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    Così l’edilizia studia come intrappolare la CO2 nei materiali da costruzione

    Ogni anno vengono utilizzati circa 30 miliardi di tonnellate di cemento in tutto il mondo per costruire abitazioni, aziende ed edifici di ogni genere. E se trovassimo un modo per immagazzinare a lungo termine l’anidride carbonica, uno dei principali gas responsabili dell’effetto serra e quindi dell’aumento delle temperature globali, all’interno di questo materiale? È la domanda che si è posto un gruppo di ricercatori e ricercatrici, autori di uno studio pubblicato su Science. La risposta? Usare non solo il cemento ma anche altri materiali da costruzione a questo scopo potrebbe permetterci di intrappolare in modo duraturo fino a 16 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, circa la metà di quella emessa a causa delle attività antropiche nel corso di tutto il 2021.

    In generale, una delle possibili strategie per fare fronte all’emergenza climatica è quella di progettare dei sistemi che imitino in sostanza quello che le piante fanno da sempre: assorbire la CO2 dall’atmosfera, trasformarla in composti che intrappolano il carbonio in modo stabile e immagazzinare questi ultimi a lungo termine da qualche parte. La domanda delle domande è dove. Nel corso del tempo c’è chi ha proposto di creare dei depositi sotterranei o addirittura sottomarini, approcci che però non sono privi di rischi ambientali e anche di difficoltà tecniche.

    “E se invece potessimo sfruttare i materiali che già produciamo in grandi quantità per immagazzinare il carbonio?”, si chiede Elisabeth Van Roijen, prima firma del nuovo studio, a cui ha partecipato durante il dottorato di ricerca condotto presso la University of California di Davis (Stati Uniti).

    Transizione ecologica

    Obiettivo decarbonizzazione delle città: il primo cemento a bilancio zero di emissioni CO2

    di Gabriella Rocco

    21 Agosto 2024

    Fra gli approcci presi in considerazione dal gruppo di ricerca c’è per esempio quello di inserire componenti “carbonatabili” all’interno dei materiali da costruzione. Alcuni esempi sono gli ossidi di magnesio, ferro e calcio, che sono in grado di reagire con la CO2 per formare dei carbonati stabili. Un’altra possibilità analizzata dagli autori della ricerca, anche in combinazione con la prima, è quella di aggiungere biochar al cemento, ossia una sostanza ottenuta dal riscaldamento controllato (pirolisi) delle biomasse, i residui agricoli che non entrano nel mercato alimentare. Dato che le biomasse derivano dalle piante, l’idea in questo caso sarebbe quella di stoccare in modo duraturo l’anidride carbonica che le piante hanno già assorbito e convertito in composti stabili a base di carbonio mentre erano in vita. Con lo stesso principio, Van Roijen e colleghi hanno inoltre preso in considerazione l’idea di utilizzare fibre ottenute a partire da biomasse per ottenere per esempio mattoni, asfalto, plasitca o altri materiali da costruzione.

    Fra tutti quelli analizzati, i materiali che più si presterebbero allo scopo di immagazzinare elevate quantità di anidride carbonica a lungo termine sono risultati essere il cemento, l’asfalto e i mattoni, soprattutto per il loro ampio impiego su scala globale.

    Una delle sfide con cui questa tecnologia potrebbe dover fare i conti, spiega però l’esperto di politiche energetiche e climatiche Christopher Bataille in un articolo di commento sempre pubblicato su Science, è l’approvvigionamento delle materie prime. La distribuzione degli ossidi dei minerali in grado di reagire con l’anidride carbonica per formare carbonati stabili, infatti, non è uniforme a livello globale. Inoltre, avverte Bataille, sarà necessario mettere in piedi un solido sistema di monitoraggio e verifica, per evitare per esempio che la produzione di materiali di questo tipo diventi un ambito di investimento per le aziende in termini di acquisto di crediti di carbonio. In altre parole, le industrie potrebbero cercare di acquistare crediti di carbonio dai produttori di questi materiali per compensare le loro emissioni, senza agire a monte per ridurle. Il che potrebbe vanificare gli sforzi che sono alla base di tutto il progetto.

    Ciononostante, conclude Bataille, “con un’adeguata incentivazione e un adeguato monitoraggio, l’uso di materiali da costruzione che immagazzinano CO2 potrebbe fornire un metodo praticabile per la rimozione dell’anidride carbonica su scala di miliardi di tonnellate a un costo ragionevole”. LEGGI TUTTO

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    La citizen science per monitorare l’invasione dell’ibis sacro nel Sud Italia

    Gli occhi dei cittadini sull’ibis sacro. Perché quell’uccello dal lungo becco ricurvo, cui gli antichi Egizi si ispirarono per rappresentare la divinità Thot, dio della sapienza, della scrittura e della matematica, è in realtà un invasore alieno. E sta creando forti squilibri agli ecosistemi di casa nostra.Un nuovo progetto di citizen science, “Sacro a Sud”, chiama così a raccolta appassionati di birdwatching e semplici cittadini per il primo censimento della specie alloctona, originaria dell’Egitto e dell’Africa subsahariana, nel Sud Italia e nelle isole maggiori. Del resto, l’uccello è ben riconoscibile e per la verità anche particolarmente apprezzato dai non addetti ai lavori. Ma la sua storia, e le ultime evidenze, suggeriscono di correre ai ripari.

    Già perché a partire dal primo nucleo, giunto in Italia nei primi anni ’90, probabilmente in seguito alla fuga di alcuni individui da parchi zoologici e giardini privati francesi, la specie si è gradualmente diffusa in lungo e in largo per il nostro paese. Dando vita, a partire dalle prime storiche nidificazioni nelle regioni del nord ovest, in prossimità di aree umide, anche artificiali, come le risaie di Novara e Vercelli, a popolazioni sempre stabili, proprio come avviene per le specie aliene di successo, granchio blu in primis. Una storia decisamente differente rispetto a quella del “cugino”, l’ibis eremita, a rischio estinzione e oggetto di un lungo e complicato percorso di reintroduzione in natura.

    No, l’ibis sacro se la passa invece decisamente bene, anche troppo. Perché compete con specie autoctone, portando loro via spazio e risorse. Nel Nord Italia nel 2019 sono stati censiti 32 siti di nidificazione, con un numero di coppie stimato in 1249. Addirittura 11mila gli individui distribuiti in almeno diciannove dormitori diversi.

    Biodiversità

    Il chiurlo dal becco sottile è stato dichiarato estinto

    di  Paola Arosio

    13 Dicembre 2024

    Invadendo verso Sud
    E nel Mezzogiorno? La mappa di Ispra (www.specieinvasive.ispraambiente.it) va certamente aggiornata. “Dallo scorso registriamo un notevole incremento delle osservazioni anche qui, dove la specie risultava praticamente assente”, spiega l’ornitologo Rosario Balestrieri, presidente dell’associazione Ardea, che ha promosso il progetto insieme con STORCAL (Stazione ornitologica calabrese) e SOA (Stazione Ornitologica Abruzzese), con il patrocinio del CISO, il Centro Italiano Studi Ornitologici. L’obiettivo è quello di monitorare la consistenza numerica, le preferenze ambientali e la dieta della specie: così, mentre gli esperti porteranno avanti le osservazioni sul campo, ai cittadini viene chiesto di collaborare, segnalando gli incontri con l’ibis sacro – una specie particolarmente semplice da riconoscere per via del lungo collo, del piumaggio candido e dell’inconfondibile testa nera con becco ricurvo – su un apposito form, caldeggiata è anche l’iscrizione al gruppo Facebook dedicato al progetto. E le adesioni sono subito state consistenti: oltre 200 nelle prime 24 ore dal lancio.

    Biodiversità

    Le specie aliene “emigrano” per evitare l’estinzione

    di  Pasquale Raicaldo

    12 Dicembre 2024

    Conoscere per intervenire
    Il monitoraggio potrebbe consegnare ai decisori politici considerazioni nuove sull’opportunità di un’eradicazione della specie, che Ispra considera “tecnicamente fattibile, se opportunamente pianificata”, specificando tuttavia che è preferibile intervenire “su popolazioni non numerose e a uno stadio di insediamento precoce”. Potrebbe essere troppo tardi? “Conoscere resta un tassello fondamentale, gli uccelli alieni che si riproducono in Europa sono oltre 70 e quasi tutte sono giunte qui da noi come specie ornamentali, per poi evadere accidentalmente. – annota Balestrieri – Così sono tutte caratterizzate dalla particolare storia etnozoologica, da livree sgargianti e forme esotiche e dunque facilmente riconoscibili anche dai non esperti e adatte alla citizen science”. E del resto non è la prima volta che la citizen science scende in campo per aiutare gli esperti nel monitoraggio delle specie aliene, circa trecento in tutta Italia: particolarmente gettonato, per esempio, il progetto AlienFish, che prevede lo studio e il monitoraggio di specie ittiche rare e non-indigene nei mari italiani attraverso le segnalazioni di cittadini, in particolare sub e pescatori. LEGGI TUTTO

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    “Treintrots” e altri neologismi climatici, così la crisi cambia la nostra lingua

    Ci sono aridificazione, che indica l’estensione del clima siccitoso ad aree in precedenza temperate, e downburst, evento estremo caratterizzato da forti correnti d’aria discensionali che in prossimità del suolo si trasformano in venti violentissimi. E ancora: fire weather, letteralmente meteo da fuoco, che ha creato condizioni ideali per gli incendi che hanno colpito Los Angeles, ed e-fuel, il combustibile di origine sintetica prodotto utilizzando energia elettrica da fonti rinnovabili.Si parla sempre più di apartheid climatico, ovvero l’emarginazione di gruppi di popolazione a causa del climate change, e climatariano, termine che definisce chi è particolarmente attento all’alimentazione come strumento di mitigazione del riscaldamento globale.

    La lingua cambia e si evolve e il cambiamento climatico, fenomeno senza precedenti in termini di dimensioni e conseguenze potenziali, impone di utilizzare nuove strategie per comprenderlo. Con parole e unità lessicali del tutto nuove che si radicano nell’immaginario collettivo, finiscono sui giornali e in televisione, si diffondono nelle comunità di parlanti.

    Scienza

    Dal clima alle pandemie, cosa ci aspetta nel 2025 secondo “Science”

    di  Giacomo Talignani

    04 Gennaio 2025

    Ora è un progetto di ricerca, Néofix, che coinvolge il Centro di Ricerca Interdipartimentale per le Lingue e le Letterature Straniere (CRILLS) diretto da Raffaella Antinucci dell’Università di Napoli Parthenope e l’Università Paris Nanterre, con il sostegno dall’Académie Française, a esaminare l’elenco corposo di neologismi che, come spiegano le ricercatrici Silvia Zollo e Pauline Bureau, “designano forme di risposta al cambiamento climatico, ovvero unità lessicali introdotte di recente il cui referente costituisce una forma di azione climatica in sé o uno strumento che promuove l’azione in questione”. Non tutte le parole si affermano, né lo fanno con la stessa efficacia: è, come accade sempre, la comunità di parlanti a certificarne l’indice di penetrazione.

    Che vuol dire marsification?
    “Unità lessicali come come climate change adaptation, Net zero emission, marsification (l’unione di ‘Mars’ e ‘colonisation’, viene utilizzata tanto per indicare il progetto di una colonia sul pianeta Marte quanto per descrivere la trasformazione del nostro pianeta in una landa arida e desolata simile al pianeta rosso, ndr), la gettonatissima giustizia climatica (o climate justice, la correlazione tra il cambiamento climatico e le sue implicazioni sociali e politiche, specialmente per le classi sociali meno agiate) ed energy sobriety sono manifestazioni di un certo adattamento del linguaggio a questo fenomeno, che si rinnova in risposta all’introduzione di nuovi strumenti per affrontarlo”, spiega ancora la ricercatrice. Per identificare e analizzare i neologismi il team di ricerca ha assunto come riferimento soprattutto testi in italiano e in francese che trattano di questioni climatiche: relazioni di esperti sul clima e articoli di stampa, ma anche racconti di fantasia sul cambiamento climatico, noti in inglese come climate-fictions o “cli-fi”, un genere letterario relativamente libero da vincoli metodologici e stilistici rispetto al discorso degli esperti. “L’ipotesi di fondo è che alcuni di questi neologismi possano rivelarsi un mezzo per arricchire la gamma di strumenti linguistici e concettuali per immaginare il cambiamento climatico o influenzare l’azione climatica”, spiegano i ricercatori.

    “Treintrots”, un’espressione ad hoc per chi preferisce il treno
    Di qui, per esempio, l’avanzata – per la verità solo nei linguaggi specialistici – di espressioni come flygukam e treintrots, prestiti dallo svedese che designano la ‘vergogna di volare in aereo’ (gli aerei sono tra i principali responsabili delle emissioni di CO2) e ‘la propensione a vantarsi di viaggiare in treno’. Diffusa anche nel linguaggio dei media, rileva la ricerca, l’espressione climate finance, che si riferisce ai finanziamenti messi a disposizione per implementare progetti di mitigazione e adattamento dei cambiamenti climatici.

    La storia

    Non è vero che le enciclopedie sono destinate a scomparire

    di  Pier Luigi Pisa

    24 Dicembre 2024

    Qualcuno ha detto Pirocene?
    Si adeguano anche i dizionari. Treccani ha già accolto alcuni inglesismi sempre più pervasivi come carbon neutrality, espressione che indica l’obiettivo di bilanciare le emissioni di anidride carbonica, climate resilience (la capacità di adattamento a eventi climatici estremi) e l’ormai diffuso greenwashing – che designa pratiche ingannevoli di marketing ecologico da parte delle aziende senza reale impegno per la sostenibilità. Trovano spazio anche negazionismo climatico e l’iconico Pirocene, che indica “il periodo storico più recente, caratterizzato dall’aumento della quantità di incendi di vaste proporzioni collegati al peggiorare delle condizioni climatiche provocato dal riscaldamento globale”.

    E anche i curatori dei dizionari Zingarelli 2024 e 2025 hanno intensificato l’attenzione verso il linguaggio emergente legato al cambiamento climatico. “Del resto, i neologismi riflettono la crescente preoccupazione e consapevolezza dell’impatto ambientale nella società contemporanea”, spiegano Zollo e Bureau. Termini come climaturgente e sostenibilità attiva sono stati inclusi, ad esempio, per descrivere il crescente impulso verso l’azione climatica e la responsabilità collettiva: una evoluzione linguistica che evidenzia non solo la necessità di adattare il linguaggio alle problematiche odierne, ma anche il ruolo cruciale della lingua nel sensibilizzare l’opinione pubblica sulle questioni ambientali. E ci sono poi eco-colpa ed eco-bara, resilienza climatica e climate diplomacy, oltre all’ormai dilagante ecoansia, forma di disagio psicologico provocato – soprattutto all’interno della Generazione Z – dalla consapevolezza dei problemi ecologici). “Una marea di neologismi che non solo arricchiscono il linguaggio – spiegano i ricercatori – ma stimolano anche una riflessione critica e il dialogo collettivo sulle sfide ambientali contemporanee”. LEGGI TUTTO

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    Coppette o tamponi? Ecco le soluzioni più green per il ciclo mestruale

    Nell’antico Egitto si usava il papiro ammorbidito, a Roma e in Grecia si utilizzavano lana o stoffa, in Giappone si adoperava la carta. Nei piccoli villaggi venivano fabbricati rudimentali tamponi di garza avvolta intorno a legno, spugne o muschio, mentre nelle campagne si privilegiavano le pelli di pecora, da far bollire dopo l’uso. Oggi, in fatto di prodotti per il ciclo mestruale, c’è l’imbarazzo della scelta. Sarebbe, però, importante selezionarli tenendo conto anche della loro sostenibilità. Ecco allora una mini-guida alle varie soluzioni, con un occhio per quelle più green.

    Le coppette mestruali
    Non c’è dubbio che l’opzione migliore dal punto di vista ambientale siano le coppette mestruali, piccoli strumenti a forma di campana, di solito in silicone, che, una volta inseriti in vagina, raccolgono il sangue senza assorbirlo. A spiegarne i vantaggi è Pippa Notten, ingegnere chimico, consulente per la sostenibilità delle Nazioni Unite: “Questi dispositivi costano pochi dollari e non necessitano di essere svuotati di frequente (bastano due volte al giorno). È, inoltre, sufficiente usarli per due cicli per ammortizzare l’energia e le risorse impiegate per produrli, ma, se trattati correttamente, durano fino a dieci anni. Infine, non richiedono agenti sbiancanti né additivi chimici nella produzione e non si accumulano nelle discariche”.

    Sostenibilità

    Eco mestruazioni, come ridurre l’impatto ambientale di ‘quei giorni’

    di Giulia Mattioli

    28 Maggio 2021

    Assorbenti riutilizzabili
    In alcune condizioni, come il vaginismo o un flusso molto abbondante, le coppette possono, però, non essere adatte. Un’alternativa sono gli assorbenti riutilizzabili, porzioni di tessuto da fissare alla biancheria intima e da cambiare più volte al giorno. Attenzione, però, al lavaggio. Lavare il prodotto in modo scorretto, usando acqua calda, può, infatti, azzerare i benefici per l’ambiente. Affinché ciò non accada, gli esperti suggeriscono di risciacquare l’assorbente in acqua fredda subito dopo l’uso e di lavarlo poi a freddo. Così il risparmio di energia è garantito.

    Biancheria intima mestruale
    La maggior parte delle analisi indica che questo tipo di biancheria ha un profilo di sostenibilità molto simile a quello degli assorbenti riutilizzabili. Il problema è che, per ottenere tempi di assorbenza più prolungati, fino a 12 ore, molti produttori di mutandine utilizzano tessuti sintetici super assorbenti, spesso poliestere e nylon, materiali a base di plastica ricavati dal petrolio.

    Nel 2020 alcuni test trovarono nella biancheria per il ciclo del marchio Thinx, commercializzata come “biologica” e “naturale”, tracce di Pfas (Perfluorinated alkylated substances, sostanze alchiliche perfluorurate e polifluorurate), che hanno effetti negativi sulla salute. Una faccenda che si è conclusa alla fine del 2022 con un accordo tra l’azienda e i consumatori, riuniti in una class action.

    A oggi gli scienziati non hanno ancora stabilito se i Pfas possano essere effettivamente assorbiti attraverso le mucose che rivestono la vagina e in quale misura, ma certo è che questi inquinanti non dovrebbero essere presenti.

    I prodotti monouso e la “spesa sfusa”
    Inventati alla fine dell’Ottocento dall’azienda Johnson&Johnson, i prodotti usa-e-getta sono senza dubbio molto comodi da utilizzare. Purtroppo non sono, però, altrettanto vantaggiosi dal punto di vista della sostenibilità. Anzitutto perché, non essendo riutilizzabili, sono destinati a finire in discarica. Poi perché la loro produzione risulta estremamente inquinante. Susan Powers, docente di ingegneria ambientale alla Clarkson University di Potsdam, a New York, ha confrontato assorbenti e tamponi monouso per cercare di individuare quale categoria fosse più sostenibile. “Considerando una serie di fattori, tra cui l’impiego di acqua, il consumo di suolo, l’inquinamento chimico, il contributo al cambiamento climatico, i tamponi ottengono punteggi migliori in alcune categorie, mentre gli assorbenti sono in vantaggio in altre”, afferma Powers. L’unico modo per mitigare l’impatto ambientale di un tampone monouso è optare per la versione sfusa, cioè senza applicatore, alla quale aggiungere poi un applicatore riutilizzabile. LEGGI TUTTO

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    La transizione energetica e le nuove professioni: l’energy manager

    Su un punto sono tutti d’accordo: la rivoluzione energetica, non si porta avanti senza nuove figure professionali. Non c’è dubbio, infatti che la transizione energetica stia cambiando profondamente anche il mondo del lavoro creando nuovi ruoli, nuovi metodi di formazione, nuove competenze. E non si tratta di un settore secondario. Secondo i numeri riportati dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) nel 2023 il settore energetico impiega infatti quasi 67 milioni di persone, con i lavoratori impiegati nell’energia pulita (35 milioni) che superano quelli del settore dei combustibili fossili (32 milioni). Non solo. Nei prossimi anni è prevista la creazione di altri 14 milioni di nuovi posti di lavoro legati all’energia pulita dove poter ricollocare coloro che escono dai settori energetici in crisi.

    L’energy manager: figura obbligatoria
    Ma ancora oggi, con un mercato che rende altalenanti i prezzi a causa dei conflitti e la mancanza di cooperazione, le aziende pubbliche e private hanno davvero capito la necessità di creare nuove competenze e figure professionali? Per rispondere a questa domanda nei giorni scorsi a Roma c’è stato un confronto tra i rappresentanti dei grandi gruppi industriali di produzione, consulenza e consumo di energia con esperti del settore, docenti universitari soprattutto. Un incontro organizzato dal Consorzio universitario Humanitas e l’università San Raffaele (con la partecipazione di Acciaierie d’Italia, Acciaierie Venete ed Essenergy) che con l’occasione hanno presentato il master di II livello in Energy Manager, considerata proprio questa una delle figure professionali più ricercate nel nostro Paese sia nelle aziende pubbliche che private. Entrambi i settori obbligati per legge da aprile 2024 ad assumere un energy manager.

    Fisco verde

    Energia rinnovabile, al via gli incentivi per i Gruppi di autoconsumo

    di  Antonella Donati

    14 Gennaio 2025

    Zanchini: “La crisi energetica ci ha colto in ritardo”
    Eppure, ascoltando gli interventi del convegno ci sono ancora troppe amministrazioni pubbliche e grandi industrie private (il settore che registra più consumi con il 45%) a non aver nominato un energy manager. Un dato rilevate perché vanno ricordati gli obiettivi nazionali e europei sempre più stringenti: entro il mese di ottobre di quest’anno il nostro Paese dovrà recepire la direttive Ue che prevede per tutte le amministrazioni l’obbligo del 3% annuo di riqualificazione energetica di tutto il patrimonio pubblico, insieme ad un obiettivo i riduzione dei consumi dell’1,9. Una sfida.

    I target di sostenibilità? Il successo dipende dalle città

    di  Luigi dell’Olio

    04 Dicembre 2024

    Edoardo Zanchini, direttore dell’Ufficio clima di Roma Capitale (la città ha approvato la prima Strategia di Adattamento Climatico) ha raccontato, senza mezzi termini, il ritardo con cui le amministrazioni hanno compreso l’entità della crisi energetica, soprattutto quella legata al conflitto Russia-Ucraina negli anni 2022-2023. “L’aumento dei prezzi dell’energia ha fatto letteralmente saltare i bilanci, perché non eravamo preparati a ridurre sia i costi che i consumi – ha spiegato Zanchini – anche noi a Roma scontiamo questo ritardo e ora stiamo correndo verso la riqualificazione energetica della città. Questo significa ridurre non solo i costi, ma anche l’inquinamento. Abbiamo bisogno di analisi continue dei dati, di stilare strategie, abbiamo bisogno di figure professionali che supportino il lavoro degli amministratori per farci capire dove possiamo intervenire e in che modo”. Dal pubblico al privato il caro energia, il passaggio alle rinnovabili e il monitoraggio delle emissioni sono temi comuni.

    Il caso delle acciaierie: la sfida delle rinnovabili

    Un’immagine all’interno delle Acciaierie d’Italia  LEGGI TUTTO

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    I delicati fiori della bergenia: i consigli

    Nota per la sua bellezza e la notevole resistenza, la bergenia prospera anche in condizioni climatiche avverse. Questa pianta erbacea perenne rizomatosa e sempreverde presenta grandi foglie carnose, i cui colori cambiano durante l’autunno assumendo una sfumatura rossastra, e nuvole di fiori, declinate in tonalità differenti come rosa, bianco e rosso. La bergenia è piuttosto semplice da coltivare e non richiede cure particolari, rappresentando un’ottima soluzione per chi è alle prime armi con il giardinaggio.

    Bergenia e l’esposizione: cosa sapere
    Appartenente alla famiglia delle Saxifragaceae, la bergenia è originaria dell’Asia centrale e meridionale e si presenta in diverse specie, tra le quali le principali sono la cordifolia, la crassifolia e la ciliata. Si tratta di una pianta rustica che cresce praticamente ovunque, adattandosi a molteplici terreni e resistendo a climi molto rigidi, anche quando le temperature scendono sotto lo zero. Il suo periodo di fioritura coincide con la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, ma se esposta al sole può iniziarla anche in modo precoce: apprezzata per le sue fioriture colorate e per la sua robustezza, è usata per decorare giardini, bordure e terrazzi, potendo essere coltivata sia in piena terra che in vaso.

    Questa pianta ornamentale tappezzante può essere esposta sia al sole, ma anche in mezz’ombra. In inverno sopporta fino a -20 gradi, ma se le temperature sottozero persistono per lungo tempo è bene proteggerla, ricorrendo a del tessuto non tessuto. Resistente anche alle estati torride, durante questa stagione è opportuno, però, premurarsi di farle ombra, soprattutto nelle ore più calde della giornata, in modo tale da evitare che le sue foglie brucino. Quando si superano i 35 gradi non dovrebbe essere esposta al sole.

    Versatile e compatta, la bergenia è capace di crescere in diversi tipi di terreno, sia in quelli argillosi che ghiaiosi, prediligendo però un substrato umido, ben drenato, sabbioso, fertile e ricco di sostanze organiche. Un aspetto da non sottovalutare sono i ristagni d’acqua, da evitare sempre in quanto responsabili del marciume radicale della pianta.

    Coltivazione in giardino e in vaso della bergenia
    La moltiplicazione della bergenia può avvenire tramite talea, divisione dei cespi e semina. Il metodo più diffuso è la divisione dei cespi che richiede di dividere in più parti le radici della pianta madre (facendo in modo che ognuna abbia almeno un germoglio oppure una gemma). Questa operazione va eseguita tra la primavera e l’autunno: in seguito alla divisione si piantano i nuovi cespi in un terreno drenato e a una distanza di 30-40 centimetri.

    La semina, invece, richiede più pazienza, dovendo coltivare le piantine in vaso, interrando i semi in un terreno umido a una profondità di un centimetro: successivamente si possono spostare le piantine in giardino.

    Se la bergenia viene coltivata in vaso, è bene prediligere un contenitore in plastica oppure in terracotta di dimensioni tali da farla crescere stretta, in quanto altrimenti tende a produrre esclusivamente le foglie. Il rinvaso è necessario solo nel momento in cui le radici escono all’esterno oppure quando le sue dimensioni sono diventate molto grandi.

    Bergenia e irrigazione: ogni quanto annaffiare la pianta
    La bergenia richiede una bassa manutenzione: per farla risplendere è necessario, infatti, compiere semplici azioni. Un aspetto molto importante da tenere in considerazione è l’irrigazione, operazione fondamentale per una sua crescita ottimale, dovendo darle da bere con costanza soprattutto durante la primavera e l’estate. Nel periodo estivo la pianta va irrigata settimanalmente, facendo in modo che il substrato non sia mai secco, ma sempre umido: dall’altra parte, però, è cruciale evitare quantità di acqua eccessive che potrebbero portare al marciume radicale e all’insorgere di malattie e parassiti. In autunno e inverno se la pianta è coltivata in vaso sul terrazzo deve essere irrigata una volta al mese, mentre qualora si trovi in giardino si accontenta dell’acqua piovana, dovendo annaffiarla molto raramente.

    Manutenzione della bergenia: dal concime agli insetti
    La bergenia non richiede di essere potata, dovendo limitarsi a rimuovere le foglie e i fiori secchi, eliminandoli alla base con delle forbicine specifiche, disinfettandole sempre prima di eseguire l’operazione. Con questo stesso strumento si tolgono le parti lignificate che possono presentarsi nell’apparato radicale. Inoltre, è necessario eliminare anche le foglie morte, in modo tale da scongiurare malattie fungine che possono insorgere se marciscono, e passati circa 3 anni dalla sua messa a dimora, si dovrà probabilmente intervenire per contenerne le dimensioni, visto che tende a espandersi soprattutto se esposta al sole.

    Per quanto riguarda la concimazione, per rendere la fioritura ancora più rigogliosa si può ricorrere a del fertilizzante, optando per un concime a lento rilascio per piante a fiore, da usare durante il riposo vegetativo. Nel corso della primavera e dell’estate la pianta va concimata ogni 2 settimane.

    Parassiti e malattie della pianta
    Nella cura della bergenia bisogna tenere conto di alcune problematiche che possono presentarsi. Tra queste l’insorgere di parassiti, come chiocciole, lumache e punteruolo rosso, molto pericoloso per la pianta, dovendo intervenire prontamente con prodotti specifici.

    Altre criticità sono rappresentate dal marciume radicale, dettato dai ristagni idrici, dovendo evitare irrigazioni troppo abbondanti, e dagli attacchi fungini, determinati da un’umidità eccessiva. La pianta può essere colpita anche dalle macchie, causate da funghi come alternaria e botrytis, che comportano una crescita debole e la decolorazione delle foglie: queste, se infettate in modo grave, possono ingiallire e cadere precocemente, inficiando lo stato generale della pianta, dovendo intervenire rimuovendole e migliorando la circolazione dell’aria per ridurre l’umidità. In alternativa, si può ricorrere a degli spray fungicidi specifici contenenti rame e zolfo. LEGGI TUTTO

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    Lo spettacolo del viburnum tinus, siepe colorata amata dagli animali

    Arbusto sempreverde appartenente alla famiglia delle Caprifoliaceae tipico del sud-est Europa, Il Viburnum tinus (Viburno tino) è spesso selezionato per riempire e rendere più riservato il giardino di casa, ma non solo. La sua natura è rustica e la sua tolleranza nei confronti del freddo piuttosto alta, raggiungendo addirittura i -10° senza problemi.
    Viburnum tinus, pianta da siepe: usi comuni
    Comunemente chiamato anche lentaggine, o laurotino, il Viburnum tinus è molto apprezzato per la sua coltivazione semplice, per il suo adattamento climatico, per i suoi boccioli rosa-rosso che fioriscono in splendidi fiorellini rosa e bianchi e per le sue bacche tonde sfumate di blu, amate molto da uccelli e altri animali selvatici. Una pianta meravigliosa alla vista, capace di arricchire più spazi della casa, tra cui siepi alte, siepi basse e bordure e siepi in vaso.
    Il Viburno tino, dunque, è perfetto sia per realizzare siepi molto alte (anche 3 metri), ottime per proteggere lo spazio e renderlo più privato, sia per siepi più basse e/o bordure, perfette per abbellire vialetti o delimitare esteticamente certi perimetri. Infine, questa pianta sempreverde elegante può essere anche coltivata in vaso senza problemi. In questo caso, l’attenzione maggiore si rivolgerà alle dimensioni del vaso: 90 cm di lunghezza in cui potere inserire due piante di Viburnum a circa 40 cm l’una dall’altra.
    Viburnum tinus: cura della pianta
    Prendersi cura del Viburnum tinus non è poi così complesso. Tale pianta, infatti, essendo molto rustica e vantando uno “spirito di adattamento” molto sviluppato, richiede davvero poche attenzioni. Intanto, il Viburnum preferisce un terreno ben idratato ricco di sostanze organiche e con un pH o neutro, o lievemente acido. Riesce ad adattarsi senza problemi anche a terreni più poveri e calcarei e resiste anche alle temperature invernali, ma se non si vuole indebolirlo, in caso di freddi molto rigidi, si consiglia una protezione maggiore, magari utilizzando teli o coperture specifiche.
    Quando piantare il Viburnum tinus
    In realtà il Viburnum può essere piantato in ogni periodo dell’anno, anche se le sue stagioni preferite sono o l’Autunno, o la Primavera. Prima di procedere con l’impianto, assicurarsi sempre che il buco sia delle dimensioni giuste per accogliere la pianta e che le radici di quest’ultima siano bene irrigate prima di procedere. Una volta piantato, il Viburnum avrà bisogno di qualche giorno per stabilirsi; in questo frangente di tempo si consiglia un’irrigazione più frequente, per dare modo al terreno di scendere e di modellarsi e alla pianta di adattarsi perfettamente, attecchendo.
    Irrigazione: quando bagnare il Viburnum tinus
    Per quanto riguarda l’annaffiatura (o irrigazione), il Viburnum tinus richiede una giusta quantità di acqua, da tenere controllata e da aumentare specialmente durante i lunghi periodi di siccità. Come la maggior parte delle piante, anche questa sempreverde non ama i ristagni d’acqua, motivo per il quale è sempre bene non esagerare: un’irrigazione eccessiva, infatti, potrebbe provocare la proliferazione di funghi, nemici della pianta.
    Concimazione e potatura del Viburnum tinus
    Poiché il periodo vegetativo di questa robusta pianta va da marzo a settembre, si consiglia sempre di arricchirne il terreno con un concime ad hoc. L’ideale sarebbe quello specifico per piante verdi, da dare ogni 15-20 giorni circa.
    Sulla potatura, invece, pochi e pratici consigli: il Viburnum tinus potrebbe anche non essere potato, ma per un risultato estetico ottimale, se ne consiglia la potatura o alla fine della stagione dell’Inverno, o all’inizio della Primavera. Per farlo basterà togliere tutti i rami secchi e/o malandati, prestando attenzione ad accorciare quelli eccessivamente lunghi. Viene da sé che seguendo questi semplici passi il Viburnum crescerà meglio e molto più rigoglioso, dando vita molto presto a nuovi germogli, prontissimi a sbocciare in tutta la loro bellezza.

    Viburnum tinus: esposizione
    Il Viburnum tinus è facile da coltivare cresce senza particolari problemi in tutta Italia, fattore che la porta a essere utilizzata anche a mero scopo decorativo. Per quello che riguarda l’esposizione del Viburnum tinus, l’ideale sarebbe posizionarlo in un punto o di pieno sole, o di semi-ombra. In realtà la sua adattabilità fa sì che cresca in piena salute anche in zone d’ombra. L’unica differenza? Una crescita minore e meno rigogliosa (ma più colorata) rispetto all’esposizione solare. La luce, infatti, gioca sempre un ruolo cruciale per la crescita delle piante e dei suoi fiori (i boccioli arrivano nel mese di novembre, ma i fiori sbocciano a febbraio e restano fino a marzo-aprile).

    Quanto cresce il Viburnum tinus
    Scelto sì per la sua resistenza, per i suoi fiori e per le sue particolarissime bacche, il Viburnum tinus è anche scelto per la sua robustezza. Questa pianta, infatti, ha la capacità di raggiungere anche i 3-4 metri di altezza, mentre la sua estensione in larghezza può raggiungere tranquillamente i 2 metri. I rami crescono fitti, ma lo fanno in tempi piuttosto lunghi, dunque la potatura, proprio come affermato in precedenza, non deve essere frequente, anzi.
    Viburnum tinus: i trattamenti più comuni
    Il Viburnus tinus è molto resistente anche alle malattie, ma può essere intaccata, e dunque indebolita, da alcuni funghi. I più comuni sono l’oidio e la ruggine e in caso di infestazione la soluzione migliore è sempre quella di utilizzare un prodotto specifico per eliminarli. Alla lentaggine non piacciono molto neanche afidi, parassiti e cocciniglie (temute da ogni pianta), ma per tenerli a bada si può sempre ricorrere a un insetticida. LEGGI TUTTO

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    Crisi climatica, una primavera senza broccoli nel Regno Unito. E in Italia le arance più piccole

    L’ultimo allarme arriva dal Regno Unito, dove si annuncia una primavera senza broccoli, cavolfiori e altre Brassicaceae. L’indice è puntato ancora una volta sul cambiamento climatico: troppo miti le temperature dell’autunno e dell’inverno, con i raccolti che hanno germogliato in anticipo. E la denuncia del Guardian racconta anche la difficoltà di integrare il mercato con i raccolti del continente, dove le inondazioni hanno impedito a molte imprese agricole di piantare in tempo utile per il raccolto primaverile. Ma il punto, sottolinea il Met Office, il servizio meteorologico nazionale del Regno Unito, del Department for Business, Energy and Industrial Strategy, è che casi del genere saranno sempre più frequenti a causa della “chiara tendenza all’innalzamento della temperatura media invernale nel Regno Unito, effetto diretto del cambiamento climatico indotto dall’uomo”.

    Inverni meno rigidi, precipitazioni estreme sempre più frequenti: l’agricoltura deve fare i conti con la schizofrenia del clima. Non può che fare spallucce l’agronoma Hannah Croft, che lavora con l’azienda Riverford: “Abbiamo registrato perdite nei raccolti dei cavolfiori del Regno Unito a causa delle piogge significative dell’autunno, mentre le temperature miti hanno portato i cavolfiori invernali in anticipo”. Si dice sorpreso della maturazione precoce dei cavolfiori Guy Barter, orticoltore della Royal Horticultural Society: la raccolta è stata anticipata addirittura di sei mesi nel suo appezzamento di terreno del Surrey. “Le avevamo piantate nel periodo consueto, – spiega – ma sono cresciute molto durante i mesi umidi di luglio e settembre e nel corso di un autunno particolarmente mite”.
    Se si rimpiccioliscono le arance di Sicilia
    L’imprevedibilità dei tempi di raccolta di ortaggi e frutta è una circostanza con la quale bisogna fare i conti a tutte le latitudini. “Le piogge eccessive hanno causato problemi nella raccolta del radicchio nel Trevigiano, mentre la siccità in Sicilia si è tradotta per esempio nella raccolta di arance di piccolo calibro, molto meno apprezzate, a torto, dai consumatori, e c’è una riduzione consistente nella produzione dei carciofi – rileva Lorenzo Bazzana, responsabile economico Coldiretti – E molte sono le incognite legate alla prossima primavera, quando negli anni scorsi le improvvise gelate e grandinate, con sbalzi termini importanti, hanno causato danni alle piante appena uscite dal riposo vegetativo.

    Sostenibilità

    Gli eventi meteorologici estremi impoveriscono i terreni agricoli e senza fosforo aumentano i prezzi

    di  Anna Lisa Bonfranceschi

    25 Novembre 2024

    Due prodotti su tutti hanno registrato un calo notevole negli ultimi anni: le pere e i kiwi. Il punto – annota Bazzana – è che il cambiamento climatico sta esasperando le variabili che, da sempre, influiscono sulla produzione agricola, che non è una fabbrica di bulloni al chiuso ma un sistema in dialogo costante con il clima. E se sulle specie arboree si ha meno possibilità di manovra, è sulle erbacee che siamo chiamati a studiare il modo più efficace per limitare, attraverso lo studio dei tempi di semina e trapianto, l’effetto del fenomeno”.

    Già, ma come? “Le serre possono aiutare solo in parte, perché il condizionamento artificiale di temperatura e luminosità ha costi alti e perché soprattutto al Sud le estati così calde costringono a una chiusura stagionale di molte strutture. – risponde Bazzana – Più concreto lavorare su tecniche colturali – tenere le radici più sollevate aiuta a prevenire le asfissie radicali legate alle bombe d’acqua – e sulla selezione genetica, che premi le varietà più resilienti e in grado di rispondere alla variabilità del clima. Penso ai peschi meridionali, che mostrano un minore fabbisogno di freddo invernale rispetto alle varietà settentrionali”.
    Il futuro è nella genetica?
    Claudio Cantini si occupa di ricerca all’Istituto per la Bioeconomia del Cnr. “Sono anni complicati per l’agricoltura dice – soprattutto perché registriamo andamenti climatici profondamente differenti rispetto agli storici, e molte imprese raccolgono ora, proprio a causa delle temperature troppo miti dell’autunno, quello che pensavano di raccogliere a dicembre. Questo si traduce in scaffali vuoti al supermercato, in una qualità più scadente di alcuni prodotti – dai pomodori Pachino alle arance siciliane – o in importazioni che fanno lievitare i prezzi di ortaggi, verdure e frutta che siamo abituati a mangiare e utilizzare, e che rischiano gradualmente di diventare prodotti per pochi privilegiati. Quelle del settore agricolo sono, oggi, difficoltà cui si cerca di ovviare con processi variegati: vi si risponde con uno spostamento di alcune colture – come nel caso della vite, che si innalza di quota – o attraverso lo studio di varietà più resistenti. Lo si fa in due modi. Anzitutto, selezionandole tra quelle esistenti, privilegiando magari varietà che in passato erano state scartate per motivi oggi meno significativi. Poi, c’è la genetica: si può intervenire, con tempi certamente più lunghi e maggiori investimenti, manipolando il Dna degli organismi, dopo aver selezionato i geni che favoriscono una certa resistenza alla variabilità climatica: il futuro passa di qui. Con il mio gruppo di ricerca ci stiamo occupando, tra l’altro, di olivi: ne abbiamo studiate oltre 800 varietà, solo 20 non hanno mostrato una sofferenza evidenza allo stress da siccità. Bisogna comprendere cosa abbiano di diverso, nel loro DNA”. LEGGI TUTTO