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    Ispra: la raccolta differenziata in Italia al 66,6% nel 2023

    Nel 2023 in Italia la raccolta differenziata è arrivata al 66,6%, con percentuali del 73,4% al Nord, del 62,3% al Centro e del 58,9% al Sud. Sul podio Bologna, che arriva a quasi al 73%, prima città con popolazione superiore ai 200.000 abitanti a superare l’obiettivo Ue del 65% entro il 2030.

    Il Mezzogiorno ha mostrato negli ultimi anni la crescita maggiore della raccolta differenziata, tanto che lo scostamento tra Nord e Sud si è ridotto di 4,5 punti e tra Centro e Sud di 3,8. È quanto emerge dall’ultima edizione del Rapporto Rifiuti Urbani dell’Ispra, presentato oggi a Roma.

    Sostenibilità

    Natale green, se non si ricicla non lo compro

    di  Fiammetta Cupellaro

    16 Dicembre 2024

    Nello scenario economico dello scorso anno, con il Pil in aumento dello 0,7%, la produzione nazionale di rifiuti urbani, dopo il calo del precedente biennio, si attesta a quasi 29,3 milioni di tonnellate, con un incremento dello 0,7%. Nei 14 comuni con popolazione residente al di sopra dei 200 mila abitanti, tra 2022 e 2023 si registra una sostanziale stabilità della produzione.

    Quasi il 71% dei comuni italiani ha conseguito una percentuale di raccolta differenziata superiore al 65%. Tutte le province/città metropolitane raggiungono percentuali di raccolta differenziata superiore al 30%.

    Economia circolare

    Ancora troppi rifiuti elettronici finiscono nella raccolta indifferenziata

    di Sara Carmignani

    15 Ottobre 2024

    La percentuale di riciclaggio dei rifiuti urbani si attesta al 50,8%, in crescita rispetto al precedente anno (49,2%), al di sopra dell’obiettivo del 50% previsto dalla normativa Ue per il 2020 (al 2030 l’obiettivo è pari al 65%). I rifiuti urbani smaltiti in discarica rappresentano il 15,8% dei rifiuti urbani prodotti, attestandosi a 4,6 milioni di tonnellate, in calo rispetto ai 5,2 milioni di tonnellate del 2022.

    Per gli imballaggi, nel 2023 tutte le frazioni merceologiche hanno già ampiamente raggiunto i target di riciclaggio fissati a livello europeo per il 2025, ad eccezione della plastica, che comunque è prossima all’obiettivo. E’ al 48%, a fronte di un obiettivo del 50% al 2025. LEGGI TUTTO

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    Biden annuncia l’impegno Usa ad abbattere le emissioni entro il 2035 ma pesa l’incognita Trump

    L’ultima mossa di Biden per il clima, prima di lasciare la Casa Bianca a Donald Trump: impegnare gli Stati Uniti a ridurre, entro il 2035, le emissioni di gas serra del 61-66% rispetto ai livelli del 2005. Gli Usa, in cima alla lista dei consumatori di combustibili fossili e dunque di produttori di CO2, annunciano […] LEGGI TUTTO

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    Dieci libri sull’ambiente e la natura da mettere sotto l’albero

    “Ha sempre fatto caldo! E altre comode bugie sul cambiamento climatico”
    di Giulio Betti(Aboca Edizioni, 19,50 €)

    Attività solare, emissioni di gas serra, aumento delle temperature, ritiro dei ghiacciai, innalzamento del livello dei mari: se ne parla (e legge) tanto ma ancora non ne sappiamo abbastanza. Il meteorologo Giulio Betti sgombera il campo da fake news e negazionismi climatici per chiarire una volta per tutte e con termini scientifici che il riscaldamento globale esiste, sta peggiorando, ma possiamo e dobbiamo fare qualcosa. Le strategie sono a portata di mano, basta rimboccarsi le maniche.

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    “Migrare in casa”
    di Virginia Della Sala(Edizioni Ambiente, 18,05 €)

    Cosa faremo quando i migranti climatici saremo noi? Se le alluvioni in Pakistan ci fanno pensare a un problema lontano, proviamo a riflettere su quel che è accaduto in Emilia-Romagna negli ultimi due anni. Alle pesanti inondazioni legate al cambiamento climatico che anche nel nostro paese, e nel resto d’Europa, hanno causato danni incalcolabili. Gli sfollati siamo anche noi, ci dice la giornalista Virginia Della Sala, che nel suo libro racconta le storie di chi è costretto a spostarsi e di chi decide di restare resistendo.

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    ”A fuoco – Crisi climatica e disinformazione”
    di Simone Fontana(Mimesis Edizioni, 19,00 €)

    Che cosa sta succedendo al clima? C’è ancora tempo per impedire che l’emergenza diventi irreversibile? Perché in tv vediamo contrapposte posizioni tanto distanti tra loro? Ed è vero che il cambiamento climatico è dovuto all’azione umana? Nato dall’esperienza dell’omonima newsletter, il progetto collaborativo di Pagella Politica, Facta.news e Slow News sbarca in libreria con l’obiettivo di riportare al centro del dibattito pubblico la divulgazione del nostro stesso futuro. Grazie ai contributi di 18 tra le autrici e gli autori più competenti in materia, “A fuoco” fa ordine tra questi e i molti altri interrogativi che riguardano un tema complesso, ma cruciale, come quello dell’emergenza climatica.

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    ”Specie aliene. Quali sono, perché temerle e come possiamo fermarle”
    di Piero Genovesi(Laterza, 16,15 €)
    Dalla xylella al granchio blu, negli ultimi anni si parla sempre più spesso di specie aliene. Per la verità, è da tempi remoti che noi umani trasportiamo piante, animali e altri organismi al di fuori dei loro ambienti originari. È un fenomeno antico, che ha arricchito la nostra vita, ad esempio diffondendo in Europa alimenti come il pomodoro o le patate. Ma è quando l’arrivo di una nuova specie incrina gli equilibri naturali che iniziano i problemi. Al di fuori del loro habitat, alcune specie aliene possono infatti diventare invasive, con effetti molto gravi sugli ecosistemi. E anche su di noi. Lo sanno bene i pescatori dell’Adriatico, che hanno visto gli allevamenti di vongole decimati dal granchio blu. Con la globalizzazione sono queste “invasioni biologiche” a essere aumentate, fino a diventare una delle principali minacce alla biodiversità, responsabili di un numero impressionante di estinzioni. Quali misure dobbiamo adottare per prevenirle? E cosa può fare ciascuno di noi? Piero Genovesi, scienziato ambientale ed esperto dell’ISPRA, ci indica come invertire la rotta, se vogliamo davvero proteggere la natura, le nostre società e la salute delle persone.

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    ”Alfabeto per un pianeta da salvare”
    di Elizabeth KolbertIllustrazioni di Wesley Allsbrook(Neri Pozza, 17,10 €)

    Cos’è la COP (la conferenza delle parti sul clima) e a cosa serve. Cosa comporta l’elettrificazione. Qual è il nesso tra xenofobia e cambiamenti climatici. Fino agli uragani e non solo. Nulla di scontato e tutto da imparare dall’alfabeto di Elizabeth Kolbert, giornalista che racconta gli effetti della crisi sulle pagine del New Yorker. Un prontuario che aiuta a capire meglio lo stato del nostro Pianeta e le possibilità che abbiamo per salvarci assieme a lui.

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    ”Tropico Mediterraneo. Viaggio in un mare che cambia”
    di Stefano Liberti(Laterza, 17,10 €)

    Un lungo reportage attraverso il Mediterraneo per capire come una specie aliena cambia le regole dell’economia locale. Stefano Liberti ha viaggiato a bordo dei pescherecci e visto da vicino quel che sta accadendo nel Mare Nostrum sempre più caldo. Lo racconta perché direttamente connesso con quel che mangiamo, e quindi la nostra sopravvivenza. Perché saper trasformare un problema in risorsa può essere una grande occasione per cambiare il passo e vivere in modo sostenibile per l’ambiente e la nostra salute.

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    ”Meravigliose creature. La diversità della vita come non la conosciamo”
    di Stefano Mazzotti(Il Mulino, 17,10 €)

    Ci sono una infinità di specie animali che rischiamo di perdere prima ancora di essere riusciti a conoscerle. E’ “La diversità della vita come non la conosciamo” raccontata da Stefano Mazzotti, naturalista e direttore del Museo Civico di Storia Naturale di Ferrara, attraverso una collezione di creature meravigliosa dalla Papua Nuova Guinea al Borneo, dall’Himalaya al Mekong, dallo Sri Lanka al Madagascar, fino alle montagne della Tanzania. E le ragioni per impegnarci a preservare questa biodiversità.

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    ”Montagne immaginarie”
    di Michele Sasso(Edizioni Ambiente, 18,05 €)

    “C’è chi la vorrebbe come un parco senza regole”, ci ha detto Michele Sasso della montagna. Lo racconta nel suo libro che indaga gli impatti devastanti della snow economy e le minacce dell’overtourism. Per scoprire cosa possiamo fare per valorizzare questo patrimonio millenario senza distruggerlo.

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    ”Il manuale sullo spreco alimentare”
    di Ilaria Falconi(Ami, 11,90 €)
    Produciamo alimenti per nutrire persone, animali o per altri scopi (ad esempio, biocarburanti per auto)? Sprechiamo cibo o nutriamo chi ha fame? Morire per fame o per obesità? Sono alcune delle domande alle quali Ilaria Falconi, tecnologa del CREA, risponde nel suo libro dedicato alle tematiche agroclimatiche ambientali. Quali sono i fattori che determinano lo spreco alimentare, dal campo alla tavola, e cosa hanno a che fare con l’insicurezza alimentare. Per diventare consapevoli, in quanto consumatori, del valore del cibo.

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    ”Cose belle dal mondo per non pensare che va tutto male”
    a cura di Camilla Soldati e Matteo Suanno (LifeGate)Illustrazioni di Andrea Q(Rizzoli, 16,15 €)

    Le buone notizie non sono mai abbastanza. Costretti a fare i conti giorno dopo giorno con gli effetti della crisi climatica, abbiamo anche bisogno di sapere che qualcosa sta funzionando. Che possiamo coltivare la speranza, come collettività, per ridurre il nostro impatto ambientale in primis e per vedere come il cambiamento in positivo delle nostre abitudini stia avvenendo davvero. Nei fatti che Camilla Soldati e Matteo Suanno hanno raccolto in un volume che fa tesoro dell’esperienza quotidiana di LifeGate, una community che da vent’anni costruisce la sostenibilità. LEGGI TUTTO

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    La liana che odora di marzapane o la palma fantasma: nel 2024 scoperte quasi 150 nuove piante

    Ogni anno si scoprono oltre duemila nuove specie di piante ma secondo i botanici ce ne sarebbero altre centomila ancora del tutto sconosciute. Nel 2024 ricercatori e partner scientifici dei Kew Gardens di Londra, una delle maggiori istituzioni di ricerca nel campo, ne hanno descritte 149. Alcune sono evanescenti come la palma fantasma del Borneo o un’enigmatica famiglia di piante che rinunciano alla fotosintesi, e a colorarsi di verde, per affidare la crescita solo a simbiosi con funghi sotterranei. Altre si erano nascoste bene come diverse orchidee indonesiane e liane. “In genere i due terzi delle nuove specie che vengono descritte sono già a rischio estinzione – spiega Martin Cheek, Senior Research Leader nell’Africa team dei Kew – quando è possibile queste piante vengono protette nei loro habitat naturali. Ma non si è sempre così fortunati. Per sicurezza, se le condizioni di sopravvivenza della specie lo richiedono, ne raccogliamo i semi o altro materiale vegetale per poi propagarlo nei nostri giardini o per conservarli nella Millennium Seed Bank”.

    Tra le nuove specie vegetali scoperte quest’anno ci sono piante che di verde non hanno niente. Le hanno chiamate Afrothismiaceae. Sono originarie dell’Africa occidentale, fioriscono come tutte le altre ma in modo molto diverso. Al posto della fotosintesi clorofilliana, alla base della produzione di zuccheri per la crescita della pianta, si nutrono grazie a una serie di microscopici funghi sotterranei con i quali entrano in simbiosi generando una sorta di super-radice in grado di rispondere a tutte le esigenze della loro dieta. Si tratta di specie sono molto rare o addirittura estinte. La maggior parte di quelle descritte è stata vista una volta sola, la maggior parte in Camerun. Piante con questo comportamento, che hanno abbandonato la fotosintesi, ce ne sono diverse come la famosa orchidea fantasma endemica dei Caraibi (Dendrophylax lindenii), la Rafflesia arnoldi, il fiore più grande del mondo in Indonesia, o le diverse Voyria, erbacee perenni endemiche del Centro e Sud America che hanno perso la pigmentazione verde.

    Biodiversità

    Nel mondo ci sono almeno ancora 100mila piante da scoprire: ecco dove potrebbero essere

    di  Giacomo Talignani

    07 Ottobre 2024

    Ed è una questione di apparenza anche per una palma rampicante che cresce solo in tre località sull’isola del Borneo in Malesia. Malgrado fosse già conosciuta dalle popolazioni indigene, che ne raccoglievano i germogli e ne utilizzavano il legno, è rimasta finora in un cono d’ombra per gli studiosi. I locali la chiamano palma fantasma. Plectocomiopsis hantu, questo il nome scientifico, ha un’estetica elusiva, quasi trasparente, ed è difficile da riconoscere nella foresta pluviale: la pagina inferiore della foglia è del tutto bianca mentre gli steli sono grigi. Sul massiccio montuoso del Fouta-Djalon in Guinea, sempre in Africa occidentale, è stata scoperta un’erba che infrange molte regole della biologia vegetale. Le foglie di questa pianta, nominata Virectaria stellata, sono protette da peli a forma di stella mai visti prima in questa famiglia di piante ma comuni in un gruppo di specie nel genere Barleria che crescono nello stesso ambiente ma con cui non esiste nessun grado di parentela.

    L’ipotesi dei botanici è una forma di scambismo genetico: sembra che i geni per la produzione di peli stellati abbiano fatto uno spillover, un salto di specie, tramite insetti che si nutrono della linfa. Molte delle nuove specie scoperte quest’anno dai Kew sono liane delle foreste tropicali. A partire da Chlorohiptage vietnamensis, unica del suo genere ed endemica della giungla tropicale del Vietnam, di cui non si conosce ancora l’insetto impollinatore dei fiori di colore verde. Mentre il polline di Cheniella longistaminea, una nuova liana endemica della Cina meridionale a rischio estinzione, è trasportato dalle falene perché questa liana fiorisce solo di notte. Keita deniseae, una liana della foresta pluviale africana, attira gli insetti con il profumo delle cui foglie che emanano un forte aroma di marzapane. Tra le nuove specie descritte nel 2024 dai Kew Gardens e dai suoi partner internazionali ci sono anche 23 nuovi funghi. Rispetto al mondo vegetale il numero di specie ancora da scoprire è di gran lunga superiore: sarebbero tra i due e i tre milioni quelli ancora da descrivere. LEGGI TUTTO

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    Feijoa, l’arbusto sempreverde che resiste alle temperature estreme

    L’arbusto sempreverde della feijoa o acca sellowiana ha origini brasiliane ed è appartenente alla famiglia delle Myrtaceae. La pianta è nota in Brasile anche con il nome di guayabo. Questo arbusto sempreverde può raggiungere un’altezza di 3 metri nel suo habitat naturale. In Italia conosciamo questa pianta poiché si presenta con una meravigliosa fioritura. È un arbusto ideale per la coltivazione in vaso, ma anche all’aperto perché in grado di resistere anche alle temperature più rigide e più calde.

    Le foglie della feijoa sono di colore grigio-verde, mentre i numerosi fiori di dimensioni medie si presentano in colore tra il bianco e il rosa e si possono osservare in giugno. In seguito alla fioritura, compaiono i frutti: questi sono caratterizzati da una scorza verde scura, mentre la polpa è bianca-gialla e con una consistenza gelatinosa. Al suo interno sono presenti anche tanti semi duri, grandi quanto quelli delle prugne. Si tratta di un prodotto commestibile, contraddistinto dal sapore che ricorda un ananas e una fragola. I frutti maturi si staccano dalla pianta tra il mese di ottobre e di novembre.

    Per prendersi cura correttamente della feijoa sellowiana è necessario selezionare in giardino o in terrazza un’area luminosa. È possibile utilizzare questa sempreverde come pianta ornamentale oppure come siepe, giacché resiste bene alla siccità e freddo rigido. La pianta può vivere bene grazie a una temperatura compresa tra i -7°C e i 40°C.

    La scelta del terreno
    Per quanto riguarda il miglior terreno per la coltivazione della feijoa o acca sellowiana è ideale selezionare un tipo di terriccio morbido, ricco e organico se sistemata in giardino. Se si decide di coltivare la pianta in vaso, si può sfruttare quello universale che riesce ad offrire tutto il necessario per una sana crescita della feijoa.

    Le annaffiature della pianta
    La feijoa o acca sellowiana, proprio come tante altre piante, non ama i terreni particolarmente bagnati. È fondamentale evitare i ristagni idrici poiché possono compromettere in maniera importante la salute della pianta. In generale, è comunque importante bagnare con regolarità il terreno, soprattutto durante la primavera poiché è il periodo della fioritura.

    La concimazione
    La concimazione della feijoa o acca sellowiana si può effettuare con il sopraggiungere della bella stagione: si può utilizzare del concime granulare tra la primavera-estate, così da contribuire attivamente ad una splendida fioritura. In alternativa, si può usare il concime liquido da mescolare all’acqua e da somministrare ogni 30-40 giorni.

    Come funziona la potatura
    Questo albero necessita, anche se di poco, di essere potato con l’arrivo dell’autunno. Il consiglio è di eliminare i rami morti o danneggiati solo dopo la raccolta dei frutti, così da favorire il rinnovo dei rami per l’anno successivo. È importante procedere con la potatura dei rami, germogli e polloni dal terzo inferiore del tronco della feijoa. In questo modo, si ottiene un buon lavoro!

    La propagazione tramite talea
    Ebbene sì, se si desidera avere più piante di feijoa è possibile ottenerle attraverso propagazione per talea. Naturalmente, è fondamentale avere pazienza poiché la difficoltà nell’ottenere una nuova pianta è moderata.

    Le malattie e i parassiti più comuni
    I parassiti sono il più grande pericolo per questa pianta: infatti, è soggetta all’invasione che comporta la comparsa di malattie. La pianta può incorrere in cocciniglia oppure nella comparsa della mosca della frutta che intacca proprio le bacche causando danni gravi. Le foglie possono essere attaccate anche dal fungo che le ricopre, proprio come gli steli e i ramoscelli. La muffa fuligginosa ricopre queste parti della pianta con una sostanza nera e appiccicosa. È importante non dimenticare che i ristagni idrici possono compromettere la salute della pianta e portare anche a un danneggiamento importante dell’apparato radicale della feijoa. LEGGI TUTTO

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    Le giraffe non sanno andare in salita. “Grazie a questa scoperta ora possiamo proteggerle”

    Non amate le salite? Allora siete un po’… giraffe. Uno studio non ancora pubblicato ma presentato in anteprima al meeting annuale della British Ecological Society (BES) racconta infatti come l’iconico animale africano non sia in grado di tollerare, e dunque superare, determinate pendenze. Che le giraffe prediligessero territori estremamente piatti lo avevano già intuito gli stessi autori dell’analisi nel 2021 ma i risultati della nuova ricerca ci offrono uno sguardo più approfondito sulle difficoltà di questi mammiferi nel percorrere determinati terreni, una scoperta che può essere determinante nel campo della conservazione animale.

    Bisogna tenere conto che la popolazione delle giraffe, secondo la IUCN, Unione internazionale per la Conservazione della natura, in trent’anni è crollata di quasi il 40% e oggi al mondo ne restano appena 100mila esemplari. Aiutare questi animali a muoversi in habitat con caratteristiche ideali, e dunque non troppo collinari o influenzati da infrastrutture dell’uomo, è un dettaglio non da poco per permettere conservazione e ripopolamento. Quello che hanno scoperto la dottoranda dell’Università di Manchester Jessica Granweiler e alcuni colleghi dell’Università sudafricana di Free State è che le giraffe hanno una tolleranza massima a pendenze non superiori ai 20°: oltre, non riescono a spostarsi. Grazie ai radiocollari GPS circa 33 giraffe presenti in Sudafrica sono state monitorate durante i loro movimenti per mesi: tendono sempre ad evitare terreni ripidi e non sono in grado di attraversare pendii con pendenze superiori ai venti gradi, probabilmente – credono gli esperti – perché non hanno l’energia sufficiente per riuscirci senza il rischio di cadere.

    In media, le giraffe esaminate hanno dimostrato di avere una tolleranza intorno a salite di 12°, quelle che riescono a percorrere ma solo se spinti dal fattore chiave di trovare poi una vegetazione favorevole per alimentarsi. Pendenze ulteriori, come quelle dettate dalle opere dell’uomo, dalle colline o dai profondi letti dei fiumi che si possono trovare in aree della Savana, diventano un ostacolo per le giraffe, un limite da non valicare che frena i loro spostamenti o la ricerca di cibo. “Il nostro studio dimostra che le giraffe preferiscono di gran lunga le zone pianeggianti. Tollerano una certa pendenza per raggiungere il cibo, ma semplicemente non riescono ad accedere ad aree con pendenza superiore ai 20°. E questo è piuttosto scioccante quando si guardano le mappe di distribuzione delle giraffe” sostiene Granweiler, ricordando che “le giraffe sono animali tolleranti e resilienti a molti fattori, come la disponibilità di cibo e le pressioni umane, ma in questo caso potrebbero semplicemente non essere in grado di adattarsi a causa di limiti fisiologici”.

    Se si osservano le zone dove oggi vivono le giraffe, comprese parchi e aree di conservazione, emerge una grande discrepanza fra quelli che potrebbero essere gli habitat pianeggianti ideali per la specie e il reale territorio in cui vivono, un territorio spesso modificato dalle azioni dell’uomo. Se si parte dal limite dei 20° appare per esempio evidente come “in Namibia e Tanzania ci sono circa 8.000 chilometri quadrati di territorio che potrebbero essere inutilizzabili per le giraffe, ovvero quasi la metà della superficie del Galles”, oppure in “Kenya e Sudafrica aree di 4000 chilometri quadrati che risultano non ideali”. Il problema, spiegano gli esperti, è che dei Paesi mappati ed esaminati partendo da questa soglia di pendenza praticamente “uno su tre aveva più aree inutilizzabili nelle aree protette che al di fuori delle aree protette”. Quando le riserve protette sono recintate, oltretutto, le giraffe – già ostacolate dalle pendenze – non possono spostarsi ulteriormente alla ricerca di cibo. “Se una riserva è di 200 ettari, ma ha una grande montagna al centro, dal punto di vista di una giraffa questa riserva non è più di 200 ettari. Dobbiamo iniziare a includere la topografia nella pianificazione della conservazione delle giraffe e nelle valutazioni dell’habitat, specialmente per le piccole riserve recintate” ha spiegato Jessica Granweiler. Tenendo conto che le giraffe – presenti in 21 Paesi africani – sono già oggi minacciate a causa di perdita di habitat, bracconaggio, crisi del clima o conflitti con l’uomo, appare quindi evidente come i risultati dello studio possano essere decisivi per progettare meglio i territori in cui vivranno.

    Come spiega a Green&Blue l’etologa Chiara Grasso, l’informazione contenuta nel nuovo studio “è fondamentale per la conservazione. Parlando di giraffe pochi sanno che si tratta di una specie a rischio, che sta vivendo una estinzione silenziosa. Il primo rischio per loro è proprio legato alla perdita dell’habitat a causa dell’urbanizzazione dell’uomo: sapere come e dove conservare la specie è dunque estremamente importante”. Grasso, che lavora in Mozambico nella conservazione animale, spiega inoltre come “qui per esempio dopo guerre civili e conflitti, dopo periodi in cui si sono mangiati o venduti tutti gli animali, oggi finalmente si stanno implementando importanti progetti di ripopolamento e reintroduzione delle specie. Molti parchi ci stanno provando anche con le giraffe: avere l’informazione su che topografia è necessaria nei parchi di conseguenza è importantissimo, altrimenti perderemmo tempo, sforzi e soldi. Partendo dalla conoscenza sulle difficoltà nell’affrontare salite per le giraffe, si può migliorare e limitare l’impatto dell’urbanizzazione, per esempio quando si costruiscono infrastrutture, lodge, oppure strade. Devo realizzare un complesso? Meglio farlo in una collina anziché in zone pianeggianti in cui le giraffe si muovono senza problemi”.

    Inoltre, fa notare l’etologa, la questione pendenze potrebbe essere determinante anche in chiave “sociale” e “riproduttiva”. “Le giraffe – dice Grasso – sono una specie che ha una struttura sociale che si raggruppa e si separa a seconda della disponibilità delle risorse e dell’ampiezza dello spazio, non è estremamente territoriale, è una specie che si muove: quando si spostano dunque probabilmente anche l’inclinazione del terreno può essere un fattore che viene valutato dalle giraffe per decidere se frequentare o meno un’area e dunque se aggregarsi o meno in un determinato territorio e tutto ciò può incidere direttamente su fattori come socialità e opportunità di riproduzione”. LEGGI TUTTO

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    Sigarette elettroniche, il governo britannico mette al bando i vapes monouso

    Ogni secondo nel Regno Unito tredici fumatori di sigarette elettroniche gettano via il proprio vaporizzatore. Più di un milione al giorno. Dove finiscono? Il più delle volte nel contenitore dell’indifferenziata dove se schiacciati causano anche incendi. Non bastavano quindi i mozziconi che ogni anno vengono lasciati sulle spiagge e le strade di tutto il mondo, […] LEGGI TUTTO

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    Rischio tsunami in crescita nel Mediterraneo a causa della crisi climatica

    A causa del cambiamento climatico nei prossimi 50 anni la probabilità di tsunami nel Mediterraneo potrebbe registrare un incremento compreso tra il 10% e il30%. Con potenziali criticità per le coste più basse del Mare Nostrum, tra le più popolate al mondo. L’ultimo allarme arriva da due studi appena pubblicati sulla rivista internazionale Scientific Reports dal titolo “Including sea-levelrise and vertical land movements in probabilistic tsunami hazard assessment for the Mediterranean Sea” e nel volume edito dalla Elsevier intitolato “Probabilistic Tsunami Hazard and Risk Analysis”, a cui hanno collaborato i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.

    I riflettori dei ricercatori sono stati puntati sul previsto aumento del mare causato dal riscaldamento globale, combinato con i movimenti geologici costieri: un fenomeno in grado di accrescere il rischio e le conseguenze dei maremoti per le oltre 150 milioni di persone che vivono nelle aree costiere del Mediterraneo, un’area che sarà sempre più vulnerabile agli effetti del climate change. Per sviluppare modelli efficaci in grado di prevedere il rischio legato agli tsunami, i progetti europei Savemedcoasts2 e TSUMAPS-NEAM – entrambi coordinati dall’Ingv – sono così partiti dal calcolo dell’impatto dell’innalzamento del livello del mare, che attualmente è quantificabile sui circa 4 millimetri all’anno ma che è in accelerazione, come certificano le proiezioni fino al 2150 fornite dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), utilizzate per lo studio.

    “Il Mediterraneo è tra le aree più sismiche del pianeta”
    “Alla fine di questo secolo, il livello medio globale del mare potrebbe salire fino a circa 1,1 metri rispetto a oggi, a causa dello scioglimento dei ghiacciai dell’Antartide, Groenlandia e di quelli montani interni come Himalaya e Alpi e dell’espansione termica degli oceani che assorbono gran parte del calore che arriva sulla Terra”, spiega Marco Anzidei, ricercatore dell’Ingv, coautore dello studio e coordinatore del progetto Savemedcoasts2. “Abbiamo misurato i rischi crescenti per le popolazioni costiere – aggiunge – certificando un rischio maggiore per alcune aree, dalla Sicilia orientale alle coste del Nord Africa, fino al delta del Po, dove un’onda di maremoto in futuro potrebbe generare danni ben più consistenti rispetto a oggi”.

    Il riscaldamento globale non è causa diretta degli tsunami, dunque, ma ne può amplificare fatalmente le conseguenze. “I maremoti non sono fenomeni climatici estremi, ma si generano per l’improvviso spostamento di una grande massa d’acqua a causa di terremoti, eruzioni vulcaniche o frane. – aggiunge Anzidei – Il Mediterraneo è tra le aree a più alta sismicità del Pianeta e sapere che gli effetti di questa sismicità potranno essere, in un futuro prossimo, ancor più consistenti può aiutare i decisori politici”. Del resto, la storia di quest’area racconta di maremoti significativi, non ultimo quello che nel 1908 si riversò su Messina e Reggio Calabria, con vittime e danni ingenti.

    “Opere costiere di contrasto non sono la soluzione”
    “Nello studio abbiamo considerato anche come i movimenti geologici possano sommarsi all’innalzamento marino, aggravando il rischio nelle zone dove il suolo tende ad abbassarsi”, commenta Anita Grezio, ricercatrice dell’Ingv e prima autrice dello studio: sono dunque state integrate le analisi sui movimenti verticali delle coste, come la subsidenza, che amplificano gli effetti locali dell’innalzamento del livello del mare. “La nostra ricerca – conclude – fornisce nuovi strumenti per valutare il pericolo tsunami, integrando scenari futuri che tengono conto sia dei cambiamenti climatici che dei fenomeni geologici”, aggiunge. I ricercatori non forniscono soluzioni, se non – indirettamente – attraverso l’auspicio di un più efficace contrasto al cambiamento climatico. “Opere costiere che attutiscano l’effetto di possibili terremoti sarebbero soltanto palliativi – conclude Anzidei – tanto più perché il fenomeno dell’innalzamento dei mari è globale e non territorialmente limitato”. LEGGI TUTTO