetti devastanti sulla produttività agricola e sull’equilibrio degli ecosistemi marini. Lo strato di ozono è uno dei cardini fondamentali dell’equilibrio del sistema Terra, tanto che la sua distruzione rientra tra i nove Limiti Planetari (Planetary Boundaries), il cui superamento determina conseguenze catastrofiche e imprevedibili.

    L’invenzione miracolosa
    La minaccia a questo strato vitale dell’atmosfera nasce da un’invenzione al tempo celebrata come rivoluzionaria: i clorofluorocarburi (CFC), una classe di sostanze alcune note col nome commerciale di Freon. Sintetizzati per la prima volta negli anni ’30, questi gas rispondono a molte esigenze dell’industria moderna: stabili, non tossici, non infiammabili e poco costosi. Trovano ampia applicazione in molti settori, come refrigeranti nei frigoriferi e nei condizionatori d’aria, come propellenti nelle bombolette spray di deodoranti, lacche, insetticidi, come solventi nell’elettronica e molto altro. La loro produzione esplode nel dopoguerra, spinta dal boom economico. Il mondo intero si affida ai CFC, ignaro dei pericoli che si celano nell’apparente innocuità: proprio la loro stabilità si sarebbe infatti rivelata, in alta atmosfera, la loro caratteristica più distruttiva.

    La ferita
    È il 16 maggio 1985 quando un gruppo di ricercatori, guidato dal fisico Joe Farman del BAS, pubblica sulla rivista Nature in uno degli articoli scientifici più rilevanti del secolo, annunciando la scoperta del “buco nell’ozono”. Le immagini satellitari della NASA confermarono la presenza una “ferita” enorme sopra il polo sud, estesa quanto il continente nordamericano. Le mappe colorate mostrano un’area vastissima di colore blu scuro-viola (che indica concentrazioni bassissime di ozono) circondata da anelli di colore verde, giallo e rosso (concentrazioni più normali). Il pericolo diventa immediato, tangibile e globale: lo scudo naturale contro le radiazioni ultraviolette era gravemente compromesso.

    La causa
    La comprensione delle cause di questo fenomeno è un capolavoro scientifico internazionale, premiato poi nel 1995 con il Nobel per la Chimica. Già negli anni ’70, Paul Crutzen, Mario Molina e Sherwood Rowland avevano ipotizzato il meccanismo alla base del problema: i CFC potevano raggiungere la stratosfera intatti grazie alla loro elevata stabilità chimica. Qui, la radiazione ultravioletta del Sole ne provocava la fotolisi, liberando atomi di cloro capaci di distruggere, attraverso reazioni a catena, decine di migliaia di molecole di ozono. Ma come può una lacca per capelli creare un buco nello strato di ozono? La risposta sta nella chimica dell’atmosfera: le osservazioni satellitari e le misurazioni dirette condotte in Antartide rivelarono alte concentrazioni di cloro attivo nelle zone dove l’ozono risultava più rarefatto, confermando il legame tra i CFC e la perdita dello strato protettivo. Durante l’inverno australe, quando le temperature scendono sotto i –80 °C, si formano le spettacolari nubi stratosferiche polari, che favoriscono la trasformazione dei composti di cloro in forme altamente reattive. Con il ritorno della luce solare in primavera, queste reazioni si intensificano, portando alla distruzione massiccia dell’ozono: è qui che si apre il “buco” sopra l’Antartide.

    Lo scontro con l’industria
    Questa scoperta suscita un acceso dibattito tra comunità scientifica e mondo industriale. L’amministratore delegato della DuPont – la società che aveva brevettato e dominava la produzione i CFC – bollò la teoria di Rowland e Molina come “un racconto di fantascienza”. Tuttavia, di fronte all’accumularsi delle evidenze scientifiche e la pressione internazionale, i governi iniziarono ad agire: già dal 1978 Stati Uniti, Canada, Norvegia, Svezia e Danimarca approvarono regolamenti per limitare l’uso dei CFC. Nonostante le iniziali resistenze, l’industria finì per adeguarsi alle nuove norme e investì massicciamente nella ricerca di sostituti più sicuri. LEGGI TUTTO

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    Decarbonizzare una cementeria? Si può fare, a Rezzato-Mazzano

    La cattura di emissioni di CO2 da qualche anno si inizia a sperimentare anche nelle cementerie, ma l’avanguardia probabilmente sarà in Italia, esattamente presso l’impianto Rezzato-Mazzano di Heidelberg Materials Italia. Il relativo progetto Dream (Decarbonisation of the Rezzato And Mazzano cement plant) infatti è stato selezionato per concorrere alla ricezione dell’Innovation Fund dell’Unione Europea. Si […] LEGGI TUTTO

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    Dalla Lombardia alla Basilicata, i fondi regionali per il fotovoltaico

    Fine d’anno con nuovi fondi a disposizione a supporto del fotovoltaico. Diversi i bandi regionali attivi che si rivolgono a privati e imprese possono contare su alcune centinaia di milioni di euro di contributi a fondo perduto per installare impianti solari e sistemi di accumulo. Il punto sui principali finanziamenti disponibili e sulle scadenze da non perdere.

    Friuli Venezia Giulia, fondi anche per i pannelli da balcone
    Il bando della Regione Friuli Venezia Giulia per il fotovoltatico su immobilo residenziali prevede anche il finanziamento per i sistemi plug and play, ossia dei pannelli da balcone. Previsto un contributo pari al 40% del costo. Per un impianto fotovoltaico di questo tipo il costo massimo ammissibile è di 1.720 euro, con un incentivo massimo di 688 euro. Per gli impianti tradizionali, ossia quelli con potenza pari o superiore agli 800 kw, invece, è ammissibile un costo massimo di 3.000 euro al kW con il limite di 7.200 euro per l’incentivo. Agevolate al 40% anche le batterie di accumulo. Le domande possono essere presentate solo a lavori ultimati attraverso la piattaforma online dedicata. L’incentivo è cumulabile con le detrazioni fiscali (bonus casa al 50%), purché la somma delle agevolazioni ottenute non ecceda il limite della spesa complessivamente sostenuta.

    Basilicata, domande entro il 31 dicembre
    Anche la Basilicata punta sul fotovoltaico residenziale con uno stanziamento di 39 milioni di euro destinato a impianti a fonti rinnovabili per privati. Il bando prevede contributi a fondo perduto fino a 10.000 euro per l’installazione di impianti fotovoltaici con potenza non inferiore a 3 kW (con tolleranza del 5%). L’agevolazione include anche i sistemi di accumulo con capacità minima di 4,5 kWh, oltre a collettori solari, pompe di calore e scaldacqua a pompa di calore. Le domande possono essere presentate fino al 31 dicembre 2025 attraverso la piattaforma Centrale bandi della Regione.

    Liguria, una settimana per presentare domanda
    La Regione Liguria offre invece un’opportunità con tempi molto stretti. Il bando si rivolge a micro, piccole, medie e grandi imprese per la realizzazione di impianti di autoconsumo da fonti rinnovabili. Sono ammessi interventi che riguardano fotovoltaico, mini-eolico, geotermico e biomassa, oltre alla sostituzione di componenti obsoleti con soluzioni più efficienti. La piattaforma per la compilazione offline delle domande è disponibile dal 3 novembre 2025, mentre l’invio telematico sarà possibile dal 17 al 29 novembre prossimo.

    Sardegna, a disposzione 29 milioni fino a giugno 2026
    Tempo più ampio in Sardegna per le imprese sarde che possono contare su uno stanziamento di 29 milioni di euro per sostenere autoconsumo e risparmio energetico. Il bando, pubblicato il 23 ottobre 2025, finanzia due linee di intervento: efficienza energetica e riduzione consumi (razionalizzazione dei cicli produttivi, adeguamento e rinnovo impianti) e installazione di impianti per l’autoproduzione di energia da fonti rinnovabili. Le domande possono essere presentate fino al 30 giugno 2026, salvo esaurimento anticipato delle risorse disponibili.

    Lombardia, bando aperto dal 5 novembre
    Anche la Regione Lombardia ha pubblicato un bando da 20 milioni di euro, aperto dal 5 novembre 2025, destinato alle imprese che investono in efficientamento energetico. La misura prevede un contributo a fondo perduto pari al 50% delle spese, con un limite massimo di 50.000 euro per beneficiario. Gli interventi ammessi comprendono l’installazione di impianti fotovoltaici e sistemi di accumulo, oltre alla razionalizzazione dei cicli produttivi e all’adeguamento degli impianti per ridurre i consumi energetici. L’efficientamento atteso deve essere certificato da una relazione tecnica. Le domande devono essere presentate esclusivamente online attraverso la piattaforma Bandi e Servizi della Regione. LEGGI TUTTO

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    La ritirata da record del ghiacciaio Hektoria

    Otto km di ghiaccio persi in due mesi, ed è record. Parliamo della eccezionale ritirata del ghiacciaio di Hektoria, in Antartide, nella porzione del continente che si allunga verso la Terra del fuoco. Eccezionale perché, scrivono gli autori dalle pagine di Nature geoscience presentando i risultati delle loro analisi, qualcosa del genere nella glaciologia moderna non si era mai visto. Al di là del record, monitorare simili eventi e comprenderne le ragioni, è essenziale per capire cosa potrebbe succedere negli anni a venire ai ghiacciai antartici, spiegano gli autori.

    Riscaldamento globale

    Sopra l’Antartide aria fino a 35ºC più calda del normale

    di Fiammetta Cupellaro

    02 Ottobre 2025

    “Il ritiro dell’Hektoria è un po’ uno shock: questa fulminea ritirata cambia davvero quello che potrebbe succedere ad altri ghiacciai più grandi del continente”, ha commentato dal Cooperative Institute for Research in Environmental Science (Cires) della University of Colorado Boulder Ted Scambos, tra gli autori della ricerca: “Se le stesse condizioni si verificassero in altre aree, l’innalzamento del livello del mare nel continente potrebbe accelerare notevolmente”. La ritirata del ghiaccio Hektoria è avvenuta a cavallo tra il 2022 e l’inizio del 2023, e in totale si stima che le perdite siano state di 25 km, ma si sono concentrate alla fine del 2022, quando solo tra novembre e dicembre appunto ne sono volati via 8 km.

    Secondo gli autori, che hanno mappato cambiamenti nelle dimensioni, morfologia e altezza del ghiacciaio utilizzando i dati raccolti da diversi satelliti combinati con analisi sismiche, il fenomeno andrebbe ricollegato alla particolare conformazione dell’Hektoria, tutt’altro che rara nell’Antartide. Secondo le loro ricostruzioni il fenomeno ha avuto inizio con il distacco progressivo di iceberg dal ghiaccio, che avrebbe anticipato l’assottigliamento dell’Hektoria. A questo punto, spiegano i ricercatori, la conformazione del terreno sotto il ghiacciaio, piatto, avrebbe favorito il galleggiamento e quindi l’ulteriore sfaldamento, accelerato. Nello specifico gli scienziati parlano di ice plain per riferirsi alle zone piatte su cui è appoggiato il ghiacciaio, sottoposte alla spinta idrostatica. Regioni simili, continuano, sono state osservate in diverse aree dell’Antartide, come la Barriera di Ross, il ghiacciaio di Pine Island o il ghiacciaio Thwaites.

    Crisi climatica

    L’iceberg più grande del mondo si sta disintegrando

    di Giacomo Talignani

    03 Settembre 2025

    “In questo caso, il ritiro è stato causato principalmente da un processo di distacco legato all’ice plain, piuttosto che dalle condizioni atmosferiche o oceaniche come suggerito in precedenza – concludono – Questo implica che i ghiacciai con terminazione marina e con una geometria del letto di ghiaccio ad ice plain possono essere facilmente destabilizzati”. LEGGI TUTTO

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    Perché all’Italia non conviene una retromarcia sulla transizione alla green economy

    Lo stato di salute della Green economy in Italia registra luci ed ombre. Nel 2024 le emissioni di gas serra diminuiscono troppo poco; aumentano i consumi finali di energia per edifici e trasporti e si importa troppa energia dall’estero; il consumo di suolo non si arresta; la mobilità sostenibile si scontra con 701 auto ogni 1000 abitanti, il numero più alto d’Europa. Dall’altro lato, la produzione di energia elettrica da rinnovabili è arrivata al 49% di tutta la generazione nazionale di elettricità, l’Italia mantiene il suo primato europeo in economia circolare, l’agricoltura biologica cresce del 24% nel 2024 e le città italiane mostrano vivacità nella transizione ecologica. È questa la fotografia dell’Italia delle green economy contenuta nella Relazione sullo Stato della Green Economy 2025 presentata oggi in apertura degli Stati Generali della Green Economy, il summit verde promosso dal Consiglio Nazionale della Green Economy e dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile.

    “Abbiamo messo al centro di questa edizione un tema cruciale per il nostro paese: conviene o meno all’Italia tornare indietro nella transizione ad una green economy decarbonizzata, circolare e che tutela il capitale naturale? – ha affermato Edo Ronchi, Presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile – Noi riteniamo di no, anche alla luce dell’impatto positivo sull’economia italiana avuto con i progetti del PNRR, nei quali è stato rilevante l’aspetto della sostenibilità ambientale. Senza il Pnrr, il Pil italiano sarebbe stato in stagnazione o, addirittura, in recessione e sarebbe stato molto difficile contenere il deficit al 3%. Per l’Italia, al centro dell’hot-spot climatico del Mediterraneo, con un aumento delle temperature che corre il doppio della media mondiale, la transizione energetica e climatica è di vitale importanza”.

    “L’Italia, con le sue leadership in settori fondamentali come l’economia circolare, ha le carte in regola per essere nel gruppo di testa di un’Europa che guardi alla transizione in modo realistico e pragmatico. In un contesto complesso sotto il profilo geopolitico e di profondi cambiamenti climatici, il nostro continente deve investire in innovazione, crescita sostenibile e sicurezza energetica. L’Italia delle imprese impegnate nella green economy è un esempio da seguire per l’economia del futuro”: lo dichiara Gilberto Pichetto Fratin, Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica.

    I numeri italiani

    Emissioni e Clima

    Dal 1990 al 2024 sono state ridotte complessivamente del 28%, ma nel solo 2024 il taglio delle emissioni di gas serra è stato di poco più di 7 milioni di tonnellate, neanche un meno 2% su base annua: un quarto della diminuzione registrata nel 2023. Per raggiungere l’obiettivo assegnato all’Italia nell’ambito del burden sharing europeo del 43% al 2030, occorre tagliarle di un altro 15% nei rimanenti 6 anni. In Italia il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre con oltre 3.600 eventi climatici estremi, quattro volte quelli del 2018.

    Energia, rinnovabili al 49% per la produzione elettrica
    Dal 2005 al 2024, in Italia i consumi di energia per unità di ricchezza prodotta si sono ridotti del 28% (meno della media europea del 35%). L’Italia rimane inoltre fra i Paesi europei con la più alta dipendenza energetica dall’estero. Per i consumi finali di energia, le stime per il 2024 non sono positive: i consumi registrano un aumento di circa l’1,5%, da ricondursi interamente ai settori degli edifici e dei trasporti, che si confermano i veri settori “hard to abate” per l’Italia. Nel 2024 la produzione di elettricità da rinnovabili ha superato i 130 miliardi di kWh, al 49% della generazione di elettricità, in traiettoria col target del Pniec, del 70% al 2030. Purtroppo, i dati del primo semestre del 2025 mostrano un nuovo possibile rallentamento – del 17% per le nuove installazioni di eolico e fotovoltaico rispetto al primo semestre del 2024 – probabilmente per la fine del superbonus del 110% e per la frenata attivata da alcune Regioni. Più efficienza, maggiore risparmio energetico e un forte sviluppo delle rinnovabili sono essenziali non solo per la decarbonizzazione, ma anche per ridurre in Italia i costi dell’energia e aumentare la competitività.

    Economia circolare, l’Italia primeggia in Europa
    La transizione verso una maggiore circolarità dell’economia è particolarmente importante per l’Italia, che utilizza grandi quantità di materiali che importa per il 46,6%. L’Italia ha le migliori performance di circolarità fra i grandi Paesi europei per la produttività delle risorse, cresciuta dal 2020 al 2024 del 32%, da 3,6 a 4,7 €/kg; per il tasso di utilizzo circolare dei materiali, che nel 2023 ha raggiunto il 20,8; per-il tasso di riciclo dell’86% del totale dei rifiuti e per il 75,6% di riciclo degli imballaggi. Attenzione però al mercato delle MPS, in particolare quello della plastica riciclata che è precipitato in una forte crisi e che, se non risolta, potrebbe produrre ricadute negative anche sugli sbocchi delle raccolte differenziate.

    Mobilità, l’e-car non decolla
    In Italia, benché nel 2024 abbiamo raggiunto il record europeo di 701 auto ogni 1000 abitanti (571 la media UE di 571), la produzione è scesa ai minimi storici, a 310 mila unità, con una quota, ormai marginale, del 2,1%, della produzione di auto in Europa. Dopo aver perso il treno dell’industria automobilistica tradizionale, si stanno accumulando ritardi anche nell’industria automobilistica del futuro, quella delle auto elettriche, calate del 13% nel 2024, con una quota di mercato in diminuzione dall’8,6% al 7,6%, un terzo della media UE che è al 22,7%. Benzina e diesel alimentano ancora l’82,5% del parco e il parco auto invecchia ogni anno di più, è arrivato a una media di 12,8 anni.

    Agricoltura, il biologico cresce
    Tra il 1980 e il 2023 in Italia i danni causati all’agricoltura da eventi atmosferici estremi sono stati pari a 135 miliardi di euro, il più elevato in Europa. È essenziale che l’agricoltura italiana sia più coinvolta nella transizione climatica, con misure di adattamento e mitigazione. L’Italia è il Paese europeo con il più elevato numero di prodotti DOP, IGP, STG: nel 2023 sono stati 856. Cresce ormai ogni anno l’agricoltura biologica. Nel 2024 la somma delle aree certificate e in conversione è stata di 2.514.596 con un incremento del 2,4% rispetto all’anno precedente e dell’81,2% in confronto al 2014. La Sicilia continua a essere la regione con la maggiore estensione in valore assoluto (402.779), seguita da Puglia e Toscana. Queste tre regioni concentrano il 38% di tutta la superficie biologica nazionale.

    Il consumo di suolo non si arresta
    Tra il 2022 e il 2023 il consumo di suolo in Italia è stato di 64,4 km2 circa 17,6 ettari al giorno, il terzo valore più alto dal 2012. L’impermeabilizzazione del suolo aumenta il deflusso superficiale e riduce la capacità di assorbimento delle piogge, contribuendo ad aumentare gli impatti degli eventi atmosferici estremi. In termini di impermeabilizzazione, tra i capoluoghi delle Città Metropolitane, segnaliamo che Napoli con il 34,7% e Milano con il 31,8%, hanno i valori più elevati, mentre Messina (6%), Reggio Calabria (5,8%) e Palermo (5,7%) registrano le minori percentuali.

    Le città italiane al lavoro per la transizione ecologica
    Le città italiane sono molto esposte ai rischi della crisi climatica. Nei mesi estivi del 2024, il 90,6% della popolazione residente nelle città italiane è stata esposta a temperature medie superiori a 40°C. Grazie alla partecipazione ad iniziative europee e ai fondi del Pnrr, molte città hanno realizzato interventi di mitigazione e di adattamento alla crisi climatica e iniziative dedicate alla transizione ecologica: impianti innovativi per la gestione rifiuti urbani, aumento di piste ciclabili e potenziamento del trasporto pubblico, rinnovo delle flotte di bus, tutela e valorizzazione del verde urbano, ecc. Nel 2026, terminati i fondi del Pnrr, occorrerà attivare nuove forme di finanziamento per continuare a sostenere la grande vivacità e qualità delle iniziative per la transizione ecologica avviate nelle città. LEGGI TUTTO

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    L’alocasia, come prendersi cura delle “orecchie di elefante”

    L’alocasia è una delle piante tropicali più amate dagli appassionati di botanica e di design d’interni. Originaria delle foreste pluviali dell’Asia sud-orientale, appartiene alla famiglia delle Araceae e deve il soprannome “orecchie di elefante” alle sue foglie enormi, a forma di cuore o di freccia. In natura può superare i due metri di altezza, mentre in appartamento resta una presenza scenografica e di grande eleganza. Prendersene cura, tuttavia, non è immediato: questa pianta richiede attenzioni precise su luce, umidità, terreno e difesa dai parassiti. Ecco una guida completa per coltivarla con successo.

    Coltivazione dell’alocasia: terreno e clima ideali
    Per crescere rigogliosa, l’alocasia ha bisogno di condizioni che riproducano il suo habitat tropicale. Predilige temperature comprese tra i 18 e i 25 gradi e non tollera sbalzi termici né correnti d’aria fredde. Sotto i 15 gradi, infatti, la pianta rischia di soffrire e arrestare lo sviluppo. Per quanto riguarda invece il terreno, questo deve essere soffice, ben drenato e ricco di sostanza organica: un mix di terriccio universale, torba e perlite assicura il giusto equilibrio tra umidità e ossigenazione delle radici. Per chi desiderasse coltivare l’alocasia in giardino, è bene ricordare che in Italia può vivere all’aperto solo nelle zone più miti, mentre altrove conviene tenerla in vaso per spostarla facilmente in inverno.

    Irrigazione: quando annaffiarla
    L’acqua è vitale per questa pianta, che ama l’umidità costante. Ma attenzione: troppa irrigazione può essere dannosa quanto la siccità. Il ristagno idrico, infatti, favorisce il marciume radicale, una delle principali cause di deperimento della maggior parte delle piante. Il metodo migliore per capire se sia o meno ora di irrigare l’alocasia è quello di controllare il terreno con le dita. Se lo strato superficiale appare asciutto, è il momento di annaffiare; in estate la frequenza può arrivare a due volte a settimana, mentre in inverno va ridotta sensibilmente. Un’accortezza in più è nebulizzare le foglie con acqua non calcarea, per ricreare il microclima umido che l’alocasia predilige.

    L’esposizione dell’alocasia
    La luce è un altro fattore decisivo per la salute dell’Alocasia. Questa pianta tropicale ha bisogno di ambienti luminosi, ma non sopporta i raggi diretti del sole, che possono bruciare le foglie lasciando antiestetiche macchie marroni. Se coltivata in casa, il punto ideale è vicino a una finestra orientata a est o a ovest, dove la luce arriva filtrata e mai troppo aggressiva. In giardino, invece, l’Alocasia va collocata in mezz’ombra, protetta dalle ore più calde della giornata.

    Come prendersi cura dell’Alocasia: concimazione
    Durante la stagione vegetativa, da aprile a settembre, l’Alocasia beneficia di una fertilizzazione regolare. Un concime liquido per piante verdi, somministrato ogni due settimane, garantisce un apporto costante di nutrienti. In autunno e inverno, quando la pianta entra in riposo, la concimazione va sospesa. Anche le grandi foglie dell’alocasia richiedono una certa attenzione; per mantenerle in salute ed esteticamente appaganti, sarebbe utile pulirle periodicamente con un panno umido per eliminare la polvere e favorire la fotosintesi. Nel caso in cui dovessero comparire foglie ingiallite, nessuna preoccupazione: non è sempre un segno di malattia. Potrebbe essere il normale ricambio vegetativo, perciò niente panico.

    Parassiti e malattie: come difendere l’alocasia
    Nonostante il suo aspetto vigoroso, l’alocasia è vulnerabile ad alcuni nemici. Afidi, cocciniglie e acari sono i parassiti più comuni: si nutrono della linfa e indeboliscono la pianta. In questi casi è possibile intervenire con sapone insetticida, olio di neem o, nei casi più gravi, prodotti specifici. Tra le malattie più frequenti c’è l’oidio, un fungo che si manifesta con una patina biancastra sulle foglie (e che colpisce molte piante, in realtà). Anche in questo caso, prevenzione e buona aerazione sono fondamentali: se necessario, si può ricorrere a fungicidi mirati. Un ingiallimento diffuso delle foglie, invece, segnala quasi sempre errori di gestione: troppa acqua, luce insufficiente o temperature non adeguate. LEGGI TUTTO

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    Sul Kilimangiaro è scomparso il 75% delle specie vegetali in un secolo

    Sui pendii della montagna più alta dell’Africa, il Kilimangiaro, ci sono sempre meno specie di piante. A lanciare l’allarme è oggi un nuovo studio dei ricercatori dell’Università di Bayreuth, in Germania, secondo cui nell’ultimo secolo la perdita delle specie vegetali naturali sulle pendici inferiori del Kilimangiaro è stata pari al 75%. Un preoccupante declino della biodiversità che, secondo gli autori, non sarebbe stato direttamente causato dai cambiamenti climatici, bensì da pressioni antropiche, e in particolare dai cambiamenti nell’uso del suolo. I dettagli sono stati pubblicati sulla rivista Plos One. Il Kilimangiaro e i suoi ecosistemi Milioni di persone che vivono nelle aree vicine alla montagna dipendono dai suoi ecosistemi, ad esempio per il legname, il cibo e le risorse idriche. Tuttavia, come già suggerito da ricerche precedenti, la biodiversità presente in questi ecosistemi è gravemente minacciata da molteplici fattori, come i cambiamenti climatici, l’inquinamento, l’introduzione di specie invasive, l’estrazione di risorse e il cambiamento nell’uso del suolo. Comprendere non solo quali siano gli effetti ma anche le cause dirette del calo della biodiversità sul Kilimangiaro, così come su altre montagne tropicali, è quindi fondamentale per orientare al meglio gli sforzi di mitigazione.

    L’analisi
    Ed è proprio in questa direzione che si sono focalizzati gli autori del nuovo studio. Hanno, infatti, analizzato mappe storiche, dati di censimento, immagini satellitari e un set di dati ad alta risoluzione spaziale di circa 3 mila specie vegetali presenti in diverse parti della regione. Dai loro risultati è emerso che la principale causa diretta della perdita di biodiversità vegetale nell’ultimo secolo (1911-2022) è stata il cambiamento nell’uso del suolo, come per esempio l’espansione delle aree urbane, dovuta a una rapida crescita demografica, e la conversione degli habitat della savana in terreni agricoli, derivata dallo sviluppo economico. In questo periodo, infatti, le pendici inferiori del Kilimangiaro hanno registrato una perdita del 75% delle specie vegetali naturali per chilometro quadrato. I cambiamenti climatici, invece, non sono risultati essere una causa diretta significativa del calo delle specie vegetali su questo vulcano.

    Il cambiamento nell’uso del suolo
    Il nuovo studio, il primo nel suo genere ad aver collegato la densità della popolazione umana a quella delle specie vegetali su una scala così piccola (1 km²), rappresenta quindi un’ulteriore conferma che la perdita di biodiversità sia una conseguenza diretta delle attività antropiche. “La nostra ricerca rivela che il cambiamento nell’uso del suolo, causato dalla rapida crescita demografica – non il cambiamento climatico – è stato il principale fattore diretto della perdita di biodiversità sul Monte Kilimangiaro nell’ultimo secolo”, spiegano gli autori. “È stato sorprendente scoprire che, contrariamente a quanto si pensa comunemente, il cambiamento climatico non ha avuto effetti misurabili sulle tendenze della biodiversità locale, il che sottolinea l’urgente necessità di affrontare fattori socioeconomici come l’uso del suolo nelle politiche di conservazione”. Anche le specie animali sono in declino e perdono “potenza”. Rimanendo nel continente africano, anche gli ecosistemi della fauna selvatica sono in pericolo. A riferirlo è stata una nuova ricerca pubblicata su Nature e coordinata dall’Università di Oxford, a cui ha collaborato anche Luca Santini del dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma, che si basa su un approccio energetico per mostrare non solo il declino della biodiversità animale, ma anche come questo influisca sul funzionamento degli ecosistemi. Secondo l’analisi, infatti, gli ecosistemi africani hanno perso oggi, rispetto all’epoca pre-coloniale e pre-industriale, oltre un terzo della potenza, in ciò che gli esperti chiamano flussi di energia trofica. La causa di questa perdita, come suggeriscono i ricercatori, è in gran parte dovuta al declino della megafauna, ossia le specie di grandi dimensioni, come leoni, elefanti e rinoceronti, che ha appunto il potenziale di alterare la funzionalità degli ecosistemi. LEGGI TUTTO