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    Dall’aloe al photos, le piante che assorbono l’umidità

    Muffe, acari, cattivi odori, macchie nelle pareti, allergie, asma e problemi respiratori. Questi sono solo alcuni degli effetti provocati dall’umidità eccessiva, criticità comune che mina la salubrità degli ambienti, incidendo negativamente sulla salute e compromettendo strutture e materiali negli immobili. A determinarla sono una serie di fattori combinati quali ad esempio ventilazione esigua, condensa, infiltrazioni esterne, difetti strutturali dell’edificio o degli impianti e vapore generato dalle attività domestiche. Per evitare che l’umidità impatti sui nostri spazi è importante mettere in atto strategie mirate: tra le soluzioni naturali più efficaci spiccano alcune piante specifiche, utili quindi non solo a scopo decorativo, ma anche per ripulire l’aria, assorbendo l’umidità.

    Quali sono le piante che assorbono più umidità
    Giglio della pace
    Tra le piante alleate per ridurre i livelli di umidità spicca il giglio della pace, contraddistinto da fiori bianchi, che in realtà sono brattee, e foglie eleganti: sono proprio queste ad assorbire l’umidità, facendo sì che la pianta sia particolarmente adatta per rendere l’ambiente più salubre. Privo di steli, chiamato a livello scientifico spathiphyllum e appartenente alla famiglia delle Araceae, il giglio della pace è semplice da coltivare e richiede poche cure. Per quanto riguarda l’esposizione, ama il sole, ma non i raggi diretti, e i suoi nemici sono i luoghi angusti, dovendo arieggiare regolarmente la stanza dove si colloca, stando però attenti alle correnti d’aria e agli sbalzi di temperatura improvvisi. In estate è consigliato spostare questa pianta sempreverde all’esterno, sistemandola all’ombra. Il substrato deve essere leggermente acido e mantenuto umido e le irrigazioni devono essere abbondanti in estate, evitando i ristagni d’acqua, e moderate in inverno. In merito alla concimazione, l’operazione va eseguita una volta al mese dalla primavera all’autunno, mentre la potatura non è richiesta, se non solo rimuovere le foglie appassite o secche, fonte di attacchi di parassiti e malattie.

    Aloe vera
    Altra pianta mangia umidità è l’aloe vera, succulenta appartenente alla famiglia delle Liliaceae, che abbellisce gli ambienti con le sue foglie carnose, contenenti una sostanza gelatinosa ricca di proprietà benefiche. La pianta predilige un terreno ben drenato, sabbioso e calcareo, un clima caldo e un luogo soleggiato, prestando però attenzione al sole diretto in estate, che se eccessivo rende le sue foglie rossastre. L’aloe vera necessita di irrigazioni esigue, evitando tassativamente i ristagni idrici. Se le foglie si seccano è la spia di annaffiature troppo esigue, dovendo aumentarle mentre, al contrario, qualora diventino gialle e morbide, bisogna ridurre le irrigazioni. In estate e primavera si deve darle da bere ogni 2 settimane, mentre in inverno circa una volta al mese. Da concimare tra la primavera e l’autunno, l’aloe vera non richiede potature particolari, dovendo limitarsi a rimuovere le foglie secche oppure danneggiate.

    Pothos
    Per combattere l’umidità un prezioso alleato è il pothos, talmente semplice da curare da essere adatto anche ai principianti del giardinaggio. Questa splendida pianta d’appartamento, dal portamento rampicante, fa parte della famiglia delle Aracee: a contraddistinguerla sono le sue suggestive foglie verdi a forma di cuore e con screziature gialle e la notevole resistenza. Per quanto riguarda la sua esposizione, il pothos richiede molta luce ma evitando i raggi solari diretti, che possono bruciare le sue foglie, pur crescendo anche in mezz’ombra o in ombra. Le correnti d’aria sono mal tollerate dalla pianta, che non deve essere quindi posta nei pressi di una finestra. Le irrigazioni vanno effettuate ogni 5 giorni d’estate e una volta alla settimana in inverno, verificando sempre prima che il terreno sia asciutto ed evitando i ristagni d’acqua. Per quanto riguarda la potatura questa non è richiesta, se non per accorciare i rami più lunghi a inizio primavera.

    Orchidea
    Per donare un tocco di eleganza agli spazi e al contempo contrastare il problema dell’umidità, l’orchidea è una scelta perfetta, visto che le sue radici la catturano dall’ambiente circostante, cosa che determina anche una sua crescita ottimale. Questa pianta tropicale ha fiori colorati, e un profumo avvolgente: appartenente alla famiglia delle Phalaenopsis, è piuttosto delicata, ma se curata con i giusti accorgimenti è molto longeva. L’orchidea predilige un substrato ben drenato e una posizione luminosa, purché non riceva i raggi solari diretti. Il substrato deve essere sempre mantenuto umido, quindi le irrigazioni sono fondamentali, ma queste devono essere moderate e mai eccessive per scongiurare il marciume radicale. In estate è consigliato annaffiare la pianta dalle 3 alle 4 volte alla settimana, mentre in inverno ridurle a una. Per mantenere le orchidee in salute è necessario potarle di solito dopo la fioritura, rimuovendo i fiori appassiti e danneggiati e le foglie malate e morte.

    Filodendro
    Resistente, vigoroso, decorativo e facile da coltivare, il filodendro assorbe l’umidità mediante le sue grandi foglie lucide dalla forma a cuore oppure ovale. Parte della famiglia delle Araceae, questa pianta d’appartamento è molto apprezzata sia per la sua bellezza, sia per la sua facilità di coltivazione. Il filodendro predilige un substrato drenato e ricco di sostanza organica, un ambiente umido e luce abbondante, ma deve evitare i raggi solari diretti: resiste comunque se l’illuminazione è scarsa, ma in questo caso cresce con fusti allungati e con foglie più piccole. In estate è consigliato spostare la pianta esternamente, per esempio sotto un porticato, premurandosi che non sia esposta a correnti d’aria. Il filodendro richiede in estate irrigazioni ravvicinate e consistenti, da diminuire durante l’inverno, va concimato ogni 4-6 settimane durante il periodo di crescita e per mantenerlo in salute deve essere potato dopo la sua stagione vegetativa, a fine inverno o inizio primavera, eseguendo inoltre al bisogno interventi per rimuovere le foglie secche e danneggiate.

    Falangio
    Per assorbire l’umidità negli ambienti domestici, il falangio è un’altra valida soluzione, con cui abbellire anche gli spazi. Molto decorativo, è chiamato nastrino e pianta ragno, appartiene alla famiglia delle Agavaceae, presenta fiorellini bianchi, fusti allungati e un fogliame variegato e arricchito da strisce bianche verdastre. Facile da curare e coltivare, il falangio preferisce un’esposizione soleggiata, tenendolo però lontano dai raggi solari diretti in estate. Per quanto riguarda la sua cura deve essere irrigato regolarmente, verificando sempre prima che il terreno sia asciutto. Se la pianta presenta le punte secche significa che bisogna aumentare le annaffiature, non tagliandole mai per non stressarla.

    Aspidistra
    Chiamata anche pianta di piombo, l’aspidistra è estremamente efficace per rimuovere l’umidità. Molto resistente, si adatta alle diverse condizioni atmosferiche e fa parte della famiglia delle Asparagaceae. La sua robustezza la rende una pianta semplice da coltivare e per questo adatta per chi è alle prime armi. Per quanto riguarda la sua manutenzione, non richiede molta acqua e predilige la luce indiretta, tollerando però anche l’ombra. Resistente ai parassiti, la pianta di piombo potrebbe soffrire in caso di esposizione solare eccessiva, che può bruciare le sue foglie, come anche per via dei ristagni d’acqua, causa del marciume radicale. Il suo terreno deve essere sempre mantenuto drenato e umido, ma mai zuppo. LEGGI TUTTO

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    Le bevande in bottiglie di vetro hanno più microplastiche di quelle in plastica

    Potrebbe sembrare paradossale, ma le bevande confezionate nelle bottiglie di vetro contengono più microplastiche di quelle nelle bottiglie di plastica. A riferirlo è stata un’indagine condotta dalla francese Anses (Agence nationale de sécurité sanitaire de l’alimentation), secondo cui ad aggiungersi al già lunghissimo elenco di fonti di contaminazione delle microplastiche ci sono ora anche le bottiglie in vetro: la colpa, secondo i ricercatori, è di una vernice a base di poliestere che riveste esternamente i tappi di metallo con cui vengono sigillate le bottiglie di vetro.

    L’indagine sulle bottiglie
    Per capire il ruolo delle diverse bottiglie nella contaminazione delle bevande, i ricercatori hanno analizzato e confrontato i livelli di microplastiche in birra, acqua, vino e bevande analcoliche, contenuti in bottiglie di vetro, plastica, lattina e cartone. Sebbene i ricercatori abbiano riscontrato la presenza di microplastiche in tutte le bottiglie esaminate, ciò che li ha sorpresi è stato che le bevande contenute in quelle di vetro hanno mostrato i livelli più elevati di microplastiche, ed esattamente di circa 50 volte superiori rispetto a quelle in plastica.

    Lo studio

    Micro e nanoplastiche: attenzione ai contenitori per il cibo

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    02 Luglio 2025

    Un risultato contrario
    “Ci aspettavamo il risultato opposto quando abbiamo confrontato il livello di microplastiche in diverse bevande vendute in Francia”, ha commentato Iseline Chaïb, tra gli autori dello studio. Nelle bottiglie di vetro di cola, limonata, tè freddo e birra, infatti, i ricercatori hanno riscontrato una media di 100 particelle di microplastiche per litro. Un valore da 5 a 50 volte inferiore nel caso delle bottiglie di plastica e lattine. L’unica eccezione, invece, è stata l’acqua, per cui il livello di microplastiche era relativamente basso indipendentemente dal contenitore, con una media di 4,5 particelle per litro nelle bottiglie di vetro e di 1,6 particelle per litro in quelle di bottiglie di plastica e cartoni. Stesso discorso per il vino, per cui sono stati riscontrati bassi livelli di microplastiche anche nelle bottiglie di vetro con il tappo di sughero.

    I tappi in metallo
    Secondo i ricercatori, gli alti livelli di microplastiche contenuti nelle bevande delle bottiglie di vetro sarebbero causati dai tappi in metallo e più precisamente da una vernice a base di poliestere che li ricopre. “Sospettavamo che i tappi fossero la principale fonte di contaminazione, poiché la maggior parte delle particelle isolate nelle bevande era identica al colore dei tappi e condivideva la composizione della vernice esterna”, hanno scritto gli autori nello studio. Durante lo stoccaggio, infatti, i tappi delle bottiglie vengono conservati insieme a migliaia di altri tappi, subendo urti e abrasioni non visibili a occhio nudo. Secondo i ricercatori, quindi, questi tappi graffiati, una volta che vengono sigillati alle bottiglie, rilasciano frammenti di plastica direttamente nelle bevande. Sebbene non sia possibile affermare se i livelli di microplastiche riscontrati rappresentino un rischio per la salute, dato che nello studio mancano i dati tossicologici, i ricercatori sottolineano che per ridurre i livelli di microplastiche nelle bevande basterebbe poco: rimuovere i frammenti dai tappi in metallo con una bomboletta d’aria compressa, e risciacquarli poi con acqua filtrata. LEGGI TUTTO

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    I funghi che trasformano i pannolini usati in terriccio

    Viviamo immersi nella plastica. Lo sappiamo. Dagli oceani fino alle nanoparticelle nel nostro organismo. Tra i prodotti usa e getta più diffusi, il rifiuto domestico di plastica numero uno al mondo sono i pannolini. Possono impiegare centinaia di anni per decomporsi, lasciandoci un’eredità di miliardi di microplastiche. Da Austin, nel Texas, una coppia con figli, Miki Agrawal e Tero Isokauppila, conosce molto bene questo problema. Ogni bambino, infatti, può utilizzare fino a 6.000 pannolini prima di raggiungere l’età in cui impara ad utilizzare il WC per le sue impellenze fisiologiche. Fino a quel momento, i pannolini sono l’unica opzione disponibile in commercio, che però contiene una combinazione di cellulosa sbiancata e plastiche a base di petrolio.

    Economia circolare

    Pannolini o assorbenti senza plastica? Dal grano e dal mais la spungna riciclabile

    26 Marzo 2024

    Si stima che solo in America vengano smaltiti circa 4 milioni di tonnellate di pannolini, senza un riciclo o compostaggio significativi, (secondo l’Environmental Protection Agency riferiti al 2018). Ebbene la coppia di genitori, era talmente convinta di voler risolvere questo problema planetario da aver impiegato ricerca e soldi per fondare la startup Hiro e sviluppare un prodotto davvero unico: i primi pannolini al mondo micodigeribili.

    Cioè? Andiamo con ordine. E prima di capire di cosa stiamo parlando, facciamo un salto indietro di pochi anni, quando nel 2011, furono scoperti per la prima volta nella foresta amazzonica in Ecuador da ricercatori dell’Università di Yale dei funghi mangia-plastica, i Pestalotiopsis microspora, in grado di sopravvivere sulla plastica in ambienti privi di ossigeno, come le discariche. Queste specie fungine sono capaci di secernere enzimi extracellulari potentissimi che agiscono come delle “forbici” molecolari, tagliando i lunghi legami polimerici della plastica in composti più semplici e biodegradabili. Una volta scomposte, queste molecole vengono assimilate dai funghi come fonte di carbonio, trasformando di fatto il rifiuto in biomassa, ovvero, in prezioso terriccio e micelio, la rete di radici dei funghi.

    Lo studio

    Micro e nanoplastiche: attenzione ai contenitori per il cibo

    02 Luglio 2025

    Dopo poco meno di 15 anni, i due texani di adozione (in realtà sono finlandesi) hanno pensato di usare quei funghi straordinari per far mangiare i pannolini usati. Il loro team, che include specialisti in micologia, scienza dei materiali e ingegneria, in oltre quattro anni di ricerca e sviluppo ha sviluppato un sistema brevettato. L’idea, del tutto innovativa, andrebbe ad intaccare gli enormi interessi di grandi multinazionali che producono pannolini e prodotti per l’igiene intimo, motivo per cui i due si sono rivolti alla rete per trovare finanziamenti su Kickstarter. Come funzionano? Ogni pannolino realizzato con un morbido strato posteriore di cotone privo di sbiancamento al cloro, progettato per essere delicato sulla pelle, è dotato di una speciale bustina di attivazione fungina. Una volta che il pannolino è stato usato, quindi contiene feci ed urine, basta inserire la bustina e gettarlo via, mentre inizia l’attivazione dei funghi. Questi iniziano a colonizzare e a digerire gli strati di plastica non tessuta del pannolino, trasformandolo in terreno e micelio nel giro di settimane. Secondo i test di laboratorio condotti dall’azienda, la formazione visibile di biomassa fungina e attività enzimatica avviene dopo 12 giorni, con una notevole scomposizione dei campioni di pannolini trattati dopo 21 giorni.

    L’ottima notizia è che i pannolini, scrivono da Hiro, contengono 8 tipi di plastiche morbide, che costituiscono circa il 70% di tutti i prodotti in plastica morbida. Questi funghi possono mangiare polietilene tereftalato (PET), polipropilene (PP) e polietilene (PE), e attaccare anche il poliuretano (PUR). Ma non è ancora tutto. L’azienda americana intende espandere questa tecnologia anche ad altri prodotti monouso, come pannoloni per adulti, prodotti per l’igiene femminile, imballaggi alimentari e materiali leggeri per la spedizione. D’altronde “molto tempo fa, i funghi si sono evoluti per scomporre gli alberi, in particolare quel composto difficile da degradare negli alberi chiamato lignina. La sua struttura a catena di carbonio è molto simile alla struttura a catena di carbonio delle plastiche perché essenzialmente sono fatte della stessa cosa”, ha spiegato l’imprenditore Isokauppila.

    Longform

    Tutto quello che sappiamo sulle microplastiche e quanto inquinano

    18 Luglio 2024

    Nel 2024, il prodotto ha ricevuto l’Hygienix Innovation Award, che ne riconosce il contributo basato sui materiali all’industria dell’igiene e dei non tessuti. Sebbene i dati dei test sul campo a lungo termine non siano ancora disponibili, i primi risultati indicano che i materiali micodigeribili possono offrire un approccio praticabile per ridurre i rifiuti in discarica associati alle fibre sintetiche. Ma l’azienda vuole avere la certezza che il loro pannolino funzioni davvero, in condizioni reali e con diversi climi. Al momento, nei loro laboratori, dopo circa 9 mesi, un pannolino è diventato simile al terriccio nero, ovvero plastica digerita dal fungo. La ricerca continua. LEGGI TUTTO

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    La via della Formula 1 alla sostenibilità

    La frenesia nella corsia dei box, l’attesa alla griglia di partenza, il boato dei motori in gara. E, quando passano le auto, la velocità che si tocca con mano. La Formula 1 è uno sport tanto entusiasmante quanto ad alto impatto ambientale, dato che una stagione genera circa oltre 200mila tonnellate di emissioni. Una cifra che, oggi, non può passare inosservata e che ha indotto dirigenti e organizzatori a prendere provvedimenti. I primi risultati sembrano essere già arrivati, come testimonia il report ufficiale del 2023, secondo il quale il rilascio di gas serra sarebbe diminuito da 256.551 tonnellate nel 2018 a 223.031 nel 2022, con una riduzione del 13%, nonostante l’aumento delle gare (da 21 a 24). “L’obiettivo rimane la neutralità carbonica entro il 2030”, ha dichiarato Stefano Domenicali, presidente e amministratore delegato del campionato. “Per raggiungerlo serve un’ulteriore riduzione del 37%”.

    Biocarburanti per auto da corsa e trasporti
    La maggior parte delle emissioni generata dai veicoli da gara deriva dai combustibili. Per questo, la F1 punta a introdurre dal 2026 motori ibridi di nuova generazione alimentati a carburante drop-in sostenibile al 100%, prodotto da biomassa o rifiuti, in grado di replicare le prestazioni della benzina convenzionale. Già nel 2024 le monoposto di F2 e F3 hanno utilizzato miscele composte al 55% da biocarburante avanzato, percentuale salita al 100% nel 2025. Anche il trasporto di squadre e materiali viene gestito con soluzioni più ecologiche. Per esempio, nel 2024 Mercedes ha alimentato con biocarburanti i camion di supporto e i generatori durante la stagione europea, coprendo il 98% degli spostamenti su strada e risparmiando oltre 500 tonnellate di emissioni. In parallelo si cerca anche di ottimizzare il calendario delle gare per ridurre i voli intercontinentali.

    Innovazioni tecnologiche
    Le scuderie stanno anche introducendo materiali e design sostenibili. Un esempio è sempre Mercedes, che nel 2025 ha impiegato per la prima volta nella produzione della monoposto W16 di Formula 1 compositi di fibra di carbonio a basso impatto, un’innovazione che riduce in modo significativo le emissioni. Inoltre, la F1 collabora con tutti i fornitori per migliorare cicli di vita e smaltimento: per esempio, gli pneumatici da gara sono oggi certificati Forest Stewardship Council e vengono integralmente riciclati dopo ogni Gran premio.

    Gli eventi a energia pulita
    Molti autodromi stanno investendo in infrastrutture verdi. Dal 2023, al Gran Premio di Gran Bretagna sono stati installati tre impianti solari mobili chiamati Papilio 3, che producono energia pulita e forniscono elettricità per ricaricare i veicoli elettrici del pubblico e dello staff. Anche altri circuiti hanno fatto lo stesso: ci sono pannelli solari ai Gran premi di Francia e Canada, mentre quello di Spagna è già alimentato al 100% da energia rinnovabile. Inoltre, la F1 ha sperimentato centri di generazione energetica per abbattere le emissioni di corrente durante gli eventi. Per esempio, al Gran premio d’Austria del 2023 è stato usato un sistema mobile alimentato da biocarburante ottenuto trattando oli vegetali con idrogeno e da 600 metri quadrati di pannelli solari: sono stati così prodotti circa 2,5 megawattora di energia, sufficienti a soddisfare il fabbisogno di paddock, motorhome, pitwall e servizi tv, con una riduzione del 90% delle emissioni associate a quelle aree rispetto al 2022. Nel 2025 lo stesso sistema è stato installato in tutti i Gran premi europei: un unico impianto condiviso alimentato a biocarburante, solare e batterie fornisce energia a team e dirette televisive, eliminando la necessità che ciascuno porti propri generatori. Il paddock ha, inoltre, messo al bando molte plastiche monouso e introdotto misure di riciclo, preferendo contenitori dedicati, borracce riutilizzabili, stoviglie compostabili, in linea con gli standard per gli eventi sostenibili. LEGGI TUTTO

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    Da Torino al Senegal, per far crescere le mangrovie

    Toubacouta (Senegal) – Dall’ampia distesa di acqua salmastra spuntano, in file ordinate, i propaguli di mangrovie. Al momento sono solo lunghi steli con qualche germoglio in cima. Ma tra qualche anno – si spera – questa distesa di sabbia inondata periodicamente dalla marea sarà ricoperta di arbusti alti uno o due metri, a ripristinare quello che qualche decennio fa era un rigoglioso mangrovieto. Secondo uno studio dell’Institute of Pacific Islands Forestry degli Stati Uniti, infatti, il 35% della superficie globale delle mangrovie è andata persa negli ultimi cinque decenni a causa del cambiamento dell’uso del suolo provocato dalla specie umana, degli eventi meteorologici estremi e dell’erosione. Una scomparsa a un ritmo di cinque volte più rapido di quello di altre aree boschive del pianeta, con importanti ripercussioni ecologiche e socioeconomiche.

    Siamo nel delta del Saloum, sulla costa del Senegal. Qui, nel 2002, Toubacouta, Soucouta, Sipo, Bettenti, Nema Bah, Dassilamé e altre sette comunità rurali che si affacciano sui canali del fiume, hanno deliberato all’unanimità l’istituzione della prima Area Marina Protetta Comunitaria del paese africano: 334.000 ettari, di cui 60.000 di mangrovie, che ospitano 188 specie vegetali, 114 specie ittiche e 36 specie di mammiferi selvatici. Oggi l’AMPC di Bamboung è gestita dalle autorità locali in collaborazione con le tredici comunità fondatrici. E proprio qui la ONG italiana Bambini nel Deserto ha implementato un progetto di riforestazione di questa zona costiera. I finanziamenti arrivano da dove non ti aspetti: a raccogliere 11 mila euro, di cui 5000 utilizzati a ricoprire di propaguli cinque ettari di terreno, sono state le scuole di danze popolari di Torino: Baldanza, Treedanza, Arridanza, Ritmo del blu, e la bocciofila di Alba. “Si fanno spettacoli e concerti, e gli artisti si esibiscono gratis. I contributi in denaro del pubblico arrivano qui in Senegal, per sostenere il lavoro della ONG”, spiega Nuccia Maldera, un tempo insegnante di scuola primaria nel capoluogo piemontese e ora quasi in pianta stabile in questa parte d’Africa per gestire questo e molti altri micro-progetti di cooperazione interazionale.

    Delta del Saloum, Senegal. Un agente dell’Area Marina protetta di Bamboung. Tra i suoi compiti, il censimento delle specie animali e vegetali, la gestione degli incendi, il controllo delle attività illegali come bracconaggio e pesca di frodo  LEGGI TUTTO

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    Gli attivisti esultano per la sentenza della Corte dell’Aja: “Trionfo per la giustizia climatica”

    “È un trionfo per la giustizia climatica, un momento decisivo per le persone e le comunità ingiustamente colpite dal cambiamento climatico, che è una delle più grandi ingiustizie della storia umana”. Il giorno dopo il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia non si spegne l’eco delle reazioni. E dalle Filippine arriva a Green&Blue la […] LEGGI TUTTO

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    Earth Overshoot Day, abbiamo consumato tutte le risorse naturali del Pianeta

    Oggi è quel giorno, quello in cui l’umanità ha già finito tutte le risorse naturali a disposizione: da domani in poi, ogni nostra azione implicherà il sovrasfruttamento della Terra. Un giorno – l’Earth Overshoot Day – che arriva sempre prima dato che l’umanità continua ad esaurire e sfruttare tutto il budget ecologico annuale del Pianeta. Prima era in agosto, ora è il 24 luglio: mai, finora, era stato così anticipato. Il motivo è sempre il solito: consumiamo risorse naturali più velocemente di quanto la Terra sia in grado di rigenerare e attraverso le emissioni che alterano il clima, le varie forme di inquinamento, scarti e rifiuti, aggraviamo costantemente le condizioni del Pianeta.

    In pratica l’attuale popolazione globale oggi consuma in media l’equivalente di 1,8 Pianeti Terra ogni anno, ritmo che supera dell’80% la capacità rigenerativa del Pianeta stesso. In Italia è come se consumassimo invece 2.9 Terre, mentre negli Stati Uniti addirittura 5. Per soddisfare completamente la richiesta di natura dei suoi abitanti l’Italia stessa avrebbe bisogno di circa 4,4 l’Italia, un valore decisamente alto se si pensa che sopra di noi ci sono pochi Paesi – come ad esempio Giappone (6,6) o Cina (4,7) – con tassi di richiesta così elevati. Per dire: la Francia avrebbe ne bisogno di “appena” 1,9, la Spagna di 2,3, quasi la metà rispetto a noi.

    Quando si consuma tutto ciò di cui si necessita, si inizia ad andare a “credito”, andando così ad aggravare il debito ecologico. Il che è decisamente un aggravio pesante in un contesto già stravolto, sempre per colpa dell’uomo, dalla perdita di biodiversità, la crisi del clima, la deforestazione, la crisi dell’uomo e dall’addio a risorse fondamentali, come l’acqua e i ghiacciai.

    Per invertire la rotta, ricorda il Wwf – che ha promosso sul tema la campagna Our Future – dovremmo dunque “tutti di imparare a vivere nei limiti di un solo Pianeta, oggi più che mai”. Ma siccome “è dalle nostre abitudini che derivano le crisi ambientali ed è solo attraverso i nostri comportamenti che potremo sanarle” se non riusciremo ad impostare un futuro che sia più sostenibile, il momento in cui esauriremo le nostre risorse continuerà ad arrivare sempre prima. Basti pensare che nel 1970 la data dell’Overshoot Day era a dicembre, a fine anno, adesso è intorno a metà anno, il 24 luglio appunto, perché anno dopo anno l’umanità ha consumato più risorse naturali di quante la Terra fosse in grado di rigenerare in quello stesso anno.

    La buona notizia: possiamo ancora recuperare il debito ecologico
    Se volessimo recuperare questo debito “significa che al Pianeta sarebbero necessari 22 anni di piena produttività ecologica. Un calcolo però solo teorico perché ad oggi non tutta la capacità rigenerativa è più intatta (abbiamo perso intere foreste, eroso i suoli, impoverito i mari…) e alcuni danni che abbiamo provocato sono ormai irreversibili (come le specie che si sono estinte o i ghiacciai sciolti).

    Inoltre, la crisi climatica in corso aggrava ulteriormente la capacità del Pianeta di rigenerarsi” ricorda il Wwf. “Non solo stiamo vivendo a credito ogni anno, ma abbiamo anche accumulato un enorme debito nei confronti del sistema Terra. Ripagare questo debito – in termini ecologici – è quasi impossibile se continuiamo a ignorarne le conseguenze” spiega Eva Alessi, Responsabile Sostenibilità del WWF Italia precisando che “si tratta di una chiamata urgente all’azione per cambiare radicalmente il nostro modello di sviluppo, prima che il danno diventi definitivamente irreparabile”. Una chiamata a cui però possiamo ancora rispondere.

    Cinque azioni per invertire la rotta
    La soluzione per spostare la data dell’Overshoot Day infatti secondo il Wwf esiste e passa per cinque azioni in cinque settori chiave, oggi rilanciate anche con il tag #MoveTheDate: la transizione energetica con il passaggio alle fonti rinnovabili e l’addio al fossile; l’implementazione dell’economia circolare; la crescita di una alimentazione davvero sostenibile; l’ampliamento della mobilità green e infine l’attuazione di politiche globali che attuino accordi più stringenti per la tutela ambientale. “Se ad esempio riducessimo del 50% le emissioni di CO?, sposteremmo la data di ben 3 mesi (93 giorni)! Se diminuissimo del 50% il consumo globale di carne, guadagneremmo 17 giorni. Se fermassimo la deforestazione, recupereremmo 8 giorni” raccontano dall’associazione ambientalista. La buona notizia sta dunque nel fatto che siamo ancora in tempo, che abbiamo la possibilità entro il 2050 di tornare in equilibrio con le risorse planetarie, a patto di riuscire a spostare l’Overshoot Day di 5 giorni l’anno.

    Perché avviene l’esaurimento delle risorse e quali sono i rischi
    Da Ginevra in Svizzera, dove viene calcolato dal Global Footprint Network l’Overshoot Day con dati che si basano su piani nazionali e biocapacità dei Paesi, viene poi specificato che il superamento accade a causa del mix di più azioni. Ad esempio “perché le persone emettono più CO2 di quanta la biosfera possa assorbirne, perché consumano più acqua dolce di quanta ne venga reintegrata e abbattono più alberi di quanti ne possano ricrescere, o perché pescano più velocemente di quanto le riserve si ricostituiscano”.

    Un superamento che ha impatti diretti su di noi: alimenta la stagnazione economica, l’insicurezza alimentare ed energetica ma che crisi sanitarie e conflitti. “L’Earth Overshoot Day – commenta il professor Paul Shrivastava della Pennsylvania State University e Co-Presidente del Club di Roma – ci ricorda che l’umanità sta consumando troppo, prendendo in prestito dal futuro. Se non si interviene, questo porterà al default, poiché l’ambiente sarà troppo impoverito per offrire tutto ciò di cui le persone hanno bisogno. Evitare il default finanziario ed ecologico dipende quindi dalla nostra capacità e volontà di ripagare il debito. La buona notizia è che evitare il default ecologico è possibile: ne abbiamo la capacità economica. Ora sviluppiamo la volontà politica, partendo dal comportamento dei singoli consumatori fino alle strategie economiche dei governi”. LEGGI TUTTO

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    Benvenuti nel Carbon Garden di Londra

    Quando le foglie delle querce tremano sotto una pioggia estiva, sembrano sussurrare storie antiche. Nei Royal Botanic Gardens a Kew, il quartiere a sud-ovest di Londra, una nuova storia prende forma. Apre il 25 luglio il Carbon Garden, il “giardino del carbonio”, progettato per mostrare come le piante possano diventare alleate concrete nella lotta contro la crisi climatica.

    (foto: Richard Wilford)  LEGGI TUTTO