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    “Basta azioni eclatanti”, l’annuncio di Just Stop Oil

    Dicono basta, hanno deciso di appendere al muro la colla e la pentola con la zuppa. Gli eco attivisti di Just Stop Oil, il gruppo ambientalista nato tre anni fa in Gran Bretagna per combattere l’inazione contro la crisi climatica, hanno annunciato la fine delle loro proteste eclatanti. L’ultima manifestazione a cui parteciperanno sarà il 26 aprile, poi la loro battaglia continuerà ma solo “nei tribunali e nelle loro prigioni”. Dal febbraio 2022 il gruppo dai colori arancioni impegnato a costringere per esempio il governo britannico a porre fine alle nuove licenze e alla produzione di petrolio e combustibili fossili, attraverso blitz, proteste eclatanti e azioni di resistenza civile e non violenza ha iniziato una lunghissima campagna diventata ben presto famosa in tutto il mondo. Tra le azioni più celebri la zuppa di pomodoro lanciata su quadri come i “Girasoli” di Vincent Van Gogh, ma anche il tentativo di bloccare l’autostrada M25, le irruzioni durante le partite di calcio e la gare di Formula 1, l’idea di “incollarsi” a opere d’arte come “L’Ultima Cena” di Leonardo Da Vinci e le una lunghissima serie di proteste che ha visto fermare il traffico, coinvolgere aeroporti e di recente anche attaccare la Tesla di Elon Musk.

    Anche Just Stop Oil però, come accaduto in Italia a Ultima Generazione, oppure agli esponenti di Extinction Rebellion, ha pagato a caro prezzo le nuove misure di repressione che in tante realtà del mondo sono cresciute nel tentativo di bloccare e incriminare le eco proteste. Probabilmente il colpo più duro da incassare per gli attivisti britannici è stata la conferma in appello, il recente 7 marzo, di pesanti pene detentive per almeno sedici attivisti dell’organizzazione, anche se alcuni di loro si sono visti ridurre le pene. Fra loro anche l’attivista Roger Hallam, conosciuto come co-fondatore proprio di Just Stop Oil ed Extinction Rebellion. La sentenza, in particolare, si riferiva ad alcune proteste tra cui il blocco dell’autostrada vicino Londra. Non è un caso che la scelta di Just Stop Oil di fare un passo indietro, di dire basta alle proteste eclatanti, sia arrivata dopo le sentenze. Eppure, come specifica l’attivista Hannah Hunt, con un annuncio a Londra, per il gruppo c’era già la consapevolezza che era arrivato il momento di cambiare. “Tre anni dopo essere apparsa sulla scena in un tripudio di arancione, alla fine di aprile la campagna Just Stop Oil appenderà al chiodo i giubbotti ad alta visibilità” ha detto. “La richiesta di Just Stop Oil di porre fine al nuovo petrolio e gas è ora una politica governativa, rendendoci una delle campagne di resistenza civile di maggior successo nella storia recente. Abbiamo fatto delle licenze per i combustibili fossili la notizia da prima pagina e abbiamo tenuto oltre 4,4 miliardi di barili di petrolio nel sottosuolo, mentre i tribunali hanno dichiarato illegali le nuove licenze di petrolio e gas. Ma è tempo di cambiare. Ci stiamo dirigendo verso un riscaldamento globale di 2 °C nel prossimo decennio, con conseguenti miliardi di morti, disordini civili di massa e collasso sociale. Nel frattempo, stiamo assistendo a corporazioni e miliardari che acquistano potere politico e lo usano per colpire i deboli e vulnerabili” per cui servono “nuove strategie per la nuova realtà”.

    Gli attivisti

    Ultima Generazione cambia: meno blocchi stradali più azioni contro le multinazionali dell’oil & gas

    di Giacomo Talignani

    20 Dicembre 2024

    In sostanza “solo una rivoluzione potrà proteggerci dalle tempeste imminenti”. Il che fa intuire che il gruppo, esattamente come hanno fatto di recente Ultima Generazione, ma in parte anche i Fridays For Future divenuti più politici oppure Extinction Rebellion che come vedremo ha in programma nuovi tipi di iniziative, sta cambiando la sua strategia ma non smetterà di esistere. L’ultima manifestazione “ufficiale” di Just Stop Oil sarà durante una protesta a Parliament Square il 26 aprile, poi gli attivisti si concentreranno su “tribunali e prigioni”, dai casi in corso al destino degli attivisti condannati. Nel frattempo il giorno prima, a Roma, andrà in scena la “Primavera Rumorosa”, una grande azione di mobilitazione di Extinction Rebellion per “la libertà, il lavoro e la giustizia climatica” che continuerà fino al primo maggio. Anche in questo caso il dito sarà puntato contro gli investimenti (italiani) nel gas e nei combustibili fossili ma anche su “un aumento della repressione verso chi protesta pacificamente per il clima”, un richiamo a quelle misure forti adottate contro gli attivisti dalla Gran Bretagna fino all’Italia. Con il rompete le righe (almeno per le strade) di Just Stop Oil, in un contesto dove la questione climatica si fa sempre più urgente ma le proteste ecologiche e le politiche green sembrano aver perso appeal sia fra la popolazione sia per i decisori oggi impegnati nella questione guerre, difesa, riarmo e sulla caccia ai minerali, i movimenti per il clima subiscono una ulteriore scossa.

    Sembrano ormai lontanissime le piazze, guidate da Greta Thunberg, piene di giovani che protestavano in tutto il mondo per il clima appena cinque anni fa. Appare distante anni luce anche l’enorme folla di 100mila persone, con in testa Extinction Rebellion, che marciava fuori dalla COP26 di Glasgow nel 2021, così come tutte le altre manifestazioni per l’ambiente che nel tempo si sono fatte sempre più piccole. Nel bene e nel male le uniche proteste che riuscivano a tenere alta l’attenzione sul tema della decarbonizzazione negli ultimi anni sono state proprio quelle più eclatanti di Just Stop Oil, che adesso termineranno. Ora, con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, il mondo sta ulteriormente cambiando e l’emergenza climatica viene costantemente affossata ed oscurata, così come in Europa il Green Deal è stato svuotato di molti dei suoi impegni iniziali. La scienza però ci dice che nonostante il tentativo di nascondere o rimandare il problema, il surriscaldamento globale continuerà ad aumentare e gli eco attivisti, a modo loro, erano lì a ricordarcelo. Adesso che anche i movimenti stanno chiudendo i battenti o cambiando, chi terrà alta l’attenzione sulla questione climatica?. LEGGI TUTTO

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    Il decalogo delle comunità Walser per salvare la montagna

    Dodici comunità Walser dei borghi alpini nelle provincie di Aosta, Vercelli, Verbano-Cusio-Ossola e nel Canton Ticino hanno presentato a Formazza la Carta dei valori Walser: “dieci riflessioni e qualche suggerimento per vivere e salvaguardare i territori montani, prendendo spunto dalla nostra cultura e dalla nostra storia”. Un decalogo con il quale le comunità cercano di immaginare un avvenire prospero ma sostenibile nelle Alte terre. In questo documento, i discendenti dalle popolazioni arrivate nel Medioevo dall’Alto Vallese (Svizzera) e insediate da 700 anni ai piedi del Monte Rosa, affrontano temi cruciali come il contrasto allo spopolamento dei paesi di montagna, la preservazione della biodiversità, la custodia del paesaggio storico, la promozione di uno sviluppo e di un turismo sostenibile che non esaurisca le risorse naturali. È sorprendente come una cultura così antica sia sopravvissuta fino a oggi e sia ancora così tangibile nel paesaggio, nelle abitazioni, nella lingua paleo germanica, nella cultura di queste piccole popolazioni valligiane.

    Pietro Bolongaro è un agricoltore e allevatore di montagna. Abita in uno dei più piccoli borghi piemontesi: Rima, 1.417 metri di altitudine, fondato nel XIV secolo dal popolo Walser in una conca verde alla fine della Val Sermenza (una laterale della Valsesia). Fa parte di un gruppo di agricoltori che sta recuperando le tecniche agricole walser: molte lavorazioni a mano in terreni piccoli e frammentati, coltivazione di antiche varietà di patate, uso di fertilizzanti organici, allevamenti bovini e ovini con alpeggi estivi a 2.500 metri di altitudine. “Tutte iniziative che richiedono molto impegno – spiega Bolongaro, che in giugno aprirà anche un agriturismo – ma che continuiamo a portare avanti con determinazione, per consolidare un’economia di pace che si coniughi con un turismo lento e con i valori tramandati dai nostri avi”. Della Carta, Pietro sottolinea due aspetti: “ci siamo definiti custodi perché, oltre ad abitare questi territori, intendiamo curarli e offrire un’accoglienza qualificata a chi vorrà scoprirli, cercando di trasmettere anche la spiritualità della natura, dei paesi e della nostra storia”. Il secondo aspetto è la grande solidarietà delle comunità Walser, vissuta nella vita quotidiana: “ogni famiglia aveva un certo numero di mucche, ma gli alpeggi venivano gestiti insieme; era riconosciuta la proprietà privata, ma veniva amministrata in maniera consortile. Quando una famiglia doveva costruire una casa, poi, tutte le altre partecipavano donando preziose ore di lavoro e mettendo a disposizione esperienza e capacità tecniche”.

    Giornata mondiale

    “Metà dei ghiacciai italiani rischia di scomparire”

    di Giacomo Talignani

    21 Marzo 2025

    Un altro protagonista del decalogo è Riccardo Carnovalini, fotografo, scrittore e camminatore, tra gli ideatori del Sentiero Italia (l’autostrada verde che unisce le venti regioni italiane). È il curatore della Carta dei valori. Si definisce “un Walser d’adozione”, vive sulle Alpi Graie in Piemonte, a stretto contatto con la natura, in una casa di pietra e legno e ci racconta il senso del documento condiviso dalle dodici comunità.

    Perché è stato scritto questo decalogo?
    “Per non disperdere le conoscenze e i saperi di una popolazione che ha dimostrato nei secoli di poter vivere a quote dove nessuno, prima, aveva vissuto. Si tratta del secondo step di un progetto sostenuto dalla fondazione Compagnia di San Paolo: il primo è stato la messa a punto della Walserweg, il grande sentiero Walser costituito da 11 tappe, 153 chilometri di percorsi tra valle d’Aosta, Piemonte e Canton Ticino e oltre 200 punti di interesse, alla scoperta dell’affascinante cultura Walser e dei loro magnifici territori”.

    Biodiversità

    Lavori green, il guardiaparco: “Insegniamo a vivere a contatto con la natura”

    di Pasquale Raicaldo

    26 Marzo 2025

    Qual è il futuro delle comunità Walser?
    “La sfida è l’attualizzazione di quelle capacità e di quei valori che hanno caratterizzato la vita e le attività dei Walser, riconoscendo i limiti ambientali dettati dal cambiamento climatico. Il futuro delle comunità si radica anche nella presa di coscienza che il turismo non debba essere un punto di partenza, ma la conseguenza di una nuova economia. Un turismo che va educato alla curiosità della scoperta e che non può pretendere di portare in montagna lo stile di vita delle città”.

    Uno dei punti del decalogo si riferisce all’economia di pace. Può spiegare meglio il concetto?
    “Economia di pace significa filiere corte e circolari, ottimizzazione delle risorse naturali, forestali, agricole. Un’economia che si rivolge al mercato locale, non sfruttando manodopera sottopagata. I coloni Walser nel Medioevo non superavano mai il limite imposto dall’ambiente, si accontentavano di meno per salvaguardare i beni che la natura metteva a loro disposizione”.

    Il paesaggio storico dei Walser è ancora leggibile in molte delle valli dove vivono le comunità che discendono dagli antichi vallesani. Quali sono i tratti più riconoscibili?
    “Usiamo la parola wilderness spesso a sproposito. Qui la natura è segnata dal lavoro dell’uomo: muretti a secco, boschi, pascoli, abitazioni sono il frutto di secoli di cura (‘il nostro territorio è lo specchio della nostra identità’, si legge nella Carta). Qualche esempio concreto. La salvaguardia del prato, che costituisce spazio di vita per l’uomo ed è indispensabile anche per l’impollinazione, oltre che fonte di cibo per gli animali e luogo di biodiversità. O le case walser, esempi di armonia, vere e proprie macchine di risparmio energetico. Caratterizzate da un piano terreno in pietra e i piani superiori in legno, soprattutto di larice: al piano terreno si trovava la stalla con il locale cucina, al primo il soggiorno (schtuba) e la camera da letto, mentre all’ultimo piano deposito e fienile. Con questa disposizione le camere godevano di un’ottima coibentazione, essendo scaldate dal calore della cucina e della stalla e isolate al piano superiore dal fieno. Talvolta il loggiato esterno (schopf) era utilizzato per essiccare segale, canapa e altri prodotti agricoli, nonché per la vita di comunità. Un’altra tipologia costruttiva ancor oggi riconoscibile è lo Stadel (fienile). Al piano inferiore si trovava la stalla o una cantina, mentre al piano superiore il deposito del fieno. I due livelli dell’edificio erano separati da alcuni pilastri sormontati da un disco in pietra, denominato miischplatta, il piatto del topo, inserito per impedire ai topi di salire al piano superiore e intaccare la dispensa e il fieno”.

    Cosa le hanno lasciato gli incontri per la redazione della Carta dei valori?
    “Nelle riunioni con le comunità Walser è emerso il senso del bello, l’armonia con i luoghi, la cooperazione, la solidarietà tra le persone, l’accoglienza. Valori antichi, da riscoprire e coltivare”. La Carta dei valori walser si ispira all’articolo 9 della Costituzione della Repubblica Italiana che “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi […]”, alla Convenzione europea del paesaggio, alla Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco, alla Convenzione di Faro del Consiglio d’Europa.

    Questa antica civiltà di frontiera intende aprirsi al mondo e al futuro, senza però rinunciare alla propria identità e alla propria storia, mantenendo valori e stili di vita ancora attuali e utili per affrontare le sfide del nostro tempo. LEGGI TUTTO

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    Anche i social aiutano a monitorare gli animali in tempi di crisi del clima

    Il clima cambia, e gli areali di distribuzione degli animali si allargano, si restringono, o si spostano. Tutto questo movimento rende più difficile il compito di tenere traccia della dislocazione delle diverse specie. I database classici come la Global Biodiversity Information Facility (GBIF), infatti, soffrono di diverse limitazioni, fra cui il fatto di contenere informazioni soprattutto riguardo alle zone rurali e poco invece rispetto alle aree urbane. Inoltre, il trasferimento dei dati su queste piattaforme avviene tipicamente con un certo ritardo rispetto al momento in cui i dati vengono raccolti.

    Per tutti questi motivi, un gruppo di ricerca coordinato da Regan Early, dell’Università di Exeter (Regno Unito), si è chiesto se i social media potessero essere d’aiuto su questo fronte, grazie alla dinamicità con cui le informazioni vengono scambiate e anche al fatto che i post social vengono spesso pubblicati in tempo reale. Seppur con alcune limitazioni di cui tenere conto, i risultati dello studio sembrano promettenti e sono stati pubblicati sulle pagine di Ecology and Evolution. Il team di ricerca ha esaminato in particolare la distribuzione di una specie nota come falena dell’edera (Euplagia quadripuncteria, precedentemente Callimorpha quadripuncteria), mettendo a confronto le informazioni contenute nella GBIF e quelle recuperabili da Instagram e Flickr. I dati sono stati raccolti fra il 2000 e il 2018, e l’indagine ha incluso il Regno Unito, la Repubblica d’Irlanda, la Francia, il Belgio, i Paesi Bassi, il Lussemburgo, la Svizzera, la Repubblica Ceca, l’Austria, la Germania, la Danimarca e l’Italia. La falena dell’edera è infatti distribuita più o meno in tutta Europa ed è stata scelta perché, oltre ad essere una specie il cui areale sta subendo rapidi cambiamenti, è facilmente riconoscibile per i colori sgargianti che caratterizzano le sue ali, e tende a spostarsi anche di giorno.

    Dai post pubblicati su Instagram è emerso che questa specie è più presente nelle aree urbane rispetto a quanto emerge dalla GBIF. “Le indagini sulla fauna selvatica tendono a essere condotte nelle aree rurali, quindi le informazioni non sempre riflettono la vitale importanza delle città – spiega Nile Stephenson, primo autore dello studio – I parchi e i giardini urbani forniscono habitat diversificati dove specie come la falena dell’edera possono prosperare”. Certo, le informazioni raccolte attraverso i social media hanno anche delle limitazioni, aggiunge il ricercatore, motivo per cui i database tradizionali non dovrebbero essere abbandonati. Si tratta piuttosto di integrare diverse modalità di raccolta dei dati: “Poiché i social media sono così inclini alle tendenze, ci aspettiamo di vedere delle distorsioni, come un maggior numero di avvistamenti di specie di cui si parla molto – prosegue Stephenson – Tuttavia, possiamo trasformare questo fenomeno in un aspetto positivo. Ad esempio, potremmo migliorare il monitoraggio delle specie invasive creando tendenze sulla registrazione degli avvistamenti”. Insomma, tenendo conto sia dei limiti che dei vantaggi, i social media potrebbero tornare utili nel contesto attuale caratterizzato da rapidi cambiamenti, specialmente per tracciare le specie che sono presenti anche negli ambienti urbani, che tipicamente sono meno rappresentati nei database tradizionali. Inoltre, gli autori ricordano anche l’utilità di piattaforme come iNaturalist e iRecord, che vengono già utilizzate da ricercatori e ricercatrici per estrarre informazioni. Si tratta di piattaforme di citizen science, ossia spazi virtuali in cui le persone possono registrare avvistamenti e informazioni di vario tipo per contribuire in modo attivo e volontario alla ricerca scientifica. LEGGI TUTTO

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    Circolari, immerse nel verde, inondate di luce: le nuove scuole sono green

    Qualcosa nell’edilizia scolastica italiana si sta muovendo. Layout circolari e specifiche tecniche innovative, scuole progettate con sistemi costruttivi a secco, come grandi Lego, per spingere sull’acceleratore della circolarità, raggiungere la massima flessibilità e la possibilità di smantellare l’edificio a fine vita, riciclando i materiali di costruzione. Questi i principi alla base di quattro edifici, che potrebbero diventare veri e propri prototipi: una scuola primaria in costruzione a Conegliano (Treviso), una scuola per l’infanzia appena inaugurata ad Alzano Lombardo (Bergamo), un altro asilo a Venaria Reale (Torino) e un istituto tecnico a Cervignano del Friuli (Udine) in fase di progettazione, tutti edifici nZEB (nearly Zero Energy Building, ovvero ad altissima efficienza energetica), immersi nel verde e inondati di luce naturale.

    I due architetti che li hanno progettati sono Carlo Cappai e Maria Alessandra Segantini (studio C+S Architects, con sedi a Treviso e a Londra). Lavorano a progetti di edilizia scolastica dal 1998, le loro scuole sono note a livello internazionale e nel recente passato sono state utilizzate dal ministero dell’istruzione come best practice per formulare le linee guida per i concorsi di progettazione. Il fatto che non siano proprio gli ultimi arrivati lo certificano anche istituzioni di assoluto rilievo internazionale che hanno esposto i loro progetti: il MoMa di New York, il RIBA di Londra, la Triennale di Milano, la Biennale di Venezia e altri prestigiosi luoghi espositivi a Parigi, Vienna, Oslo. “Il tema della sostenibilità ambientale in una scuola ha un indubbio valore pedagogico”, sostengono Cappai e Segantini, la cui ricerca è indirizzata verso un’architettura green, innovativa. E bella. Per Alessandra Segantini “la bellezza è una delle componenti fondamentali che può salvare la nostra società. Negli ultimi anni in Italia sono state costruite troppe scuole brutte, abbiamo una normativa ferma al 1975 (non è cambiato niente da allora?). È tempo di cambiare strada e noi ce la stiamo mettendo tutta”. Proviamo ora a immergerci nei quattro edifici scolastici e a descriverne dettagliatamente le caratteristiche.

    Scuola primaria Gianni Rodari, cascate di luce naturale e aule aperte sul parco
    A Conegliano, nella parte settentrionale di un lotto precedentemente occupato da un parcheggio, la nuova scuola a pianta circolare, in costruzione, si sviluppa su un unico livello. Il progetto conserva gli alberi esistenti nel giardino pubblico (due filari di tigli e due grandi cedri) e aggiunge nuovi tigli, alberi di cachi, siepi di lavanda, salvia e rosmarino, betulle nelle corti interne. “La lavanda in primavera e i cachi in autunno porteranno i colori della natura dal parco all’interno delle aule”, dice Segantini. L’ingresso principale conduce a un ampio atrio illuminato da una serie di lucernari scavati nel volume del tetto. Dall’atrio, un sistema di spazi collettivi, articolato attorno a due corti centrali, si dirama in tutte le direzioni. È un sistema fluido, si contrae e si espande, generando spazi flessibili e disponibili anche alle esigenze della comunità.

    Scuola primaria “Gianni Rodari”  LEGGI TUTTO

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    “La Ue è a un bivio, la transizione green non può essere una transizione a favore della Cina”

    “Abbiamo parlato anche di sicurezza, di come eliminare la nostra dipendenza da altri Paesi e di come l’energia nucleare sia uno degli strumenti per farlo”. Nella sua due giorni romana Ebba Busch, vicepremier svedese e ministro dell’Energia e l’industria, ha incontrato imprenditori e politici italiani. Tra questi il titolare della Farnesina Antonio Tajani: “Abbiamo riflettuto sul fatto che ci siano troppi leader europei spaventati, troppo concentrati su cosa sta facendo o non facendo Trump. E troppo poco su quanto sta facendo l’Europa”.

    Ministro Busch, la sicurezza della Ue si fa investendo in armi o in energia?
    “Occorre rafforzare la difesa militare. Ma anche la difesa civile: vale a dire le imprese, il business, le compagnie che operano in settori strategici, rafforzando le catene di valore tra Paesi vicini, in modo da ridurre la dipendenza da altri non affidabili. Penso per esempio al settore minerario e ai materiali che servono per la transizione: il 99% oggi ci arrivano dalla Cina. L’Italia ha bisogno di tornare a essere una nazione mineraria, così come la Svezia. Aprendo possibilmente nuove miniere. Poi c’è un terzo elemento: i nostri valori comuni che ci definiscono come europei, con una storia comune pur nel rispetto delle differenze. Abbiamo imparato una durissima lezione dalla Seconda guerra mondiale: i padri fondatori della Ue dissero mai più”.

    Pochi giorni fa ha firmato un memorandum d’intesa con il suo omologo ucraino. Ci può dire di più?
    “L’energia è fondamentale per la sopravvivenza stessa dell’Ucraina. Se Kiev non avesse avuto una robusta infrastruttura energetica la Russia avrebbe già avuto la meglio. Abbiamo firmato il memorandum d’intesa per aiutare l’Ucraina a ricostruire le infrastrutture energetiche distrutte, con attenzione specifica all’energia nucleare a uso civile, ma anche ai minerali critici necessari per i sistemi energetici, a cominciare dalle rinnovabili”.

    Ma il nucleare rende davvero indipendenti dal punto di vista energetico? La Svezia da chi acquista l’uranio necessario alle sue centrali?
    “Non certo dalla Russia. Abbiamo robuste collaborazioni con il Canada, l’Australia e altre nazioni affidabili. Siamo molto esigenti nella scelta dei nostri partner in questo campo”.

    Perché non puntare sulle rinnovabili?
    “Noi crediamo nelle rinnovabili, ne abbiamo tantissime: il 40% della elettricità è prodotta con l’idroelettrico. Quasi il 30% con eolico e fotovoltaico. Ma un altro 30% arriva dalle centrali nucleari. Perché le rinnovabili vanno e vengono. Il che comporta grandi sistemi di accumulo per gestire efficacemente le reti elettiche. Il che è molto costoso. E così in Svezia per famiglie e imprese il costo della rete talvolta supera quello dell’elettricità consumata. Per questo che sono critica sul piano Ue contenuto nel Clean Industrial Act: se fosse implementato, gli italiani e gli europei vedrebbero crescere i costi per la rete elettrica fino a superare quelli dell’elettricità. A quel punto non ci sarà alcun sostegno popolare. Ed ecco perché chiediamo alla Commissione un ripensamento. Noi, come l’Italia siamo per la neutralità tecnologica”.

    Come avete risolto il problema delle scorie?
    “Abbiamo dato la priorità a questo problema e ci abbiamo lavorato per molti anni. Ora siamo felici di poter condividere le nostre conoscenze con altri Paesi. La soluzione per gli anni a venire è una maggior collaborazione nucleare tra nazioni amiche, per tagliare i costi e ottimizzare le regolamentazioni”.

    Viste l’attuale contesto geopolitico, quali sono le sfide legate principali legate all’energia e al clima?
    “L’Europa è a un bivio. La transizione green rischia di essere una transizione cinese su suolo europeo: con pannelli solari e auto elettriche made in China. Oppure possiamo decidere di lavorare insieme e dire no. Abbiamo per esempio un’Europa forte nel settore delle batterie. Ma per farlo dobbiamo sfrondare i limiti normativi che frenano le nostre imprese e assicurarci che i soldi annunciati dalla commissione per il settore delle batterie vadano anche alle compagnie già esistenti e non solo a chi inizia ora”.

    Non sembra esserci solo un problema di normative: proprio la svedese Northvolt, campione europeo delle batterie, ha fatto bancarotta. Cosa non ha funzionato?
    “Hanno investito in troppe cose diverse allo stesso tempo. E non hanno dato la priorità al primo stabilimento nel nord della Svezia. C’è stata la bancarotta, l’insolvenza, ma la linea di produzione sta ancora andando avanti e siamo fiduciosi: c’è la possibilità che si concretizzi un nuovo proprietario, in grado di preservare il ruolo di Northvolt come grande produttore europeo di batterie”.

    Ma dal punto di vista commerciale il nemico è la Cina o l’America di Trump?
    “Rappresento un Paese che è per la libertà degli scambi commerciali. E i dazi sono contro la libertà di commercio. Tuttavia ho due figli di dieci e otto anni e non voglio dare nelle loro mani tablet o altri dispositivi che contengano materie prime estratte sfruttando, per esempio, il lavoro minorile nelle miniere del Congo o con procedure che non rispettano la nostra difesa dei diritti e dell’ambiente. Ma noi possiamo affrancarci da queste dipendenze, basta volerlo. E non possiamo aspettare che sia la Commissione europea a farlo: Svezia e Italia possono agire fin da subito”.

    Cosa pensa dei nuovi target di decarbonizzazione della Ue: il 90% entro il 2040?
    “Crediamo al taglio delle emissioni. Ma non si può gestire allo stesso modo il cammino verso la decarbonizzazione di 27 nazioni. Noi stiamo tagliando tutte le nostre emissioni nell’industria dell’acciaio, perché siamo riusciti a garantire a grandi aziende come la Ssab abbastanza elettricità fossil free 24 ore al giorno, 7 giorni a settimana, non solo quando c’è il vento o il sole. La chiusura totale ci sarà nel 2029 e questo abbatterà le emissioni svedesi dell’8%. Ma dobbiamo avere un fornitura di energia stabile, per quando non c’è vento e non c’è sole e le aziende devono lavorare comunque. Questa è fisica, non politica”.

    Su questi temi quali sono le principali differenze tra destra e sinistra in Svezia?
    “Noi vogliamo combinare alti target climatici con la competitività delle imprese svedesi. Abbiamo accelerato la realizzazione di nuove miniere in Svezia come mai era stato fatto negli ultimi 15 anni. Così come stanno arrivando nuovi finanziamenti sul nucleare perché abbiamo lavorato a una norma che li possa agevolare. Nella consapevolezza che il vero driver in questi campi legati alla transizione sia il settore privato”. LEGGI TUTTO

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    Polizze anti calamità naturali: l’ipotesi di un rinvio di sette mesi

    Polizze anti catastrofi naturali: da atto volontario ad obbligo entro il 31 marzo. Ma ora le aziende chiedono più tempo. Davanti agli effetti dei cambiamenti climatici, a meno di una settimana dalla scadenza (già posticipata dal decreto Milleproroghe), sembra concretizzarsi il rinvio di 7 mesi dell’obbligo per le imprese di stipulare contratti assicurativi a copertura […] LEGGI TUTTO

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    I fiumi italiani malati di erosione, due terzi sono a forte rischio

    Le coste dei nostri fiumi si stanno sgretolando a un ritmo impressionante. Mentre tutti noi abbiamo ancora negli occhi le immagini, ormai sempre più comuni, dei fiumi in piena nelle zone alluvionate negli ultimi anni, meno semplice è immaginarsi invece come ogni giorno i fiumi del territorio italiano perdano qualche pezzo. Nei casi peggiori, si parla perfino di 10 metri all’anno in meno dovuti all’ erosione costiera fluviale. A restituirci un’idea di quanto sta avvenendo nel Paese è uno studio appena pubblicato da due ricercatori del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, Monica Bini e Marco Luppichini.Gli esperti volevano indagare su come la crisi del clima, che sta portando in Italia a meno precipitazioni medie annue ma a più eventi estremi che scaricano grandi quantità di acqua, abbia influito sulla tenuta dei fiumi italiani. Grazie al software CoastSat i due hanno studiato così l’evoluzione delle coste sabbiose italiane concentrandosi sugli ultimi quarant’anni, dal 1984 al 2024, scoprendo tutta la fragilità degli alvei della Penisola.

    Si stima infatti che siano addirittura il 66%, praticamente due terzi, i delta fluviali a forte rischio erosione dei 40 principali fiumi dello Stivale. Nello studio pubblicato sulla rivista “Estuarine, Coastal and Shelf Science”, grazie all’osservazione delle immagini satellitari i ricercatori hanno inoltre stimato che la percentuale di erosione sale al 100% se si vanno ad escludere le aree protette da difese artificiali. La maggior parte dei fiumi italiani sta dunque costantemente perdendo sedimenti, ma in alcuni delta questo processo – legato sia alla crisi del clima sia ad azioni antropiche come l’urbanizzazione – è ancor più evidente: lo si può osservare soprattutto per il Po, il Serchio, l’Arno e l’Ombrone in Toscana e il delta del Sinni in Basilicata,”tutte zone caratterizzate da un forte arretramento della linea di costa e da una significativa perdita di sedimenti dovuta a fattori climatici e antropici” scrivono gli esperti. “Il cambiamento climatico sta avendo un impatto significativo sull’evoluzione delle coste italiane – precisa Marco Luppichini – in particolare incidono la diminuzione delle precipitazioni e l’aumento degli eventi meteorologici estremi che alterano il ciclo idrologico e la capacità dei corsi d’acqua di trasportare sedimenti fino alla costa. A questo si aggiungono l’innalzamento del livello del mare, che contribuisce alla scomparsa di tratti di litorale, e l’incremento della temperatura delle acque superficiali del Mediterraneo che intensifica tempeste e mareggiate, accelerando il processo erosivo e riducendo la resilienza delle spiagge”.

    Sostenibilità

    Lavori green, l’idrologa: dalla siccità ai fiumi in piena impariamo a gestire l’acqua

    di Luca Fraioli

    21 Marzo 2025

    Questo, aggiunge il ricercatore, dimostra come ci sia una “chiara l’urgenza di adottare strategie sostenibili per gestire le coste, mitigare gli effetti dell’erosione e proteggere le aree più fragili” e per riuscirci il nuovo studio offre un primo tentativo di “database omogeneo per l’intero territorio nazionale così da aiutare una possibile pianificazione degli interventi a difesa delle zone più a rischio, come i delta fluviali, veri e propri “hotspot” della crisi climatica in corso”. Uno di questi, il delta del Po, è da considerare in assoluto fra i più vulnerabili proprio per via dell’innalzamento di livelli del mare, ma anche in Toscana le foci di diversi fiumi – come Arno e Serchio – “sono soggette ad un arretramento costante di 2-3 metri l’anno mentre il delta dell’Ombrone registra una delle situazioni più critiche, con tassi di erosione fino a 5-6 metri l’anno”. Nel tempo, sostiene l’analisi, questo porterà non solo a mettere a rischio gli ecosistemi toscani ma anche le attività economiche, turistiche e del settore agricoltura. Stesso discorso vale per il luogo dove si sta verificando l’erosione più estrema: Il delta del Sinni in Basilicata registra infatti un’erosione che supera i 10 metri l’anno. Cifre impressionanti che, ricordano gli scienziati, devono essere analizzate per trovare risposte, anche se in Italia “purtroppo manca attualmente un sistema di monitoraggio uniforme per le spiagge sabbiose e i delta dei fiumi italiani”. Ora però, grazie a questo nuovo lavoro, c’è un database da cui partire per comprendere le tendenze sulle aree a maggior rischio di erosione costiere e intervenire prima che i nostri fiumi perdano altri pezzi. LEGGI TUTTO

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    Bonus elettrodomestici 2025, ecco come funziona

    Bonus elettrodomestici in dirittura d’arrivo con alcune novità. Il contributo sarà riconosciuto direttamente in negozio con la formula dello sconto in fattura, senza la necessità di presentare nessuna specifica domanda, a fronte della rottamazione di un modello della stessa tipologia con consumi più elevati. La lista degli elettrodomestici che si potranno acquistare sarà contenuta in un decreto ad hoc, ma in ogni caso il bonus sarà riservato ai soli prodotti europei. Le novità grazie ad un emendamento al decreto bollette in corso di esame alla Camera.

    Meno consumi e smaltimento corretto
    Il bonus elettrodomestici prevede un contributo fino al 30% del costo, entro un massimo di 100 euro, che raddoppia a 200 euro per chi ha in Isee fino a 25.000 euro. Il bonus, che doveva essere operativo da febbraio, è destinato a sblocccarsi grazie all’emendamento presentato di FdI che ha accolto le richieste dei produttori della filiera del bianco. Ora si prevede infatti che il bonus possa essere riconosciuto esclusivamente per l’acquisto di un elettrodomestico prodotto in uno stabilimento collocato nel territorio dell’Unione europea. Viene anche eliminato il riferimento alla classe energetica in modo da offrire più margini ai produttori italiani. In ogni caso il nuovo acquisto potrà essere agevolato solo a fronte della rottamazione di un prodotto analogo di classe energetica inferiore.

    Sconto direttamente in negozio
    Per la concessione del contributo non ci sarà nessun click day e non sarà necessario presentare nessuna domanda. L’emendamento, infatti, prevede l’applicazione di uno sconto direttamente in fattura. Spetterà quindi ai rivenditori iscriversi nell’apposita piattaforma, e ci si potrà rivolgere solo ai punti vendita aderenti all’iniziativa. La lista degli elettrodomestici ammessi al bonus sarà contenuta nel decreto attuativo che dovrà indicare tipologia e classe energetica del prodotto da acquistare per sostituire quello più energivoro.

    Come orientarsi nella scelta
    Considerando l’obiettivo di riduzione dei consumi è prevedibile che possano rientrare nella lista solamente i grandi elettrodomestici, vale a dire frigoriferi, lavatrici, asciugatrici, lavastoviglie, forni elettrici che in quanto tali sono indispensabili. Dal momento che è confermato che si potrà avere un solo bonus per ciascun nucleo familiare conviene fin da ora verificare sia le caratteristiche di quelli che si hanno in casa, sia le modalità di utilizzo. Al di là dei consumi medi, che sono indicati sulle etichette energetiche, infatti, per calcolare il risparmio che si può ottenere con l’acquisto di un nuovo modello si deve necessariamente considerare il consumo in termini di cicli di lavaggio nel caso di lavatrici e lavastoviglie, l’utilizzo quotidiano o meno del forno, la capacità nel caso del frigo. Il risparmio nei consumi Ad esempio per una lavastoviglie da 12 coperti abbiamo per la classe A un consumo uguale o inferiore a 34 Kwh/100 cicli, che sale a 40 KWh/100 cicli per la classe B e arriva a 46 KWh/100 cicli per la classe C. Per i forni è ancora in vigore la vecchia tipologia di etichette, per cui nel caso di un forno elettrico da 100 litri, abbiamo per quelli più efficienti un consumo uguale o inferiore a 0,47 Kwh/ciclo, che sale fino a 0,705 Kwh/ciclo se si scende di due classi energetiche. Invece nel caso di un frigo-congelatore con sbrinamento automatico, da 300 litri (200 per cibi freschi e 100 per cibi congelati) se in classe A si ha un consumo massimo di 100 Kwh/annui, in classe B si sale fino a 124 Kwh/annui, mentre la classe C arriva a 155Kwh/annui, ossia oltre il 50% in più. LEGGI TUTTO